domenica 30 novembre 2014

Misandra, cap. 18





Era stato dunque un sogno, un vaneggiamento dei sensi, un turbamento dello spirito, una vaga fuga della fantasia, il suo amore per Misandra ?
Era come morta per lui, ed era davanti a lui, ed egli l’avrebbe vista per l’ultima volta, poiché era giunto proprio per l’estremo addio.
E Misandra gli aveva rivolto un’ultima volta la parola, prima che si chiudessero per sempre i cancelli di quel giardino proibito.
Ebbe la sensazione di non aver vissuto che per quegli ultimi giorni, solo per quegli ultimi giorni.
Tutto è perduto “ si disse, poi che la giovinezza era scomparsa per incanto. E solo allora riusciva, se pur ancora vagamente, a rendersi conto di averla amata, negli anni della fanciullezza, quando si può dire di non essere consapevoli di nulla, di averla veramente e profondamente amata. Ricordava la fanciulla graziosa, dagli occhi splendenti, dalla fronte nobile e lucente come un astro, alta e atletica come Artemide, e pensava a remote passeggiate nei boschi, ormai cinte nel ricordo dalla luce magica d’un’irraggiungibile aurora. Era la più bella del suo tempo : lo dicevano gli uomini, e lo confessavano le donne. Chi la vide e non l’amò ?
Si raccolse in se stesso. La realtà che già l’offendeva quotidianamente con la sua incomprensibile esigenza di vita comune insieme ad una moltitudine d’umanità bruta e malriuscita, con quella folla di aborti prepotenti e di boriosi idioti che dominavano il mondo, quella realtà ora gli aveva sottratto l’unico sogno.
Sentiva la pena per la propria sensibilità eccessiva, quasi un male, il cui castigo era il dileggio da parte del savio mondo, sentiva svanire a poco a poco l’amore per la vita insieme al suo sogno, per cui solo era valso trascinare l’esistenza, quasi per il miraggio d’un attimo fuggevole d’incantevole e incommensurabile ebbrezza.
Ora ella appariva sulla terrazza, al chiarore lunare, volta all’orizzonte stellato e al mare infinito.
Il suo viso era un opale velato dall’ombra, la sua chioma la nera brezza aspra, ella respirava profondamente, lentamente, il fresco alito notturno. Inviolata, come un fiore negli abissi, ella appariva, irraggiungibile.
Ma, a un tratto, ella lo colse in un bagliore, e gli occhi avvamparono come un rogo, e un’onda impetuosa, vasta e furente lo abbatté invadendolo, scuotendo e sradicando tutto il suo essere. Come una fiera lo avvinse tra i suoi artigli ed egli restò pietrificato, preda senza scampo.
Rimase innanzi all’immagine di Medusa, colto da un terrore dolcissimo.
Poi le ombre si distesero, l’onda si ritrasse, il buio si chiuse.
Ed egli non vide più nulla se non il deserto del silenzio e del mare e del cielo nero sparso di fuochi, come un’immensa pianura costellata dai bivacchi e dalle veglie, prima d’una battaglia.
Ma aveva visto ciò che non doveva vedere, aveva intuito ciò che non doveva sapere. Era ormai indegno di ogni rivelazione e inutilmente avrebbe tentato l’oracolo.

La scorgeva nell’ombra della stanza.
Scorgeva la sua immagine, dardeggiante una luce estranea, sinistra, eppure vittrice, stupendamente adornata di cinto e collane e armille e un diadema, tutti di rubini sanguigni. Non d’altro era vestita, e dai suoi occhi si dipartiva l’incanto dell’iride verde azzurra, che prometteva un’ebrezza sconfinata, come il mare che dietro a lei appariva e si fondeva all’orizzonte col cielo vespertino. Alta la luna sovra di lei la irradiava della luminosità lugubre del plenilunio, mentre gli ultimi raggi del crepuscolo venivano catturati dai rubini.
Ella lo guardava enigmatica.
Dietro di lei la sagoma oscura di un grande armadio a specchio sorgeva dall’ombra e il vetro era simile ad una rettangolare lastra d’argento, ma vi si posava soltanto la luce lunare, poi che la figura di Misandra pur essendogli innanzi si rivelava trasparente e invisibile come l’aria notturna traversata dai pallidi vapori della luna.
Un misterioso terrore lo invase. E il ricordo di leggende remote tramandate dai racconti gotici letti da ragazzo gli presentò alla mente curiose coincidenze. Non era forse anch’egli, però, un misterioso essere notturno ? Non era infatti riflesso dallo specchio, dato che si trovava di fronte a lei ed ella non era che un fantasma trasparente.
Ma ella sorrise d’un sorriso ineffabile e lo guardò a lungo, così, e i suoi occhi luminosi erano pieni di promesse.
Poi porse le braccia verso di lui e avanzò lentamente, un piede dopo l’altro, leggera quasi sfiorando terra.
E allora gli parve ch’ella discendesse da una nube radiante, e gli occhi di lei s’accesero, estatici, misteriosi.
Cadde innanzi a lei, vinto, ed ebbe tuttavia l’ardire di volgere il volto in su, a lei, fissandola rapito e atterrito nel contempo, invaso e travolto da un potere invincibile, come una nave dalla tempesta.
E le ondate impetuose della passione lo circondavano in un brivido vorticoso, in una spirale di inniti vittoriosi e schiumanti quali flutti che si frangono in mille lamine argentee contro gli scogli, fragorosi all’ululo dei venti.
Fu allora travolto da quei flutti e percorso dai brividi violenti del desiderio. Le sue membra furono attraversate da una forza irresistibile, oscura. Un’ebrietudine lo possedette, una follia bacchica che rese il suo corpo sinuoso come la spirale d’un serpente e privandolo della ragione gli donò inaudite facoltà e poteri prima sconosciuti.
S’avvinghiò a lei, la cinse, affondò il volto fra i suoi seni e si esaltò al profumo della sua carne, candida come avorio.
Ma il sogno lo possedette.
Si sentì abbrancare, trascinare verso l’alto in un vortice d’ombre e di luci, mentre il suo spirito esaltato era in preda alla vibrazione d’un’eccelsa armonia, d’un inno di vittoria. E ondate di luce bionda pervasero la sua mente, cullarono la sua immaginazione in un brivido di dolcezza e di oblìo. Vibrarono le corde del suo spirito interamente posseduto. Egli era felice e libero come pura musica.



sabato 29 novembre 2014

Misandra, cap. 17

Una fanciulla bionda correva allegra nel giardino invaso dai raggi morbidi dell’aurora.
Era nello splendore della pubertà, quando il corpo femminile raggiunge la perfezione della grazia e l’armonia insuperabile della forma.
La guardò a lungo trascorrere tra gli alberi, una ninfa nata proprio allora dal tronco di qualche antica quercia, le braccia solo adornate di ghirlande odorose e i capelli fluenti, tenue veste sulle membra splendenti.
Si fermò, stupito. Dunque nulla era cambiato dai tempi del suo primo turbamento d’amore ? Era ancora e sempre come la prima volta ? Ed era giusto quel sentimento o, meglio, era giusta quell’attrazione così irresistibile ? Il dubbio lo assillava. No. Sentiva dentro di sé un rimorso e il terrore di una caduta senza ritorno. Sentiva la tortura dei sensi. Nel contempo avvertiva il loro dominio tirannico e l’incapacità di sottrarsi ad esso. Era consapevole dell’istinto e provava perciò un’intima avversione. E, se pensava a se stesso, vedeva un’immagine vana, un puro riflesso, dietro il quale una superficie opaca impediva la vista.
Cos’era mai il suo io ? Neppure lui lo sapeva. Non sapeva nulla. Sentiva la realtà difforme dall’apparenza della persona che gli stava addosso quasi una maschera. Sentiva in sé un vagare, un disordinato incrociarsi e scontrarsi di cose frante. La sua vita regolare era la struttura sulla quale il suo cervello tentava d’impiantare l’edificio vacillante dell’esistenza. Ma in ogni istante quello, come una pianta senza radici, crollava e bisognava ricostruirlo, in ogni istante la sua debolezza lo feriva e lo umiliava. Talvolta non poteva sostenere lo sguardo altrui, ma era smarrito come un bambino. E certo aveva paura. Aveva paura della morte, ma ancor più della vita.
Ma la vita inesplicabile, nonostante tutte le sue paure, si rinnovava sempre, e non solo ogni anno. Il sogno dell’adolescenza forse era morto per lui, ma non per altri. In verità un’eterna ghirlanda di fiori cingeva sempre le tempie della bionda figlia di Cerere, ed ella risorgeva per le nuove generazioni a colmare di speranze il calice inebriante della giovinezza.
Sentiva un suono lontano, un eco di canti e ritmi di danze. Cos’era mai ? Nella valle, verso la montagna, pareva si celebrassero ora antichi riti, credenze di contadini, ai quali partecipavano, così gli era stato detto, i giovani del luogo. Pareva che al declino dell’estate si volesse rimediare con la magia degli scongiuri e farla durare ben oltre i suoi naturali confini.
Eterna giovinezza, eterna vita ! Tu sei la più naturale delle aspirazioni umane.
Quod enim genus figura est, ego non quod obierim ? “
Egli pensava alla incessante metamorfosi delle parvenze, e gli sembrava che in ciò potesse consistere l’eterno ritorno di tutte le cose.
Pensava alla vita che si rinnova costantemente secondo leggi eterne ed immutabili, e avvertiva dentro di sé sempre sorgere l’indistruttibile desiderio, il fato della passione, che lo spronava verso mete ignote, verso lidi irraggiungibili, sempre anelante, sempre deluso. Il desiderio combatteva contro tutte le parvenze ostili, la lotta impari lo traeva alla disperazione. Egli non sapeva più dove volgere il capo, in ogni campo di battaglia aleggiava l’aria della disfatta. Sentiva sopra di sé l’ombra di Aiace e la minaccia dell’insania.
Tutto era finito nel nulla. Ogni suo tentativo era naufragato contro gli scogli dell’altrui ostilità. L’interesse meschino, il pregiudizio sociale, l’egoismo più gretto gli avevano lentamente sottratto ogni speranza. Una corrente limacciosa trascinava via nei suoi gorghi il desiderio di vivere. Qualunque strada gli era preclusa, dovunque volti duri e ostili, falsi e sornioni risaltavano come maschere tragiche e funeree.
Era inutile, per lui non c’era nulla. Delle belle promesse del mondo non gli sarebbero spettate neppure le briciole.
L’accidia penosa lo trasse con sé nella sua morsa. Il sentimento disperato del fallimento prese a roderlo, impietoso. Ed egli piombò in una stanchezza senza rimedio.
Il sonno profondo lo prese immergendolo nella sua oscura palude, dove la sua anima scivolava sulle acque plumbee come un cigno, sotto la luna pallida. Come un cigno illuminato dalla luna la sua anima vagava verso rive remote, celate da una nera selva ignota.
Quell’oscuro groviglio di ramose piante e di rampicanti insidiosi nascondeva la trappola fatale della sua malinconia, l’abisso cupo e maligno, il torpore acido e putrescente che abbrancandolo e avvincendolo completamente lo trascinava nel gorgo odioso della follia.
Era l’antica maledizione che colpisce i mal nati tra gli uomini. “ I melanconici sono preda delle loro immaginazioni e commettono ogni sorta di pazzie “ aveva più o meno detto, e così ricordava, Aristotele e poi Galeno, e questo era il suo male, inveterato, ributtante.
Un dormiveglia affannoso lo trascinò dunque nei suoi vortici spumosi, e larve luminose o maligne gli si alternarono nella mente, in un gioco privo di senso.

