domenica 11 maggio 2014

da "Tristan und Isolde" di Richard Wagner

ISOLDA

Lieve, sommesso
come sorride,
come l'occhio
dolce egli apre,...
lo vedete amici?
Non lo vedete?
Sempre più limpido
come esso brilla,
e raggiante d'una luce stellare
si leva verso l'alto?
Non lo vedete?
Come il cuore a lui
baldanzosamente si gonfia,
e pieno e maestoso
nel petto gli sgorga?
Come alle labbra,
voluttuosamente miti,
un dolce respiro
lievemente sfugge:...
Amici! Vedete!
Non lo sentite, non lo vedete?
Odo io soltanto
questa melodia,
che così mera-
vigliosa e sommessa,
voluttà lamentosa
tutto esprimente
dolce conciliante,
da lui risuonando
penetra in me,
e verso l'alto si libra
e dolce echeggiando
intorno a me risuona?
Queste armonie più chiare
che mi circondano,
sono forse onde
di miti aure?
Sono forse vortici
di voluttuosi vapori?
Come esse si gonfiano
e mi circondano del loro sussurro,
debbo io respirarle,
prestar loro ascolto?
A sorsi beverle,
sommergermici?
Dolcemente in vapori
dissiparmi?
Nell'ondeggiante oceano
nell'armonia sonora,
del respiro del mondo
nell'alitante Tutto...
naufragare,
affondare...
inconsapevolmente...
suprema letizia!


http://youtu.be/oOGs8TtnwoI
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sabato 3 maggio 2014

L'ultimo tramonto

Un'isola incombeva d'altezza prodigiosa, la cui vetta era involta di nebbie.
Un fragore ed uno sfavillìo tra le rupi rivelavano la presenza d'un vulcano.
Getti di lava fervente scivolavano verso il mare. Si sentivano scoppi di tuono e si vedevano subiti bagliori di fulmini che si scatenavano sopra le rocce.
Ma ad un occhio più attento sia le pietre che i massi o i minuti sassolini apparivano effigi di volti umani, quasi un qualche strano artista avesse voluto scolpire erme dovunque. Tutta l'isola era in effetti un ammasso terrificante di teste di pietra, di ogni dimensione, di ogni varietà d'espressione, sì che ad un eventuale naufrago essa avrebbe dato l'idea d'un immane mucchio di facce mozze, radunate in un solo luogo da un boia gigantesco.
Una sagoma nera rapida s'avvicinava, flagellando l'aria con una folgore. Un cavaliere brandiva una spada a doppio taglio, la cui lama insanguinata emetteva barbagli quali raggi di sole declinante.
Un cavallo rubro, d'incandescente metallo, innitriva spaventoso, i suoi occhi erano l'oscurità dello smarrimento, la perdita d'ogni speranza in una notte senza stelle.
E il cavaliere proseguiva la corsa folle, roteando la purpurea daga, verso un'ombra, un alone di lume opaco, una nube di vapore verde azzurro.
Sopra un altare di macigni esalava una vampa sulfurea. Essa saliva al cielo ed appena velava un trono poggiato su quella nebula glauca, ove era seduto un gigante.
Esso era circondato da un'emanazione di luce crepuscolare, un diadema plumbeo di tre fiori turchini era sovra il suo capo, coverto d'una fluente chioma castana. Il perfetto volto era immobile, irrigidito, una barba ricciuta cadeva sull'ampio petto. Gli occhi erano grigi e freddi come ghiaccio, le sclere bianche risaltavano intorno all'iride. Esso era pallido del pallore di voluttà crudeli ed insaziabili, pallido d'una bellezza maestosa e terribile. Reggeva con la destra una lancia che terminava in tre punte, la mano sinistra era sopra una cetra.
Sulla coscia destra stava supina, inarcata indietro per il terrore, una bellissima donna, la cui nudità maculava una ferita sul fianco sinistro, gocciante sul ventre ambrato.
E il gigante diceva : “ Io sono il padre e il marito, e la sposa chi me la può togliere ? “
E intanto sul mare i fuochi dell'ultimo sole, unendosi alle lingue di lava, tracciavano segni misteriosi e schizzavano abbozzi di luci corporee, che a intervalli si condensavano in forme visibili e in figure distinte.
Larve ignee si decuplicavano sulla superficie grigiastra, dalle squame brillanti, della mutabile massa marina, dell'immane organismo.
Fantasmi di donne denudate e defunte s'amalgamavano a sagome maschili, in un unico e multiforme tronco mobile.
Pari a tromba di vento tempestoso si drizzava sopra la distesa delle acque, mergendo le radici di membra torte, risucchiando le arene del fondale.
E dall'alto del tronco si diramarono i tentacoli d'una piovra, le cui ventose stridevano come anelli di ferro rovente.
Un uomo dalle lunghe gambe magre, roso da quella medesima fiamma che turbinava e crepitava in tutto il mostro, si mise a cavalcioni sul dorso di quel vortice crescente e vorace. La sua testa era irta d'aghi incandescenti, il volto rappreso in una smorfia di dolore.
Per le onde ardenti vagavano demoni rossi dalle ali di pipistrello.
Le loro bocche di vampiro si dissetavano sulle ombre sparse e smarrite che s'agitavano a fior dell'acqua incesa. L'ali erravano attorno al cerchio dell'astro morente, quali avvoltoi spiano la preda in larghe ruote volando nell'alto e poi calano impietosi.
E avidamente si precipitavano sulle anime affrante, immergendo i ceffi nei petti e nei fianchi, simili ai turpi uccelli che scavano coi rostri insanguinati nelle viscere delle carogne.
E, quando il sole disparve all'orizzonte, un'interminata estensione di ceneri fumanti apparvero le onde, che rotavano siccome spire di nere serpi, e la schiuma s'infrangeva sugli scogli simile a mille mani bianche che tentassero d'aggrapparsi invano ad appigli malsicuri e scivolosi.
La luna, sorgendo dietro il vulcano, sembrava l'occhio gelido d'un invisibile e smisurato uccello notturno, o di una nottola d'enormi dimensioni che con le membrane alari avesse coperto il cielo e spento ogni lume.