domenica 29 settembre 2013

Niccolò Machiavelli, ultimo capitolo del Principe






Cap.26
Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam.
[Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de' barbari]
Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se, in Italia al presente, correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare corrino tante cose in benefizio d'uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell'è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte ruina. E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a' sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci si vede, al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre casa vostra, quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla Chiesia, della quale è ora principe, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita dei soprannominati. E benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, non di manco furono uomini, et ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente: perché l'impresa loro non fu più iusta di questa, né più facile, né fu a loro Dio più amico che a voi. Qui è iustizia grande: "iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est". Qui è disposizione grandissima; né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pur che quella pigli delli ordini di coloro che io ho proposti per mira. Oltre a questo, qui si veggano estraordinarii sanza esemplo condotti da Dio: el mare s'è aperto; una nube vi ha scòrto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuto la manna; ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi.
E non è maraviglia se alcuno de' prenominati Italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre casa vostra, e se, in tante revoluzioni di Italia e in tanti maneggi di guerra, e' pare sempre che in quella la virtù militare sia spenta. Questo nasce, che li ordini antichi di essa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de' nuovi: e veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge e li nuovi ordini trovati da lui. Queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile: et in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando non la mancassi ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono. E tutto procede dalla debolezza de' capi; perché quelli che sanno non sono obediti, et a ciascuno pare di sapere, non ci sendo fino a qui alcuno che si sia saputo rilevare, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino. Di qui nasce che, in tanto tempo, in tante guerre fatte ne' passati venti anni, quando elli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova. Di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri.
Volendo dunque la illustre casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che redimirno le provincie loro, è necessario, innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d'ogni impresa, provvedersi d'arme proprie; perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati. E, benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare dal loro principe e da quello onorare et intrattenere. È necessario, per tanto, prepararsi a queste arme, per potere con la virtù italica defendersi dalli esterni. E, benché la fanteria svizzera e spagnola sia esistimata terribile, non di meno in ambo dua è difetto, per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro ma confidare di superarli. Perché li Spagnoli non possono sostenere e' cavalli, e li Svizzeri hanno ad avere paura de' fanti, quando li riscontrino nel combattere ostinati come loro. Donde si è veduto e vedrassi per esperienzia, li Spagnoli non potere sostenere una cavalleria franzese, e li Svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola. E, benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienzia, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagnole si affrontorono con le battaglie todesche le quali servono el medesimo ordine che le svizzere: dove li Spagnoli, con la agilità del corpo et aiuto de' loro brocchieri, erano intrati, tra le picche loro sotto, e stavano securi ad offenderli sanza che Todeschi vi avessino remedio; e, se non fussi la cavalleria che li urtò, li arebbano consumati tutti. Puossi, adunque, conosciuto el defetto dell'una e dell'altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a' cavalli e non abbia paura de' fanti: il che farà la generazione delle armi e la variazione delli ordini. E queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, dànno reputazione e grandezza a uno principe nuovo.
Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che l'Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amore e' fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano? quali populi li negherebbano la obedienza? quale invidia se li opporrebbe? quale Italiano li negherebbe l'ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e, sotto li sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca:
Virtù contro a furore
Prenderà l'arme, e fia el combatter corto;
Ché l'antico valore
Nell'italici cor non è ancor morto.

