domenica 28 dicembre 2014

Edward Bulwer-Lytton Gli ultimi giorni di Pompei

Edward Bulwer-Lytton Gli ultimi giorni di Pompei Milano, Rizzoli, 1955
( The last days of Pompei )
1834


Pag. 35, presentazione di Arbace l'egiziano, bellezza satanica : “ Era un uomo che toccava appena la quarantina, di alta statura e di magra ma muscolosa costituzione. La carnagione bruna, quasi bronzea, tradiva l'origine orientale … I suoi occhi grandi e neri come la notte splendevano di una luce strana e ferma; una calma profonda, pensosa e lievemente malinconica, sembrava inalterabilmente fissa nello sguardo grave e imperioso … Entrambi i giovani, salutando il nuovo venuto, abbozzarono meccanicamente, e cercando di non farsi vedere, un leggero gesto o segno con le dita : perché si diceva che l'egiziano Arbace avesse il dono fatale del malocchio. “
Pag. 36 : “ L'egiziano sorrise di nuovo, ma il suo sorriso era freddo e malevolo, e perfino il poco immaginativo Clodio se ne sentì gelare. “
Pag. 105, la casa di Arbace, la misteriosa dimora del mago.
Spossato ed ansante giunse alla casa lontana di Arbace, e si soffermava a prendere fiato quando la luna emerse da una nube d’argento ed illuminò l’abitazione misteriosa. Nessuna casa vicina, un vigneto fitto occupava molto terreno davanti all’edificio, dietro un bosco di alberi di basso fusto illuminato dal dolce chiaro di luna. Ancora dietro, le colline lontane e la cima tranquilla del Vesuvio, ch’era meno alta di oggi. Apecide attraversò le viti contorte e arrivò allo spazioso portico. I due lati della gradinata erano adorni di due statue della sfinge egiziana, su cui battevano i raggi della luna rendendo solenne la calma delle loro fattezze armoniose e sublimi con cui gli scultori avevano dato l’immagine della saggezza, grazia, reverenza. A metà della gradinata il denso fogliame dell’aloe e la palma orientale, l’ombra dei rami sulla superficie di marmo dei gradini.
Vi era nel silenzio del luogo e nell’aspetto delle sfingi di che agghiacciare il giovane sacerdote, che saliva e tendeva l’orecchio all’eco dei propri passi. Batté alla porta, sovrastata da un’iscrizione in caratteri ignoti: le imposte girarono sui cardini senza rumore e uno schiavo Etiope, di alta statura, senza parlare gli fece segno di avanzare. L’ampio vestibolo era illuminato da candelabri bassi di bronzo lavorato, sui muri grandi geroglifici in colori sacri e foschi, che contrastavano in modo stridente con le forme graziose delle case romane. Alla fine della sala uno schiavo non africano, ma più abbronzato di chiunque, gli venne incontro.
- Cerco Arbace - farfugliò il sacerdote.
Lo schiavo abbassò la testa in silenzio e lo guidò per un corridoio, poi su per una scala angusta, poi attraverso molte stanze, dove di nuovo si affacciava la misteriosa e pensierosa bellezza della sfinge. Alla fine, in una stanza fievolmente illuminata, c’era l’Egiziano.
Arbace sedeva ad una piccola tavola ingombra di rotoli di papiro aperti, scritti con quel carattere ch’era sulla porta. Poco lontano, un tripode bruciava incenso, un profumo greve e un fumo lieve. Più accosto era un globo con i segni dello zodiaco e una tavola con strumenti di forma curiosa, di uso imprevedibile. Il fondo della stanza era coperto di un cortinaggio e il chiaro di luna entrava da un oblungo sul soffitto, mescolandosi a quella della lampada.
Siedi, Apecide – disse l’Egiziano senza alzarsi. Il giovane ubbidì. “ ( Traduzione in italiano del 2006 ad opera del Laboratorio di Ecfrastica, pag. 36-37 )
Pag. 107, discorso di Arbace sulla natura e sugli dei. La morale del superuomo. Egli non conosce altro dio che se stesso, egli è al di là di ogni legge morale umana. Il mito del ribelle, l'orgoglio di Satana.
Pag. 168, cap. VIII, si delinea il carattere del personaggio. Arbace ha tutte le caratteristiche dell'eroe romantico, trasforma la propria vita in una vita eccezionale, amorale, nemico e ribelle agli uomini e alla divinità, egli stesso è creatore di sé e foggia la sua esistenza secondo la propria volontà, cercando in tutti i modi di imporre questa volontà agli altri uomini. Egli è solo, come aquila vola più in alto, al di sopra dei comuni mortali.
