martedì 26 agosto 2014

Ore

Rinfresca un lieve vento
dal mare
la calda estate,
vengono le ore passate
accompagnate
dalle ombre del ricordo.
In un accordo
di dolci parole velate
da malinconia, si appressano
a me, confessano
il loro antico amore
e dicono : “ Il cuore
tuo non ci fu ignoto
e nel vuoto noi non cademmo
del nulla.
Sin dalla culla
a te fummo concordi
nei tuoi ricordi
a restare, né te potemmo obliare.
Dei tuoi pensieri
nel caos non severi
censori, non dicemmo
accuse contro te, clementi
anche se assenti
ti assolvemmo ed ogni tua parola
come polvere che vola
via ponemmo in non cale,
e il male
non fu per noi che un turbamento
d'acque.
Così ci piacque,
e tu in silenzio l'anima consola,
noi siamo in te come una vita sola. 




 

venerdì 22 agosto 2014

Sulle Ramblas a Barcellona

Tu mi parlavi, mentre fra la gente
camminavamo allora sulle lunghe
Ramblas.

Godere è vano senza il ricordo
dell'attimo, dell'arcano
flusso del tempo ignoto,
così il ricordo è l'ultima
nostra speranza, l'ultimo
approdo dove ci si aggrappa
brancolando nel buio.
Oh, stoltezza infinita
del gaudente oblioso,
che si perde nell'infimo
piacere e a goccia a goccia
si dissolve nell'aria
e poi si curva manichino
inebetito. Ma io spero
sempre di ricordare
anche quelle tue confidenze,
quei segreti del cuore,
ah, non per me,
e tuttavia a me rivolte,
a me casuale confidente
ma negligente no,
non disattento non morto
vivente, come vedi
quelli che ci circondano.

Oh, i giorni mai vissuti,
oh, le parole mai dette !
Come avrei voluto che tu avessi
scorto anche solo un barlume
del mio accecante oceano !
Ma non si vive neppure quel poco
che ci è concesso,
e in noi i desideri restano
inappagati, anche i più belli
e i più nobili.






