lunedì 30 giugno 2014

Jules Barbey D'Aurevilly

Jules Barbey D'Aurevilly        L'ensorcelée        Paris, Garnier-Flammarion, 1966
                                                    ( 1854 )

( NB le citazioni in francese non risulteranno del tutto corrette dal punto di vista ortografico a causa dell'uso della tastiera italiana )

Secondo lo stile dell'autore, diluita storia di passione immersa nel color locale ( in Normandia ) e in una congerie di raffinate digressioni di carattere ora storico ora morale. Ma è la passione “diabolica“ quella che lo affascina.
Sulla folla, vedi pag. 42 : “ … la mémoire des populations, empressées d'accueillir également, par un double instinct de la nature humaine, tout ce qui est criminel, dépravé, funeste, et tout ce qui est merveilleux. “
Pag. 70, cattolicesimo “decadente” come in Là-bas di Huysmans : “ … de l'Eglise romaine, qui a condamné, au vingt endroits des actes de ses Conciles, la magie, la sorcellerie, les charmes, non comme choses vaines et pernicieusement fausses, mais comme choses RE'ELLES, et que ses dogmes expliquaient très bien. “
Pag. 92, apparizione dell'uomo fatale, il monaco, nella chiesa di Blanchelande ( l'abbé de la Croix-Jugan ).
Pag. 93, fascinazione dell'uomo fatale : “ … questo prete incredibile sembrava vendicarsi dell'orrore delle sue ferite con una fisionomia di fierezza così sublime che si restava annientati come se fosse stato bello ! Jeanne non sapeva cosa ella avesse, ma soccombeva ad un fascino pieno d'angoscia. “
Pag. 99, concezione politica dell'autore ( molto interessante ) : “ … le gouvernement de tous par tous, - ce qui est impossible et absurde, - mais le gouvernement de tous par quelques-uns, ce qui est possible, moral et intelligent. “
Pag. 125, atteggiamento tipico della donna fatale ( Clotilde Mauduit, che, dopo una giovinezza dissipata, sarà la povera paralitica amica di Jeanne nella sventura ) : “ … celles qui ont le calme meurtrier des sphinx et qui exaspèrent les coupables passions qu'elles font naitre avec les cruautés du sang-froid. “
Pag. 133, beltà sinistra e funesta dell'abate de la Croix-Jugan ( il modello è sempre Byron ) : “ … cette beauté sinistre et funeste … “
Pag. 147, l'amore, un “abisso”, così viene definito all'inizio del capitolo IX.
Pag. 155, l'animo dell'abate de la Croix-Jugan : “ Era una di quelle anime tutto spirito e volontà, composta di un etere implacabile, la cui purezza uccide, e che non stringono, nei loro ardori di fuoco bianco come il fuoco mistico, che cose invisibili, una causa, una idea, un potere, una patria ! “ Inutile dire che Jeanne le Hardouey s'innamora dell'abate sfigurato.
Pag. 178, scena di stregoneria. Il pastore vagabondo fa vedere a Maitre le Hardouey, marito di Jeanne, attraverso un vecchio specchio la visione dell'abate e della moglie insieme mentre cuociono allo spiedo il suo cuore. Così l'amore di Jeanne per l'abate de la Croix-Jugan è svelato al marito.
Pag. 184, bellissima immagine dell'abate de la Croix-Jugan sul suo cavallo nero nell'oscurità della notte come un'anima dannata.
Pag. 185, Thomas le Hardouey entra nella casa dell'abate in sua assenza e vede proprio nella sala il camino del sogno dove la moglie arrostiva il suo cuore, ne esce quindi fuori di sé.
Pag. 191, morte per annegamento di Jeanne le Hardouey, che viene ritrovata in uno stagno da alcune lavandaie e da un pastore.
Pag. 199, bellissima la scena della preghiera della Clotte insieme alla piccola Ingou per la defunta Jeanne. L'autore ci rappresenta una peccatrice derelitta che nella propria abiezione ritrova, grazie all'ingenuità di una bambina, la fede.
Pagg. 211-212, lapidazione della Clotte durante la sepoltura di Jeanne, il movimento istintivo e brutale della folla ricorda la rivolta a Milano ne I promessi sposi. La scena è molto drammatica ed efficace ( vedi pag. 213 ).
Pag. 216, l'abbé de la Croix-Jugan incontra ed assolve la Clotte morente. In lui freme ancora l'impeto guerriero del Chouan difensore del suo re.
Pag. 222, l'abbé de la Croix-Jugan nelle sue fughe notturne e misteriose :
Spesso montava a cavallo, al tramonto … la cavalla nera dell'abate della Croix-Jugan andava come se avesse avuto la folgore nelle vene e confondeva lo sguardo, perdendosi nello spazio.”
Pag. 227, il pastore vagabondo dice a le Hardouey che l'abate de la Croix-Jugan può essere ucciso solo con un'arma da fuoco, con un colpo tra le sopracciglia. Infatti il marito di Jeanne medita da tempo la vendetta.
Pag. 231, per la prima volta l'abbé de la Croix-Jugan può celebrare la messa, dopo un lungo periodo di penitenza. La chiesa di Blanchelande è piena di curiosi.
Pagg. 233-234, descrizione della prima messa dell'abate e del suo volto terrificante.
Pag. 234, NB : il ritratto dell'abate che s'appresta all'altare richiama alla mente lo Zeus di Ingres o di Moreau ( Giove e Semele ).
Pag. 248, descrizione della spaventosa scena in cui il fantasma dell'abate tenta di celebrare la messa non terminata in punto di morte ( nel momento in cui viene ucciso da un colpo di fucile tirato da le Hardouey ). La visione è riferita da un fabbro che si trovava nei pressi della chiesa durante la notte dell'apparizione fantastica. 