Pag. 174, si parla della magia, di Ostane ( vedi Plinio, Storia naturale, XXX 2, 8 ), di teurgia e necromanzia, di Apollonio di Tiana ( vedi La tentation de Saint Antoine di Flaubert ). In particolare vedi la nota a piè di pagina dello stesso Bulwer-Lytton dove viene bene illustrata la leggenda di Apollonio. Si cita anche l'Asino d'oro di Apuleio per la figura della strega del Vesuvio.
Cfr. Metamorfosi, III, 18 : “ Tunc decantatis spirantibus fibris libat vario latice, nunc rore fontano, nunc lacte vaccino, nunc melle montano, libat et mulsa. Sic illos capillos in mutuos nexus obditos atque nodatos cum multis odoribus dat vivis carbonibus adolendos. Tunc protinus inexpugnabili magicae disciplinae potestate et caeca numinum coactorum violentia illa corpora, quorum fumabant stridentes capilli, spiritum mutuantur humanum et sentiunt et audiunt et ambulant et, qua nidor suarum ducebat exuviarum, veniunt et pro illo iuvene Boeotio aditum gestientes fores insiliunt: cum ecce crapula madens et improvidae noctis deceptus caligine audacter mucrone destricto in insani modum Aiacis armatus, non ut ille vivis pecoribus infestus tota laniavit armenta, sed longe <tu> fortius qui tres inflatos caprinos utres exanimasti, ut ego te prostratis hostibus sine macula sanguinis non homicidam nunc sed utricidam amplecterer. “
Bisogna ricordare che anche Flaubert ammirava molto questo romanzo di Apuleio e in una sua lettera afferma : “ Vi si sente l'incenso e l'orina, la bestialità si sposa al misticismo “.
Bisogna sottolineare che Arbace è un sensuale. Come Zerduste in Semiramide di A. G. Barrili ( 1873 ) anch'egli è dominato da una insoddisfatta brama d'amore che soltanto in donne di eccezionale bellezza ( Semiramide, Ione ) può trovare pace, per questo in ogni loro azione sia Zerduste che Arbace mirano a un solo fine : ottenere con ogni mezzo, sia pure la violenza, di essere ricambiati.
Pag. 184, saggio di arte illusionistica, si noti la straordinaria somiglianza con l'apparizione del fantasma di Sandi in Semiramide. Evidentemente Barrili ha copiato da Bulwer-Lytton.
Pag. 212, la riunione segreta dei primi cristiani : esempio di associazione segreta. Non dobbiamo dimenticare che le società segrete ebbero particolarmente nel XVIII e XIX sec. grande diffusione, per molte ragioni serie ma anche per moda, compresa la moda letteraria, vedi Péladan e lo stesso Bulwer-Lytton appassionato di pratiche occulte. La società segreta è una società di ribelli e congiurati, così è anche nel libro di Barrili ( la triade ), sia che venga costituita da pagani o da cristiani o da eretici, essa è sempre una associazione in lotta col potere legittimo.
Pag. 261, la strega del Vesuvio, l'adoratrice di Ecate. Bisogna ricordare che nel 1829 Hector Berlioz compose la “ Symphonie fantastique “ in cui è compreso il “ songe d'une nuit de sabbat “, l'atmosfera culturale dell'epoca subiva il fascino del tenebroso, del satanico. Basta ricordare il Faust di Goethe. Non dimentichiamo poi l'influsso della lettura delle Mille e una notte, delle Metamorfosi di Apuleio e delle saghe medievali.
Pag. 326, il filtro magico, anche per questo motivo c'è una lunga tradizione, si veda l'Asino d'oro ( la metamorfosi di Lucio in asino ), le Mille e una notte, per fare riferimento alle opere più note, in Semiramide il filtro di Sumati. Il filtro è elemento tradizionale del romanzo d'amore, basti pensare a Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta.
Pag. 423, il sogno di Arbace, anche qui la tradizione è vecchia, basta citare l'Asino d'oro XI, 3 ( apparizione al dormente di Iside ), quanto a Semiramide, vedi pag. 242-245 ( ed. Treves ) il sogno di Semiramide. 


























































