venerdì 15 agosto 2014

Cicero, De divinatione

Cicerone           Della divinazione           Milano, Garzanti, 1991



I, 12 pag. 10, “ Est enim vis et natura quaedam … “, gli antichi evidentemente prendevano molto in considerazione le manifestazioni dell'inconscio o dell'Es, i moderni nel loro sciocco razionalismo assoluto hanno fatto della religione un culto bonario o melenso oppure impostato su un umanitarismo di tipo laico, ma le hanno tolto il numen, mettendo al suo posto il fanatismo, l'infantilismo, se non la demenza.
Per l'importanza dell'inconscio vedi G. Groddeck, Il libro dell'Es.
I, 53, pag. 44, il sogno di Aristotele, interessante per il finale “orfico” : “ cum animus Eudemi e corpore excesserit, tum domum revertisse videatur. “
Pag. 54, “ animus … quippe qui deorum cognatione teneatur “. Nell'uomo è presente il divino, secondo l'insegnamento orfico e pitagorico ( cfr. Julius Evola, I versi d'oro e C. G. Jung, Simboli della trasformazione ).
I, 80, pag. 66, furore poetico, sia Democrito che Platone affermano che non può essere grande quel poeta che non sia come invasato.
I, 89, pag. 72 : “ nei tempi antichi i sovrani erano maestri in arte augurale “ ( “ apud veteres, qui rerum potiebantur, iidem auguria tenebant “ ), cfr. Frazer, Il ramo d'oro, sui re-sacerdoti ( “ Maghi come sovrani “ ) cap. VI, pag. 110.
I, 110, pag. 86, “ cumque omnia completa et referta sint aeterno sensu et mente divina, necesse est cognatione divinorum animorum animos humanos commoveri. “ : origine divina dell'anima umana.
I, 125, pag. 100, “ Fieri igitur omnia fato ratio cogit fateri “, fatum ossia l'eimarmene dei Greci; importante : “ Ea est ex omni aeternitate fluens veritas sempiterna. “ Concezione ciclica del tempo che ritorna sempre al punto di partenza e replica il replicato : “ … traductio temporis nihil novi efficientis et primum quidque replicantis. “
L'opera è estremamente interessante per il pitagorismo e l'orfismo in essa diffuso. La concezione della vita eterna delle anime è infatti orfica come platonica ( Fedone, Fedro ). Vedi pag. 287 de Il mulino di Amleto.
Nel II libro Cicerone esprime il proprio parere sulla divinazione con ragionamenti liberi da pregiudizi e rigorosamente “laici” ossia scettici. Per lui non vi è fondamento alcuno per la divinazione, la quale non ha nessun valore, al contrario di quanto nel libro I ha sostenuto il fratello Quinto.
II, 42 ( pag. 140 ) : “ Nonne perspicuum est ex prima admiratione hominum, quod tonitrua iactusque fulminum extimuissent, credidisse ea efficere rerum omnium praepotentem Iovem ? Itaque in nostris commentariis … “ ecc.
II, 45 ( pagg. 143-144 ), “ Caeli enim distributio, quam ante dixi, et certarum rerum notatio docet, unde fulmen venerit, quo concesserit; quid significet autem, nulla ratio docet. “ Contraddice chiaramente quanto sembra credere E. Zolla in Che cos'è la tradizione sul presunto valore degli auguri ( neppure Cicerone ci credeva ! ), cfr. pagg. 218-223.
Pag. 156, “ nihil fieri potuisse sine causa “, affermazione che implica un assunto razionalistico, Cicerone è uno scettico e imposta il problema alla luce di un razionalismo di stampo moderno ( ma nel senso non assolutistico e positivistico del termine ) : “ Quicquid enim oritur, qualecumque est, causam habeat a natura necesse est … “
II, 70, pag. 166, “ errabat enim multis in rebus antiquitas “, a proposito della fede di Romolo sulla verità degli auspici. Cicerone mostra la propria formazione razionalistica, essendo seguace della filosofia greca neoaccademica. Come dice E. Severino, nel suo volume sulla filosofia antica, è il razionalismo e la critica al mito a costituire l'essenza della ricerca della verità da parte dei filosofi greci. La posizione di Cicerone è comunque quella di uno scettico.