Un canto si librava sotto le oscure volte.
Di chi mai la voce così melodiosamente si liberava nello spazio stellato ? Aprì la finestra. Ascendeva maestosamente nell’atmosfera tinta di un azzurro cupo e carica di umidore notturno e volteggiava per una via ignota. Strane fantasie sorgevano in lui.
Era con lei sulla riva del mare.
La brezza le animava i capelli che respiravano i vividi raggi. Gli occhi erano lo specchio profondo della distesa delle acque celesti e luminose nel mattino. In essi lo sguardo si smarriva come a cercarne l’orizzonte.
Ella l’osservava misteriosamente, senza parola.
Ma egli la ricambiò con un’occhiata d’odio troppo a lungo represso. In quali contrade voleva condurlo, ch’egli non avesse già percorso ? O quali conoscenze poteva comunicare questo essere affascinante, ma pur sempre limitato dai vincoli del corpo, bello d’una bellezza che aveva già ammirato nell’animo e nella mente e dotato d’attrattive assai inferiori a quelle che avevano ammaliato i suoi sogni ?
Provò il desiderio d’ingannarla, di violarla, di soffocarla col rancore della delusione, ma non poté che continuare a guardarla, costernato.
Ella era davanti a lui, impassibile, indifferente. Se fosse stata una statua o un blocco di pietra non avrebbe fatto diverso effetto.
Gli occhi, profondi e immutabili, l’osservavano senza emozione. Senza comprensione alcuna non mirava ella che un’immagine riflessa nelle sue pupille.
Una fusione delicata, diafana, d’ombra viola ed azzurra il vespero le pingeva sull’epidermide delle palpebre, negli occhi s’illuminava l’iride lionata degli angeli notturni.
Al chiarore lunare, nella landa solitaria estesa come un mare, si disegnava la sagoma nera degli alberi in un alone giallastro, evanescente. Si protendevano i rami cinerei nell’ansito greve, nel silenzio che li mordeva gelido.
Una candida figura era ella, indifesa e smarrita nel labirinto, dove di ululati si dilania la solitudine.
Ah, i polmoni bruciano, le tempie battono, la notte precipita negli occhi come un sole !
La luna purpurea ritagliava ombre entro la sua lucentezza per i canneti agitati, cadendo nell’acqua come un serpente dalle scaglie vitree.
Ella vide la sua immagine riflessa nello specchio mormorante.
Non era ella un mistero ? La sua immagine si confondeva con quella di lui, che le stava innanzi, estatico. Quasi la luce lunare l’avvolgesse tutta, la penetrasse, appariva trasparente, come un fantasma.
Nel turbine dei ricordi si confondeva ormai ogni visione. S’increspava al vento del mattino la superficie delle acque. Le anatre svolazzavano intorno alla foce del fiume.
Ella svaniva ai primi raggi dell’alba, e ogni speranza si dileguava per sempre.

sabato 22 novembre 2014

Misandra, cap. 16




In alto commosso dal respiro insolito dell’aria e dalla libera visione dell’orizzonte, ristette come stupito. Le nubi erano al di sotto dei suoi piedi. Le Alpi rocciose e innevate, per le quali il feroce nemico del popolo romano osò aprirsi il varco, coronavano la volta celeste, dove le nuvole galleggiavano, strane, multiformi, candide navi.
Lentamente scese dalla vetta, mentre i suoi pensieri, le sue immaginazioni vagavano intorno a lui per l’ampio cielo azzurro. Quando infine si volse a mirare l’alta montagna, la mole gli apparve stagliarsi sul fondo infinito, isolata tra i nembi, quasi potesse cingerla in un istante con la mano, così piccola innanzi alla vastità della mente umana.
Lo spirito è un’isola eterna. Il mare mutevole, che si agita intorno a noi e che noi osserviamo con sguardo intimorito o ammaliato, è la nostra stessa esistenza. Esso si muove instancabilmente e si abbatte contro la nostra riva con furia rinnovata, certo di trovarla sempre innanzi a sé, come l’indispensabile meta dell’incessante suo movimento.
Rapidamente giunse al limitare della foresta. E vide un mare crestato di spume vittoriose, fremente dorso azzurro oltre le colonne dei pini. Udiva il fragore delle ondate ed alzava lo sguardo alle branche frondose e ondeggianti. La luce penetrava come per le vetrate d’un duomo.
Ascoltava. Una comunione di aneliti, un ansimo profondo, una sinfonia aliava scaturendo dai ceppi quasi da un organo sotterraneo. I grandi alberi protendevano i robusti rami invasi come vele sulle acque dal querulo murmure del vento. Il sibilo lo colpiva quale per frante velature nella tempesta assale i marinai l’ansia della fine. Egli avvertiva prorompere dalla terra il grande gemito.
Squillò un fulmine sul mare risonante. E si precipitava la massa tumultuante e fosca come un’immensa schiera di cavalli armata corrente sovra la pianura, minacciosa, sollevando nugoli di polvere nera.
Calò il manto sulla volta del cielo e la pioggia fitta iniziò a dardeggiare il bosco, prono sui fianchi della montagna.
Egli vide lontano la sagoma chiara della villa. Splendeva stranamente tra la vegetazione degli eucalipti e dei cipressi che le stavano a rispettosa distanza, timorosi e inclinati dalla procella.
La luce del sole morente per puro caso imbattendosi in quelle mura sembrava tutta assorbita da esse, poi che nell’ombra della sera tempestosa era l’unica casa a risaltare, insieme ai lampi.
Non fuggì la tempesta, ma, trovato riparo sotto la roccia sporgente, se ne stette fermo a contemplare, inebriato dal furore di tutti gli elementi naturali, sferzati dal tirso di Bacco.
E in accordo col crescere della tempesta cresceva in lui il furore, egli partecipava dei fenomeni di natura come propri della sua anima, così che quasi poteva credere fosse invece la natura ad essere influenzata dai moti occulti dell’anima sua.
Egli anelava a oltrepassare se stesso, ad annientarsi fondendosi in un unico essere con la tempesta devastatrice. La sua volontà era la medesima. Era quella che suscitava il turbine e scagliava la saetta, quella che mormoreggiava sinistra nel tuono, quella che prostrava i cespugli e inchinava gli alti alberi.
La sentiva dentro di sé, terribile, salire tumultuosamente dall’abisso del suo spirito, dalle profondità dell’inferno, una potenza superiore al suo stesso essere, ch’era in lui prima sopita in un letargo misterioso e ora, destatasi, rompeva furiosamente ogni vincolo e si svelava una mènade in una danza omicida.


