martedì 28 agosto 2012

Incantesimo





Sognava.
Era all’interno d’un antico tempio pagano. Le colonne candide, avvolte di fitta edera, s’alzavano a sostenere un architrave roso dai secoli. Rivolgendo lo sguardo in alto, poteva mirare le stelle attraverso un vago intrico di rovi, di edere, di erbacce, cresciuto sopra alcune colonne quasi una chioma arborea.
La luna illuminava al centro del tempio un grande bacino marmoreo, colmo d’acqua limpida.
Com’egli vi pose la vista, vide un volto a lui noto, ma prodigiosamente mutato.
Una donna appariva, bellissima, la cui fronte splendeva della luminosità pura, eburnea, della luna, e i cui capelli, d’un colore tra il castano e il fulvo, scendevano delicatamente sulle spalle. Gli occhi brillavano, ed erano grandi e profondi e in essi l’iride mutava a seconda dei raggi che la colpivano, poiché era costituita da tre colori : intorno alla pupilla una tinta bruna, scura, attorno a questa un alone giallastro macchiettato di verde, e l’ultimo alone era grigio. Il viso rifletteva i lievi raggi lunari e su di esso la morbida bocca risaltava, rossa e sensuale.
Ma, quando egli, dopo una pausa di sorpresa e di contemplazione, si rese conto del viso che aveva dinanzi, non poté non essere colto da un senso di sgomento.
Era infatti quella donna, pur nelle linee dell’ovale e nelle fattezze del naso e delle orecchie squisitamente femminili, era in modo straordinario simile, anzi identica, a lui stesso.
E quando levò il volto dallo strano incantamento, s’avvide che tra le colonne s’erano insediati, al pari d’improvvise e mostruose ragnatele, dei grandi specchi, appannati e inverditi come l’acqua degli stagni e incorniciati da legno dorato, splendido e radiante.
E poi lunghi rami di mandorlo, dai fiori candidi quale neve pura, spandevano la viva e fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi in essi creavano l’illusione d’una remota primavera sui campi e sui ruscelli di paesaggi lontani.

domenica 26 agosto 2012

Dante Alighieri, Paolo e Francesca






Inferno, V


Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.
«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
E caddi come corpo morto cade.


http://youtu.be/tiElvzlH4jY

sabato 25 agosto 2012

Gabriele D’Annunzio, Trionfo della morte

Dal libro sesto, “ L’invincibile “ :

