domenica 27 gennaio 2013

Dino Campana, Canti orfici






DUALISMO
(Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)

Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come metallo in fusione, voi figlia generosa della prateria nutrita di aria vergine voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano: anima dell’oasi dove la mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze del cosmo. Io vi rivedo Manuelita, il piccolo viso armato dell’ala battagliera del vostro cappello, la piuma di struzzo avvolta e ondulante eroicamente, i vostri piccoli passi pieni di slancio contenuto sopra il terreno delle promesse eroiche! Tutta mi siete presente esile e nervosa. La cipria sparsa come neve sul vostro viso consunto da un fuoco interno, le vostre vesti di rosa che proclamavano la vostra verginità come un’aurora piena di promesse! E ancora il magnetismo di quando voi chinaste il capo, voi fiore meraviglioso di una razza eroica, mi attira non ostante il tempo ancora verso di voi! Eppure Manuelita sappiatelo se lo potete: io non pensavo, non pensavo a voi: io mai non ho pensato a voi . Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe correvano verso strane costellazioni, alla triste luce elettrica io sentivo la mia infinita solitudine. La prateria si alzava come un mare argentato agli sfondi, e rigetti di quel mare, miseri, uomini feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente nella notte, tessevano attorno a me la storia della città giovine e feroce, conquistatrice implacabile, ardente di un’acre febbre di denaro e di gioie immediate. Io vi perdevo allora Manuelita, perdonate, tra la turba delle signorine elastiche dal viso molle inconsciamente feroce, violentemente eccitante tra le due bande di capelli lisci nell’immobilità delle dee della razza. Il silenzio era scandito dal trotto monotono di una pattuglia: e allora il mio anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi della sensibilità della vecchia Europa e mi si stringeva con violenza il cuore. Entravo, ricordo, allora nella biblioteca: io che non potevo Manuelita io che non sapevo pensare a voi. Le lampade elettriche oscillavano lentamente. Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino. Dei ricordi perduti, delle immagini si componevano già morte mentre era più profondo il silenzio. Rivedo ancora Parigi, Place d’Italie, le baracche, i carrozzoni, i magri cavalieri dell’irreale, dal viso essicato, dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante. Le bambine dei Bohemiens, i capelli sciolti, gli occhi arditi e profondi congelati in un languore ambiguo amaro attorno dello stagno liscio e deserto. E in fine Lei, dimentica, lontana, l’amore, il suo viso di zingara nell’onda dei suoni e delle luci che si colora di un incanto irreale: e noi in silenzio attorno allo stagno pieno di chiarori rossastri: e noi ancora stanchi del sogno vagabondare a caso per quartieri ignoti fino a stenderci stanchi sul letto di una taverna lontana tra il soffio caldo del vizio noi là nell’incertezza e nel rimpianto colorando la nostra voluttà di riflessi irreali!

. . . . . . . . . . . . . . . . .

E così lontane da voi passavano quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche e sensuali che scioglievano in tenerezze i grumi più acri del dolore, ore di felicità completa che aboliva il tempo e il mondo intero, lungo sorso alle sorgenti dell’Oblio! E vi rivedevo Manuelita poi: che vigilavate pallida e lontana: voi anima semplice chiusa nelle vostre semplici armi.

So Manuelita: voi cercavate la grande rivale. So: la cercavate nei miei occhi stanchi che mai non vi appresero nulla. Ma ora se lo potete sappiate: io dovevo restare fedele al mio destino: era un’anima inquieta quella di cui mi ricordavo sempre quando uscivo a sedermi sulle panchine della piazza deserta sotto le nubi in corsa. Essa era per cui solo il sogno mi era dolce. Essa era per cui io dimenticavo il vostro piccolo corpo convulso nella stretta del guanciale, il vostro piccolo corpo pericoloso tutto adorabile di snellezza e di forza. E pure vi giuro Manuelita io vi amavo e vi amo e vi amerò sempre di più di qualunque altra donna........ dei due
mondi.