II, 94, pag. 186, ritiene addirittura, precorrendo i tempi, che le caratteristiche degli individui non siano dovute all'influsso degli astri ma alla vis seminum, all'influsso dei semi generativi, cioè alla trasmissione dei caratteri ereditari.
Seguono sillogismi pro e contro la divinazione, che servono a Cicerone per sottolineare la vacuità della fede negli oracoli.
II, 110, “ Quale autorità, d'altronde, può avere codesto stato di folle eccitazione che chiamate divino, in virtù del quale ciò che il savio non vede, lo vedrebbe il pazzo, e colui che ha perduto le facoltà sensoriali umane avrebbe acquisito quelle divine ? … Se questo è scritto nei libri sibillini, a quale uomo e a quale tempo si riferisce ? Colui che aveva scritto quei versi aveva agito furbescamente : omettendo ogni precisazione di persona e di tempo, aveva fatto in modo che, qualunque cosa accadesse, sembrasse l'avveramento di una profezia. “ ( Trad. di Sebastiano Timpanaro ). Tutto questo può essere riferito al nostro moderno Nostradamus e agli astrologhi che prosperano sulla credulità della gente e riempiono le pagine dei giornali, trionfano alla televisione e furoreggiano sul web.
Paragrafo 119, pag. 206, allusione alla credenza nei sogni profetici a causa dell'influsso di anime esterne, cfr. I misteri egiziani di Giamblico : “ Similis est error in somniis; quorum quidem defensio repetita quam longe est! Divinos animos censent esse nostros, eosque esse tractos extrinsecus, animorumque consentientium multitudine completum esse mundum; hac igitur mentis et ipsius divinitate, et coniunctione cum externis mentibus cerni quae sint futura. Contrahi autem animum Zeno et quasi labi putat atque concidere, et ipsum esse dormire. Iam Pythagoras et Plato, locupletissimi auctores, quo in somnis certiora videamus, praeparatos quodam cultu atque victu proficisci ad dormiendum iubent; faba quidem Pythagorei utique abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur. Sed nescio quo modo nihil tam absurde dici potest quod non dicatur ab aliquo philosophorum. “
Par. 120-122, argomentazione molto efficace a favore del razionalismo. Cicerone si rivela un propugnatore e un precursore del pensiero moderno e scientifico.
Par. 123-126, con una serie fitta di ragionamenti continua a smontare la fede negli oracoli durante il sonno.
Pag. 216, bisogno di chiarezza espressiva, istanza simile a quella degli illuministi del '700.
Pag. 219, esigenza di razionalità ( “ ma chi è garante di queste cose ? “ )
Par. 139, “ Omnia igitur quae volumus nota nobis esse possunt … “ ecc. considerazioni da vero empirista.
Par. 140, qui si mostra un perfetto psicologo ( è stupefacente questa modernità di Cicerone ) : “ Haec scilicet in imbecillo remissoque animo multa omnibus modis confusa et variata versantur, maxumeque reliquiae rerum earum moventur in animis et agitantur, de quibus vigilantes aut cogitavimus aut egimus ... “
Pag. 228, par. 148, condanna della superstitio, seguono affermazioni da “deista” ante litteram ( quest'opera avrebbe potuto scriverla anche Voltaire ) : “ Nam, ut vere loquamur, superstitio fusa per gentis oppressit omnium fere animos atque hominum imbecillitatem occupavit. “
Par. 150, professione di “socratismo”, atteggiamento tipico dell'Accademia di Carneade ( Accademia nuova ) :
Cum autem proprium sit Academiae iudicium suum nullum interponere, ea probare quae simillima veri videantur, conferre causas et quid in quamque sententiam dici possit expromere, nulla adhibita sua auctoritate iudicium audientium relinquere integrum ac liberum, tenebimus hanc consuetudinem a Socrate traditam eaque inter nos, si tibi, Quinte frater, placebit, quam saepissime utemur." "Mihi vero", inquit ille, "nihil potest esse iucundius." 