Ma nel preludio del Tristano e Isolda l'anelito dell'amore verso la morte
irrompeva con una veemenza inaudita, il desiderio insaziabile si
esaltava in una ebrezza di distruzione.
«...Per bere laggiù in onor tuo la coppa dell'amore eterno, io
voleva consacrarti con me sul medesimo altare alla morte.»
E quell'immenso vortice di armonie li avviluppò entrambi
irresistibilmente, li serrò, li trascinò; li rapì nel «meraviglioso
impero».
Non sul meschino istrumento che non poteva rendere neppure
una fievole eco della pienezza torrenziale, ma nell'eloquenza, ma
nell'entusiasmo dell'esegeta comprendeva Ippolita tutta la
grandiosità di quella Rivelazione tragica. E, come un giorno la
deserta città guelfa dei conventi e dei monasteri, così ora alle
parole dell'amante le appariva nella fantasia la vecchia città grigia
di Bayreuth solinga al conspetto delle montagne bàvare in un
paesaggio mistico ov'era diffusa la stessa anima che Albrecht
Dürer imprigionò in intrichi di segni al fondo delle sue stampe e
delle sue tele.
Giorgio non aveva dimenticato alcun episodio di quel suo
primo pellegrinaggio religioso verso il Teatro Ideale; poteva
rivivere tutti gli attimi della straordinaria emozione nell'ora in cui
aveva scorto su la dolce collina, all'estremità del gran viale
arborato, l'edificio sacro alla festa suprema dell'Arte; poteva
ricomporre la solennità del vasto anfiteatro cinto di colonne e
d'archi, il mistero del Golfo Mistico. - Nell'ombra e nel silenzio
dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio estatico di tutte le
anime, su dall'orchestra invisibile un sospiro saliva, un gemito
spirava, una voce sommessa diceva il primo dolente richiamo del
desiderio in solitudine, la prima confusa angoscia nel
presentimento del supplizio futuro. E quel sospiro e quel gemito e
quella voce dall'indefinita sofferenza all'acuità di un impetuoso
grido si elevavano dicendo l'orgoglio d'un sogno, l'ansia di
un'aspirazione sovrumana, la volontà terribile e implacabile di
possedere. Con una divorante furia, come un incendio
all'improvviso erotto da un abisso ignorato, il desiderio si
dilatava, s'agitava, fiammeggiava sempre più alto, sempre più
alto, alimentato dalla più pura essenza di una duplice vita. Tutte
le cose abbracciava l'ebrezza della fiamma canora; tutte le cose
del mondo sovrane vibravano perdutamente nell'immensa ebrezza
ed esalavano la loro gioia e il loro dolore più occulti
sublimandosi, consumandosi. Ma, ecco, gli sforzi d'una
resistenza, ma le collere d'una lotta fremevano, stridevano
nell'impeto di quell'ascensione turbinosa; ma contro un invisibile
ostacolo quel gran getto vitale si frangeva d'improvviso, ricadeva,
s'estingueva, non risorgeva più. Nell'ombra e nel silenzio dello
spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio trepido di tutte le anime,
su dal Golfo Mistico un sospiro saliva, un gemito moriva, una
voce estenuata diceva la tristezza dell'eterna solitudine,
l'aspirazione verso l'eterna notte, verso il divino originario oblìo.
Ed ecco, un'altra voce, di realtà umana, modulata da labbra
umane, giovine e forte, mista di malinconia e d'ironia e di
minaccia, cantava una canzone del mare, dall'alto dell'albero, sul
naviglio recante a Re Marco la bionda sposa irlandese. Cantava:
«Verso occidente erra lo sguardo, verso oriente fila il naviglio.
Fresco soffia il vento verso la terra natale. O figlia d'Irlanda, ove
t'induci tu? Gonfiano la mia vela i tuoi sospiri? Soffia, soffia, o
vento! Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor
selvaggio!» Era l'ammonimento, era l'annunzio profetico della
vedetta, allegro e minaccioso, carezzevole e beffardo,
indefinibile. E l'orchestra taceva. «Soffia, soffia, o vento!
Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor selvaggio!» La
voce cantava sola sul mare tranquillo, nel silenzio; mentre sotto la
tenda Isolda, immobile sul suo letto, pareva profondata nel sogno
oscuro del suo destino.
S'apriva così il Dramma. Il tragico soffio, che già aveva
agitato il preludio, passava e ripassava nell'orchestra.
Subitamente la potenza di distruzione sì manifestava nella donna
maga contro l'uomo da lei eletto, da lei votato alla morte. La sua
collera irrompeva con l'energia dei ciechi elementi, invocava tutte
le forze terribili della terra e del cielo a distruggere l'uomo ch'ella
non poteva possedere. «Svégliati al mio appello, potenza
intrepida, lèvati su dal cuore ove ti sei celata! O vènti incerti,
ascoltate la mia volontà! Scotete dal letargo questo sognante
mare, risuscitate dal suo fondo la cupidigia implacabile,
mostrategli la preda che io gli offro! Infrangete la nave,
inghiottite i rottami! A voi, o vènti, tutto che qui palpita e respira
io do in premio.» All'ammonimento della vedetta rispondeva il
presentimento di Brangæne. «Ah sventura! Quale ruina io
presento, o Isolda!» E la dolce e devota donna si affannava a
placare quel folle furore. «Oh dimmi la tua tristezza, dimmi il tuo
segreto, Isolda!» E Isolda: «Il mio cuore soffoca. Apri, apri la
cortina tutta quanta!»
Tristano appariva, in piedi, immobile, con le braccia conserte,
con lo sguardo fisso nelle lontananze del mare. Dall'alto
dell'albero la vedetta riprendeva la sua canzone, su l'onda saliente
dell'orchestra. «Sventura, ah sventura!...» E, mentre gli occhi
d'Isolda accesi d'una cupa fiamma contemplavano l'eroe, sorgeva
dal Golfo Mistico il motivo fatale, il grande e terribile simbolo di
amore e di morte, in cui era chiusa tutta l'essenza della tragica
finzione. E Isolda con la sua bocca medesima proferiva la
condanna: «Da me eletto, da me perduto».
La passione metteva in lei una volontà omicida, le svegliava
nelle radici dell'essere un istinto ostile all'essere, un bisogno di
dissolvimento, d'annientamento. Ella s'esasperava cercando in sé,
intorno a sé una potenza fulminea che colpisse e distruggesse
senza lasciar vestigio. Il suo odio si faceva più atroce al conspetto
dell'eroe calmo ed immobile che sentiva sul suo capo addensarsi
la minaccia e sapeva l'inutilità d'ogni difesa. La sua bocca
s'empiva di sarcasmo amaro. «Che pensi tu di quel servo?» ella
chiedeva a Brangæne, con un sorriso inquieto. Ella faceva servo
un eroe, si dichiarava dominatrice. «Digli che io comando al mio
vassallo di temere la sua sovrana: me, Isolda.» Ella gli inviava
così la disfida a una suprema lotta; ella gittava così l'appello della
forza alla forza. Una cupa solennità accompagnava il passo
dell'eroe verso la soglia della tenda, quando era scoccata l'ora
irrevocabile, quando il filtro aveva già riempita la coppa e il
destino aveva già stretto il suo cerchio intorno alle due vite.
Isolda, appoggiata al suo letto, pallida come se la gran febbre
avesse consumato tutto il sangue delle sue vene, attendeva in