 

mercoledì 24 dicembre 2014

Filosofia spicciola





La vita dell'individuo ha un principio e una fine.
Poniamo che dopo la morte sia il nulla, dunque anche prima del principio era il nulla. Ne segue che la vita dell'individuo è “contenuta” nel nulla. Ora è mai possibile che il nulla contenga qualcosa ?
Mi si dirà che l'individuo ha una causa ossia l'unione di seme e ovulo, ma questo è come il celebre dilemma se sia nato prima l'uovo o la gallina.
Consideriamo come individuo tutto l'esistente. Viene dal nulla ? Se sì, allora il nulla contiene tutto l'esistente. Ripeto, è mai possibile che il nulla contenga qualcosa ?
La risposta più ovvia è che il nulla contiene il nulla e che dal nulla nasce il nulla.
Dunque il nulla non può generare il manifestato. Il manifestato sarà dopo ciò che non è manifestato ancora, dall'immanifesto. Il cosiddetto nulla è quindi l'immanifesto, se è qualcosa. Il nulla è dunque ciò che non ricade sotto i nostri sensi, ciò che non appare, quello che Kant chiamava il noumeno. Il nulla è inconoscibile, ma è tale per l'uomo che per conoscere ha bisogno dei sensi.

L'uomo è condannato a cercarsi e a non trovarsi mai, poiché egli è il noumeno che si manifesta e può conoscersi solo come fenomeno, così conosce soltanto ciò che ricade sotto i suoi sensi cioè l'apparenza e mai la verità assoluta.
Egli tende al vero e non lo raggiunge, fugge l'apparenza alla ricerca della verità ultima e viene continuamente respinto nel relativo, nel mutevole, nel falso. E' scisso nel proprio intimo, esiliato in un mondo estraneo, ma confinato in quel mondo per sempre.
In quanto Io cioè Noumeno non appare se non nella mediazione del fenomeno cioè nella manifestazione. Essa si realizza grazie ai sensi e solo tramite essi.
Così noi vediamo, sentiamo, parliamo ad altri fenomeni, ma non con altri Noumeni, questi ci rimangono del tutto sconosciuti.
Crediamo di amare e non amiamo che l'apparenza, crediamo di conoscere e non conosciamo altro che i fenomeni, solo ciò che ricade sotto i nostri sensi.
La Verità ultima ci sfugge, ci sfugge la vera altrui personalità, se amiamo, amiamo un'immagine.
Ne segue che la conoscenza del fenomeno è ingannevole, noi di fatto non conosciamo proprio nulla.
E se non conosciamo nulla ne segue anche che non conosciamo l'Immanifesto e che inoltre Esso non è il nulla.