 


venerdì 27 giugno 2014

Severino Boezio, Consolatio philosophiae, III, 12

Hoc quicquid est, quo condita manent atque agitantur, usitato cunctis vocabulo deum nomino.

Giovanni Boine

Giovanni Boine      Il peccato ( 1913 )       Milano, Garzanti, 1983



Stile assolutamente originale, anticipa Gadda. Molto curata l'analisi psicologica, l'influsso dell'ambiente sull'animo del personaggio, le sue più intime sensazioni, i suoi pensieri. Si può parlare anche di flusso di coscienza.
Pag. 69 : dissidio interiore tra la passione e l'aspirazione alle “ più pure attività spirituali “. Il personaggio assomiglia al Corrado Silla di Malombra.
NB a pag. 63 cita Barrili, come lettura amena del maestro del luogo, che ne ha inviato un romanzo alla ex monaca forse per conquistarne le grazie.
A pag. 67 cita i romanzi di Hugo, I miserabili e Notre-Dame de Paris. L'autore rivela una straordinaria personalità sebbene disordinata. Potrebbero aver suggerito l'immagine della monaca innamorata quei versi di Foscolo nelle Grazie ( anche se non necessariamente riferentisi a una monaca ) :
Come nel chiostro vergine romita, …
sente il Nume, ed al cembalo s'asside,
e del piè e delle dita e dell'errante
estro e degli occhi vigili alle note
sollecita il suo cembalo ispirata;
ma se improvvise rimembranze Amore
in cor le manda … “
( vv. 303 – 310 ) 


 

giovedì 26 giugno 2014

Igino Ugo Tarchetti

Igino Ugo Tarchetti     Fosca ( 1869 )     Torino, UTET, 1983
                   ( Narratori settentrionali dell'Ottocento )


Opera la cui tematica è ben superiore alle mode del tempo. Fosca è un caso umano molto singolare più che una donna-vampiro come potrebbe apparire. Il tema è romantico, ma l'amore è concepito da Fosca secondo le idee positivistiche dell'epoca, cioè essenzialmente come amore fisico ( anche se poi coinvolge tutto l'essere umano ). E il motivo di fondo è il contrasto tra la bellezza dell'uomo amato da Fosca e la bruttezza senza rimedio della donna, malata per giunta di consunzione e d'isteria.