domenica 20 gennaio 2013

Bruckner, Sinfonia N. 4, " Romantica "

http://youtu.be/01VNmxnE7Iw

Al sogno






Come sul vasto oceano
s’alza la vergine luna,
radiosa di bianca luce
come d’un peplo adorna,
sale nel cielo avvolta
di sua bruna chioma,
donna bellissima.
Luminosa guarda
e dolcemente sorride,
ah non v’è donna
più bella di lei,
i suoi occhi neri
sono colmi di gioia.
I suoi occhi neri
brillano d’amore
e di dolci sussurri
e di tenere parole
e di profondi baci.
Ella mi guarda dall’alto
e mi promette
l’amore suo per sempre.
Ella si riflette
nel lago dell’anima mia
e sulle morbide onde
dardeggiano i raggi
del suo viso.


domenica 13 gennaio 2013

Solone


Diogene Laerzio nella vita di Solone afferma : “ Le leggi per lui sono simili alle ragnatele : anche quelle, infatti, qualora vi cada dentro qualcosa di leggero e debole, lo bloccano; nel caso in cui, invece, vi cada qualcosa di più grande, quest’ultimo, dopo avere rotto la ragnatela, se ne va. “ ( ed. Bompiani ).

                

sabato 12 gennaio 2013

Leopardi, Zibaldone, il piacere





Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette [533]in migliori circostanze pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all’opinione e persuasione nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone. ec. Io provo un piacere: come? ciascuno individuale istante dell’atto del piacere, è relativo agl’istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl’istanti che seguono, vale a dire al futuro. In questo istante il piacere ch’io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere, ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto. Andiamo più avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo è il discorso, il cammino, l’occupazione, l’operazione, e la sensazione dell’animo nell’atto di qualunque siasi piacere. Giunto l’ultimo istante, e terminato l’atto del piacere, l’uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, [534]di averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di quello che ha sentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è bensì passato, ma non il piacere (perchè come può esser passato quello che non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l’atto di questo nuovo piacere è composto di una successione d’istanti della stessa natura che l’altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi più agl’istanti successivi di quell’atto, ch’è già finito, si riferisce ad altri atti; l’idea del così detto piacere provato, gli dà un’idea di quelli ch’egli crede di poter provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così prova un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro. Così p.e. se tu sei stato lodato, o ti sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec. L’atto di quel piacere è stato quale l’ho descritto: ma finito l’atto, lo vai ruminando a parte a parte, e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato o sul semplice gusto della [535]ricordanza, o sulla relazione che quel preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi dunque o devi provare, coll’idea che ti dà della futura vita, coi disegni, coll’idea di te stesso, delle tue forze ec. colle speranze o reali, o rispetto all’opinione e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo all’atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere. Così il piacere non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il piacer possibile. Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro. (20. Gen. 1821.). V. p.612. capoverso 1.    