E, quando fu di nuovo alla villa, vide nel giardino la bionda fanciulla, pallida trascorrente sul prato come una ninfa piccola, esangue. La luce tenue della sera le accarezzava i lunghi capelli ondeggianti alla brezza nella corsa. Correva dunque, sembrava impaurita.
La selva era intorno, del parco. Alta era, oscura, mormorante al respiro profondo degli alberi grevi.
Mauro aspirò l’aria umida ch’esalava dalle foglie cadute, dai cespugli, dal fitto fogliame. Ne fu quasi stordito e sostò un attimo, in raccoglimento. Ebbe la sensazione che in lui trascorresse una musica lontana, dalle remote regioni del passato, ondeggiante nella memoria, colma di mille impressioni e desideri. Ah, la vita irraggiungibile ! Vissuta realmente solo nel ricordo ! Così il pensiero lo pervadeva istantaneamente, inconscio. Egli s’arrestava muto, chiuso nel colloquio con se stesso, incantato da un’immagine forte e fragile come il riverbero d’un raggio di sole. Allora gli pareva di vivere davvero, quando ricordava.
E allora si diresse nella sua stanza ed aperto un cassetto della scrivania, che era posta innanzi alla finestra a sinistra d’un grande armadio, estrasse un manoscritto e vi appose altri pensieri.
Immaginava d’essere proprio in quella stanza. La camera era in penombra, le pareti ingombre di scaffali e di libri, l’aria stantìa. Apriva perciò la finestra e guardava. Vedeva in lontananza una distesa di colline e di boschi dove la luce dilagava, allora usciva dalla casa e, mentre stava chiudendo il portone, scorgeva una fanciulla che trascorreva leggiadra e aveva i capelli quali messi ondose e biondi come i grappoli colmi dei doni solari. Ella sorrideva e passava.
S’incamminava per il sentiero che portava alla montagna. Proprio di fronte ai monti s’estendeva il mare incanutito dai venti autunnali.
Le foglie degli ulivi tremolavano, e mentre procedeva inoltrandosi nel bosco udiva il fruscìo e il vasto respiro dei castagni e dei pini. Il concerto degli uccelli e delle rondini che s’adunavano, e il gracchiare dei gabbiani che volteggiavano verso terra, lo spingeva a levare il capo di tratto in tratto e ad osservare il lento mutare delle nubi.
Sopra il mare il sole sorgeva in un rogo rosso e imporporava le onde riversandosi irrompente, quasi da vena copiosa una improvvisa scaturigine.
L’aria era frizzante e pura e il sangue pareva purificarsi ad ogni passo e le membra divenivano agili e vive al pari degli animali che corrono e guizzano per le selve. Le foglie iniziavano appena a cadere e a tappezzare qua e là il sentiero e il sottobosco, umido di rugiada. I raggi illuminavano i tronchi dei pini e le branche dei castagni, accendendo i muschi, che li maculavano d’un verde smeraldo.
Ma, ecco, proprio in fronte apparve sopra un lauro, appollaiato e immobile, un corvo, nero come una notte cieca, né accennava minimamente a prendere il volo, anzi pareva insistentemente fissarlo. I suoi occhietti maligni gli leggevano l’anima, e sembrava quasi che l’uccello mutasse il suo consueto gracchio in un riso aspro e beffardo, quando il viandante, straziato, con un gesto improvviso colse un sasso e glielo lanciò. L’alata ombra del malaugurio volò via senza suono.
Continuando nel cammino giungeva presso una sorgente. Vicino ad essa s’innalzava una piccola casupola in pietra, ormai rifugio occasionale di vagabondi. Poco discosto, il bosco di castagni offriva un’umida ombra al riposo e al sogno.




venerdì 14 novembre 2014

Misandra, cap. 15





Lo chiamavano gli alberi a sé, con voce nuova. Lo chiamavano a sé i vecchi giganti e suggerivano parole misteriose, disperse nel vento.
La voce della Natura onnipossente lo chiamava dal grembo della terra. La Madre gli ricordava che era suo, come tutte le cose e gli esseri del mondo.
Ecco, un brivido lo pervase ed egli vide sul mare il riverbero trionfante e fra il corteo di lumi eterei scorgeva assurgere tra le onde spumose gli dei, che ancora volgevano lo sguardo alla terra.
Tutte le vite si abbracciavano nel mare dell’universo. Tutte si specchiavano nel chiaro occhio del mondo, ed erano l’iride del chiaro occhio del mondo. Gli alberi, le rocce, i cespugli si stagliavano nitidi. Senza una nube il cielo abbagliava d’azzurro. Nell’immenso silenzio si celebrava il più grande trionfo.
Oh, procedere verso il sole, verso la gioia, verso la vita !
Un cantico luminoso sorgeva dai fiori di campo, dalle fronde ondose dei pini, dalle rocce solitarie, e s’innalzava sulle vallate, ad un cammino lontano, a lontani orizzonti.
Ed egli avanzò fra i ranuncoli bianchi, su per la collina. I rami dei pini ondeggiavano alla brezza con un moto lento e maestoso. Egli avanzava, inesorabile come il lento moto del tempo.
Nel folto dei lecci, nell’umida ombra, in mezzo ai tronchi cupi e ai rami nodosi avvolti di rampicanti, s’inoltrava e filtrava per le fronde in alto il pallore del giorno, coricato tra un vapore leggero. Era bello camminare così, immerso nel fogliame della foresta che respirava frusciante gli aliti tiepidi del cielo.
Placida si coricava la luce sul dorso selvoso delle colline, rilevando le zone d’ombra più umide ove crescevano i faggi ondeggianti. Si riverberava sulle rocce qua e là emerse e sparse quali specchi infranti. Si dileguava come un eco, lontano, verso lunghi ed esili fronti di nebbie.
E lontano sul mare le diafane colonne del sole occultato dal nembo silenti posavano scanalate ed olimpiche. Il tempio di Zeus s’ergeva maestoso e solenne sopra le infinite distese glauche, in attesa di nuove offerte e di nuove preghiere.
Ma non era sufficiente la solitudine intorno, dovevano scomparire i tumulti e le turbe interne, doveva sopravvenire la pace dell’anima silenziosa, per acuire e purificare gli occhi alla luce. E doveva sorgere dall’oceano il Sole maestoso, e l’igneo cocchio trainato dai cavalli ardenti percorrere vibrante la volta eterea e in alto irradiare, il vivificante Elios, dal suo trono possente.
Così era infatti ogni giorno, poi che ogni giorno era concesso.
E ricordava le magiche parole : “ Tu che dal limo emergesti, che su nave navighi, che nelle singole ore forma muti, e nei singoli di Zodiaco segni commuti. “
Sull’infinito dorso del mare cavalcavano le onde spumose, quali equini focosi si perdevano sino all’orizzonte, ove la luce si scomponeva in mille fasci radiosi, e là parve riflettersi, in un solo istante, l’essenza della sua vita, la speranza.
La graziosa figura di una bimbetta riposava sopra il lume dell’orizzonte, sopra il confine del mare, né le si avvicinava l’ombra del timore né senso alcuno di minaccia. E la Vita la benediceva nell’abbraccio della sua aurora, nella certezza dei giorni futuri.
Ed egli comprendeva la vanità della propria piccola esistenza e la meschinità dei desideri e delle speranze che albergano nel cuore e l’inutile affanno nel ricordo delle azioni passate, un agitarsi tormentoso destinato a svanire nel nulla.
Non era certamente quello che finora era stato. Era stato solo una maschera, uno sciocco manichino, un burattino manovrato dal suo carattere avverso. Ma una vita più profonda era in lui, una vita arcana, dolce e immutabile.
E, mentre saliva, lentamente avvertiva nascere in sé una consapevolezza nuova, un Io più grande, cui il suo corpo apparteneva insieme alla vastità del mondo.
Ascendeva all’assoluto silenzio del bosco, delle rupi sopra le quali planavano e volteggiavano i corvi. Immensa era la vastità del silenzio, non altri uomini s’aggiravano su per le pendici, ed egli rapido e ostinato ascendeva per il corpo illimitato della montagna con il suo piccolo corpo, violatore dell’immobilità, spettatore di uno spettacolo gelosamente custodito.
Intorno i rami, inumiditi dalla rugiada, gioivano in guizzi e scintillii. Colmo era il cuore di quella luce. Invaso da un sentimento nuovo, da una passione non mai provata, era spronato da un pungolo invisibile, anelava alla vetta.
Ora il dorso della montagna nascondeva il disco del sole, tornato a rifulgere, ma i dardi infallibili del Titano discendevano per la selva, un’ondata di chiarità irresistibile. Una tempesta di raggi travolgeva gli alti fusti e le fronde, forzando e abbattendo i muri delle ombre. Una musica potente si frangeva contro il suo cuore. Egli ne fu sommerso e rigenerato.
E come venne alla fine del bosco e del cammino, sulla cresta erbosa del monte, il sole immenso l’avvolse nello splendore e le giogaie e le rupi e i picchi audaci ardevano inondati di luce. E vide il baratro al di sotto e l’altezza dell’azzurro sopra di sé, e la sconfinata estensione delle catene montuose, che si perdevano a vista d’occhio sempre meno evidenti e più sfumate verso l’orizzonte.
Scorse alcuni rapaci che aliavano in larghe ruote nell’aria irradiata, dove sparse reti di nebbia svanivano lentamente.
E si smarrì il suo sguardo nella luce dell’infinito azzurro. Gli sembrò che il corpo si mutasse in un alato sfrecciante nel libero volo e le sue piume scarmigliandosi incontrassero i flutti gelidi dei venti vorticosi e le ali navigassero per sconfinati oceani di silenzio, su, sopra le nubi, verso l’occhio del Titano.