domenica 21 dicembre 2014

Misandra, cap. 22





Al mattino si svegliò in preda a una estenuazione nervosa. S’alzò, si vestì e corse sul balcone ai raggi del nuovo giorno.
Il cielo era limpido, una lieve brezza spirava sulle onde, e soltanto una lunga nube si disegnava verso il promontorio e sopra il mare, bianca e sottile. Le gazze gracchiavano volando di ramo in ramo, sugli ulivi ondeggianti al venticello, sullo sfondo azzurro del mare e del cielo. Era lo scenario ideale per l’artista che avesse potuto coglierlo e disporlo sulla tela, e questo certo fu il primo pensiero di Mauro. Ma la bellezza che circonda l’uomo lo trova non tanto indifferente quanto spesso inetto a comprenderla e tanto più a imitarla.
Uscì dalla stanza, dirigendosi verso la spiaggia. Prese la via più breve, per la breccia nell’alto muro del giardino. Quasi muraglia d’una città vetusta i blocchi di pietre erano smossi e abbattuti nel luogo più remoto, tra gli eucalipti e le canne, e si poteva passare fra le grandi pietre disposte a secco come le rocche dei tempi eroici.
Le onde dolcemente si stendevano sul lido sabbioso e sembravano voler lambire i cespugli dei giunchi e giungere sino ai pini e agli alti eucalipti. Sui colli verdeggiava brillante la gran selva della terra corsa dai raggi vivaci.
Verdi sotto il sole le onde dileguavano, quale eco di canti fra le montagne. Un murmure alterno tra le fronde afflava e insieme alle foglie carezzava i suoi capelli.
Come lo invitavano le rive solcate dal flusso, egli depose i suoi panni ed entrò a poco a poco nel grembo delle varie scintille. La corrente fresca lo avvolse, ed egli si slanciò proiettando sul fondo la sua ombra fluente. Si sentì rapito dalla profondità, dalle rocce e dai pesci che sfrecciavano in branco. Ma la necessità del respiro lo trasse a squarciare il vello ondoso, a mordere l’aria. L’insidia gli era accanto e lo blandiva. La paura rapidamente lo spronò alla riva ed egli placò fra i giunchi il turbamento, e la stanchezza cogliendolo stornò i ricordi dei sentimenti convulsi. Il torpore e il tremolio delle correnti lo trasse serpeggiando tra sporgenze di madreperla, candide e rosee.
Una torre a spirale culminava in una cupola irregolare e lucente di linee occhiute e di bizzarri arabeschi, e rilievi smeraldini ed eburnei quasi orli arcuati di pagode ornavano il palazzo immenso. La porta ovale d’una colossale conchiglia albicava al pari dell’ambra. L’interno abbagliava di bracieri e stordiva d’incenso. Ciclopiche statue di divinità indù troneggiavano in un’espressione di beatitudine indifferente e innanzi a loro su alti tripodi bruciavano le offerte. Mostri di basalto digrignavano le zanne ai lati oscurati dalle colonne rivestite di serpi, sorrette da elefanti marmorei. Nell’alto, un vortice alla vista, la cupola gigantesca si perdeva, insondabile, avvolgendosi quale torre di Babele e risuonando delle strida dei corvi.
Su cuscini color rubino una donna con dita leggere sfiorava il contorno dei seni e un serpente strisciava oscillando fra le sue caviglie, il capo eretto e gli occhi come fiammelle. Ma oltre gli si negò il sogno, un libro chiuso.

Tutto era dunque perduto per sempre.
Era tempo di partire.
Preparò le sue cose in fretta e uscendo dalla villa rivolse per qualche minuto lo sguardo a considerarne il fascino e la misteriosa bellezza. Tre ampie cupole la sovrastavano coperte di lastre grigie, poggiando su un’architettura in stile floreale, muri e colonnati e travi d’un color giallo sabbioso. Attorno l’ampio parco la coronava della sua fronda lussureggiante di cedri del Libano, palme, pini, eucalipti. Si scorgevano in volo le gazze e s’udivano i merli cantare vivaci e fantasiosi fra i cespugli. Bisognava andare.

