sabato 26 ottobre 2013

Hymn to Intellectual Beauty By Percy Bysshe Shelley (1792–1822)






I

T
HE AWFUL shadow of some unseen Power

  Floats though unseen among us,—visiting

  This various world with as inconstant wing

As summer winds that creep from flower to flower,—

Like moonbeams that behind some piny mountain shower,
    It visits with inconstant glance

    Each human heart and countenance;

Like hues and harmonies of evening,—

    Like clouds in starlight widely spread,—

    Like memory of music fled,—
    Like aught that for its grace may be

Dear, and yet dearer for its mystery.



II

Spirit of B
EAUTY, that dost consecrate

  With thine own hues all thou dost shine upon

  Of human thought or form,—where art thou gone?
Why dost thou pass away and leave our state,

This dim vast vale of tears, vacant and desolate?

    Ask why the sunlight not for ever

    Weaves rainbows o’er yon mountain-river,

Why aught should fail and fade that once is shown,
    Why fear and dream and death and birth

    Cast on the daylight of this earth

    Such gloom,—why man has such a scope

For love and hate, despondency and hope?



III

No voice from some sublimer world hath ever
  To sage or poet these responses given—

  Therefore the names of Demon, Ghost, and Heaven,

Remain the records of their vain endeavour,

Frail spells—whose uttered charm might not avail to sever,

    From all we hear and all we see,
    Doubt, chance, and mutability.

Thy light alone—like mist o’er mountains driven,

    Or music by the night-wind sent

    Through strings of some still instrument,

    Or moonlight on a midnight stream,
Gives grace and truth to life’s unquiet dream.



IV

Love, Hope, and Self-esteem, like clouds depart

  And come, for some uncertain moments lent.

  Man were immortal, and omnipotent,

Didst thou, unknown and awful as thou art,
Keep with thy glorious train firm state within his heart.

    Thou messenger of sympathies,

    That wax and wane in lovers’ eyes—

Thou—that to human thought art nourishment,

    Like darkness to a dying flame!
    Depart not as thy shadow came,

    Depart not—lest the grave should be,

Like life and fear, a dark reality.



V

While yet a boy I sought for ghosts, and sped

  Through many a listening chamber, cave and ruin,
  And starlight wood, with fearful steps pursuing

Hopes of high talk with the departed dead.

I called on poisonous names with which our youth is fed;

    I was not heard—I saw them not—

    When musing deeply on the lot
Of life, at that sweet time when winds are wooing

    All vital things that wake to bring

    News of birds and blossoming,—

    Sudden, thy shadow fell on me;

I shrieked, and clasped my hands in ecstasy!


VI

I vowed that I would dedicate my powers

  To thee and thine—have I not kept the vow?

  With beating heart and streaming eyes, even now

I call the phantoms of a thousand hours

Each from his voiceless grave: they have in visioned bowers
    Of studious zeal or love’s delight

    Outwatched with me the envious night—

They know that never joy illumed my brow

    Unlinked with hope that thou wouldst free

    This world from its dark slavery,
    That thou—O awful LOVELINESS,

Wouldst give whate’er these words cannot express.



VII

The day becomes more solemn and serene

  When noon is past—there is a harmony

  In autumn, and a lustre in its sky,
Which through the summer is not heard or seen,

As if it could not be, as if it had not been!

    Thus let thy power, which like the truth

    Of nature on my passive youth

Descended, to my onward life supply
    Its calm—to one who worships thee,

    And every form containing thee,

    Whom, SPIRIT fair, thy spells did bind

To fear himself, and love all human kind.

sabato 19 ottobre 2013

Leopardi, Zibaldone, 619.





La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l’uomo, perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616. fine, 617. principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de’ tempi moderni. Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un certo grado d’ingegno e di sentimento, fatta che ha l’esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch’essendo tali, e giunti a un’età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima disperazione è l’odio di se stesso, (perchè resta ancora all’uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l’indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore (perchè l’uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non porta l’uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell’animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec. insomma le passioni e gli affetti d’ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi tutta l’elasticità delle [620]molle e forze dell’anima. Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l’opposto, ma per una timidità derivata dall’esperienza delle sciagure, la quale porta l’uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l’animo suo finalmente s’è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere quanto debba guadagnare l’attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.

(6. Feb. 1821.)

sabato 12 ottobre 2013

Leopardi, Zibaldone, 607.






Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare. Parole che Sallustio (B. Catilinar. c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell’esortazione ai soldati prima della battaglia. Osservate la differenza dei tempi. Questa è quella figura rettorica che chiamano Gradazione. Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi l’onore, poi la gloria, poi la libertà, [607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le cose. Oggidì, volendo esortare un’armata in simili circostanze, ed usare quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all’amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l’onore, del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s’ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l’appetito, e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.

(4. Feb. 1821.)

sabato 5 ottobre 2013

Leopardi, Zibaldone, 602 – 606, sull’anima.




La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia. Al di là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera di essere, una cosa diversa dal nulla. Diciamo che l’anima nostra è spirito. La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea, se non questa, ch’ella ignora che cosa e quale e come sia. Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco pneuma da pneo, e in latino spiritus da spiro: ed anche anima presso i latini si prende per vento, come presso i greci psuché derivante da psucho,  flo spiro, ovvero refrigero); immagineremo una fiamma; assottiglieremo l’idea della materia quanto potremo, per formarci un’immagine e una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla sostanza medesima non arriva nè l’immaginazione, nè la concezione dei viventi, di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè finalmente è l’anima appunto e lo spirito che non può concepir se stesso. In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che [603]fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l’anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l’ha detto? Noi vogliamo l’anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima. Sia. Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi. Che vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e quasi che l’avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare ch’ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de’ quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali. Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l’affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l’immateriale è indivisibile? Forse l’immateriale, e l’indivisibile nella nostra mente sono tutt’uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente ho già dimostrato come l’idea delle parti non ripugni in nessun modo all’idea dell’immateriale. Secondariamente, se l’immateriale è indivisibile e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l’anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può comporre, non potrà cominciare. Meglio quei filosofi antichi i quali negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state. Il fatto sta che l’anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell’anima [605]diversissime facoltà? la memoria, l’intelletto, la volontà, l’immaginazione? Delle quali l’una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l’anima. Delle quali altri son più, altri meno forniti: come dunque la sostanza dell’anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell’anima. Primo, l’anima stessa non ci è nota, se non come una facoltà. Secondo, se l’anima è perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando un’altra, e continuando ad essere? Come può accader questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? (Cic. Cato mai. seu de Senect. c.21. fine, ex Platone.) V. p.629. capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza di un Padrone dell’esistenza, non c’è ragione veruna perchè l’anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l’immaterialità debba essere immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un’altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l’incorruttibilità o la corruttibilità.

(4. Feb. 1821.)