sabato 27 settembre 2014

Misandra, cap. 2





Sognava.
Era all’interno d’un antico tempio pagano. Le colonne candide, avvolte di fitta edera, s’alzavano a sostenere un architrave roso dai secoli. Rivolgendo lo sguardo in alto, poteva mirare le stelle attraverso un vago intrico di rovi, di edere, di erbacce, cresciuto sopra alcune colonne quasi una chioma arborea.
La luna illuminava al centro del tempio un grande bacino marmoreo, colmo d’acqua limpida.
Com’egli vi pose la vista, vide un volto a lui noto, ma prodigiosamente mutato.
Una donna appariva, bellissima, la cui fronte splendeva della luminosità pura, eburnea, della luna, e i cui capelli, d’un colore tra il castano e il fulvo, scendevano delicatamente sulle spalle. Gli occhi brillavano, ed erano grandi e profondi e in essi l’iride mutava a seconda dei raggi che la colpivano, poiché era costituita da tre colori : intorno alla pupilla una tinta bruna, scura, attorno a questa un alone giallastro macchiettato di verde, e l’ultimo alone era grigio. Il viso rifletteva i lievi raggi lunari e su di esso la morbida bocca risaltava, rossa e sensuale.
Ma, quando egli, dopo una pausa di sorpresa e di contemplazione, si rese conto del viso che aveva dinanzi, non poté non essere colto da un senso di sgomento.
Era infatti quella donna, pur nelle linee dell’ovale e nelle fattezze del naso e delle orecchie squisitamente femminili, era in modo straordinario simile, anzi identica, a lui stesso.
E quando levò il volto dallo strano incantamento, s’avvide che tra le colonne s’erano insediati, al pari d’improvvise e mostruose ragnatele, dei grandi specchi, appannati e inverditi come l’acqua degli stagni e incorniciati da legno dorato, splendido e radiante.
E poi lunghi rami di mandorlo, dai fiori candidi quale neve pura, spandevano la viva e fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi in essi creavano l’illusione d’una remota primavera sui campi e sui ruscelli di paesaggi lontani.


Al mattino spalancò con un ampio gesto rituale le persiane della finestra, e il sole lo abbagliò.
Sebbene non fosse tardi, la campagna era inondata dalla luce, e le piante del giardino e i prati e le colline in lontananza brillavano, ancora velati dalla rugiada.
Gli uccelli cantavano, erano rondini e passerotti che avevano nidificato sul tetto della casa e frequentavano i rami degli alberi a frotte, rapidi, intrecciando i loro voli vivaci nell’ebbrezza del giorno nuovo.
Mauro respirò profondamente l’aria pura e fresca. Si vestì in fretta per uscire e cogliere l’ora fuggitiva.
Probabilmente Misandra lo attendeva nel bosco, dove si recava sempre a passeggiare. E forse egli avrebbe anche incontrato il marito di lei, il conte Oberto. Del resto, per molti ettari non si potevano incontrare altre persone, a parte l’esigua servitù.
Mauro si trovava nel piccolo regno di sua cugina.