Cap. XV

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa.
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, - ché anzi erano in parte regolari, - quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati - occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano cosí naturalmente dolci, cosí spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura piú che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.
Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:
- Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre cosí malata!
Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.
( … )

 

Fiaba romantica

In un castello della Bretagna viveva un uomo, immerso nella meditazione e nello studio. Il suo palazzo era carico di libri e di oggetti d’arte, quadri, statue, vasi e porcellane, arazzi e tappeti, coppe e piatti argentei, arpe di cedro e d’oro, cassepanche e bauli traboccanti di stoffe di seta. Le pareti del castello erano rivestite di affreschi e i soffitti a cassettoni scintillavano. Le finestre si aprivano su giardini interni ridenti d’ogni fiore che crescesse sulla terra o sopra gli alberi o sovra la superficie dell’acqua. Nel centro del giardino più vasto ondeggiava ai raggi del sole uno stagno adornato di colchici e di myosotis e di mandorli insidiosi giunti dalle rive di Trebisonda.
I cespugli di rose impregnavano l’aria del loro profumo carnale, i gigli s’ergevano intorno alle statuette di divinità boscherecce, le cui giovanili parvenze erano fermate nel nitore delle forme marmoree.
L’occhio glauco dei colchici lo immergeva nella malinconia dei ricordi.
Per distogliersi dal torpore che lo affliggeva e lo confinava in una solitudine di sogni, egli decise di accogliere una donna nella sua dimora. L’anima era sola, ed aveva perduto la lucentezza, la forza e la dolcezza, e piangeva entro se stessa, in un completo abbandono. Il silenzio era dovunque, e la luna assisteva ai suoi spasimi romantici instillando rugiada sui petali delle rose, le cui gocce cadendo nel piccolo lago turbavano le luci riflesse del cielo e le ombre degli esseri notturni, con un regolare bruire.
E quando nei pomeriggi estivi, all’ombra dei frassini e dei faggi, la sua mente vagava nei meandri dell’immaginazione e si perdeva nel logorìo roco delle fonti e dietro i roveti e fra i forti rami delle querce ove il sole si compiaceva di imbiondire il muschio quale una veste filigranata, egli avvertiva una vaga presenza al suo sguardo invisibile, ma che pure compenetrava quasi un’essenza ardua e sottile la selva trepida.
Aveva letto nel libro della Via : “ … aprirà dinanzi a te le porte delle sue camere segrete e scoprirà al tuo sguardo i tesori nascosti nel più profondo del suo puro, virgineo seno. “
E giunse, una sera, la carrozza d’ebano, slanciata, dietro tre possenti corsieri neri dalle crespe criniere quali onde di tempesta contro il lido disvelato dalla luna.
Ella discese ponendo il piede delicatamente sovra il predellino purpureo. Timidamente avanzò verso l’amante, il quale, presala per mano, la condusse entro la vasta dimora, gaudiosa ai raggi della dea notturna. Gli alti cipressi lievemente inclinavano le cime all’alito ampio e regolare dell’oceano.
E quando furono nella vasta sala del palazzo rischiarata dalla luna ed ella ebbe riversa la fronte coronata di capelli come manto sparso sul divano drappeggiato di damaschi, egli sorrise, pallido, e disse che affidava a lei la casa e ogni ricchezza poi che doveva partire per un lungo viaggio. Le consegnò una chiave d’argento, unica per tutte le stanze ed una piccola chiave arrugginita che serviva per entrare nelle gallerie del sottosuolo. Raccomandò di non usare la seconda poi che non le si addicevano luoghi tetri e maleodoranti.
Passarono quindi lunghe giornate in cui ella esplorò in ogni angolo più riposto il castello, che s’ergeva sopra un’alta rupe a picco sul mare da un lato, dall’altro si estendeva verso una ridente campagna. Le guglie delle torri si protendevano al cielo umido di piogge oceaniche come audaci alberature di nave, spirali di scale e d’archi adducevano di muro in muro, collegando fra loro con ponti sottili le camere segrete, recinte di massi colossali rivestiti di muschi e di un vivido vello di edere.
Attraverso ampie vetrate una luce soffusa e verdastra cingeva i capitelli fioriti in arabeschi vorticosi, che si perdevano lungo le pareti quasi disegno d’uno sconfinato labirinto, dove la vista indugiava posandosi come su uno stagno immoto adombrato da folte trame di rami e da fitti giunchi. Così ella si perdeva fra le colonne nei sotterranei, interminabili intercolumnii, antri dalle volte atre e brunite d’umide venature, donde gocciolava un fluido denso e dall’odore acre.
E un giorno con la chiave arrugginita schiuse una porta che inoltrava in un andito invaso da una luce abissale, sommersa nell’aria umida, per cui si perdeva il sentore di rivoli insinuantisi tra le pietre.