silenzio; in silenzio appariva su la soglia Tristano: entrambi alti di
tutta la loro altezza. Ma l'orchestra diceva l'indicibile ansietà dei
loro cuori.
Da quel momento ricominciava la turbinosa ascensione.
Pareva che di nuovo il Golfo Mistico s'infiammasse come una
fornace e lanciasse in alto, sempre più in alto le sue fiamme
sonore. «Conforto unico a un lutto eterno, salutare bevanda
d'oblìo, senza tema io ti bevo!» E Tristano accostava la coppa alle
labbra. «A me la metà! Per te io la bevo!» gridava Isolda
strappandogli la coppa dalle mani. Vuota la coppa d'oro cadeva. -
Avevano essi entrambi bevuta la morte? Dovevano essi morire? -
Attimo di sovrumana agonia. Il filtro di morte non era se non un
veleno d'amore che li penetrava d'un fuoco immortale. Entrambi
da prima attoniti, immobili, si guardavano cercando ne' loro occhi
l'indizio della fine a cui credevano d'essere omai sacri. Ma una
vita nuova, incomparabilmente più intensa di quella che avevano
vissuta, agitava tutte le loro fibre, palpitava nelle loro tempie e
nei loro polsi, gonfiava d'un'immensa onda i loro cuori.
«Tristano!» «Isolda!» Si chiamavano a vicenda; erano soli; nulla
rimaneva intorno; tutte le apparenze erano scomparse; il passato
era abolito; il futuro non era se non una tenebra che non potevano
rompere neppure i baleni della repentina ebrezza. Essi vivevano;
si chiamavano con una vivente voce; tendevano l'un verso l'altra
per una fatalità che nessuna forza omai poteva arrestare.
«Tristano!» «Isolda!»
E la melodia di passione si dispiegava, si allargava, si esaltava,
palpitava e singhiozzava, gridava e cantava, su la profonda
tempesta delle armonie sempre più agitate. Dolorosa e gaudiosa
volava irresistibilmente verso i culmini delle estasi sconosciute,
verso le cime della suprema voluttà. «Liberato dal mondo, io ti
posseggo dunque, o tu che sola riempi l'anima mia, suprema
voluttà d'amore!»
«Salute! Salute a Marco! Salute!» gridava la ciurma, tra gli
squilli delle trombe, salutando il Re che moveva dalla riva ad
incontrare la sposa bionda. «Salute a Cornovaglia!»
Era lo strepito della vita comune, era il clamore della gioia
profana, era lo splendore abbagliante del giorno. Chiedeva
l'Eletto, chiedeva il Perduto levando lo sguardo ove cupa
fluttuava la nube del sogno: «Chi s'appressa?» «Il Re.» «Qual
Re?» Chiedeva Isolda, pallida e convulsa sotto il manto regale:
«Dove sono? Vivo io ancóra? Debbo io ancóra vivere?» Dolce e
terribile il motivo del filtro saliva, li avvolgeva, li serrava nella
sua spira ardente. Le trombe squillavano. «Salute a Marco! Salute
a Cornovaglia! Gloria al Re!»
Ma nel secondo preludio tutti i singhiozzi di una gioia troppo
forte, tutti gli aneliti del desiderio esasperato, tutti i sussulti
dell'aspettazione furiosa si alternavano, si mescevano, si
confondevano. L'impazienza dell'anima feminile comunicava i
suoi fremiti a tutta la notte, a tutte le cose nella pura notte d'estate
respiranti, vigilanti. A tutte le cose l'anima ebra gittava i suoi
richiami perché rimanessero deste sotto le stelle, perché
assistessero alla festa del suo amore, al nuzial convito della sua
allegrezza. Insommergibile, fluttuava su l'inquieto oceano
armonico la melodia fatale, rischiarandosi, oscurandosi. L'onda
del Golfo Mistico, simile al respiro d'un petto sovrumano, si
gonfiava, si levava, ricadeva per risollevarsi, per ricadere ancóra,
per diminuir pianamente.
«Odi tu? A me sembra che lo strepito sia già dileguato nella
lontananza.» Isolda non udiva se non i suoni che le fingeva il suo
desiderio. Le fanfare della caccia notturna echeggiavano per la
foresta, distinte, da presso. «È l'ingannevole susurro delle frondi
che il vento agita ne' suoi giochi... Non è dei corni questo suono
così dolce. È il murmure della fonte che pullula, che scorre, nella
notte silenziosa...» Ella non udiva se non i lusinghevoli suoni che
suscitava nella sua anima il desiderio componendo l'antica e
sempre nuova malìa. Come nei sensi dell'illusa, così
nell'orchestra le sonorità della caccia si trasformavano, si
mutavano per incantesimo, si dissolvevano negli infiniti rumori
della foresta, nella misteriosa eloquenza della notte d'estate. Tutte
le sommesse voci, tutte le tenui lusinghe avvolgevano l'anelante,
le suggerivano la prossima ebrezza; mentre invano Brangæne
ammoniva, supplicava, nel terrore del suo presentimento. «Oh
lascia che risplenda la fiaccola protettrice! lascia che la sua luce ti
mostri il pericolo!» Nulla valeva a rischiarare la cecità del
desiderio. «Fosse anche la fiaccola della mia vita, senza paura io
la spegnerei! Senza paura io la spengo.» Con un gesto di supremo
disdegno, superba e intrepida, Isolda gittava a terra la fiaccola;
offriva la sua vita e quella dell'Eletto alla notte fatale; entrava con
lui nell'ombra per sempre.
Allora il più inebriante poema della passione umana si
svolgeva trionfalmente come in una spira attingendo le sommità
dello spasimo e dell'estasi. Era la prima stretta frenetica, mista di
gaudio e d'angoscia, in cui le anime avide di confondersi
incontravano l'ostacolo impenetrabile dei corpi. Era il primo
rammarico verso il tempo in cui non esisteva l'amore, verso il
passato vacuo ed inutile. Era l'odio verso la luce ostile, verso il
perfido giorno che acuiva ogni pena, che suscitava tutte le fallaci
apparenze, che favoriva l'orgoglio ed opprimeva la tenerezza. Era
l'inno alla notte amica, all'ombra benefica, al divino mistero ove
s'aprivano le meraviglie delle visioni interiori, ove s'udivano le
lontane voci dei mondi, ove fiorivano ideali corolle su steli
inflessibili. «Da che il sole s'è occultato nel nostro petto, le stelle
della felicità diffondono il loro lume ridente.»
E nell'orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le
gioie, piangevano tutti i dolori che mai voce umana espresse. Su
da le profondità sinfoniche le melodie emergevano, si
svolgevano, s'interrompevano, si sovrapponevano, si mescevano,
si stempravano, si dileguavano, sparivano per riemergere. Una
specie di ansia sempre più irrequieta e tormentosa passava per
tutti gli strumenti, significando un continuo e sempre vano sforzo
di raggiungere l'inarrivabile. Nell'impeto delle progressioni
cromatiche era il folle inseguimento d'un bene che sfuggiva ad
ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di tono, di
ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza
tregua, era una bramosia senza limiti, era il lungo supplizio del
desiderio sempre deluso e mai estinto. Un motivo, simbolo
dell'eterno desiderio eternamente esasperato dal possesso fallace,
tornava ad ogni tratto con una persistenza crudele; si allargava,
dominava, ora illuminando le sommità delle onde armoniche, ora
oscurandole d'un'ombra tragica.