mercoledì 11 settembre 2013

In alto




Egli era solo innanzi al mare.
Nei suoi occhi il mare irradiava il palpito della vita, e un sentore di sale e d’alghe gli bruciava le narici. Si sentì animato da uno spirito. E nella visione gli era presso un cavallo bianco.
Immobile, lo attendeva da molto tempo.
Dietro di esso una selva estendeva le propaggini rigogliose.
Scorse nel folto bocci di rose rosse, e, avvicinatosi, vide che tra giacinti e camelie passavano sfiorando il suolo esseri straordinari dalla pelle turchina, dai fluenti capelli lisci o ricciuti di vario colore, dagli occhi oblunghi e dalle dita affusolate in unghie cresciute quali punte di picca.
Un vapore blu aerava sotto l’ampia volta delle fronde, i cui tronchi mentivano ad occhio sano volute di capitelli e scanalature di colonne e reggevano in gran copia frutti d’ogni sorta, limoni profumati, arance, bergamotti, melagrane, mele rosate, lucidi cachi e fichi verdi.
S’incupiva più oltre l’atmosfera maliosa.
Egli montò allora sul cavallo bianco, che non lo aveva lasciato per un attimo, quasi fosse la sua ombra, e si mise dentro al dedalo misterioso.
Oltre le rocce, in lontananza, sovra il promontorio che incombeva sul mare e si drizzava in torrioni eccelsi, il sole s’era vestito d’un bagliore rosso, brillante come un rubino, e suscitava l’idea d’un rogo immenso o che fosse l’occhio d’un mostro dell’Erebo svincolatosi dai ferrei legami del mondo sotterraneo, salito sulla terra per spiare, invido, i mortali.
Un vapore ceruleo aliava sotto un cielo coperto di nubi grigie.
Innanzi, una parete rocciosa s’offeriva, infranta dal logorìo dei venti e dei diluvii, come un portale, aperta nel centro mirabilmente, quasi un arco ad ogiva, e sembrava segnare i confini di una regione sconosciuta.
Ed egli s’inoltrò nella valle solitaria.
Ai lati del sentiero una nebbia leggera inumidiva i tronchi scuri delle querce e dei castagni, le cui folte frasche erano traversate dai raggi mattutini.
Percepiva il rumoreggiare della corrente di qualche rivo, più avanti, dove la luce illustrava un morbido prato di asfodeli.
Un fiume bagnava con onde regolari e flemmatiche le sponde erbose e fiorite.
Giovani donne bionde dalle vesti purpuree trapunte di fili d’argento lanciavano in aria tra loro una sfera dorata, che ritraeva il fulgore del sole.
Una fanciulla si allontanò, prendendo il cammino della foresta. La veste si sollevava lievemente sopra i piedi rosei, che sfioravano il suolo. E pareva che la circondasse il profumo di tutti i fiori dei prati.
E trasse il cavaliere nella scia del volo sino ai lembi estremi della boscaglia, umidi e di nebbia e di placidi archi d’acque delicatamente segnati dal vento.
Quivi sorgeva un castello sulle onde, intessuto dei vapori e delle nebule che veleggiavano sopra la ferma distesa. Era un miraggio di vortici e correnti che erge la forza dell’estate, siccome un labirinto di sogni sullo specchio dormente delle paludi.
Ed egli attese sopra il cavallo bianco che si disserrasse il portone dell’ardua dimora e che calasse il ponte levatoio.
E, come fu entrato, vide una scalea smarrirsi in un complesso di archi rampanti, di bastioni turriti, di logge e colonnati, per i quali una folla di fanciulle discorreva suonando su magici strumenti incantate armonie.
Indossavano un candido peplo e avevano le chiome intrecciate e coronate di lauro e un nastro di seta stringeva loro la veste sotto il seno.
Ed una di esse, la più splendente, dal viso ambrato, dall’iride del colore dei capelli castanei e fulvidi siccome un ordimento di fili di rame, dalla formosa apparenza gentile, gli s’appressò, reggendo nella sinistra uno scettro d’oro.
E presolo per mano intraprese l’ascesa di grado in grado.
Ed egli comprendeva allora la vanità della propria piccola esistenza e la meschinità dei desideri e delle speranze che albergano nel cuore, e il senso chiaro dell’inutile affanno e il ricordo delle azioni passate, un agitarsi tormentoso destinato a svanire nel nulla.
Non era egli certamente quello che finora era stato. Era stato soltanto una maschera, uno sciocco manichino, un burattino manovrato dalle passioni del suo carattere avverso.
Ma una vita più profonda era in lui, una vita arcana, dolce e immutabile.
E, mentre saliva, lentamente avvertiva nascere in sé una consapevolezza nuova, e un Io più grande, cui il suo corpo apparteneva insieme alla vastezza e alla beltà del mondo.
E rammentò quando sulle montagne della sua terra saliva nella neve, tra i verdi abeti e i larici spogli, nella fresca aria invernale, insieme a tre amici, per il sentiero a tratti indicato da piccoli cumuli di sassi o da lembi di stoffa o da segnali dipinti sui tronchi.
Ascendevano all’assoluto silenzio del bosco, dei fianchi montani, delle rupi sopra le quali planavano e volteggiavano i corvi, delle catene dei monti candidi e luminosi.
Immensa era la vastità del silenzio. Non altri uomini s’aggiravano per le pendici, qua e là brune e spogliate del bianco vello, dove la neve s’era presto dissolta.
Ascendevano rapidi e ostinati su per il corpo illimitato della montagna coi loro piccoli corpi, violatori dell’immobilità, spettatori di uno spettacolo gelosamente custodito.
Ma a lui la neve inviava bagliori più vivaci. E i rami, attraversati dalla lucentezza cristallina del mattino invernale, gioivano in guizzi e scintillii istantanei.
E colmo era il cuore suo di quella luce. Invaso da un sentimento nuovo, da una passione non mai provata, era spronato da un pungolo invisibile, anelava alla vetta.
Il dorso della montagna nascondeva il disco del sole, ma i dardi infallibili del Titano discendevano per la selva, un’ondata di chiarità irresistibile.
Una tempesta di raggi travolgeva gli alti fusti e le fronde, irrompendo sulla neve e forzando e abbattendo i muri delle ombre.
Una musica potente si frangeva contro il suo cuore. Egli ne fu sommerso, e rigenerato.
E come venne alla fine del bosco e del cammino, sulla cresta erbosa del monte, il sole immenso l’avvolse nello splendore, e le giogaie e le rupi e i picchi audaci ardevano inondati dalla luce.
E vide il baratro al di sotto e l’altezza dell’azzurro sopra di sé, e la sconfinata estensione delle catene montuose, che si perdevano a vista d’occhio sempre meno evidenti e più sfumate verso l’orizzonte.
E scorse alcuni rapaci che aliavano in larghe ruote nell’aria irradiata, dove sparse reti di nebbia svanivano lentamente.
E si smarrì il suo sguardo nella luce dell’infinito azzurro. 
Gli sembrò che il corpo si mutasse in un alato sfrecciante nel libero volo, e le piume scarmigliandosi incontrassero i flutti gelidi dei venti vorticosi e le ali navigassero per sconfinati oceani di silenzio, su, sopra le nubi, verso l’occhio del Titano.  



