sabato 27 aprile 2013

Apparizione






Alto come una montagna assolata sopra le valli brumose, il suo cuore s’empiva della luce d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della giovinezza.
Ricordava vagamente le parole di un canto appreso nell’adolescenza : “ Tu sei la mia terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.” Ah, sì, non era mai mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri solitari d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia sopra la valle, cingere i fianchi del monte, carezzare le cime dei pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi agli sbuffi del vento o frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il suo cuore cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva intorno a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era al mondo, doveva essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il sibilo del vento contro le fronde degli alberi, era il lento ascendere della nebbia, era il silenzio della montagna. Non altro era il mondo.

E pensava all’amore di Petrarca per Laura e a quella meravigliosa solitudine di Valchiusa, così immaginava, immersa nel verde degli ulivi, dei castagni e dei pini, una passione incurabile e nello stesso tempo pura come la segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava le meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte Ventoso, e si riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto essere le sue.
Così guardava dall’alto del colle la campagna d’intorno e le altre colline digradanti verso il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di fronde. E il sole faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre il suo manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli uccelli cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di sé l’eco d’una musica insistente, suasiva, impetuosa, e che il rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di trombe ad annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli apparve allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re dell’universo forse lo esortava a non temere, a non fuggire più la vita, ad abbracciarla, a viverla in tutta la pienezza, a colmare le vene del suo stesso fuoco ?           Gli occhi gli si riempirono di quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione strana di scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma di sé, correre nel buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi occhi splendevano nell’oscurità come smeraldi irradiati.
E quella musica, insistente, invincibile attraversava la foresta nell’impeto del vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume risuonante.
Ebbe allora la chiara visione dell’Occhio universale. Si librava sopra il vasto lago dell’Essere e lo guardava, con la sua iride trasparente. Brillava della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso occhio, i suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno a lui l’apparizione della volontà senza limiti, della vita rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà rinascente in nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come affermazione, come “sì” al richiamo della vita, e nella sua giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli uomini, di tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno di gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci, quali ondate del vasto mare risonante, un fragore di flutti iridescenti, un canto sublime e possente fluire quale un fiume impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.






domenica 21 aprile 2013

Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Periandro, I, 94







Uno strano personaggio