Mentre egli saliva il sentiero della montagna, e il suo cuore si ostinava a salire, vide levarsi del vapore misto a brandelli di arso fogliame. Non comprendeva donde provenisse quel monito. Quando giunse alla meta cui il suo cuore anelava e fu nella radura radiosa sotto l’ombra degli alti pini dove frinivano le cicale nell’ora sacra al grande dio Pan, allora s’accorse che il sentiero che aveva percorso era minacciato da voraci lembi di fuoco che crepitavano e crescevano e colmavano il cielo in un ampio boato. Tentò quindi di scendere per il sentiero e di tornare, ma le fiamme, ormai molto elevate, stavano già divorando gli alberi sulla via e i cespi di ginestra selvatica.
Il vento rinforzava, empiendo le lingue vermiglie, vaste vele correnti sovra la selva arida. L’incendio saliva velocissimo, un’ondata rombante, inondando il versante del monte in forma d’un braciere inesausto.
Egli si vide perduto, e si precipitò in corsa, ansimando, in preda al panico. Ma poi scorse una via di scampo che conduceva ad un altro pendio della montagna. Non cessò di correre, poi che le fiamme incalzavano. E tuttavia gli parve d’essere pervaso anch’egli da quelle fiamme cui sfuggiva in un balzo d’agile animale, e che quelle fiamme così alte e terrificanti e onnipotenti gli trasmettessero la propria forza e la vigoria della divinità.
E quando fu in salvo per un altro sentiero, dopo una corsa ansiosa, e si volse a contemplare le torri di fumo denso e rossastro che empivano il cielo quasi estese nubi di tempesta, capì che per lui erano sorte e da quelle era stato purificato, ostia risparmiata dal sacrificio, e un dio gli aveva offerto quella gioia, serbata ai pochi, di sentirsi così vicino alla morte.
Egli vide sollevarsi sovra la montagna la corsa del dio vittorioso e il suo destriero splendido di crini accesi, asceso dalla terra alle folgori della tempesta, e il suo volto si perdeva nel cielo.
Nell’ebbrezza ebbe la triste sorpresa. Nel rogo immane era avvolta la villa di Misandra. Un fumo denso saliva al cielo e si scorgevano le mura nerastre, ormai prive del tetto.
Qual era stata dunque la sorte di Misandra ? Ormai era troppo lontano per saperlo, il suo cammino non gli permetteva il ritorno e il fuoco ancora crepitava per tutto il versante della montagna.
Ne avrebbe avuto notizia, ma troppo tardi.
Continuò dunque a camminare e arrivò in una radura dove sorgeva un riparo di pastore, tutto di pietre a secco.
Era quasi il tramonto. Un vecchio era l’unica presenza umana.
Come una scintillazione di rapida vita gli esultò d’un tratto nel corpo. Gli si dilatò l’anima dentro con impeto com’era giunto al vertice del colle, e gli ulivi ad ondate grigie si stendevano sotto di lui. Si sentì partecipe della sicura quiete delle cose viventi, respirò l’aria, strinse con la mano un tronco ruvido d’ulivo.
Stava il vecchio innanzi alla visione del mondo.
Era seduto a margine della strada, con un bastone in mano, l’aria tranquilla. Guardava di fronte a sé l’estesa catena delle montagne illuminate dal sole.
Così, mentre passava, egli vide un vecchio e s’immedesimò in lui. E gli parve essere ai confini della vita, innanzi alla vista immensa delle esistenze passate e future. Come se attraverso le fibre del corpo filtrassero gli aneliti di tutte le vite umane, sentì nell’attimo la rivelazione. In lui trascorreva l’eterno divenire, in lui trascorso avrebbe continuato il suo fluire in altre forme, in altre esistenze.
Lo ammoniva il vecchio, gli diceva con lo sguardo : “ Accetta il destino “. Ed egli abbassò il capo.
Una sensazione opprimente stringeva come una morsa le tempie e il suo cuore. Ma nel silenzio, un gelido manto, ecco un’idea insopprimibile gli si fece innanzi. Certo era così, nella sua solitudine egli non era solo, perché quella solitudine era comune a tutti gli uomini, a tutti gli esseri viventi. Non era solo nella sua solitudine !
Allora ricordò le parole del filosofo errante per le vie di Torino, del filosofo folle e denigrato e pur voce vivente, parole che risuonavano, una volta attinte alla fonte, dallo strumento della memoria. E lo ammonivano, nella consapevolezza della solitudine dell’uomo della conoscenza, della vecchiaia inesorabile che reca con sé solo il fardello della saggezza. Intravveduta la luce della vita da lontano, come un miraggio di meridiano splendore, come un attimo di gioia, lo colgono ben presto le nebbie della morte, ma egli ha veduto ciò che in ogni vita e in ogni tempo non sarà mai dimenticato.
Allora considerò il tempo trascorso in quell’angolo della terra, nella solitudine della giovinezza. E vide correre gli anni cinti dalla desolazione, dal tormento dello spirito, dall’asfissia del vincolo familiare. E scorse in un attimo i volti assurdi delle compagnie e delle scarse e vane amicizie, come una sfilata di maschere, e ne rise nel suo cuore di un riso amaro.
E, nell’ombra dilagante, sopra di lui, non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro indiscernibile senza fondo.
Ormai egli era certo. Ai suoi piedi e dietro le due colline ai lati si dilatava il mondo enorme dell’innumerevole società umana. Città gigantesche, rimbombanti di rumore di macchine, accomunavano in un fato senza nome milioni di uomini e tutti aspiravano a un incessante lavorìo di brame, a uno spossante travaglio, ma sopra, sempre più appesantendosi, si posava un’immensa nube nera, colma d’inerzia e di morbo.
Una nuova età s’approssimava, un’era cupa e piena d’orrore.
Senza più sentimento, piegò il volto sul petto, stanco.