Misandra, cap. 14





L’antica selva era un colonnato di fusti imponenti che s’allontanava sulle colline d’ogni intorno, argentino, risaltando sul morbido tappeto di foglie, rossiccio come il manto della volpe. Mentre camminava, i piedi muovevano le foglie aride con un fruscio ininterrotto, echeggiante nel silenzio della navata arborea.
Il sole faceva capolino di tra le braccia imponenti tese al cielo e tremolanti nell’ansito del vento. Era il sole d’un tempo ? Sarebbe lo stesso sole dei giorni futuri ? Cosa voleva dirgli quell’occhio di fuoco ch’egli non aveva ancora compreso e forse non avrebbe compreso mai durante la vita ? Eppure in alto vorticosamente lo sguardo era trascinato da una forza misteriosa, possente, inaccessibile e nel contempo presente nell’animo, siccome fosse radicata quasi vetusta radice d’albero secolare entro e sovra la terra rocciosa.
Entro e sovra la terra rocciosa s’effondeva e s’inabissava la luce accecante dell’immenso rogo celeste che, creduto già un dio, s’assideva, inavvicinabile e terribile e pur benefico, al centro delle orbite dei pianeti. E di quella luce indispensabile la madre terra viveva, e gli uomini si chiedevano per quale volere avesse mai vinto le tenebre e a che scopo s’irradiasse per lo sconfinato spazio, così prodigamente ?
Era il desiderio della vita che lo attirava nel solco del sentiero arborato dove la luce occhieggiava giocando con le foglie ridenti carezzate dal venticello, e, discendendo per i rami e i fusti, macchiettava il soffice tappeto crepitante ? Ormai non aveva più dubbi, egli era il suo destino, egli era quelle foglie secche che calpestava noncurante, egli era quella luce che lo attirava, e, inevitabilmente, con stupore, riconosceva d’essere pure quel sole e quel fuoco, cui non si sarebbe mai potuto avvicinare senza esserne annientato.
La luce si posava sulle morbide fronde, intorno. Il vento le attraversava voluttuosamente, come una musica.
Ma lontano, sul mare si vedevano le onde incresparsi schiumanti, agitate dall’impeto di venti violenti e contrari che trascinavano con sé una estesa cortina di nubi, quasi un gregge incalzato dai cani che procede senza volontà propria.
Oscuro s’ammassava lungo l’orizzonte il cordone di nuvole e lentamente avanzava sul mare tumultuante e livido, dove non più i raggi regnavano ma come l’ombra di tristi pensieri.
Egli contemplava dall’alto della montagna per un’apertura fra i fusti ancora indorati, postosi sopra una roccia sporgente.
A destra e a sinistra declinavano i fianchi del monte e si fondevano in colline e in case bianche. Il vento recava un’illusione di brezza marina, ed egli aspirava pienamente l’aria fresca. Stava così, rivolto verso il turbine sovrastante le acque violacee, il cumulo di nembi cinto di foschi fuochi.
Il sole, innanzi alla minaccia, pareva fuggire nascondendosi nella dimora d’occidente, ma la sua fiamma viva abbracciava la montagna.
Mentre il vento lo colpiva in volto osservava estatico il fremere delle fronde rabbrividenti in un unico grido, e più lontano udiva l’eco del mare mormorante pervaso d’impeti criniti e di furiosi galoppi.
E avvolto dal vento, in alto, sulla vetta del monte, s’abbandonò, si lanciò nell’abbraccio del soffio marino, nell’estasi del sole ardente. Immenso il disco del sole lo accolse e il suo corpo fu consunto in un attimo, trasumanò, e la sua immagine sfolgorò in un alone di luce.
Così gli parve. Oh, se fosse accaduto! Ma certo ora il suo cuore palpitava di vita nuova, il sangue purificato scorreva.
Non più allora avvertì i raggi che lo colpivano, lo scaldavano, lo attraversavano, ma sentì chiaramente ed inspiegabilmente essere egli stesso quella luce che l’avvolgeva, che si effondeva generosamente sulla terra, che colmava le valli, che indorava le vette e che si diramava per il mare dell’universo.
Non più percepiva i limiti del corpo, non aveva più il corpo, era libero da se stesso, era in quell’attimo la stessa misteriosa, ineffabile essenza del mondo, la Vita universale, infinita.
Oh, fuggire, fuggire, via per sempre dal mondo, via da se stesso, non essere più, finalmente dissolversi nell’eterno fluire del Tutto !
Si mise a correre, impetuosamente, non sapeva dove, non voleva sapere.
Corse fino a che il respiro divenne affannoso. Fu costretto a sostare. Riprese lentamente a vagare per il bosco, simile a un’ombra errante.





martedì 11 novembre 2014

Misandra, cap. 13




Ricordava, forse, ma lontano, nell’aria azzurrina, pervasa di una luce stanca, tra cupoverdi colline di pini e castagni, le casupole di pietra sparse sui crinali, umide di pioggia autunnale, e in fondo il manto del mare argenteo. Un sogno appariva e si dileguava costantemente. Un desiderio profondo, una nostalgia di svanire, di fluire per tutti i ruscelli sino alla vasta piana d’acque canore, come un uccello di fiume, come un ampio chiaro gabbiano volteggiante sui flutti canuti. Avesse potuto assimigliarsi, unirsi a quel sogno! Eppure un giorno lo avrebbe atteso con gioia l’ansia dell’aurora, e il nuovo sole sarebbe asceso nel cielo fervido di nubi rosseggianti, tra il coro dell’onde e lo spiro infinito dei venti.
Come nell’ascesa dei raggi dell’alba, il sogno lo trasportava lassù, sui monti, in verdi valli ove la luce vibrava chiara sulle correnti e sopra il risuono costante dell’acque dalle alte rupi. Nel vasto respiro dei boschi e il vociare spensierato degli uccelli, scorgeva da lontano le casupole sparse dei mandriani e ignote figure lente, avviantesi su per il pendio, forse rivelando tra l’ombra delle fronde e gli spazi assolati un eco fluido di chiome.
Sentiva salire dalla terra l’essenza profumata della rugiada, su dall’erba verde, dai ciottoli umidi, dall’intrico dei rovi.
Il vagito delle greggi sulle pendici delle giogaie e il prolungato sufolare dei pastori ondeggiava nell’aria e si sperdeva rapito dalla brezza. Sopra di lui respiravano i pioppi, e scorgeva i sassi brillanti tra il mormorio del ruscello, e il canto degli alati accoglieva gioioso la luce del mattino.
Le nuvole si disperdevano in opposte schiere, ancora grigie e pure variamente intinte in un chiarore roseo, e si aprivano nella vastità del cielo sconfinato, come un ventaglio il cui semicerchio non trovasse mai il suo angolo piatto. S’allontanavano nell’infinito, mentre il sole sorgeva in mezzo ad esse quale un dio nel trionfo della sua nascita fra cortei di minori spiriti.
Ed egli ascendeva per il sentiero, contemplando il risveglio della Vita universale.
Essa si ridestava dopo il sonno, nelle membra rinascendo, rinnovando le fibre come una pianta permeata di linfa fresca, che genera foglie nuove e abbraccia coi rami i raggi vitali. La Vita intorno a lui nasceva, dopo la morte del giorno, in un altro giorno colmo di nascite e di morti, pullulante di esseri la cui esistenza era scandita sul ritmo di quella Vita più grande, misteriosa e onnipotente.
Aveva la sensazione di percepire un brusio in ogni cespuglio e un cinguettio in ogni albero, e rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre assolate in un sibilo minaccioso. E questi stridii e lavorii sommessi e canti e voci e fragori si accordavano e si mescevano in un rombo simile a tuono, che echeggiava sotto la volta del cielo quasi nella cavea d’un immenso teatro, perdendosi nello spazio, smarrendosi come il vociare indecifrabile d’un folle, sino a polverizzarsi nell’infinito silenzio.
E in sogno fu ai piedi delle montagne bianche, sopra le quali volitavano fragili veli di nebbia, dalle quali era riflesso il bagliore solare. E guardò, mentre il vento inchinava gli alti abeti.
Scorse un villaggio alpino.
Il sole sorgeva dalle montagne, che piano piano si rivestivano di verde. Un flauto suonava nel villaggio, che si destava al nuovo giorno e alle rinnovate fatiche. I buoi, trainando un carro dalle ruote piene, si dirigevano pungolati ai campi e ai meleti; ai confini dei terreni incombevano smisurati i monti rocciosi, d’una tonalità grigiorossastra.
Il fiume scorreva limpido, nascendo dai vicini ghiacciai, e si tuffava da strapiombi entro i quali muggiva formando a volte piccoli laghi in cui l’acqua verde azzurra, gelida, non lasciava gli sguardi penetrare sino al fondo. Le sue correnti mormoravano tra gli abeti presso una casa fondata sulla rupe, una casa di pietra e legno, dal tetto aguzzo e dalle minute finestre lavorate e dipinte.
Da una di queste s’affacciava un giovane che respirava l’aria frizzante e sognava ancora allo scorgere filamenti di nubi rosate nel cielo cristallino, che si dissolvevano in vortici aerei.
Mentre così era rapito nelle fantasticherie e in un ozio beato, udì un canto dall’altra riva del fiume, tra i fusti degli abeti dalla soffice fronda, e vide una fanciulla che trascorreva quale vera immagine di sogno.
Era una ragazza di umile aspetto, che reggeva un canestro di fiori e di erbe, ed era bionda. E come s’accorse d’essere osservata, si volse e gli sorrise un poco. Allora il giovane non si mosse fino a che non l’ebbe veduta scomparire nel folto della foresta.
Gli alati cinguettavano tra lo stormire dell’alto fogliame dei larici, e il giovane uscì dalla casa nella luce novella.
L’acqua scorreva tra gli scogli spumosa e garrula in ripetuti giri, ed egli passò il ponticello di tronchi e subito fu sulla sponda opposta. Camminava senza una meta, attratto dalla vita della selva dove filtravano flussi di luce più o meno intensi e s’alternavano a zone d’ombra, come in un tempio.
E prese il sentiero della montagna. Gli pareva udire una voce muliebre cantare a distanza, e gli sembrava che la voce vibrasse entro i tronchi e i rami, per tutta la boscaglia echeggiando. E pensava fosse la voce delle foglie cadute, che calpestava, e la voce delle foglie oscillanti sulle branche, e delle trame arboree che s’incupolavano sopra di lui. Proseguiva il cammino insieme al sole, e ascendeva di pietra in pietra in ventosi canaloni fra le ardue rupi, per cui sibilavano i soffi delle alture.
Man mano ch’egli s’avvicinava al mondo degli dei lo catturava un’inquietudine, un senso angoscioso d’incompiutezza, quasi che la solarità del mattino non fosse abbastanza vivida sì da avvolgerlo in un turbine di luce e trasumanarlo. Quale ansia lo spronava così da presso come una minacciosa necessità ? Quali sogni avevano sconvolto la sua mente ? Gli sembrava davvero che la memoria fosse un baratro da cui risalivano insieme alle correnti aeree le ombre del passato e i fantasmi della fantasia.
Allora ebbe paura di se stesso. Si sentì stranamente simile a un dio.
Un corvo lo guidò nel volo sonoro ad una fonte riparata dai pini. Una fonte che balbava tra pietruzze canute dell’età di millennii.
Bevve nel cavo della mano. E poi che si fu accucciato sotto un pino generoso, il sonno gli chiuse le palpebre.