L’oscurità la colse e l’ombra d’una malìa l’avvolgeva e incupiva la volta della camera. Alta era e colma d’una penombra bronzea e muscosa come gli antri delle antiche sibille.
Un arco inatteso rischiarava a lato, in fondo alla parete, aprendosi sul litorale.
Si dilatava il ventre verde del mare e si traeva con ansare rauco. Le appariva la distesa grigia confondentesi nelle nubi all’orizzonte, nel vespero.
Un raggio di colore simile a rubino penetrava fra i vapori cinerei quale dardo. Per tutta la lunghezza del lido giacevano delle ombre convulsamente.
Come ella si avvicinò, rifulsero gli elmi bronzei dai fulvi cimieri e le punte delle aste e gli scudi rotondi riflessero la vampa rosseggiante del sole.
Per tutta la distesa erano rivolti nelle sabbie insanguinate guerrieri con la bocca semiaperta, gli occhi reclusi da una membrana o schiusi essudati di sangue marcio o boccioni vitrei. I corsieri feriti nitrivano scotendo le teste di crini irti di salino e di sudore, neri come la notte nell’aria purpurea del sole fugace.
Una voce aerava per la volta plumbea del cielo e diceva :
O dea genitrice dei viventi, tu che concepisci e partorisci nel dolore, madre della morte, che affidi i tuoi nati al tormento d’un’attesa perenne, che blandisci con impossibili sogni la noia padrona degli uomini, che susciti il desiderio e nutri il disprezzo, che fortifichi gli aborti ed annienti i puri di cuore, vergine sterile che gonfi la terra di vanità e di corpi putrescenti, madre dei sospiri e delle lacrime, inesausto ventre fecondato dagli spasimi della luce, o Donna figlia e sposa dell’Uomo, grembo dell’universo, mite e crudele, impassibile e pietosa, ascolta la mia preghiera.
Distruggi la stirpe dei profani e dei miscredenti che ti negano, e vieni nel mondo a riportare l’ordine originario, quando il tuo forte profeta calpestava le schiere dei vili. “
Si placò il mare come nei giorni alcionii, quando i luminosi alati appianano i flutti e i venti, quando generano, essi che traggono alimento dal mare.
Nel cielo apparve una grande aquila che planò tre volte per tre cerchi concentrici e poi vanì nell’azzurro. E allora, prima velata dalle poderose ali del rapace, si rivelò tra le nubi che la sorreggevano quale piedestallo, una donna semicoverta d’un drappo rosato adorno di chiose aurate, che poneva leggermente il braccio sinistro sopra un trono gemmato e nella mano destra stringeva uno scettro in forma d’alto fior di loto. E un pavone magnifico arcava la coda costellata d’innumerabili pupille dall’iride cangiante ad ogni minimo moto e le ventava il fianco destro ove la veste le scopriva l’anca e in parte l’ombra della nascente luce.
Una stella era su lei e ne radiava il viso ineffabile e il diadema, i cui rubini dardeggiavano bagliori ignei sulla chioma castanea quale terra nutrice di messi.
Ed ella, sorridendo dal vertice della gloria, disse :
Tu mi sei devoto. Io ti condurrò nella notte alle terre silenti quando l’oceano giace nelle profondità. Sopra le negre biade vagano le nebbie, intorno al mio tempio crescono cespi d’erica, il muschio copre i possenti macigni.
Là io sarò nella pienezza dello splendore, quale il disco d’ambra rilucente sul mare. Tu nuoterai nelle acque oscure, sugli abissi, nel ventre del drago. Una donna dai capelli notturni, dal corpo candido come marmo e ricco della vita immortale, ti cingerà parlandoti coi miei occhi. Tu giungerai a lei accompagnandoti ai miei lupi che sempre si dirigono alle regioni brumose del grigio Borea.
Tu sei il mio sacerdote, io ti ho scelto per lo spirito solitario e per le sofferenze dell’anima e del corpo che ti hanno condotto fino a me.
Uomo, chi sei tu per poter negare la vita e la morte ?
Tu hai commesso il più grande dei peccati, perché hai desiderato l’eternità.
Io sono prima di ogni cosa, io sono la madre del mondo. Figlio, tu devi giacere sopra il mio grembo e dal mio grembo devi nascere.
Io sono il dolore, la malattia, il male. Se tu mi ami, io saprò colmare il tuo cuore della bontà della realtà.
Guarda, lontano, sul lido del mare, una bimba di un anno, dai riccioli d’oro, gioca con le alghe lucenti e mormora il vento tra i riccioli d’oro, e attorno la vita fluisce immensa e terribile, intorno a lei, il centro del mondo. Alle sue piccole grida risponde il coro dei gabbiani, i suoi passi incerti accarezzano le tiepide sabbie, ecco il Signore del Cielo gioisce della sua vita.
Tu non cercare la verità del mondo, poi che il sapere non vale il gioco di un bimbo. Perché non scorgi giocare i mondi nell’eterno gioco ? “