La tremenda virtù del filtro operava su l'anima e su la carne
dei due amanti già consacrati alla morte. Nulla poteva spegnere o
lenire quell'ardore fatale: nulla fuor che la morte. Entrambi
avevano tentato invano tutte le carezze, avevano raccolto invano
tutte le loro forze per congiungersi in un abbraccio supremo, per
possedersi ultimamente, per divenire un solo unico essere. I loro
sospiri di voluttà si mutavano in singhiozzi d'angoscia. Un
ostacolo infrangibile s'interponeva tra l'uno e l'altra, li separava, li
rendeva estranei e solitarii. Nella loro sostanza corporea, nella
loro persona vivente, era l'ostacolo. E un odio segreto nasceva in
entrambi: un bisogno di distruggersi, di annientarsi; un bisogno di
far morire e di morire. Nella carezza medesima essi
riconoscevano l'impossibilità di trascendere il limite materiale de'
loro sensi umani. Le labbra incontravano le labbra e
s'arrestavano. «Che mai» diceva Tristano «che mai
soccomberebbe alla morte se non quel che ci separa, se non quel
che impedisce a Tristano d'amar per sempre Isolda, di vivere in
eterno per lei sola?» Ed essi entravano già nell'ombra infinita. Il
mondo delle apparenze scompariva. «Così» diceva Tristano «così
noi morimmo, non volendo vivere se non per l'amore, inseparati,
sempre congiunti, senza fine, senza risveglio, senza tema, senza
nome nel seno dell'amore...» Le parole si udivano distinte sul
pianissimo dell'orchestra. Una nuova estasi rapiva i due amanti e
li sollevava alla soglia del meraviglioso impero notturno. Essi
pregustavano già la beatitudine del dissolvimento, si sentivano
già liberati dal peso della persona, sentivano già la loro sostanza
sublimarsi e fluttuare diffusa in una gioia senza fine. «Senza fine,
senza risveglio, senza tema, senza nome...»
«Vigilate! Vigilate! Ecco, la notte cede al giorno» ammoniva
Brangæne invisibile, dall'alto. «Vigilate!» E il brivido del gelo
mattutino attraversava il parco, risvegliava i fiori. Il freddo lume
dell'alba lentamente saliva a coprire le stelle che palpitavano più
forte. «Vigilate!»
Invano la fedele ammoniva. Essi non ascoltavano; non
volevano, non potevano risvegliarsi. Sotto la minaccia del giorno,
si profondavano sempre più in quell'ombra ove non poteva
giungere mai bagliore di crepuscolo. «Che in eterno la notte ci
avvolga!» E un turbine di armonie li avvolgeva, li serrava nelle
sue spire veementi, li trasportava nella remota plaga invocata dal
loro desiderio, là dove nessuna angoscia opprimeva l'impeto
dell'anima amante, oltre ogni languore, oltre ogni dolore, oltre
ogni solitudine, nell'infinita serenità del loro sogno supremo.
«Sàlvati, Tristano!» Era il grido di Kurwenal, che seguiva il
grido di Brangæne. Era l'assalto improvviso e brutale che
interrompeva l'amplesso estatico. E mentre nell'orchestra
persisteva il tema dell'amore, il motivo della caccia scoppiava con
un fragore metallico. Il Re e i cortigiani apparivano. Tristano
celava col suo ampio mantello Isolda reclinata sul letto dei fiori:
la sottraeva agli sguardi e alla luce, affermando in quel gesto il
suo dominio, significando il suo diritto non dubbio. «Il triste
giorno, per l'ultima volta!» Egli accettava per l'ultima volta,
nell'attitudine calma e ferma dell'eroe, il contrasto con le forze
estranee: omai sicuro che nulla poteva mutare o arrestare il corso
del suo fato. Mentre il sovrano dolore di Re Marco si esalava in
una melopea lenta e profonda, egli taceva immoto nel suo
pensiero segreto. E infine egli rispondeva alle domande del Re:
«Questo mistero io non posso a te svelarlo. Tu non potrai
giammai conoscere quel che tu chiedi.» Il motivo del filtro
addensava su la risposta l'oscurità del mistero, la gravità
dell'evento irreparabile. «Vuoi tu seguire Tristano, o Isolda?» egli
chiedeva alla regina, semplicemente, al conspetto di tutti. «Sulla
terra ove andare io voglio, non risplende il sole. È la terra della
tènebra, è il paese notturno, d'onde mia madre un tempo m'inviò
quando, concepito da lei nella morte, io venni nella morte alla
luce...» E Isolda: «Là dove è la patria di Tristano, là andar vuole
Isolda. Ella vuol seguirlo, dolce e fedele, pel cammino ch'egli le
mostrerà...»
E in quella terra la precedeva l'eroe moribondo, ferito dal
traditore Melot.
Levavasi intanto dal terzo preludio la visione del lido remoto,
delle rocce aride e desolate ne' cui seni occulti il mare piangeva
senza tregua come un inconsolabile duolo. Un vapore di leggenda
e di poesia misteriosa avviluppava le forme rigide del sasso, che
apparivano come in un'alba incerta o in un vespero quasi estinto.
E il suono della sampogna pastorale risvegliava le imagini
confuse della vita trascorsa, delle cose perdute nella notte dei
tempi.
«Che dice l'antico lamento?» sospirava Tristano. «Dove son
io?»
Il pastore modulava nella fragile canna la melodia imperitura,
trasmessagli dai padri a traverso i tempi; ed era senza
inquietudine nella sua profonda inconsapevolezza.
E Tristano, alla cui anima quegli umili suoni avevano tutto
rivelato: «Non son rimasto dove mi son desto. Ma dove ho io
fatto dimora? Non so dirtelo. Là non ho veduto il sole, né il
paese, né gli abitanti; ma quel che ho veduto, io non so dirtelo...
Era là dove fui sempre, dove andrò per sempre: nel vasto impero
dell'universal notte. Una sola unica scienza laggiù ci è data: il
divino, l'eterno, l'originario oblìo!» Il delirio della febbre
l'agitava; l'ardore del filtro lo corrodeva nell'intime fibre. «Ah,
quel ch'io soffro tu non puoi soffrire! Questo terribile desiderio
che mi divora, questo implacabile fuoco che mi consuma... Ah, se
io potessi dirtelo, se tu potessi comprendermi!»
E il pastore inconsapevole soffiava, soffiava nella sua canna.
L'aria era quella, le note erano sempre le stesse: parlavano della
vita che non era più, parlavano delle lontane cose perdute.
«Vecchia e grave melodia» diceva Tristano, «con i tuoi
lamentevoli suoni su i vènti della sera tu giungevi inquieta sino a
me quando nel tempo remoto fu annunziata al fanciullo la morte
del padre. Nell'alba cinerea, sempre più inquieta tu mi cercavi
quando il figlio apprese la sorte della madre. Quando mio padre
mi generò e morì, quando mia madre mi diede alla luce spirando,
la vecchia melodia pur giungeva ai loro orecchi languida e triste.
M'interrogò essa un giorno ed ecco m'interroga ancóra. Per qual
destino io nacqui? Per qual destino? La vecchia melodia me lo
ripete ancóra: - Per desiderare e morire! Per morire di desiderio! -
Ah, no, no! Non questo è il tuo senso... Desiderare, desiderare,
desiderare, fin nella morte; non di desiderio morire!...» Sempre
più possente, sempre più tenace lo corrodeva il filtro nelle
midolle. Tutto il suo essere si torceva nello spasimo insostenibile.