Misandra, cap. 12




La Volontà era il fremito del tuono e il baluginare dei fulmini. La minaccia, che scaturisce dalle profondità del cielo e dalle viscere della terra, planava come un rapace nero nel vento freddo sopra le valli, e a Mauro sembrava d’esserne annientato e che folgorato si disperdesse crepitando in cenere accesa. Lo sguardo pallido dell’uomo si volgeva al cielo. Nella notte il suo capo si sollevava appena dalla terra, in alto il lampeggiare d’una parola terribile segnava forse la condanna senza appello. “ Se sono tuo figlio, perché mi hai consegnato alla disperazione ? ”
Un’informe testa di toro s’alzava dalla bruma fangosa sotto il bagliore sinistro, mentre il sole scardinava i cancelli dell’oceano e fugava imperioso le schiere impaurite delle tenebre. E pur se l’aurora annunciava la fine del temporale notturno e la vita degli uomini si ridestava alle cure consuete, egli pensava all’esistenza volgare e alla propria morte, inevitabile. E pensava di essere già morto. Ora, che differenza avrebbe fatto ? Non siamo forse tutti già morti ? Il nostro languido soffrire e traballar sognante attraverso le quattro età della vita, invasi da immagini triviali, segna un percorso ben strano che non conduce da nessuna parte, infine ci dileguiamo come foglie secche, e la polvere il vento trascina via. Gli uomini somigliano davvero a orologi che caricati procedono senza sapere perché e nel moto circolare ripetono costantemente le stesse ore, giorno dopo giorno, e pare che avanzino sempre nel nostro futuro, mentre irrimediabilmente tornano sempre al punto di partenza.
La vita scorreva, oh quanto desiderava che passasse, che tutto finisse ! La vita ha questa legge inesorabile, scorre, scorre all’infinito. Trascorriamo allora, lasciamoci trasportare dalla corrente. Dovunque andremo saremo al punto di partenza e, probabilmente, morendo saremo sul punto di nascere.
Come dunque la vita imponeva la sua eterna condanna, egli si levò, si vestì e uscì nel giardino, umido e rosato, e respirò l’aria fresca del nuovo giorno.
E mentre si voltava verso la porta, scorse sui gradini del colonnato che reggeva l’ampia terrazza superiore, una bambola, i cui lustrini splendevano e i crini biondi parevano invitare a gara i vividi raggi a celebrare una festa.
Incuriosito s’avvicinò e con sorpresa notò che aveva il vestitino insanguinato, che certo non poteva essere altro quella gran macchia porporina, dai grumi scuri, il cui odore non era di vernice.
Ma, preso da un timore superstizioso e quasi reverenziale, non prese l’oggetto in mano, anzi se ne allontanò subito.
Rientrando, mentre camminava lungo un corridoio, vide all’improvviso, sopra l’entrata d’una stanza mai visitata, un quadro dalla cornice imbrunita dal tempo, il cui soggetto rappresentava un tramonto estivo sopra una valle amena. Tra gli alberi i raggi del giorno morente giocavano i loro ultimi giochi con le fronde esili ma di color bronzeo, le montagne rivelavano le cime argentee, parendo emergere da un mare d’ombra.
Nella valle scorreva un ruscello sulle cui rive due fanciulle scherzavano fra loro amabilmente, i loro visetti ridenti raccoglievano tutta l’armonia d’un pomeriggio quieto e sereno. Poco lontano da loro, ma non visto, dietro una grande quercia stava un pastore e rivolgeva a loro lo sguardo, pieno di curiosità, il suo volto tradiva una strana espressione, che dapprima si sarebbe potuta interpretare come un sorriso di compiacimento, ma, facendo più attenzione, vi si poteva cogliere una sfumatura di concupiscenza.
Turbato, si diresse verso la sua stanza, per prepararsi a una passeggiata nell’aria ancora fresca del mattino.
Quando uscì, l’accolse la luce inebriante del giorno ed egli s’incamminò senza una meta precisa verso la montagna che sovrastava il paese.



sabato 8 novembre 2014

Misandra, cap. 11

Un cigno scivolava sulle acque plumbee. Nell’oscurità risaltava la sagoma bianca, alla luce della luna. Così scivolava la sua immaginazione per le remote contrade del desiderio. Sognava un mondo di sogni, come sempre.
Coricato sul letto, era avvolto da un alone misterioso, un velo, una nebbia bianca e splendente. Era già pronto per il lungo viaggio ?
Come al solito non si rivelava pienamente a se stesso. Rimaneva incompiuto e attendeva sempre che un evento esterno, una forza estranea gli rivelasse un aspetto del suo spirito che fino ad allora egli aveva ignorato. Era mentalmente pigro, come un ciottolo giacente sul fondo del ruscello che può smuovere soltanto il maggiore impeto della corrente, così era, un essere inerte ma sempre mutevole.
Occasionali compagnie, amici d’un giorno o poco più, negli anni giovanili avevano un poco smosso quel sasso. Ora, avendo appreso chi era, anche in parte, considerava se stesso con stupore. Non era certamente come gli altri, ma apparteneva, per così dire, ad una razza diversa.
La vita lo chiamava, insistentemente, prepotentemente.
Si sentiva ordinato a un nuovo sacerdozio, a una consacrazione quale mai prima i devoti del suo paese avevano concepito, o della quale, se mai vi avessero pensato, non potevano che avere un’idea vaga e terribile.
Sulla spiaggia correva il suo spirito, incessante. Più antico della sua vita, carico degli anni di molte generazioni, lieve perché sempre rinato, come un corsiero anelava ad orizzonti di promesse, a sogni che si perdevano in ogni lontano tramonto.
Avanzava entro foreste millenarie, ansava su per i dorsi dei colli verso le ampie giogaie montuose. Quale corsiero, sentiva pulsare più forte il cuore. Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al suolo aspro e roccioso di quelle alte montagne, dove s’udiva soltanto il vasto respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano dall’inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E infine, stanco della corsa, si arrestò presso il tronco d’un alto larice. E all’ombra dell’essere silvano riposando, s’addormentò e di nuovo continuò a correre tra nuovi sogni. E vide una figura di donna che fuggiva, e aveva occhi cupi come abissi, e fuggiva verso un tormento di grida. Avvolta in un manto nero si fondeva con la tenebra d’una valle notturna cinta di rupi. I capelli brillavano al lume della luna, che pareva tingersi di una tinta sanguigna.
Ella incedeva tra grandiosi ruderi d’un antico tempio, le cui mura ed arcate erano rivestite d’un intrico di piante rampicanti e parassite, e di edere che tremolavano alla brezza. Alte, massicce, imponenti le rovine ricevevano sull’ampio dorso i raggi torbidi e prolungavano l’ombra cieca nella violacea penombra.
I suoi occhi, volgendosi al tempio, riverberarono lo scintillio di molteplici fuochi, che roteavano entro le volte risonanti di soffocati stridori. Mentre avanzava, un esercito innumerevole di ignobili forme la circondò, gorgogliando insieme ai rospi della vicina palude una sorta d’inno incomprensibile che s’alzava al cielo come il borbottio di mille pignatte ribollenti.
Come entrò nella navata, echeggiò il murmure marino. Le parve che ogni altare brulicasse di devoti sacrificanti. Il fumo acre dei sacrifici, misto ai vapori dell’incenso, vagava quale nebula per la cavità innervata di colonne e d’archi a ogiva, che scandivano l’ampio spazio prolungantesi verso l’abside. Su ogni altare ogni dolce passione si dissanguava in un bacile bianco coi polsi offerti ai volti immoti di remote divinità troppo a lungo ignorate. Una nenia sussurrata e soffocata si perdeva al di sotto degli architravi.
Talvolta s’intravvedeva il bagliore della lama in mano al sacerdote, che calava fulminea sulle carni deboli di qualche vittima sventurata, inconsapevole. Allora s’avvertiva un gemito sordo, assorbito dalla terra.
In fondo, dietro la balaustra di porfido, scintillava d’oro e di gemme un trono. Una donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e dalla copiosa chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo lucente di smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di preziosi le posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e di rubini le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui fianchi da due lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale sedeva, levato sopra la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La bocca era lievemente improntata a un sorriso, che non era di comprensione o di amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. Gli occhi grigi erano profondi e freddi come la calma dei mari settentrionali pervasi dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto segreto dell’amore.