Così disse, e l'ascoltava un uomo coperto d'un vello d'animale selvaggio. Il volto era esangue, solcato profondamente da due rughe che si disegnavano sulle guance in nere piaghe. L'ampia fronte s'evidenziava lucente sotto la capigliatura ispida che si confondeva con la barba intrisa di salsedine. Gli occhi grandi, bruni dalle sclere vistose, erano invasi dal rossore d'un incessante rammarico, che non poteva sfociare nel pianto.
Egli fissava l'orizzonte sovra un alto promontorio e innanzi s'apriva l'abisso ove si sfibravano i marosi nell'incessante lotta contro gli scogli.
E il sole, che insanguinava l'occidente, lo ammantava d'un alone di carminio, mentre la pupilla rifletteva il disco purpureo che pareva morire entro i suoi occhi.
Uno sconfinato oceano di fiamme precipitava nello spazio in un silenzio infinito. Un dio imperscrutabile, che dava vita a milioni di esseri, esultava in esplosioni di vita distruttiva. Ed esso era il segno dell'esistenza che è generata dalla morte e della morte cui la vita anela impetuosamente.
Ed egli vide intorno il mare e le foreste e il cielo e le montagne insanguinate, e la terra che s'adombrava a lutto per la perdita dello sposo, e gli animali pervasi da timore. E udì il grido d'aiuto dei morenti unirsi al coro delle voci di tutti i diecimila esseri, e udì il lamento dei malati e il pianto della disperazione, e il gemito della sofferenza a poco a poco illanguidire nel vuoto dello spazio sconfinato, e sorgere il vagito dei neonati ad oriente e invadere di nuova forza i giorni del mondo, e vide come nugoli di polvere sollevarsi le generazioni nei cieli. E il suo cuore si colmò di desolata tristezza, e disse : “ Perché devo morire ? “
E scorse Espero rifulgere sopra le montagne, l'astro cantato da poeti antichi e ispiratore dei vati di futuri millennii, quando il soffio del deserto avrà sepolto le civiltà dimenticate, se mai esisteranno ancora poeti.
E a poco a poco la luce eterna arse delle altre stelle, e le tenebre furono vinte da migliaia di soli, che si radunavano e s'immettevano in vortici immensi, che s'agglomeravano in immensi mari.
Una vita senza confini, una forza senza limiti trionfava moltiplicandosi nell'infinita possibilità delle forme, trasformandosi continuamente, incessantemente morendo e nascendo, e chiamava l'Uomo a spettatore estatico del Mistero, lo spronava e lo innalzava alla Conoscenza e al Dolore.
Mentre, assorto nei pensieri, la sua vista errava verso l'abisso e s'allontanava sul lido del mare, s'accorse d'un baleno di luce sulla battigia. E quando fu sulla spiaggia, trasse dalla sabbia una spada che non era corrosa ancora né intaccata, una lama a doppio taglio da ergere con ambedue le mani. Ammirandola in alto, distinse le membra incolori delle montagne sulle quali posava il biancore lunare. La pace custodiva nel silenzio notturno le selve maestose, e i venti tacevano per le giogaie e sulle vette, dimora dei corvi. E il silenzio del cielo lo rapiva nelle solitudini senza eco, nella quiete immobile del vuoto.
Ma un nitrito e uno scalpito lacerante l'arena lo svelse violento dal languore, gli fustigò improvviso lo spirito. Un cavallo nero, dagli occhi di fuoco, dalle froge ardenti, si precipitava in una corsa furiosa nella brezza, fra i confini della terra e del mare, tra il murmure del deserto e delle lande equoree, tra il torpore della terra e la febbre dell'oceano.
Come fu vicino, s'arrestò inarcando il dorso e minacciando nervosamente con le zampe anteriori, che dimenava quasi a colpire.
Si rizzava la criniera al soffio del vento, i suoi occhi dalle sclere rosse erano le tempeste notturne quando ossessiona la voce del tuono, come nuvole nere che divampano in una coltre di nebbie.
Egli lo montò senza trovare resistenza.
Ogni sede d'uomini, villaggio o borgata, in cui capitava, sulla groppa di quel dèmone, vi menava strage intridendo il metallo della spada negli sventurati supplichevoli, nelle mura delle fattorie, nei recinti del bestiame, nel ventre delle vacche. Dovunque travalcasse, guadagnava deserto.
Seminava il terrore e procedeva per pianure desolate, dove il fumo dei roghi incupiva il cielo.
E venne alla riva d'un grande lago. Le acque erano appena increspate dall'aura montana. Presso la sponda fioriva una siepe di rose, rosse e irrorate dalle spume dei flussi.
Ed egli sfoderò la spada e recise una rosa dallo stelo e, carpitala, la scagliò nella calma grigia delle onde. E la rosa ondeggiava nel centro del lago.