L'orchestra crepitava a tratti come un rogo. Talvolta la violenza
del dolore l'attraversava tutta con l'impeto d'una bufera,
avvivando le fiamme. Sussulti subitanei la scotevano; grida atroci
n'erompevano; singhiozzi soffocati vi si spegnevano. «Il filtro! Il
filtro! Il terribile filtro! Con qual furia io lo sentii dal cuore al
cervello salire! Nessun rimedio ora, nessuna dolce morte può
liberarmi dalla tortura del desiderio. In nessun luogo, in nessun
luogo, ahimè! troverò riposo. La notte mi respinge al giorno; e
l'occhio del sole si pasce del mio perpetuo soffrire. Ah come il
sole rovente mi brucia e mi consuma! E non il refrigerio
d'un'ombra, mai, a questa divorante arsura! Quale balsamo
potrebbe dare un sollievo all'orrendo mio strazio?» Egli portava
nelle sue vene e nelle sue midolle il desiderio di tutti gli uomini,
di tutta la specie, ammassato di generazione in generazione,
aggravato dalle colpe di tutti i padri e di tutti i figli, dalle ebrezze
di tutti, dalle angosce di tutti. Rifiorivano nel suo sangue i germi
della concupiscenza secolare, si rimescolavano le più diverse
impurità, ribollivano i più sottili e i più violenti veleni che fin nel
tempo immemorabile purpuree bocche sinuose di femmine
avevano infuso nei cùpidi maschi soggiogati. Egli era l'erede
dell'eterno male. «Questo terribile filtro, che mi danna al
supplizio, io, io medesimo lo composi! Con le agitazioni di mio
padre, con gli spasimi di mia madre, con tutte le lagrime d'amore
in altri tempi versate, col riso e col pianto, con le voluttà e con le
ferite, io, io medesimo composi il tossico di questo filtro. E io lo
bevvi, a lunghi sorsi di delizia... Maledetto sii tu, filtro terribile!
Maledetto sia chi ti compose!» Ed egli ricadeva sul suo giaciglio,
estenuato, esanime, per riprendere ancóra gli spiriti, per sentire
ancóra ardere la sua piaga, per vedere ancóra con i suoi occhi
allucinati l'imagine sovrana in atto di trascorrere i campi del
mare. «Ella viene, ella viene su alti flutti d'inebrianti fiori
mollemente cullata, verso la terra. Una divina consolazione ella
su me versa col suo sorriso; il supremo refrigerio ella mi reca...»
Così egli evocava, così egli vedeva, con quegli occhi omai chiusi
alla comune luce, la Maga, la maestra dei balsami, la medicatrice
d'ogni ferita. «Ella viene, ella viene! Non la vedi tu, Kurwenal,
non la vedi tu ancóra?» E le onde commosse del Golfo Mistico
risollevavano dal fondo confusamente tutte le melodie già note, le
rimescolavano, le trascinavano, le sommergevano in un gorgo, le
respingevano di nuovo alla superficie, le infrangevano: quelle che
avevano espresso le ansietà del decisivo conflitto sul ponte della
nave; quelle in cui erasi udito il gorgoglio del beveraggio versato
nella coppa d'oro e il rombo delle arterie invase dal liquido fuoco;
quelle in cui erasi udito il misterioso respiro della notte d'estate
persuadente a voluttà senza fine; tutte le melodie con tutte le
imagini, con tutte le ricordanze. E su quell'immenso naufragio
alta, sovrana, implacabile la melodia fatale passava a intervalli
ripetendo la condanna atroce: - Desiderare, desiderare, desiderare
fin nella morte; non di desiderio morire!
«Il naviglio getta l'àncora! Isolda, ecco Isolda! Ella si slancia
alla riva!» gridava Kurwenal dall'alto della torre. E nel delirio
della gioia Tristano lacerava le bende della sua ferita, incitava il
suo proprio sangue a scorrere in fiotti, a inondare la terra, a
invermigliare il mondo. All'approssimarsi d'Isolda e della Morte,
egli credeva udire la luce. «Non odo io la luce? Non odono i miei
orecchi la luce?» Un gran sole interiore lo abbagliava; da tutti gli
atomi della sua sostanza partivano raggi di sole e per onde
luminose e armoniose si diffondevano nell'universo. La luce era
musica; la musica era luce.
E veramente allora il Golfo Mistico s'irradiava come un cielo.
Le sonorità dell'orchestra parevano imitare quelle lontane
armonie planetarie che un tempo anime di contemplatori vigilanti
credettero cogliere nel silenzio notturno. A poco a poco i lunghi
fremiti dell'inquietudine, i lunghi sussulti dell'angoscia, e gli
aneliti del vano inseguire, e gli sforzi del desiderio sempre
deluso, e tutte le agitazioni della miseria terrena si placavano, si
disperdevano. Tristano aveva alfine varcato il limite del
«meraviglioso impero», era entrato alfine nell'eterna notte. E
Isolda, prona su la spoglia inerte, sentiva alfine lentamente
dissolversi il peso che ancor l'opprimeva. La melodia fatale,
divenuta più chiara e più solenne, consacrava il gran coniugio
funerario. Poi, come fili eterei le note attenuandosi tessevano
intorno all'amante creatura diafani veli di purità. Cominciava così
una specie di assunzione gaudiosa per gradi di splendore su l'ala
di un inno. «Di che soave sorriso egli sorride! Non lo vedete?
Come di sideral luce risplende! Non lo vedete voi? Non lo
sentite? Sola io dunque odo questa nuova melodia, infinitamente
dolce e consolante, che sgorga dal profondo dell'esser suo e mi
rapisce e mi penetra e mi avvolge?» La Maga d'Irlanda, la
formidabile signora dei filtri, l'arbitra ereditaria delle oscure
potenze terrestri, colei che dall'alto del naviglio aveva invocato i
turbini e le procelle, colei che aveva eletto al suo amore il più
forte e il più nobile degli eroi per attossicarlo e perderlo, colei che
aveva precluso il cammino della gloria e della vittoria a un
«dominatore del mondo», l'avvelenatrice, l'omicida, si
trasfigurava per la virtù della morte in un essere di luce e di gioia,
scevro d'ogni impura brama, libero d'ogni basso vincolo,
palpitante e respirante in grembo alla diffusa anima dell'Universo.
«Questi più chiari suoni che mormorano al mio orecchio son
forse le molli onde dell'aria? Debbo io respirare, bevere,
immergermi, naufragare dolcemente nei vapori, nei profumi?»
Tutto si dissolveva in lei, si fondeva, si distendeva, ritornava alla
fluidità originale, all'innumerevole oceano elementare da cui le
forme nascevano, in cui le forme sparivano per rinnovellarsi, per
rinascere. Nel Golfo Mistico le trasformazioni e le trasfigurazioni
si compivano di nota in nota, d'armonia in armonia,
continuamente. Pareva che tutte le cose vi si decomponessero, vi
esalassero le nascoste essenze, vi si mutassero in immateriali
simboli. Colori non mai apparsi nei petali dei più delicati fiori
terrestri, profumi di quasi impercettibile tenuità vi fluttuavano.
Visioni di segreti paradisi vi balenavano, germi di nascituri
mondi vi si schiudevano. E l'ebrezza pànica saliva saliva; il coro
del Gran Tutto copriva l'unica voce umana. Trasfigurata, Isolda
entrava nel meraviglioso impero trionfalmente. «Nell'infinito
palpito dell'anima universa perdersi, profondarsi, vanire, senza
conscienza: suprema voluttà!»