giovedì 5 settembre 2013

Boezio, La consolazione della filosofia, II ( sulla fortuna ).






Fortunae te regendum dedisti: dominae moribus oportet obtemperes. Tu vero volventis rotae impetum retinere conaris? At, omnium mortalium stolidissime, si manere incipit, fors esse desistit. 

   
Haec cum superba verterit vices dextra, 
Exaestuantis more fertur Euripi, 
Dudum tremendos saeva proterit reges 
Humilemque victi sublevat fallax vultum. 


Non illa miseros audit aut curat fletus 
Ultroque gemitus, dura quos fecit, ridet. 
Sic illa ludit, sic suas probat vires 
Magnumque tristis monstrat ostentum, si quis 
Visatur una stratus ac felix hora. 

Ovidio, Metamorfosi, XIV, 242 - 290





“ Moneo, fuge litora Circes ! “



amissa sociorum parte dolentes
multaque conquesti terris adlabimur illis,
quas procul hinc cernis (procul est, mihi crede, videnda
insula visa mihi!) tuque o iustissime Troum,               245
nate dea, (neque enim finito Marte vocandus
hostis es, Aenea) moneo, fuge litora Circes!
nos quoque Circaeo religata in litore pinu,
Antiphatae memores inmansuetique Cyclopis,
ire negabamus; sed tecta ignota subire               250
sorte sumus lecti: sors me fidumque Politen
Eurylochumque simul nimiique Elpenora vini
bisque novem socios Circaea ad moenia misit.
quae simul attigimus stetimusque in limine tecti,
mille lupi mixtaeque lupis ursaeque leaeque               255
occursu fecere metum, sed nulla timenda
nullaque erat nostro factura in corpore vulnus;
quin etiam blandas movere per aera caudas
nostraque adulantes comitant vestigia, donec
excipiunt famulae perque atria marmore tecta               260
ad dominam ducunt: pulchro sedet illa recessu
sollemni solio pallamque induta nitentem
insuper aurato circumvelatur amictu.
Nereides nymphaeque simul, quae vellera motis
nulla trahunt digitis nec fila sequentia ducunt:               265
gramina disponunt sparsosque sine ordine flores
secernunt calathis variasque coloribus herbas;
ipsa, quod hae faciunt, opus exigit, ipsa, quis usus
quove sit in folio, quae sit concordia mixtis,
novit et advertens pensas examinat herbas.               270
haec ubi nos vidit, dicta acceptaque salute
diffudit vultus et reddidit omina votis.
nec mora, misceri tosti iubet hordea grani
mellaque vimque meri cum lacte coagula passo,
quique sub hac lateant furtim dulcedine, sucos               275
adicit. accipimus sacra data pocula dextra.
quae simul arenti sitientes hausimus ore,
et tetigit summos virga dea dira capillos,
(et pudet et referam) saetis horrescere coepi,
nec iam posse loqui, pro verbis edere raucum                280
murmur et in terram toto procumbere vultu,
osque meum sensi pando occallescere rostro,
colla tumere toris, et qua modo pocula parte
sumpta mihi fuerant, illa vestigia feci
cumque eadem passis (tantum medicamina possunt!)               285
claudor hara, solumque suis caruisse figura
vidimus Eurylochum: solus data pocula fugit;
quae nisi vitasset, pecoris pars una manerem
nunc quoque saetigeri, nec tantae cladis ab illo
certior ad Circen ultor venisset Ulixes.               290