E la donna ebbe questa visione, ma, come era stata ammonita, non tornò più indietro. 



 

martedì 24 giugno 2014

Ombra

La mia ombra
sulla pietra,
mentre osservo lontano
stendersi la giogaia dei monti
ancora imbiancati sulla vetta,
mi rammenta il mio breve
transitare su questa terra.
Basta un attimo, un movimento
e quest'ombra si dilegua e vola
via, e non so dove.
E, o amico, che dirti
delle mie speranze,
questo povero essere
che cosa può dire ?
E' un'ombra sulla pietra
e un attimo, in un movimento
si dilegua e fugge via
e non so dove.





Foresta dei tropici

Foresta dei tropici, terrore
fra le nubi, un rombo
s'ode un sibilare notturno,
un vagolo di squilli
fumiganti vedute di rovine
su, sovra abissi sovra
organi inneggianti coi suoni
misteriosi delle canne.
Precipita, precipita senza fine,
senza fine più non sorge.
Un tuono, esplode
la pioggia incessante,
un fluido, un fiume d'ululi,
di grida soffocate.
Gli uccelli della foresta,
un coro fuggente di voci
imploranti entro le navate
delle selve senza sole.
L'organo suona, scandisce il tempo
il gong dei lamenti.
Vaga fra le nebbie
il passo errante. S'apre
una porta sul buio,
nel silenzio un lamentoso
canto d'amore, una donna
gode d'amore.
La dea all'inno
delle navate tumultuanti,
la dea l'inno
canta allo scandire
del tamburo
sotto le navate tumultuanti,
un lamento impetuoso,
senza fine.
Un suono di campane, un coro
s'eleva,
il suono delle campane tocca il cielo.
Nausicaa canta
nell'isola perduta,
dal continente divisa
da uragani e diluvi.
Lontano ella canta, lontano
dal rombo del tuono.
Un canto d'amore ella canta.
I grilli cantano nella notte
tra il riverbero delle stelle
nelle pozzanghere.
Intonano gli uccelli un canto
tra il tam tam nella foresta
e il fluido fuggire dei flauti.
Odalische s'adagiano mollemente
sovra le sete dopo le danze
vorticose entro la reggia.
Il serpente a sonagli fugge al sentore
del gufo, una fiaccolata lenta
si perde al soffio degli uragani
sotto le cupe navate inneggianti.
Le voci del coro s'elevano inesauste,
ed ella canta, oh sì, canta il suo canto
trionfale !
S'aprono le viscere della terra
fumanti al suono interminabile
dei tamburi.
Si schiudono le porte del tempio
e i gradini precipitano
nell'abisso !
Squillano le trombe gloriose,
il sole sorge,
il sole sorge !
Il sole s'alza sovra le rupi e sovra
le foreste nel tintinno
delle rugiade.
Ella m'attende
e volge il viso
chiaro e ridente
e i luminosi occhi,
profondi come il mare,
coi capelli gioca il vento,
mormorando di desiderio,
e si placa sulla pelle
dolcemente.


 

Alfredo Oriani

Alfredo Oriani     No      Milano, A. Barion, 1924



Abile psicologo. Notevole il ritratto dell'animo di Ida, soprattutto ( pag. 37 ) le sue impressioni e pensieri sulla camera della serva Lucia e di suo marito, le fantasie di Ida su quanto poteva accadere in quel letto !