Il desiderio lo colse improvviso, inevitabile, irreprimibile. Sentiva il proprio corpo avvolto da una spirale di voluttà di cui era totalmente prigioniero. Era impossibile sottrarsi. L’idolo vagava per la stanza e per i meandri della sua mente. Quell’immagine era ormai dappertutto.
Destatosi, anelante, s’affacciò alla finestra, l’aperse e, nella notte, guardò verso l’altra finestra, ancora illuminata, di Misandra.
La camera era a lato del chiostro, di fronte proprio alla sua.
Non vide nulla, neppure un’ombra. Allora immaginò di vederla, e gliela dipinse vivamente la lussuria, mentre adagiata sul letto lo invitava tra le braccia.
Ed egli si saziava del suo corpo, ammaliato, stordito, ebbro. I suoi occhi non vedevano se non gli occhi di lei che lo fissavano, e le membra di lei palpitanti, bianche e rosee, e i lunghi capelli sciolti sul dorso e nell’ombra intorno.
Gli occhi profondi e verdi inghiottivano la sua coscienza come abissi marini.
Le spire del piacere lo conducevano, lo traevano giù. Egli ansimando effondeva le proprie forze con uno spasimo.
Ed ella lo accoglieva. Le braccia lo cingevano strettamente, si avvinghiava a lui, lo tratteneva, lo vincolava, lo possedeva.
Sentendosi soffocare, Mauro dischiuse le palpebre che l’immaginazione aveva catturato, e si meravigliò del silenzio e del vuoto. Non un alito di vento nella notte, non rumori di servi, non lamenti d’animali, lontano, nella boscaglia.
Ma, nella boscaglia, la luce della luna giocava coi rami torti e silenti, lunghe nodose braccia che si tendevano nell’oscuro ansimo dell’ora. Corpi nella notte s’avvinghiavano, si torcevano, si fondevano nell’abbraccio e apparivano in barlumi improvvisi, madidi e lucenti e misteriosi come palpiti di fiamma nel cuore della tenebra.



mercoledì 5 novembre 2014

Misandra, cap. 10

Come si destò dal lungo sogno, gli parve che dovesse essere ormai notte. Ma il sole era ancora alto nel cielo.
Si trovava sulla spiaggia, oppresso dalla calura.
Si mosse e s’avviò per tornare alla villa e, mentre era in cammino, incontrò nuovamente la fanciulla di prima, questa volta di fronte a lui, e i suoi capelli bruni mossi dalla brezza le ricadevano come arabeschi sulle spalle morbide e bianche.
Nei suoi occhi vide il riflesso dei laghi alpini dove si specchia il sole, e un fremito di esultanza lo pervase come il vento un abete sui monti.
E la disperazione del desiderio lo catturò crudelmente senza scampo. Era la tempesta che scendeva con fragore dalle vette sino alla valle, giù turbinando per le pietraie, levando nugoli di terra arida, con un rombo per le gole fra le rocce echeggianti. Un tuono, un urlo terribile prorompeva fra le ardenti giogaie frustate dai fulmini. Sentiva in sé allora il tormento dei desideri e della volontà, la tempesta senza fine delle passioni, la tortura della vita.
Gli parve che anch’ella lo guardasse. S’infiammarono le guance e il pallore subitaneo mise in fuga il rossore. Il viso le s’irrigidì, concitato dall’ira. “ Dove mai la sanguinaria mènade è precipitata dall’amore spietato ? Qui e là dirige il passo, come una tigre orba dei nati con corsa furente percorre la foresta intorno al Gange. Non sa frenare l’ira, non sa por fine agli amori; ora ira ed amore han fatto causa comune : quale sarà l’effetto ? “
Proseguì dunque con l’amarezza nel cuore attraverso le alte palme ondeggianti al soffio dello scirocco.
Lunghi cespugli di rosmarino profumavano l’aria, alberelli di iucca innalzavano ancora tra le lunghe foglie spesse, di un verde lucido, i resti della loro bianca fioritura.
Il pomeriggio avanzava e si caricava dei cupi presagi della sera, svelati da nere nubi che facevano capolino tra i monti. Un senso di oppressione toglieva il respiro e il ricordo di dolci visioni. Ma come fu al cancello della villa, allora si dileguò per lui ogni minaccia di tenebre e un nuovo sole illuminò il suo volto, mentre il sole del giorno volgeva ormai al tramonto e copriva di un aureo velo l’edifizio e il giardino, trasfigurandoli.

Così, regina del mondo dei sogni, Misandra lo attendeva sulla soglia del suo palagio d’oro.
Come una principessa delle fiabe, vestita d’un lungo manto dei colori della primavera, ella lo attendeva sul più alto gradino dell’alta scalea.
Il vento soffiava forte sul mare e le nubi roteavano, mentre Mauro saliva timoroso e lento la gradinata, ma nel suo cuore s’agitava il turbine. E invero era immerso ormai nella corrente inestinguibile, e il suo volto si protendeva, per non più volgersi, verso colei che attendeva.
Ed ella irraggiava tutta la potenza dell’amore, più forte del tuono e del lampo. Potente regina vittoriosa, ella dominava le tempeste.
Ascendeva in vortici la musica onnipossente della natura ed empiva di sé inebriando l’ampia volta del cielo.
E gorghi e vertici e flutti dorati si tendevano con la forza d’un arco temibile a scoccare lo strale del loro immenso respiro. Viveva ogni creatura in quell’anelito, a quell’abbraccio gaudioso e ineffabile correva a dissolversi.