sabato 5 gennaio 2013

Il viandante





Entro la foresta, la cui vegetazione s’ergeva ai lati quale muro d’ombra, senza lasciare adito a lume, trascorreva un cocchio dalle ruote piene, di bronzo, che tuonava sotto e sopra la terra. Innanzi recava l’effigie di lucente metallo d’un mostruoso felino dalle fauci spalancate, e intorno era tutto istoriato di squame e di rotelle.
Sul cocchio un uomo tenebroso e feroce reggeva fra le mani una fanciulla esanime, dalla veste fluente e candida ricamata d’un ordito aureo. La chioma color del rame, scendendo per le vesti e sui bordi della biga risaltava anche da lontano quasi fosse fiamma.
E il suolo sotto il rimbombo del carro tremava e s’elevavano turbini di polvere e sabbie e ciottoli e rami divelti, similmente ad onde squarciate dagli urli dei venti e dalla carena delle navi veloci, e le cime degli alberi incombevano a nascondere il rapimento alla vista del cielo.
E in un tumulto assordante si precipitava il cocchio nella corsa, fin che la terra cedette e una voragine si dilatò come un’enorme ferita, inghiottendo nella tenebra il carro.
E allora s’udì non il tuono del cielo, ma un tuono orribile di migliaia di voci esultanti siccome il muggito d’un terremoto, e una musica lugubre e agghiacciante d’instrumenti derivati da membra umane e l’urlo d’inauditi e mai veduti tormenti.
E una piana infuocata pullulante di crateri fumanti era invasa da una nebbia sulfurea, che le lingue di fiamma lambivano e dissolvevano a intermittenza, ora in un luogo ora in un altro, quali fulmini in un cielo coperto di nubi nere, e pareva un’enorme fucina, dove non si forgiassero le armi d’Efesto, sibbene si stravolgessero percotendo ed ustionando le vite degli uomini.
Oltre il campo di fuoco la tenebra dominava incontrastata. E sopra non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro indiscernibile senza fondo.
E il piede dell’incauto viandante, il quale già troppi segreti aveva violato, colpì distrattamente un oggetto sul suolo, che si mise a rotolare per qualche tratto.
Il bagliore provocato dalle fiamme del campo dei crateri riversava una penombra sazia di vapori di brace e di carni consunte, sì che nel vago lume verdastro poté scorgere, incredulo e sorpreso ma subito sgomento, un teschio eburneo e luccicante che roteava arrestandosi un istante per poi ricominciare.
In verità seguiva un percorso scandito dai battiti del tempo intorno a fosse quadrate e oscure quali pozzi di sentina, donde esalavano miasmi ammorbanti. A migliaia le buche putride costellavano la terra buia e ne escivano lunghi vermi bianchi che strisciavano e saltellavano a scatti.
E parevano avidi di nuovi cadaveri e accorrevano in massa, una torma biancastra, lucida e tremolante, verso un gruppo di donne scarmigliate e danzanti attorno a un capro bruno, dalle ritorte corna rosse.
Queste magiche baccanti rovesciavano sopra i vermi, traendolo da un colossale paiolo bollente, un unguento fetido. E in poco tempo avveniva la metamorfosi.
E larve di uomini e donne salivano dalla terra, spronate dal tirso delle maghe, che, volando sopra loro, le abbagliavano con giochi di vetri colorati. E una torma illimitata saliva dalla terra, di vite future, infanti che presto avrebbero udito la voce della madre.
Procedevano quali onde spinte da Libeccio, accalcandosi le une sulle altre, urtandosi coi gomiti minuti, scalciando irritate da ogni lato. Una fretta imperiosa le assillava, le costringeva, anche se piccole e deboli, ad essere spietate con le compagne.
E un miraggio di architetture bizzarre ergentisi a capriccio innanzi al disco del sole crepuscolare quali nuvole innalzantisi al cielo, come guglie illustrate dai raggi violacei e talora violenti quasi scatti d’ira tormentosa dell’astro divino morente, come un sogno di castelli ascendenti ai cieli incantati delle fiabe, si smarriva nelle profondità dello spazio, misterioso oceano senza rive.
E innanzi all’astro, che si dipartiva da questa vita, un’altissima torre, una montagna inaccessibile, incombeva a precipizio nell’insondata voragine dell’oscurità, ma pareva attraversata nei suoi giri vorticosi da bagliori più rapidi del pensiero.
Occhi, occhi di miriadi di teste mozze la pervadevano scintillanti, riflettendo l’ultima luce, e s’aprivano e si chiudevano ininterrottamente, su, su, fino a smarrire il volto nell’abisso senza vista.
E gli embrioni di vite future si allontanavano nella vasta pianura fra i vapori delle nebbie, simili a stormi di neri alati sotto una distesa di nuvole bianche qua e là trapassate da luminosi fasci, che dilagando si confondono nel mare.  

martedì 1 gennaio 2013

Scheda Bulwer Lytton






Edoardo Bulwer Lytton             Zanoni            Milano, Barbini, 1873
                                               ( 1842 )                        
                             ( traduzione di Francesco Cusani ) 