 

mercoledì 13 agosto 2014

L'isola dei morti

Sull'opaca distesa
lentamente a colpi di remo
fra lievi balzi di spuma
avanzava la barca
nera,
lo stanco nocchiero
il braccio tendeva
bianco
sopra il remo,
affondandolo
nell'acqua buia.
Vortici intorno,
misteriosi gorghi
balbettavano
ignote litanie,
vicino le procellarie
rispondevano.
Più in alto
i gabbiani si astenevano,
avulsi testimoni,
dalle sterili acque.
Lentamente a colpi di remo
sull'opaca distesa
la barca nera
s'inoltrava sull'acqua
plumbea, nel deserto
liquido scivolava
inesorabile,
sotto un cielo incolore
tra nubi vorticose.
Fra lievi ansiti di spuma
lo stanco nocchiero
il braccio tendeva
bianco
e il remo affondava
nell'acqua nera.
E nel silenzio
al remeggio
su dai mulinelli spumosi salivano
spiriti fallaci, veli tenui
d'insidiosi colori,
inauditi rumori attutiti
dall'onda e odori
di essenze d'oriente.
Assente era colui che ascoltava,
né turbato dall'inganno,
procedeva pallido col suo remo.
Ma l'onda più aspra divenne
e turgida e il mare più nero
e più bianco.
Nel cielo i pensieri tortuosi
scaturirono faville
colme di minaccia,
tremendo scoccò il rombo
il dardo.
Assente era colui che ascoltava
e la sua mano il remo calcava.
Insidiose e tremanti
l'onde, dèmoni vaganti,
variegate fluivano assorte,
ombre della rapida morte.
Ed egli varcò la corrente,
passò oltre il cupo fragore
e sulle equoree pianure
vide le figlie di Forco.
Quali cigni danzavano
sulle brillanti lande,
canute e un occhio
e un dente solo avevano,
irridevano le gengive
i vanti delle Sirene.
Ah, di quali pene
gli afflissero la vista
l'altre figlie di Forco
le Gorgòni maligne
di serpi incoronate !
Odiate dai mortali
suggono la vita
con gli sguardi fatali.
Insidiose e tremanti
l'onde, dèmoni vaganti,
variegate fluivano assorte,
ombre della rapida morte.
Ratti alitanti destrieri,
accecanti miraggi,
i cani del Cielo
piombarono ventando
di grandi ali l'ardito
nauta. Avidi di carogne,
grifoni dal rostro
acuto rampogne gracchiavano.
Brillavano ancora l'onde
assetate d'aride sponde,
brillavano dal grembo tenace
sull'orma dell'eterna pace.
Ma udì prima un borbottìo
sommesso e poi un grondare
delle bavose bocche, dei ceffi
di Scilla, enfiati di calunnia,
di nera notte invasi.
E piano, piano avanzava,
la barca via scivolava
sull'onde frementi di schiuma
fra vampe di torbida bruma.
Ed ecco improvvise le rupi
irte di massi, scagliose
emersero dalla nebbia fallace,
ali di furo rapace.
Un murmure maestosi cipressi
addussero all'onda ventosa,
tremarono arcani riflessi
nell'aria ormai luminosa.
La chiglia s'infisse nel lido,
discese e col remo trafisse
le sabbie e quello, albero nuovo,
diramò novelle radici.
E i piedi calcarono il suolo
dell'isola ignota ai mortali.
Respirò. Un'aura pregna d'aromi
immortali l'avvinse
e dalla selva espirante
venne un sommesso richiamo.
Allora il volto protese
colpito da voce a lui nota
e vide, tremando di gioia
e ai sensi umani rapito,
suo padre incontro alla riva
radioso di luce più viva
del sole, e sorse con lui alla sorte
dei Vivi nella terra di Morte.




venerdì 8 agosto 2014

Icaro

E mi slanciai nell'alto
profondo cielo
e nelle braccia del vento
si librarono le mie ali
dal vorticoso abisso
su tenute !
Così poté la forza
d'Amore,
nella Voluttà immensa
dell'infinita pianura
delle nubi,
nell'estasi
alato amante
mi elevai verso il sole,
sopra le rutilanti
mugghianti tempeste
del mare !
Le nubi mi accarezzarono,
mi accompagnarono
i bianchi gabbiani,
i neri corvi.
Precipitai
innalzandomi
all'occhio possente
dell'interminato azzurro,
mi elevai e mi smarrii
nella luce
sopra le terre, sopra le nubi
anelo
allo sconfinato abisso,
per sempre !


 

domenica 3 agosto 2014

Morte di una Pizia ( Lucano, Bellum civile, V, 161-224 )

Prima di vaticinare, la Pizia doveva purificarsi nella fonte Castalia; per avere l'ispirazione si rinchiudeva dentro l'adyton del tempio, masticando foglie d'alloro seduta sul tripode sacro presso l'omphalos e il Chasma, la “fenditura della terra”. I gas dolciastri che fuoriuscivano dalle rocce uniti alla masticazione di erbe allucinogene le provocavano uno stato di alterazione mentale ( forse allucinazione, forse trance ), facendola vaticinare in un atto di mania profetica a cui a volte non riusciva a sopravvivere. Studi recenti hanno rilevato la presenza del gas di etilene in una sorgente vicino al tempio; questo gas, che in grandi quantità potrebbe risultare letale, in piccole dosi poteva provocare euforia, sensazione di leggerezza e visioni.
( E. E. Schneider – A. F. Ferrazzoli, Delfi, passato e presente )