http://youtu.be/bex_S61AI-8


mercoledì 22 agosto 2012

La morte del cervo

http://youtu.be/TMuJ4gnmOj8



Gabriele D'Annunzio, La morte del cervo

Alcyone (1903)
La morte del cervo
 
 
Quasi era vespro. Atteso avea soverchio
alla posta del cervo, quatto quatto
fra le canne; e vinceami l’uggia. A un tratto
vidi l’uom che natava in mezzo al Serchio.

5Un uomo egli era, e pur sentii la pelle
aggricciarmisi come a odor ferigno.
Di capegli e di barba era rossigno
come saggina, folte avea le ascelle;

ma pél diverso da quel delle gote
10sotto il ventre parea gli cominciasse,
bestial pelo, e che le parti basse
fossero enormi, cosce gambe piote,

come di mostro, tanto era il volume
dell’acqua che movea il natatore
15se ben tenesse ambe le braccia fuore
con tutto il busto eretto in su le spume.

Un uom era. A una frotta d’anitroccoli
sbigottita egli rise. Intesi il croscio.
Repente si gittò su per lo scroscio
20della ripa, saltò su quattro zoccoli!

Lo conobbi tremando a foglia a foglia.
Ben era il generato dalla Nube
acro e bimembre, uom fin quasi al pube,
stallone il resto dalla grossa coglia.

25Il Centauro! Di manto sagginato
era, ma nella groppa rabicano
e nella coda, di due piè balzàno,
l’equine schiene e le virili arcato.

Ritondo il capo avea, tutto di ricci
30folto come la vite di racimoli;
e l’inclinava a mordicare i cimoli
dei ramicelli, i teneri viticci

con la gran bocca usa alla vettovaglia
sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere
35d’un fiato il vin fumoso nel cratère
ampio, sopra le mense di Tessaglia.

Levava il braccio umano, dal bicipite
guizzante, a côrre il ramicel d’un pioppo.
Repente trasaltò, di gran galoppo
40sparì per mezzo agli arbori precipite.

Il cor m’urtava il petto, in ogni nervo
io tremando. Ma, nella mia latèbra
umida verde, l’anima erami ebra
d’antiche forze. E udii bramire il cervo!

45L’udii bramir di furia e di dolore
come s’ei fosse lacero da zanne
leonine. Balzai di tra le canne,
vincendo a un tratto il corporale orrore,

agile divenuto come un veltro
50pe' gineprai, per gli sterpeti rossi,
con silenzio veloce, quasi fossi
in sogno, quasi avessi i piè di feltro.

O Derbe, la potenza che desidero
è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.
55Eternato nel bronzo di Corinto
ti darò quel che i lucidi occhi videro?

Il Centauro afferrato avea pei palchi
delle corna il gran cervo nella zuffa,
come l’uom pè capei di retro acciuffa
60il nemico e lo trae, finché lo calchi

a terra per dirompergli la schiena
e la cervice sotto il suo tallone,
o come nella foia lo stallone
la sua giumenta assal per farla piena.

65Erto alla presa della cornea chioma,
con le due zampe attanagliava il dorso
cervino, superandolo del torso,
premendolo con tutta la sua soma.

Furente il cervo si divincolava
70sotto, gli occhi riverso, il bruno collo
gonfio d’ira e di mugghio, in ogni crollo
crudo spargendo al suol fiocchi di bava.

Era del più vetusto sangue regio,
di quelli che ammansiva il suon del sufolo,
75vasto e robusto il corpo come bufolo,
di vénti punte in ogni stanga egregio.

Quanti rivali, oh lune di Settembre,
cacciati avea dà freschi suoi ricoveri
e infissi nella scorza delle roveri,
80pria d’abbattersi al Tassalo bimembre!

Si scrollò, si squassò, si svincolò.
E le muglia sonavan d’ogni intorno.
In pugno al mostro un ramo del suo corno
lasciando, corse un tratto; e si voltò.

85Si voltò per combattere, le vampe
delle froge soffiando e le vendette.
Il Tessalo gittò la scheggia; e stette
guardingo, fermo su le quattro zampe.

Un fil di sangue gli colava giù
90pel viril petto, giù per il pelame
cavallino il sudore. Come rame
gli brillava la groppa or meno or più

al sole obliquo che fería lontano
pè tronchi, variato dalle frondi.
95S’era fatto silenzio nei profondi
boschi. Il soffio s’udia ferino e umano.

Gli aghi dei pini ardere come bragia
parean sul campo del combattimento.
E l’aspro lezzo bestial nel vento
100si mesceva all’odore della ragia.

Pontata a terra la sua forza avversa,
il cervo, come fa nel cozzo il tauro,
bassò l’arme. La coda del Centauro
tre volte battè l’aria come fersa.

105Una rapidità fulva e ramosa
si scagliò con un bràmito di morte.
O Derbe, ancor ne freme per la sorte
del petto umano l’anima ansiosa.

Credetti udire il gemito dell’uomo
110su l’impennarsi del caval selvaggio.
Ma il Tessalo con inuman coraggio
il cervo avea pur quella volta dómo!

Preso l’avea di fronte, alle radici
delle corna, e gli avea riverso il muso.
115Entrambi inalberati, l’un confuso
con l’altro in un viluppo, i due nemici,

tra luci ed ombre, sotto il muto cielo
saettato da sprazzi porporini,
lottavano; e su i due corpi ferini,
120se le zampe le punte il fitto pelo

il crino irsuto il prepotente sesso,
io vedea con angoscia il capo alzarsi
di mia specie, agitare i ricci sparsi
quel vento d’ira sul mio capo istesso.

125E, gonfio il cor fraterno, d’un antico
rimorso, tesi l’arco dell’agguato.
Ma l’uom cò pugni avea divaricato
e divelto le corna del nemico.

Udii lo schianto stridulo dell’osso
130infranto, aperto sino alla mascella.
Fumide giù dal cranio le cervella
sgorgarono commiste al sangue rosso.