Così al tramonto d’oro lo accolse Misandra, e per lunghi corridoi lo condusse infine a una grande sala. I cortinaggi erano aperti e la luce rossastra illuminava le pareti. Su una di esse risaltava un grande ritratto d’epoca secentesca, il cui soggetto era un cavaliere ornato di corazza nera e lucente, avvolto in un ampio mantello purpureo. Alto, bruno, teneva la mano sinistra sul fianco e con la destra reggeva un bastone d’avorio. La spada risaltante di riflessi dorati gli stava alla sinistra, l’elsa finemente lavorata lasciava scorgere un mirabile intrico di arabeschi. Lunghi capelli neri gli cadevano sulle spalle, smossi dall’impeto della battaglia, la fronte alta e pallida rifletteva un chiarore perlaceo. Sotto le sopracciglia sottili e nere, occhi penetranti e minacciosi insidiavano qualunque sguardo con sfida beffarda e crudele, né parevano potersi eludere, ma seguivano chiunque fosse entrato nella sala. La loro tinta era indefinibile, d’un castano variabile a seconda della luce, ora chiaro, ora scuro, l’iride infatti mutava secondo i raggi, poi che il pittore l’aveva dipinta con capricciose sfumature. Le fattezze del volto erano nobili e ferme, le labbra rosse.
Misandra si fermò innanzi al quadro, né parve più accorgersi del suo ospite. Mauro perciò ebbe fretta d’allontanarsi e si diresse verso la porta, ma, colto da un moto di curiosità irresistibile, si fermò sulla soglia e stette a guardare.
Il dipinto non si trovava a grande altezza dal suolo, ma al livello più o meno di chi lo ammirasse, Misandra gli si avvicinò affascinata e senza alcuna esitazione, quasi fosse ormai un’abitudine, lo baciò sulla bocca. Quindi si ritrasse inebriata e come avesse perduto il senso del tempo e del luogo in cui era.
Perplesso, Mauro si ritirò rapidamente e raggiunse la propria stanza.
Nella camera era posto un grande armadio a specchio. Non poté fare a meno di guardare e vide la sua immagine riflessa, ma stentò a riconoscersi.
Chi era mai quell’uomo dagli occhi fissi sopra di lui, implacabili e dotati d’una straordinaria energia ? Pareva un demone appena uscito da una nube nera, circondato da un’aura di possente mistero. Lo fissava sogghignando, sarcastico e crudele, con le braccia incrociate, che sembravano dotate d’una forza immane, pronte in un balzo di belva a dilaniare.
Era proprio lui quell’individuo così terribile e minaccioso ? Ne ebbe paura. Una paura folle, senza rimedio. Quella era la vita interiore, profonda, oscura, invincibile, che gli toglieva ogni speranza, ogni illusione di equilibrio e di pace. Non voleva, non desiderava essere così. Aveva orrore di sé medesimo, della vita caotica, tumultuosa, che s’agitava entro di lui come magma pronto a esplodere, a scaturire, a distruggere. Aveva una folle paura di quella vita, ma quella vita era vera ed innegabile. Aveva paura, temeva le proprie azioni, temeva che qualcosa gli sfuggisse, lo tradisse, lo rivelasse a se stesso e agli altri. Temeva il buio della ragione. Avrebbe voluto che ogni suo atto fosse sotto il suo controllo, che ogni minimo atto fosse frutto di riflessione, di ponderazione, sino a potersi vedere, valutare, dirigere come un abile arbitro dirime e giudica o un esperto regista governa gli attori, così avrebbe desiderato osservarsi sulla scena del mondo. Ma era follia, follia per assurdo, volersi opporre alla follia stessa. Non s’accorgeva che la pazzia è il frutto di un eccesso di ragione. Ma la vita, la vita ! Questa terribile malattia !
Come avrebbe potuto affrontarla, come avrebbe potuto sostenere il peso ognora crescente dei giorni, sempre uguali, sempre diversi, e ognuno col suo costante bagaglio d’affanni, di tormenti, di delusioni ? Non aveva più forza per vivere, eppure era trascinato da un impeto oscuro, ed ella era là che lo attendeva, lo guardava e talvolta gli sorrideva. L’enigma della sua bellezza lo sconvolgeva, ah, era sempre più bella e sempre più lontana !
Ricordava brani di sogno, immagini volitanti nella mente come brandelli di fogli stracciati . Era quella che gli diceva : “ Le tue dita sembrano aghi. “ Ella gli parlava in un’ombra, entro una vasta cava ove risonava l’eco del mare.
Allora si volse e vide una navata immensa e in alto una cupola tra le nebbie dell’incenso e nel centro una gigantesca vasca marmorea ove nuotavano grandi tartarughe marine. E la donna, dagli occhi furtivi quale vigile gazzella, a lui diceva parole sommesse come onde di lago silenziose : “ Seguimi, ecco la via del serpente. “
Così disse a lui la donna e lo sedusse per la basilica immensa dove echeggiavano i canti delle acque crepuscolari. Color d’opale, uno specchio sorgeva a riflettere, occhio imperscrutabile, le alterne ombre e le onde vive.
Le ombre di mondi lontani, le ombre in lontani tramonti ove si riflettevano gli echi di cori oltremarini, le voci dei sogni d’infanzia e dei sogni mai sognati, un fluttuare impetuoso, onde di voci impetuose in vortici di luce si rifrangevano sulle coste rocciose d’isole incantate dove nell’ombra sorgevano altissimi castelli neri in fronte all’immenso tramonto. Un susurro si riversava sulle rocce d’acque lucenti e pure come voci di bimbi, i sogni mai sognati prendevano vita in un calice colmo d’incanto. Un inno s’alzava verso il cielo, un inno di luce eterna. E quel canto planava quale alato solitario sulla piana del mare, nell’alito dell’oceano s’allontanava tranquillo verso l’orizzonte, un’anima che vola verso la sua meta, verso le promesse che attendono tutte le nostre speranze.
Un’ombra si dileguava all’orizzonte, nell’abbraccio della notte, nel sogno della morte.