Nelle pagine seguenti la “ storia d'amore “ tra Ida e il gobbo rasenta attimi di sublime pathos.
Pag. 71 : “ la volontà era la suprema delle forze : Balzac e Schopenhauer lo avevano provato. “
Pag. 117 : Ida donna fatale fa innamorare di sé un duca ( ma non gli si concede, per il momento ). Bella l'immagine di lei che porge la testa perché il duca, già piuttosto maturo, vi deponga una perla, tratta da una collana offertale in pegno d'amore.
Sino a pag. 139 c' è un crescendo drammatico che vede Ida innamorarsi del conte Enrico promesso sposo di Iela, segue scena concitata e follemente passionale del tentativo di seduzione da parte di Ida nei confronti del conte, proprio la prima notte, dopo il matrimonio. Respinta da Enrico e da Iela che ha scoperto ogni cosa, Ida dopo una cavalcata furiosa nella notte si dirige al palazzo del vecchio duca e, accoltavi, ne diviene l'amante.
Pagg. 178-179 : filosofia dell'arredamento ( di Poe ). Lo scrittore americano viene citato dopo aver dannunzianamente descritto la camera di Ida nel palazzo del duca. Oriani stilisticamente sembra una via di mezzo tra D'Annunzio e Federico Tozzi.
Ida amoreggia col duca e il conte Enrico ( interessante questo mènage à trois ), quindi introduce, una volta sola, il capitano Buondelmonti, altro suo spasimante, e lo minaccia per aver voluto venderle il cavallo regalatogli dalla contessa Cerri, amante di lui. Inoltre gli rivela di avere avuto tramite il conte Enrico la lettera in cui la contessa Cerri gli rinfaccia un duello pretestuoso per attribuirle un falso amante e così non sentirsi più in debito ( pag. 192 ). A questo punto il destino del conte Enrico è segnato, sfidato a duello da Buondelmonti.
Bella la scena della vendetta di Ida che fa venire nel suo appartamento Iela per mostrarle il marito conte Enrico, sorpreso dopo una notte di orgia con lei. Non c'è dubbio, Ida è feroce e spietata come una bella e fosca pantera.
Il conte Enrico muore in duello contro il capitano Buondelmonti.
Nell'ultimo capitolo Ida lascia il duca dopo una scena d'addio e si affida al suo destino.
Interessante è il rapporto col professor Savelli, suo vecchio insegnante alle magistrali. Ida lo ama inconsciamente e a lui ricorre ogniqualvolta la sua psiche entra in crisi. E' una sorta di maestro spirituale, anch'egli inconsciamente innamorato di Ida.


sabato 21 giugno 2014

Goethe contro l'uomo comune

Pericolose sono delle bestie come voi, che spargono marciume tutt'intorno, che sbavano e scacano su ogni cosa bella e buona, e poi fanno credere al mondo che non ci sia niente di meglio della loro merda !                                                                                                                      
Da " Vita di Goethe " di I.A.Chiusano, Rusconi, pag. 130

mercoledì 11 giugno 2014

Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano.