L’erto corpo piombò nel gran riposo
con urto sordo; sanguinò silente;
135senza palpito stette; del cocente
flutto bagnò l’arsiccio suol pinoso.

Rise il Centauro come a quella frotta
lieve natante giù pel verde Serchio.
Poi levò, grande nel silvano cerchio,
140il duplice trofeo della sua lotta.

Fiutò il vento. Ma prima di partirsi
colse tre rami carichi di pine;
e due n’avvolse attorno alle cervine
corna, e sì n’ebbe due notturni tirsi.

145Del terzo incurvo fece un serto sacro
e se ne inghirlandò le tempie umane
ove le vene, enfiate dall’immane
sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.

Precinto, armato dei due tirsi foschi,
150sollevò la gran bocca a respirare
verso il Cielo. S’udia remoto il Mare
seguir col rombo il murmure dei boschi.

Sola una Nube era nell’alte zone
dell’Etere qual dea scinta che dorma.
155Venerava il Nubigena la forma
cui fecondò l’audacia d’Issione.

Bellissimo m’apparve. In ogni muscolo
gli fremeva una vita inimitabile.
repente s’impennò. Sparve Ombra labile
160verso il Mito nell’ombre del crepuscolo.





 

domenica 19 agosto 2012

Rapimento

Oh, il Venusberg !
Appare ora tra le fronde, lontano
nella luce che ride
tra gli alberi possenti, come canne d'organo.
Tra i raggi d'oro
lo abbracciano le nubi candide,
lo avvolge nel suo alito
il dolce vento del meriggio
e plana sulle valli,
ove le greggi sognano,
fra il fremito delle cicale, incantate
dal flauto dei pastori.


Albii Tibulli liber III elegiarum





III

Quid prodest caelum uotis implesse, Neaera,
    blandaque cum multa tura dedisse prece,
non ut marmorei prodirem e limine tecti,
    insignis clara conspicuusque domo,
aut ut multa mei renouarent iugera tauri               5
    et magnas messes terra benigna daret,
sed tecum ut longae sociarem gaudia uitae
    inque tuo caderet nostra senecta sinu,
tum cum permenso defunctus tempore lucis
    nudus Lethaea cogerer ire rate?               10
Nam graue quid prodest pondus mihi diuitis auri,
    aruaque si findant pinguia mille boues?
Quidue domus prodest Phrygiis innixa columnis,
    Taenare siue tuis, siue Caryste tuis,
et nemora in domibus sacros imitantia lucos               15
    aurataeque trabes marmoreumque solum?
Quidue in Erythraeo legitur quae litore concha
    tinctaque Sidonio murice lana iuuat,
et quae praeterea populus miratur? In illis
    inuidia est: falso plurima uulgus amat.               
20
Non opibus mentes hominum curaeque leuantur
    nec Fortuna sua tempora lege regit.
Sit mihi paupertas tecum iucunda, Neaera:
    at sine te regum munera nulla uolo.
O niueam quae te poterit mihi reddere lucem!               25
    O mihi felicem terque quaterque diem!
At si, pro dulci reditu quaecumque uouentur,
    audiat auersa non meus aure deus,
nec me regna iuuant nec Lydius aurifer amnis
    nec quas terrarum sustinet orbis opes.               30
Haec alii cupiant; liceat mihi paupere cultu
    securo cara coniuge posse frui.
Adsis et timidis faueas, Saturnia, uotis,
    et faueas concha, Cypria, uecta tua.
Aut si fata negant reditum tristesque sorores,               35
    stamina quae ducunt quaeque futura neunt,
me uocet in uastos amnes nigramque paludem
    diues in ignaua luridus Orcus aqua.

III 3, Lígdamo, Voti d'amore

Che giova aver riempito il cielo di voti, Neèra,
e averlo blandito d'incenso con tante preghiere?
non per uscirmene da un palazzo di marmo,
famoso e ammirato per la splendida casa,
non perché i miei buoi arassero molti iugeri di terra
e questa, generosa, mi fruttasse grandi messi,
ma per dividere con te le gioie d'una lunga vita
e spegnere la mia vecchiaia sul tuo seno,
quando in morte, percorso il tempo della luce,
fossi costretto a salpare ignudo sulla barca del Lete.
Che mai mi serve il fardello d'una montagna d'oro
o che mille buoi lavorino i miei campi fecondi?
che mi serve un palazzo sorretto da colonne di Frigia
o dalle tue, Tènaro, dalle tue, Caristo?
e un giardino in casa che riproduca i boschi consacrati
e travi dorate, pavimenti di marmo?
E che mi giova la perla raccolta sul lido eritreo,
la lana tinta con porpora di Sidone
e tutto quanto in piú la gente ammira? L'odio
vi è dentro: un'infinità di cose si amano a torto.
I tormenti del cuore umano non s'alleviano con gli agi,
perché la sorte con la sua legge regge gli eventi.
La povertà mi sarebbe dolce con te, Neèra;
ma senza di te nemmeno dai re voglio favori.
O luce abbagliante che a me potrà restituirti!
o mille volte felice sarà per me quel giorno!
Ma se il dio, che ostile mi volta le orecchie, ascoltasse
anche uno solo dei miei voti per il tuo dolce ritorno,
non mi gioverebbero regni, il fiume aurifero di Lidia,
tutte le magnificenze racchiuse in questo mondo.
Altri le brami: a me sia concesso, in una vita modesta,
di poter godere, senza affanni, della sposa che amo.
Esaudisci i miei trepidi voti, Saturnia, qui al mio fianco
e anche tu, nella tua conchiglia, esaudiscili, dea di Cipro.
Ma se il fato e le tristi sorelle, che tendono l'ordito
e filano il futuro, mi negano il tuo ritorno,
il livido Orco, signore della morta gora,
mi chiami ai suoi fiumi desolati, alla sua nera palude.