tandem conterrita uirgo
confugit ad tripodas uastisque adducta cauernis
haesit et insueto concepit pectore numen,
quod non exhaustae per tot iam saecula rupis
spiritus ingessit uati; tandemque potitus
pectore Cirrhaeo non umquam plenior artus
Phoebados inrupit Paean mentemque priorem
expulit atque hominem toto sibi cedere iussit
pectore. bacchatur demens aliena per antrum
colla ferens, uittasque dei Phoebeaque serta
erectis discussa comis per inania templi
ancipiti ceruice rotat spargitque uaganti
obstantis tripodas magnoque exaestuat igne
iratum te, Phoebe, ferens. nec uerbere solo
uteris et stimulis flammasque in uiscera mergis:
accipit et frenos, nec tantum prodere uati
quantum scire licet. uenit aetas omnis in unam
congeriem, miserumque premunt tot saecula pectus,
tanta patet rerum series, atque omne futurum
nititur in lucem, uocemque petentia fata
luctantur; non prima dies, non ultima mundi,
non modus Oceani, numerus non derat harenae.
qualis in Euboico uates Cumana recessu
indignata suum multis seruire furorem
gentibus ex tanta fatorum strage superba
excerpsit Romana manu, sic plena laborat
Phemonoe Phoebo, dum te, consultor operti
Castalia tellure dei, uix inuenit, Appi,
inter fata diu quaerens tam magna latentem.
spumea tum primum rabies uaesana per ora
effluit et gemitus et anhelo clara meatu
murmura, tum maestus uastis ululatus in antris
extremaeque sonant domita iam uirgine uoces:
'effugis ingentes, tanti discriminis expers,
bellorum, Romane, minas, solusque quietem
Euboici uasta lateris conualle tenebis'.
cetera suppressit faucesque obstruxit Apollo.
custodes tripodes fatorum arcanaque mundi
tuque, potens ueri Paean nullumque futuri
a superis celate diem, suprema ruentis
imperii caesosque duces et funera regum
et tot in Hesperio conlapsas sanguine gentis
cur aperire times? an nondum numina tantum
decreuere nefas et adhuc dubitantibus astris
Pompei damnare caput tot fata tenentur?
uindicis an gladii facinus poenasque furorum
regnaque ad ultores iterum redeuntia Brutos,
ut peragat fortuna, taces? tum pectore uatis
inpactae cessere fores, expulsaque templis
prosiluit; perstat rabies, nec cuncta locutae
quem non emisit, superest deus. illa feroces
torquet adhuc oculos totoque uagantia caelo
lumina, nunc uoltu pauido, nunc torua minaci;
stat numquam facies; rubor igneus inficit ora
liuentisque genas; nec, qui solet esse timenti,
terribilis sed pallor inest; nec fessa quiescunt
corda, sed, ut tumidus Boreae post flamina pontus
rauca gemit, sic muta leuant suspiria uatem.
dumque a luce sacra, qua uidit fata, refertur
ad uolgare iubar mediae uenere tenebrae.
inmisit Stygiam Paean in uiscera Lethen,
quae raperet secreta deum. tum pectore uerum
fugit et ad Phoebi tripodas rediere futura,
uixque refecta cadit. 

 

sabato 2 agosto 2014

Ovidio, Metamorfosi, XV, 214-236 ( la brevità della vita umana )

'Nostra quoque ipsorum semper requieque sine ulla
corpora vertuntur, nec quod fuimusve sumusve,
cras erimus; fuit illa dies, qua semina tantum
spesque hominum primae matris latitavimus alvo:
artifices natura manus admovit et angi
corpora visceribus distentae condita matris
noluit eque domo vacuas emisit in auras.
editus in lucem iacuit sine viribus infans;
mox quadrupes rituque tulit sua membra ferarum,
paulatimque tremens et nondum poplite firmo
constitit adiutis aliquo conamine nervis.
inde valens veloxque fuit spatiumque iuventae
transit et emeritis medii quoque temporis annis
labitur occiduae per iter declive senectae.
subruit haec aevi demoliturque prioris
robora: fletque Milon senior, cum spectat inanes
illos, qui fuerant solidorum mole tororum
Herculeis similes, fluidos pendere lacertos;
flet quoque, ut in speculo rugas adspexit aniles,
Tyndaris et secum, cur sit bis rapta, requirit.
tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas,
omnia destruitis vitiataque dentibus aevi
paulatim lenta consumitis omnia morte!