domenica 14 dicembre 2014

Misandra, cap. 21





Alla finestra della propria stanza coglieva, con il trapassare del giorno in lunghi lembi violacei come il sangue del sole, la luce lunare sul volto immobile. Immaginava che oltre l’orizzonte si fosse scatenata l’orrenda battaglia degli dei e dei giganti e ne crollasse l’universo, così come si narrava nei canti barbarici, e il suo cuore si nutriva di una strana voluttà. Una musica a lui nota sorgeva dalla profondità del ricordo e fantasie colme di ebbrezza tornavano ad agitarsi nella sua mente. Ma insieme tutta la massa delle memorie arrivava, ahimé, non perdute, e lo circondava con volti noti e misteriosi.
Intuiva l’abisso della coscienza, e che affacciarsi sul baratro significasse sfidare temerariamente le proprie forze.
La folta vegetazione del giardino era mossa dai sussulti di un vento caldo. Un greve sentore, un torpore sconosciuto proveniva dal fondo del groviglio silvestre.
Un luminoso colibrì dal piccolo capo smeraldino, dall’ali rubre, dalla pettorina turchese sortì dal suo letto di fiori. Quale trillo di sonagliere che preannunzi l’arrivo d’un personaggio atteso ma sconosciuto, lampeggiò il vivace volo, un rapido raggio che traversa l’aria frizzante nell’aurora.
Il vento dolcemente spirava sommuovendo sulla nuca d’un biondo cavaliere le ricciute chiome ondeggianti parimente al mantello, che morbidamente ricadeva sui fianchi lucenti del destriero fulvo, il quale fieramente avanzava in misurata cadenza percotendo il suolo, agile e lieve, ergendo il collo possente su cui la criniera fluttuava. Il volto del cavaliere era ombreggiato dal pallore della bruma che s’innalzava nel sorgere della sera. Il suo sguardo vagava ad una collinetta non lungi dalla riva del mare, donde si propagava un canto simile al dolce spirare dell’aurora che risveglia la terra e fa palpitare le onde.
Un’aura senza mutamento circondava di lucori cristallini il colle rivolto al bruire marino, alla cui sommità appariva un coro festevole di giovani donne. Un candido Pègaso aleggiava intorno con le ali dalle penne di fiamma, che raccoglievano nella trasparenza del finissimo tessuto tutta la ricchezza ramata dell’ora vespertina, come a protezione d’un mistero profondo che si celasse al mondo dei molti per rivelarsi nel risveglio degli eletti.
Un giovane, dalla lunga chioma bruna e dal corpo puro quale avorio a tratti velato di tonalità azzurrine, immergeva lo sguardo nell’epilogo oltremarino. Dalla sua bocca illuminata emanava un canto dolcissimo. Attorno al suo corpo, pervaso d’un colorito roseo, le Muse danzavano e libravano le dita sottili sovra antichi strumenti a corda, strani quali le parole dell’inno. L’astro, come un dio onnipotente che rinunci al trono di gloria per svanire in un sonno eterno, copriva il capo innanzi al mondo.
E il mare era ormai un’immensa distesa oscura, solo riconoscibile dal rantolo roco. Ma in quel rumore pareva salire una rabbia repressa e avvolgersi in spire crescenti. E una passione non mai soddisfatta, non mai consolata si piegava su se stessa, contorcendosi, fremendo, piangendo, urlando. E i legami del furore s’avvinghiavano in reti vorticose, inghiottivano ogni speranza nei gorghi lividi, mentre il vento fischiava, ululava impazzito. Le onde s’aggrovigliavano in schianti istantanei, un urto stridente di lamine bronzee, che si scindevano in creste furenti a perdersi nel cupo manto cilestre. Come mani gigantesche le ondate si volvevano sopra se stesse abbrancando il vento alla cieca sotto il vano lume delle stelle, mentre le tenebre velavano ogni elemento mobile e mutevole quale un nero vapore sul mare insondabile.
Con un suono di dischi d’argento o di cristalli infranti le onde si schiantavano le une contro le altre come i rami agitati di un’immensa foresta preda del turbine. Nere come chiome invase dal fiato furente dell’aria si levavano e si prolungavano indefinitamente verso l’orizzonte e verso le rocce del lido s’impennavano caparbie e ostili, lunghi capelli neri fluttuanti.