Richard Wagner, Tannhauser, ouverture

http://youtu.be/fgpOctKSwp4

http://youtu.be/PSnIQcGfftk



lunedì 13 agosto 2012

Wagner, Tristan und Isolde, prelude

A Te, Elena

http://youtu.be/fktwPGCR7Yw


 

A Elena






La sua voce è il fiato del vento
sulle calme onde, quando alto il meriggio
indora il mare addormentato,
suono d’arpa fluttua sulle arene
sazie di splendore
e un sentore s’effonde salino
e dolce di vellutata pelle,
e il bacio vorrebbe placarsi su lei
per sempre.

sabato 11 agosto 2012

Il Divin Marchese




Mario Praz    La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica    Firenze, Sansoni, 1984


Pag. 79, “ All’insegna del Divin Marchese “ : “ Mentre le persecuzioni di Clarissa e di Madame de Tourvel hanno un decorso psicologico, quelle di Justine ( la protagonista del celebre romanzo di De Sade ), svolgendosi su un piano fisico, non offrono più interesse spirituale di una serie di esperimenti chimici : tutto è visto dall’esterno; sicché si fa uno strano abuso della parola “ anima ” nella introduzione a Justine. “

Vediamo dunque questa introduzione :

« Le triomphe de la philosophie serait de jeter du jour sur l’obscurité des voies dont la providence se sert pour parvenir aux fins qu’elle se propose sur l’homme, et de tracer d’après cela quelque plan de conduite qui pût faire connaître à ce malheureux individu bipède, perpétuellement ballotté par les caprices de cet être qui, dit-on, le dirige aussi despotiquement, la manière dont il faut qu’il interprète les décrets de cette providence sur lui, la route qu’il faut qu’il tienne pour prévenir les caprices bizarres de cette fatalité à laquelle on donne vingt noms différents, sans être encore parvenu à la définir.
Car si, partant de nos conventions sociales et ne s’écartant jamais du respect qu’on nous inculqua pour elles dans l’éducation, il vient malheureusement à arriver que par la perversité des autres, nous n’ayons pourtant jamais rencontré que des épines, lorsque les méchants ne cueillaient que des roses, des gens privés d’un fonds de vertu assez constaté pour se mettre au-dessus des réflexions fournies par ces tristes circonstances, ne calculeront-ils pas qu’alors il vaut mieux s’abandonner au torrent que d’y résister, ne diront-ils pas que la vertu telle belle qu’elle soit, quand malheureusement elle devient trop faible pour lutter contre le vice, devient le plus mauvais parti qu’on puisse prendre et que dans un siècle entièrement corrompu le plus sûr est de faire comme les autres ? Un peu plus instruits si l’on veut, et abusant des lumières qu’ils ont acquises, ne diront-ils pas avec l’ange Jesrad de Zadig qu’il n’y a aucun mal dont il ne naisse un bien ; n’ajouteront-ils pas à cela d’eux-mêmes que puisqu’il y a dans la constitution imparfaite de notre mauvais monde une somme de maux égale à celle du bien, il est essentiel pour le maintien de l’équilibre qu’il y ait autant de bons que de méchants, et que d’après cela il devient égal au plan général que tel ou tel soit bon ou méchant de préférence ; que si le malheur persécute la vertu, et que la prospérité accompagne presque toujours le vice, la chose étant égale aux vues de la nature, il vaut infiniment mieux prendre parti parmi les méchants qui prospèrent que parmi les vertueux qui périssent ? Il est donc important de prévenir ces sophismes dangereux de la philosophie, essentiel de faire voir que les exemples de la vertu malheureuse présentés à une âme corrompue dans laquelle il reste encore pourtant quelques bons principes, peuvent ramener cette âme au bien tout aussi sûrement que si on lui eût offert dans cette route de la vertu les palmes les plus brillantes et les plus flatteuses récompenses. Il est cruel sans doute d’avoir à peindre une foule de malheurs accablant la femme douce et sensible qui respecte le mieux la vertu, et d’une autre part la plus brillante fortune chez celle qui la méprise toute sa vie ; mais s’il naît cependant un bien de l’esquisse de ces deux tableaux, aura-t-on à se reprocher de les avoir offerts au public ?
Pourra-t-on former quelque remords d’avoir établi un fait, d’où il résultera pour le sage qui lit avec fruit la leçon si utile de la soumission aux ordres de la providence, une partie du développement de ses plus secrètes énigmes et l’avertissement fatal que c’est souvent pour nous ramener à nos devoirs que le ciel frappe à côté de nous les êtres qui paraissent même avoir le mieux rempli les leurs ?
Tels sont les sentiments qui nous mettent la plume à la main, et c’est en considération de leur bonne foi que nous demandons à nos lecteurs un peu d’attention mêlé d’intérêt pour les infortunes de la triste et misérable Justine. « 

Opera edificante ? Lo è così tanto che alla fine Justine muore colpita da un fulmine e la scena si libera da tutte queste disgrazie.

 «  On avait beau lui représenter que toutes ses affaires étant finies, elle ne devait plus avoir aucune sorte d’inquiétude ; l’attention que l’on avait eue de ne point parler dans les mémoires qui avaient été faits pour elle d’aucun des personnages avec lesquels elle avait été compromise et dont le crédit pouvait être à redouter, ne pouvait que la calmer encore ; cependant rien n’y parvenait, on eût dit que cette pauvre fille, uniquement destinée au malheur et sentant la main de l’infortune toujours suspendue sur sa tête, prévît déjà le dernier coup dont elle allait être écrasée. Mme de Lorsange habitait encore la campagne ; on était sur la fin de l’été, on projetait une promenade qu’un orage affreux qui se fourrait, paraissait devoir déranger ; l’excès de la chaleur avait contraint de laisser tout ouvert dans le salon.
L’éclair brille, la grêle tombe, les vents sifflent avec impétuosité, des coups de tonnerre affreux se font entendre. Mme de Lorsange effrayée… Mme de Lorsange qui craint horriblement le tonnerre, supplie sa sœur de feutrer tout le plus promptement qu’elle pourra ; M. de Corville rentrait en ce moment ; Justine, empressée de calmer sa sœur, vole à une fenêtre, elle veut lutter une minute contre le vent qui la repousse, à l’instant un éclat de foudre la renverse au milieu du salon et la laisse sans vie sur le plancher.
Mme de Lorsange jette un cri lamentable… elle s’évanouit.
M. de Corville appelle au secours, les soins se divisent, on rappelle Mme de Lorsange à la lumière, mais la malheureuse Justine était frappée de façon à ce que l’espoir même ne pouvait plus subsister pour elle. La foudre était entrée par le sein droit, elle avait brûlé la poitrine, et était ressortie par sa bouche, en défigurant tellement son visage qu’elle faisait horreur à regarder. M. de Corville voulut la faire emporter à l’instant. Mme de Lorsange se lève avec l’air du plus grand calme et s’y oppose. «