Misandra, cap. 1








Sopra la montagna che sovrastava il paese, scorgevano il disco rosso del sole tramontare entro un trionfale incendio. Le lunghe lingue di fuoco si libravano sul mare azzurro cupo e le lontane linee dei promontorii francesi parevano immergersi lentamente nello specchio ceruleo, quasi dorsi di mostri marini a raggiungere le oscure profondità.
A oriente s’intravvedeva la luna pallida.
I pini sul dorso selvoso del monte Nero fremevano al venticello fresco. Il silenzio regnava nei cuori.
Loro, i compagni, forse pensavano al ritorno. Ma lui, lui non pensava. Aveva nell’animo un’immagine fissa, ossessionante fino al tormento.
E il suo sguardo perdendosi nella luce morente dell’occaso sanguigno e baluginante in guizzi ancora e accecanti saette, si socchiuse, come per mirare oltre.
E oltre vide Misandra.
I capelli aveva pari alle fiamme del tramonto, e gli occhi simili all’acque di sorgenti montane, profonde e verdi n’erano le pupille, siccome sui monti le fontane gelide scorrenti rilucono fra l’ombre degli alti abeti.
E lontano, verso il sole morente, pareva udire un lamento, un coro unanime di voci, e sembrava che un corteo lunghissimo s’immergesse laggiù, nel mare, insieme all’astro rovente. E li vedeva, laggiù, turbinare in una danza caotica, quasi al ritmo ossessivo d’una musica lugubre, inesorabile, inestinguibile. Ma essi s’estinguevano, e a poco, a poco, scomparivano entro l’arco di fuoco e di sangue.
E, mentre procedeva tra gli alberi, una musica soave ne faceva stormire le fronde profumate e lo trascinò verso una roccia in direzione del mare. Dall’alto vide, all’improvviso, l’immensa distesa che sembrava per magia cingere la montagna, come se il paese sul litorale fosse stato sommerso.
Dietro di lui lo stradone s’allargava e una sabbia rossastra riluceva ancora all’ultimo sole, ma se la cima era spoglia non così erano i lati della montagna. Donde erano saliti, l’ultima tappa alla volta della modesta vetta, qui era invece un’altissima selva di pini, tanto alti nell’abbraccio del monte per l’eccesso dell’ombra, e pareva un insondabile colonnato che reggesse una volta invisibile eppure non penetrata dai raggi.
E la selva s’allargava immensa, si moltiplicava su e giù per le colline oltre il monte Nero e oltre ancora, sovra le montagne. E la luce traspariva fra le fronde siccome tra le vetrate d’un tempio.
E il sentiero si perdeva senza meta, sotto all’altissima navata, di tra le colonne rugose e profumate del muschio che maculava il legno brunito, innalzantisi tronchi quasi fossero bronzei a sostenere il peso d’ardite volte.
E quasi una nebbia, una bruma oscura sulle pianure del Nord, essa selva si stendeva ovunque quale un’onda cupa, colma d’alghe verdi si plachi sovra il lido, e tutta empiva dell’abbraccio l’ineguale estensione delle terre, sì che pareva che innanzi al sole brulicasse un mare di fronde frementi.
E man mano che avanzava il suo passo, egli scorgeva nel verde smeraldo brillare le rosseggianti piccole sfere dei corbezzoli. Ne coglieva qualcuno che gli si scioglieva nella bocca, dolcemente.
E penetrava tra le fronde frementi che sapevano il respiro del mare. E poi, come appena uscito dal flutto che si richiudeva dietro di lui, il cammino continuava e continuavano i compagni a seguirlo. Non conoscevano essi la meta, ignari. E ben presto vollero tornare, poi che la notte annunciava la sera rapidamente.
Allora convenne a discendere. Ma, quando fu al bivio che conduceva al paese da un lato, dall’altro si perdeva nella campagna, disse loro l’addio e si volse incurante alla buia contrada.

Quando giunse al cancello della villa, l’immenso giardino era immerso in una luce rosata e tenue, una nube di vapori nunzii d’estasi oltremarine.
Quando suonò il campanello, gli fu aperto. Un vecchio giardiniere lo condusse sino alla grande porta di legno lucido.
Entrò.
L’atrio era in penombra. Un profumo di fiori lo pervadeva. Scorse vicino a una finestra, attraversata dalla luce crepuscolare, un gran vaso di ranuncoli e gerbere, di colore violaceo e blu e rosso vivo.
Nella sala, sopra il pianoforte dalla cassa verticale, c’erano altri vasi di ceramica, colmi di gerbere rosse e dei pennacchi di canna della Pampa.
E su tutti quei fiori aleggiava l’alone del tramonto. Così un’unica tinta di cielo vespertino s’era posata magicamente anche sugli arredi, sopra le tappezzerie, sui mobili, sui tappeti.
E i quadri parevano rinnovati da quella luce consueta in quell’ora, eppure insolita per i paesaggi ch’essi presentavano o per i volti che esigevano una luminosità diversa. Pure, tutte le immagini sembravano avide di quel lucore fuggitivo, quasi lo chiamassero a loro pur di non rimanere oscurate.
E per una finestra intravvide nel giardino le rose rosse rampicanti che si sostenevano al venticello intrecciate alla rete sopra il muretto di cinta, e da un lato tra le foglie notò i piccoli e lucidi frutti del susino, brunicci, quasi scarlatti.
Si voltò a un improvviso, lieve rumore. Non era nulla. Ma, mentre percorreva il corridoio, oscuro, verso la stanza che sapeva essere stata preparata per il suo arrivo, lo assalì l’onda dei ricordi, dei ricordi più lontani, quando amava d’un amore infantile quella bambina, un’occasione per rammentare il viso di colei che più non aveva veduto, e che ora gli offriva un’ospitalità silente e misteriosa, come appunto per ricordargli che altro non restava se non il ricordo.

Come fu sulla soglia della camera, aperse lentamente la porta di legno scuro. Lentamente s’immerse nell’ombra.
La stanza appariva smisurata, i mobili sembravano vaghe masse fluttuanti nel fondo.
Il soffitto biancastro era pervaso da una strana e tenue luminosità. Pareva la superficie d’un’acqua immota, illustrata dal chiarore delle stelle e dalla pallida regina della notte.
E quando si coricò nel letto, i raggi di luna s’insinuarono per le imposte chiuse. E il bianco lenzuolo lo avvolse come un’acqua chiara.