Mauro non poteva dormire. L’angoscia aveva preso il sopravvento. Un’oppressione insopportabile lo costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi alla finestra. La aperse e per alcuni istanti respirò profondamente l’aria balsamica della notte. Poi i suoi occhi s’immersero nell’oscurità, a contemplare in alto la luce gialla delle stelle e nel giardino le corolle grigiastre dei fiori, ormai insignificanti. Udiva il mormorio della fontana nel silenzio profondo e gli pareva volesse rivelare qualche segreto. Volse lo sguardo intorno, ma il resto della casa era al buio. Solo una stanza pareva ancora illuminata. Era la portafinestra della camera di Misandra, che dava sul balcone. Aveva le tende accostate alle pareti si che poteva agevolmente scorgersi l’interno. Tra gli armadi neri spiccava il letto bianco. Due figure v’erano distese, la cui nudità levigata rifletteva la luce della luna come le morbide corolle dei tulipani o le curve delicate delle ceramiche colme di fiori.

Ella accolse l’amata tra le sue braccia e le sfiorò con la punta delle dita la bella schiena rosea che i raggi della luna accarezzavano. Le ombre giocavano con le sue dita, lunghe e sottili, e, risalendo alla chioma nera come la notte, si confondevano coi capelli seguendo il moto fluido delle mani.
Ella depose un bacio sulla nuca dell’amata che si adagiava, vinta dal sonno, sui cuscini. Ergendosi, discese dal letto, nuda e bianca. Era magra e levigata come marmo vivente. Le lunghe gambe, i fianchi eleganti innalzavano il ventre sottile e il busto su cui sbocciavano i piccoli fiori violacei e delicati, un collo candido, l’opale del viso ancora nella penombra del capo, uno scintillare di pupille mobili. La luce e l’ombra s’alternavano sul profilo cangiante della sua nudità, che pareva, nel buio della stanza, essere l’anima furtiva della notte.
Con rapide movenze spalancò la finestra. La stanza accolse l’onda carezzevole della luce lunare. Ella se ne stava in piedi avvolta dai raggi d’argento, quasi una ninfa del mare che esce dall’acque, per essere scorta dal pescatore ancora assonnato sovra la barca dondolante sulla scintillante e violacea distesa. E la sua sagoma si rifletteva nello specchio della vasca marmorea del giardino sottostante, della fontana ove l’acqua susurrava in ritmi d’onde nate nel gorgoglìo delle spume dai getti lattei delle cornucopie. Nel flutto l’immagine sua s’allungava e si perdeva nel fluido incanto di lire e di flauti, fondendosi con i fiori delle ninfee e intorno nel profumo delle piante mormoranti.
Mauro assisteva alla scena da una finestra di fronte, all’altro lato del chiostro. Ogni cosa aveva veduto e nulla gli era ormai ignoto. Immobile rimaneva nell’ombra, come un’insidia. Ed ella, pur non potendo scorgerlo, guardava proprio verso di lui, insistentemente, sicuramente ignara, e le sue pupille parevano riflettere i giochi di luce della fontana e baluginare sinistre fra i vapori della notte.
La luna splendeva alta, d’una luce fulva, un ampio specchio ovale dov’erano racchiusi i misteri notturni, che ora venivano svelati, essendosi essa dischiusa come un grande occhio.
Il disco d’ambra sovra il mare irradiava l’incantesimo tra la folta vegetazione dei boschi, serpeggiava la sua malìa fra le fronde scure e palpitanti del giardino, abbracciando i tronchi, vellicando le foglie, insinuandosi nei fiori.
Allora gli parve scorgere, nell’abbraccio delle tenebre, discendere nell’ignota oscurità una donna, bella ed alta, dal viso triste, come avesse per sempre perduto un incanto di sogni e di gioia.
Ella sormontava le creste del mare nel fragore dei venti contrastanti coronata degli astri sorgenti, e la cupa chioma carica di profumi e di corone di fiori procombeva sopra il suo corpo argenteo. Era sollevata dall’onda furiosa, regina delle vie marine e delle vie del cielo, pallida, e con fredde mani reggeva il papavero rosso dell’oblio, che baciava con languide labbra. Sotto di lei fluiva l’eterno fiume d’oro, d’improvviso fiorendo ad un sole occiduo in cerchi roteanti e barbaglianti quali sfere ignite, crollando in subitanee cascate e innervandosi in trame e rabeschi e in rinnovate cateratte frementi. Sotto di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a fiotti dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla terra a saziare i ricordi dei morti, a nutrire i campi di grano e nuove speranze e forze nuove d’esseri avidi d’esistere. Consapevole del suo potere risuona tumultuante il sacro bosco, e delle vittime offerte le ceneri vengono sparse sulle terre da arare, poi che ogni cosa finisce e rinasce nel medesimo modo e dal seme di vita cresce la morte.
Era l’ultimo giorno, l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute. Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La vita incessante, tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di speranze oltre la morte ?