Chi si trincera totalmente contro la noia, si trincera anche contro se stesso : né potrà mai bere la bevanda energetica e ristoratrice che scaturisce dalla propria fonte interiore.

martedì 10 giugno 2014

F. W. J. Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale

... non può il limite della luce essere il limite dell'universo, e non è mera ipotesi che, oltre il mondo della luce, raggi di una luce a noi ignota un mondo, che non cade più nella sfera della nostra intuizione.

domenica 8 giugno 2014

Ramacharaka, Raja Yoga.

Oh, vita universale, esprimi te stessa attraverso me, trasportami ora sulla cresta dell'onda e ora nell'abisso dell'Oceano, sorretto sempre da Te, tutto sarà bene per me se sento la sua vita compenetrarmi e circondarmi. Io sono vivo della tua vita e apro me stesso alla tua piena manifestazione ed al tuo influsso.

giovedì 5 giugno 2014

Kierkegaard, Sul concetto di ironia

O la nostra vita è un nonsense, uno scherzo di cattivo gusto del puro caso oppure è nella dimensione dell'Assoluto e della Verità. Sorge la domanda :  perché cerchiamo l'Assoluto e la verità ?

domenica 1 giugno 2014

Diogene Laerzio, Vita di Eschine, II, 60-61 ( dalle Vite dei filosofi )

Ἰδομενεὺς ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ συμβουλεῦσαι περὶ τῆς φυγῆς Σωκράτεικαὶ οὐ ΚρίτωναΠλάτωνα δέὅτι ἦν Ἀριστίππῳ μᾶλλον φίλοςΚρίτωνι περιθεῖναι τοὺς λόγουςδιεβάλλετο δ᾽  Αἰσχίνης καὶ μάλισθ᾽ ὑπὸ Μενεδήμου τοῦ Ἐρετριέως ὡς τοὺς πλείστους διαλόγους ὄντας Σωκράτους ὑποβάλλοιτολαμβάνων παρὰ Ξανθίππηςὧν οἱ μὲν καλούμενοι ἀκέφαλοι σφόδρ᾽ εἰσὶν ἐκλελυμένοι καὶ οὐκ ἐπιφαίνοντες τὴν Σωκρατικὴν εὐτονίανοὓς καὶ Πεισίστρατος  Ἐφέσιος ἔλεγε μὴ εἶναι Αἰσχίνου2 [61] καὶ τῶν ἑπτὰ δὲ τοὺς πλείστους Περσαῖός φησι Πασιφῶντος εἶναι τοῦ Ἐρετρικοῦεἰς τοὺς Αἰσχίνου δὲ κατατάξαιἀλλὰ καὶ τῶν Ἀντισθένους τόν τε μικρὸν Κῦρον καὶ τὸν Ἡρακλέα τὸν ἐλάσσω καὶ Ἀλκιβιάδην καὶ τοὺς τῶν ἄλλων δὲ ἐσκευώρηταιοἱ δ᾽ οὖν τῶν Αἰσχίνου τὸ Σωκρατικὸν ἦθος ἀπομεμαγμένοι εἰσὶν ἑπτάπρῶτος Μιλτιάδηςδιὸ καὶ ἀσθενέστερόν πως ἔχει:ΚαλλίαςἈξίοχοςἈσπασίαἈλκιβιάδηςΤηλαύγηςῬίνων.


Pare che questo Eschine si fosse appropriato di dialoghi scritti da Socrate. Dunque il caro Socrate avrebbe composto dialoghi imitati poi dai discepoli, e passa invece per uno che non ha scritto nulla !