sabato 1 novembre 2014

Misandra, cap. 9

Al ritorno, mentre percorreva il viale, tra i fiori e le piante ombrose, vide innanzi alla porta una bambola abbandonata che lo fissava con occhi azzurri vividi e vitrei, coronata di ricci d’oro e di nastri rossi, vestita di raso verde. Come un idolo, custode del tempio, se ne stava all’entrata. E la porta, di legno scuro, pareva celare segreti e un mondo ignoto.
Ricordò che Misandra, appena uscita dal collegio, era stata affidata al conte, come appunto una bambola tolta di recente dalla vetrina d’una bottega di giocattoli, e il marito l’aveva idoleggiata e coccolata proprio come si fa d’un dono vagheggiato per lungo tempo, e gelosamente custodita. E in effetti, quasi a confermare il simbolo, la stanza prediletta da Misandra era piena di bambole, sui divani, negli armadi e sovra mensole alle pareti. E la bambola dagli occhi immobili e glaciali lo teneva alla soglia, lo impietriva come Medusa.
Come gli era impedita ormai l’entrata alla villa, Mauro decise di recarsi alla spiaggia, poi che il sole ancora tiepido si coricava mollemente sulle acque e sopra le ombrate riviere.
Quando fu alla riva udì una compagnia di fanciulle ridenti che scherzavano tra loro e la loro voce era una gioia di rondini in cielo.
S’adagiò sulla sabbia e sui ciottoli, e, nel blando tepore del tramonto, fu colto ancora da un profondo torpore simile a un sonno inquieto.
Nell’acque scorgeva il volto di mille uomini e donne, che lo miravano, inchiusi in quell’utero. Ed era un seguito di donne denudate, dai fluenti capelli neri, dal corpo pallido e saldo quasi avorio o candido marmo in cui sbocciavano le rose del grembo e neri crini velavano l’inguine. Ed ecco una donna dalla copiosa forma, dalla selvosa criniera rossa intrecciata di viole, che sorrideva ammaliante attorcendo le ciocche fulve tra le agili dita. Ecco una donna pingue, dalla capellatura adorna di preziosi, e ricca d’anelli, d’armille e di collane, dalla larga gola, dai seni flosci, dall’andatura imponente, dal cipiglio sovrano. E poi una vecchia, vizza e sul capo una trina di fili d’argento, dall’orbite incavate, dalle guance affossate, senza labbra. Una stoffa nerastra le copriva la sagoma, ma le si intravedeva un seno, un bulbo duro.
Una figura abbagliante, quale ambra irradiata, gli rivolgeva un sorriso e nel contempo si ravvolgeva nell’oscurità d’una selva buia e selvaggia, che solo un chiarore di luce aurorale timidamente violava.
Un leone gigantesco era ai suoi piedi, immerso nel sopore. Le grandi zampe giacevano immobili, soffici adornamenti in un tappeto vivente, la folta giuba si offriva come un morbido cuscino. Ella vi depose il suo candore, che tanto contrastava con l’irsuto pelo della fiera, e si addormentò, mentre la folta e lunga chioma si fondeva con la pelliccia brunastra.
Una nube fiottò da un incensiere. Una donna, vestita d’una stola bianca che le celava i piedi, si dispose poco discosto. E curiosamente lo guardava, maliziosamente, quasi che per la prima volta vedesse un uomo. Aveva un viso rotondo, le guance rosee, gli occhi neri e grandi, le sopracciglia lunate. La capellatura era raccolta e nera come la notte.
Sopra marmi puri, statuaria nella perfezione della sua nudità, una donna bellissima, dai crini crespi d’ebano, dalle ciglia ombreggiate di sopra al lungo taglio degli occhi, dal collo cinto da un colletto di triplice giro, sorreggeva con il braccio sinistro, all’altezza del capo, un pomo di bronzo, sul quale era infitta una vittoria alata, anch’essa di bronzo, che suscitava una singolare impressione, così com’era sollevata dal biancore di quella mano.
In un’altra icona, una femmina rossa, cui due bande di rubra criniera nascondevano le spalle e la parte superiore del petto, tranne le mammelle, nuda, nella mano destra una lente dal manico argenteo, lo fissava, appena svelando l’avorio dei denti tra tenui labbra avare. L’iride grigia sotto i sopraccigli era pervasa d’una luce crudele. Un pitone le vorticava intorno alle gambe.
In una seconda icona, in primo piano sovra uno sfondo d’alberi d’oro, una signora magra e leggiadra, dalla capigliatura cotonata, dalla carne delicatamente olivastra, dalle gote toccate da un soffio di rosa, socchiudeva gli occhi quasi in estasi. Le si vedevano gl’incisivi eburnei tra labbra un po’ riarse. Il collo era chiuso da un monile spesso, dorato e ingemmato, ma suggeriva il collare d’una schiava.
In un’altra icona, una dama semicurva, dalla chioma nera raccolta ma leggermente slacciata, schiudeva a metà palpebra, come una morta, l’iride castanea risaltata dall’ombretto. Un falso neo era apposto sullo zigomo sinistro. Il profilo del viso era mirabile, il naso sottile, lievemente incurvato, e un poco all’in sù sopra le narici voluttuose. Un’abbondante stoffa di tinta fosca di cenere calda, quale piumaggio di fagiano, le lasciava scoperte le coppe delle mammelle, corrette sotto da una striscia di seta. Quanto al resto, si mostravano solo le mani sottili e nervose, con i polsi inanellati, e la sinistra reggeva tra le dita attorcigliati i capelli d’un capo mozzo, dalle palpebre recluse. Alla base dell’icona era scritto : “ Giuditta “.
In un’alcova intima, tappezzata di velluto grigio piombo, impresso di fantasie verdecupo, dalla volta in lacunari, era un divano mascherato da una ricca copertura a fiorami, e sopra era una giovane dall’opulenta chioma, scriminata e rattenuta da fermagli in figura di conchiglia. Aveva orecchini di corallo che assorbivano l’incarnato delle labbra, collegate al naso breve da un breve solco. Gli occhi, grandi e grigioverdi, risaltavano sotto morbide ciglia non lunghe, com’è proprio del tipo biondo, e sotto una fronte seminascosta dalla fronda castana. Tra le spalle e il collo delicato, una lunga collana di coralli rifletteva il fascino dei labbri, posando sopra una pelle luminosa che s’alimentava del calore di quella chioma. Una veste, che pareva aver colore dal corpo che ospitava, se ne allontanava in doviziose pieghe ed enfiature eleganti, le maniche erano strette all’omero da un nastro, sul quale erano fiori di stoffa dal pistillo rosa e dai petali color seppia. Il tessuto era disegnato di larghe foglie di piante ignote che rifrangevano nel loro smalto la malìa di quel viso fatato e di quella fronda prodigiosa. Da esso uscivano tenui dita, l’una inanellata d’una pietra cinerea, l’altra d’un castone di rubini splendenti.
Gli pareva così di posare tra fiori rossi, immerso in una trama di steli, di respirarne il profumo e sognare.
Sotto i raggi filtrati fra i rami fronzuti s’estendevano tappeti di fiori rossi, papaveri forse o tulipani, tappeti di fiori purpurei o color ciclamino, dovunque variamente sfumati alla luce sinuosa. Attraversava la foresta dagli alti tronchi bruni, e, tra le sagome degli abeti avvolti dalla nebbia, saliva alla vetta, verso i bianchi ghiacciai. Le nebbie si diradavano e appariva l’immenso dorso irto d’abeti lucenti, e udiva il canto dei ruscelli perdersi nell’infinito sogno. Tra le gore limpida luceva l’acqua gorgogliante, e, in alto, le nubi rade transitavano, passeggere curiose, e svanivano. Scendeva al sentiero variamente maculato d’ombre e di luci, poi passava per un boschetto di querce frondeggianti, e divagava di via in via, ora dirigendosi verso la valle, ora risalendo, ora soffermandosi a mirare il paesaggio, ora affrettando il passo. Nel silenzio si estendevano le catene dei monti, sopra le nubi, nell’aria più pura d’un cielo sopra il cielo. Erano veramente la dimora degli dei ? A che altro era nato se non che ad innalzare l’anima a quel cielo puro e azzurro, in una solitudine inviolabile ?
E intorno, sul bosco schiarito dal pallore di migliaia di anemoni, soffiavano i venti gelidi dell’inverno sopra i rami agitati dagli sbuffi, e la corrente carpiva il sentore dei narcisi, che flettevano il capo quasi tenere fanciulle etiche, minate dal freddo mortale. Procedeva allora nella foresta, alla deriva come un’imbarcazione liberata dall’ormeggio, fino a che, colpito dal colore giallo vivace dei gelsomini, s’arrestò innanzi a un casolare di pietra, che n’era adorno.
S’appoggiò al tronco d’un giovane pino che fremeva al vento come dotato di vita animale, mentre il sole illuminava la casupola, ricoperta di un mantello di muschio. Nel cielo una solitaria nube nera s’elevava come una torre in fronte al sole possente. La massa grigia s’attenuava e svaporava in alto in un baratro di luce ignota. Quali mondi s’estendevano al di là di quelle mura ? Forse i sogni negati alla giovinezza, liberati dall’incantesimo dell’esistenza, s’avvicendavano in un incessante prodigio. Sciolti i legami della misera vita, egli avrebbe potuto laggiù esplicare l’infinito potere dell’animo e della fantasia senza confini.
Sin dalla prima giovinezza il suo spirito non camminava insieme alle anime degli uomini, né guardava sopra la terra con umani occhi, la sete della loro ambizione non era la sua, né lo era lo scopo della loro esistenza. Le sue gioie, i suoi dolori lo rendevano uno straniero, egli non aveva simpatia per la carne umana, la sua gioia vera era nella natura selvaggia, nel respiro dell’aria aspra delle vette innevate, dove neppure gli uccelli hanno il nido e donde soltanto scaturiscono dalla loro culla i getti dorati delle sorgenti, precipitandosi in luminose cascate nell’aria frizzante del mattino.
Era dentro di lui una forza misteriosa che lo spingeva a procedere nell’oscurità, nel deserto dell’esistenza, senza una ragione, senza un qualsiasi fine, senza alcuna gioia.
Sul suo volto si scorgevano ormai i segni del male. I suoi occhi erano colmi di una febbre velata a tratti da ombre di quiete che pareva spegnerli per poi accenderli di una acuta ansia, di un sorriso talvolta, freddo come un ghigno.
Egli era un essere solitario, isolato, oscuro, immerso in un sogno d’odio, d’orgoglio inappagato, in un esilio disumano.
Le teorie delle regine maledette lo circuivano dietro le lusinghe del serpente, chimere mortali, terribili, delle acque insondabili, degli spazi inviolati, delle ombre e dei sogni, che coprono con le loro volute insidiose il fondo della nostra vita, del Mistero.
E il Mistero si rivelava dopo i primi smarrimenti. Egli era consapevole ormai che, oltre le immagini ingannevoli che parevano deviarlo per la via della vita, una irresistibile forza agiva in lui come un destino.
E quella forza era lui stesso, nella violenta volontà di essere se stesso, nella brama di vivere la sua vita, specchio di se stesso.
Sentiva la propria solitudine e l’esclusione da un mondo cui non apparteneva.
Si volse a contemplare da lontano la piana delle correnti cerulee. La sua pupilla si perdette in orizzonti sconosciuti, per i quali aveva osato il viaggio nella stagione della sua primavera, isole immense trionfanti di intrichi selvosi e di labirinti turriti e d’arditi archi su vertiginosi baratri.
Ove aveva corso coi centauri sulla riva del mare mugghiante e al vento acre, ove aveva assistito alla furia dell’eroe contro lo Scamandro, o al volo dei corvi di Odin, gracchianti tra le nubi porfiree nei tramonti boreali, o al tuono e agl’inni tenebrosi delle vergini guerriere, ascese nel turbine della tempesta, laggiù voleva tornare.
Un alone violaceo lo cinse, poi che il sole all’orizzonte declinava dietro un velo di amaranto. I gabbiani volteggiavano fra i vapori nell’indaco della veste ombrosa.
Sopra la collina, che invadeva le onde come un’immensa testuggine, era un fiore bianco.
Presto un agile centauro dalla chioma fluida che si smarriva nel vello bruno del petto e gli inondava le spalle, una virente criniera lungo il dorso arcuato, balzò sino alla cima, rotando la coda come un flagello. Sorreggeva col braccio destro un corpo pallido, esangue, sul quale s’allungava un manto verde lucente, quali sono le sponde delle fonti nei campi solitari, ove cresce l’agnocasto e il lauro, e sull’orlo del manto una lista scarlatta di crisantemi declinava per le gambe eburnee. L’anca era stretta dalla mano nervosa del centauro e il torace poggiava sovra l’omero destro del vasto animale, il capo adagiato alla gota sinistra aveva la bocca socchiusa, livide le labbra. Una corona d’alloro era sulla fluente chioma castana, striata di venature dorate. Pareva trasumanato nell’effusione dell’ultimo canto, celebrato il sogno estremo. Un sangue nero colava sulla carne di neve, sotto le ciglia dormivano i suoi occhi.
Il centauro lo conduceva alla sede degli dei beati ove si perpetua la giovinezza, per poi nascondersi nuovamente nell’oscurità delle foreste.
Nelle foreste, dove rombano i fiumi e imperversano i venti, esso galoppa furente di forza e la sua voce s’unisce a quella di tutti gli esseri, divini e ferini. La sua voce è una eco della possente voce dell’Oceano dei secoli antichi, la sua forza serve il dominio del grande Dioniso.
Ormai il sangue del cielo s’effondeva intorno al disco del sole, e le montagne si coloravano di cupo azzurro e confondevano le loro pendici col mare.
Lungi s’alluminavano le minuscole città, ignare.
E i timori degli uomini morivano nelle loro tane, inesperti del terrore sconfinato che urla sovra le rupi dei precipizi, che sibila sulle cime, che schianta gli anfratti dei promontori. Lo conoscono le aquile, che di tanto superano gli uomini, e le volpi che li ingannano, i camosci audaci e le vigili marmotte pronte alla fuga.
E così moriva nel vasto tramonto il poeta, il suo sangue s’univa al sangue del crepuscolo che si sfibrava in striature, in velami tinti di ciclamino, sottesi d’un’orditura d’oro.
Ma lontano, nella città, la paura si coricava nella notte degli uomini.