Nell’introduzione al suo romanzo l’autore afferma di aver conosciuto un membro della setta dei Rosacroce e cita i neoplatonici e Apollonio di Tiana quali maestri di costoro, oltre ai Caldei e ai ginnosofisti dell’India. Secondo l’affermazione di Bulwer Lytton il libro non sarebbe altro che una traduzione da lui effettuata di un manoscritto composto in caratteri geroglifici, opera di questo rosacrociano.
Zanoni è un misterioso personaggio di cui nulla si sa se non che proviene dall’oriente e precisamente dall’India. La sua età è imprecisabile, egli è accompagnato da una strana fama che gli attribuisce un’eterna giovinezza.
Nel capitolo VI si riferisce un singolare episodio che ebbe a protagonista Cazotte, autore del Diavolo innamorato ( Le diable amoureux, 1772 ) e cultore di teurgia e filosofia neoplatonica e cabalistica. Si racconta infatti come Cazotte predisse la propria morte e quella dei suoi amici, morte che doveva accadere durante la rivoluzione francese.
Libro II, cap. I, pag. 60. Zanoni è dotato d’uno sguardo che apporta stupore e turbamento, ha capacità ipnotiche ( si veda Zerduste in Semiramide, 1873, di Anton Giulio Barrili : “ scintillanti gli occhi profondi sotto il grand’arco delle sopracciglia d’ebano “, e Arbace negli Ultimi giorni di Pompei ( 1835 ) dello stesso Bulwer Lytton : “ i suoi occhi grandi e neri come la notte splendevano di una luce strana e ferma “, di Zanoni appunto si dice : “ quello sguardo ! E’ impossibile descriverlo, ma mi agghiacciò il sangue nelle vene. “ ). Vedi il Giaurro e il Corsaro di Byron.
Pag. 81. Zanoni ha studiato i testi dei neoplatonici. Il Bulwer riferisce il termine, parlando dell’anima, di Augoeide, usato dai platonici nel senso di “risplendente”. Le allusioni riguardanti l’anima sono da riferirsi al Pimandro di Ermete Trismegisto, soprattutto per quanto riguarda l’attrazione dell’anima verso il corpo ( mito di Narciso ). Vedi anche La morte degli dei di Merezkovskij, cap. VII, discorso di Giamblico a Giuliano : “ L’anima, come Narciso nel ruscello, si dilettava della sua immagine riflessa nel corpo. “
Pag. 98. Viene citata l’opera di Psello De operatione daemonum. Zanoni è dedito infatti alla magia e alla teurgia.
Pag. 137. Libro III, cap. V. Ancora una volta viene ribadita l’importanza della antica scienza dei Caldei, alla quale pochi iniziati furono e sono ammessi. Si fanno i nomi di Giamblico e Psello, si parla di magia e alchimia.
Zanoni è un superuomo, dice tra sé Viola : “ Mi si dice che tu sei più bello di quelle immagini di marmo che superano qualunque perfezione di forme umane. “
Libro IV, cap. II. Si prepara l’iniziazione del giovane inglese Glyndon ai misteri della teurgia.
Cap. III. Apparizione di spettri in una camera soffusa di vapori ( vedi cap. X de La morte degli dei di Merezkovskij ), quindi all’aria aperta estasi e identificazione con l’astro protettore ( “ Glyndon teneva fissi gli occhi alla stella, che grado a grado pareva attrarre il suo sguardo “ pag. 232 ), da notare che anche la Salammbo di Flaubert è soggetta all’influsso della luna, sacra alla dea Tanit, tanto da identificarsi con essa. Visione : Glyndon evoca le immagini dei due amici Zanoni e Viola e queste gli appaiono. Analogamente accade ad Ara in Semiramide, al quale appare come sulla scena di un teatro il fantasma di Sandi.
Cap. IV. Insegnamento del saggio Mejnour a Glyndon ( pag. 238-239 ) : “ Or bene, come potreste supporre che lo spazio, il quale è lo stesso infinito, sia soltanto una solitudine senza vita e di minore utilità, nella gran macchina dell’universo, del carcame d’un cane, d’una foglia o d’una goccia d’acqua tutti popolati ? Ma se il microscopio scopre all’occhio le creature in esse viventi, l’uomo non inventò ancora alcun tubo meccanico per iscoprire gli enti più nobili e privilegiati, i quali scorrono nell’aria non soggetta a limiti. Eppure avvi una tremenda affinità fra questi enti e l’uomo … Ma per oltrepassare questa barriera, l’anima con cui ora mi ascolti deve prima di tutto essere affinata da un intenso entusiasmo, purificata da tutti i desiderii mondani. Non senza ragione i così detti maghi, in ogni tempo e paese, insistettero sulla castità e l’astemio fantasticare quali mezzi per giungere all’ispirazione. … Ora vivono nello spazio milioni di esseri non spirituali, a rigor di termini, perché tutti hanno come gli animalucci invisibili ad occhio nudo, certe forme di materia, quantunque così delicata, aerea e sottile, che potrebbe paragonarsi ad un esile involucro che racchiude lo spirito. Da ciò i graziosi fantasmi detti dai Rosacroce, Silfi e Gnomi. … Taluni dotati di sorprendente saggezza, altri di malignità orrenda; alcuni ostili come le furie all’uomo, altri graziosi, e messaggeri fra la terra e il cielo. “ ( 1 )
Si noti come l’autore si sia addottrinato in proposito, questi argomenti rivelano un fondamento di studi, non sappiamo se superficiali o profondi, ma comunque non scaturiscono soltanto dalla sua fantasia. Vi è infatti una certa analogia fra alcune di queste affermazioni di Bulwer e il De operatione daemonum di Michele Psello ( vedi libro II, cap. VII, l’autore cita in margine l’opera di Psello ). Né manca, insieme ai fantasmi, l’elixir di lunga vita degli alchimisti ( a tal proposito si ricordi il filtro di Sumàti nella Semiramide di A. G. Barrili, capace di donare la vita e la morte ). Inoltre Mejnour dà grande importanza alla scienza dei Pitagorici. Insomma, la posizione culturale di Bulwer è assai vicina a quella, posteriore nel tempo, di Schuré ( I grandi iniziati ), la cui opera contiene spunti interessanti, ma sconfina assai spesso nel romanzesco.
Cap. VII, pag. 257. Apparizione d’un demone. Glyndon, disobbedendo al maestro Mejnour, entra nella camera segreta ove è custodito l’elixir di lunga vita. Ma qui gli appaiono vari fantasmi e infine un essere demoniaco : “ Gradatamente quell’oggetto si rese visibile allo sguardo : era somigliante ad una testa umana ricoperta d’un velo nero, traverso il quale fiammeggiavano con livido e diabolico fuoco occhi che agghiacciavano fin nel midollo delle ossa. … Le sue forme erano al pari della faccia coperte d’un velo, ma i contorni apparivano femminili. Non si moveva come gli spiriti che imitano i viventi, ma pareva strisciare come un rettile schifoso. … l’infuocato sguardo così penetrante e livido, aveva in sé qualche cosa di umano nell’odio e nel sarcasmo … Glyndon, stringendosi cogli sforzi dell’agonia alla parete, irte le chiome, le occhiaje spalancate, non poteva stornar gli occhi … “. Dove è evidente l’elemento terrifico, gotico, che troviamo anche in Semiramide, quando il fantasma di Sandi appare ad Ara. Non è questo del cap. VII il solo episodio in cui compaiono spettri, poiché più volte si incontrano nel corso della vicenda.
Libro VII, cap. IX. Bulwer, ammiratore e assiduo lettore di Torquato Tasso, attribuisce al poeta profonde cognizioni di teurgia. E’anche per questa ragione che spesso vi sono versi della Gerusalemme liberata  all’inizio di capitolo.       


( 1 ) Well, then, can you conceive that space, which is the Infinite itself, is alone a waste, is alone lifeless, is less useful to the one design of universal being than the dead carcass of a dog, than the peopled leaf, than the swarming globule? The microscope shows you the creatures on the leaf; no mechanical tube is yet invented to discover the nobler and more gifted things that hover in the illimitable air. Yet between these last and man is a mysterious and terrible affinity. …
But first, to penetrate this barrier, the soul with which you listen must be sharpened by intense enthusiasm, purified from all earthlier desires. Not without reason have the so-styled magicians, in all lands and times, insisted on chastity and abstemious reverie as the communicants of inspiration. When thus prepared, science can be brought to aid it; the sight itself may be rendered more subtle, the nerves more acute, the spirit more alive and outward, and the element itself—the air, the space—may be made, by certain secrets of the higher chemistry, more palpable and clear. And this, too, is not magic, as the credulous call it; as I have so often said before, magic (or science that violates Nature) exists not: it is but the science by which Nature can be controlled. Now, in space there are millions of beings not literally spiritual, for they have all, like the animalculae unseen by the naked eye, certain forms of matter, though matter so delicate, air-drawn, and subtle, that it is, as it were, but a film, a gossamer that clothes the spirit. Hence the Rosicrucian's lovely phantoms of sylph and gnome. Yet, in truth, these races and tribes differ more widely, each from each, than the Calmuc from the Greek,—differ in attributes and powers. In the drop of water you see how the animalculae vary, how vast and terrible are some of those monster mites as compared with others. Equally so with the inhabitants of the atmosphere: some of surpassing wisdom, some of horrible malignity; some hostile as fiends to men, others gentle as messengers between earth and heaven.