Sul balcone era buio. La luce era scomparsa. Mauro uscì dalla stanza. Era inebriato, esaltato e nel contempo invaso da ignote furie e perciò si diresse inconsciamente verso il luogo dell’apparizione.
La porta dell’appartamento di Misandra era stranamente aperta. Entrava, errava per sale silenziose, il cui soffitto a lacunari era molto alto e l’ambiente pervaso da un lume vermiglio che svelava le oblunghe finestre gotiche e finiva sopra i pesanti arazzi che pendevano dalle pareti. Libri e strumenti a corda e flauti erano sparsi dovunque su cassepanche, tavoli e savonarole. L’eco dei suoi passi era l’unico rumore a fargli compagnia. Un grande candelabro era posto sopra un pianoforte. La luce vagava fra le ombre.

La luce era nell’altra camera.
Egli entrò, inondato dalla luce degli specchi, mentre la donna, apparentemente, dormiva sul grande letto bianco. Si curvò sopra di lei e ascoltò, avvicinando al suo seno l’orecchio. Non udiva il battito del suo cuore.
Io non sono vivente “ gli parve sentire. Si voltò improvvisamente.
La crisalide lignea era là, in piedi, e gli sorrideva maligna, identica alla donna distesa e similmente vestita. Lo guardava fissamente, e i suoi occhi si muovevano come gli occhi delle bambole meccaniche.
Un’ira inesorabile, cupa, devastante invase la sua mente in un’improvvisa eclissi del lume della ragione. Barcollante si diresse verso la porta e corse via, in preda a un sudore gelido. Le sue pupille si dilatavano nel buio della notte, egli voleva vedere oltre l’orizzonte della sua mente, ma era impossibile.





sabato 6 dicembre 2014

Misandra, cap. 20

Appena i sommi monti cospargeva del suo lume il giorno seguente, quando dall’alto gorgo s’innalzarono i cavalli del Sole e soffiarono luce dall’enfiate nari . E le onde pigramente si distendevano, pigramente si ritraevano. Ma la tempesta di luce invase rapidamente l’orizzonte e tutto in breve sommerse. Così nacque un nuovo giorno. E Mauro si fermò sulla sabbia e guardò a lungo la distesa del mare.
La navicella era ormai lontana, un’esile sagoma nera, seminascosta dalle rocce che s’inoltravano nel mare profondo. Sul lido sinuoso, al riparo dalla massa erta d’alberi tortuosi e di rupi, ove l’onda si cullava mite e dormente, un pastore con gesti lenti e cauti smuoveva col suo vincastro la sabbia a riva intorno a una reliquia d’un antico naufragio. Più distanti, presso qualche cespo di giunco, le pecore belavano timidamente.
Nel mattino dello stesso giorno una navicella leggiadra era trascorsa vicino alla costa, colla vela quadrata tutta variopinta e lunghi vessilli e canti e profumo di fiori, e poi s’era dileguata carezzata da Zefiro nel corteggio di Venere. Ma a riva aveva dimenticato i suoi sogni.
Il mormorìo di acque croscianti fra i sassi lo colse mentre era intento all’alto mare, e improvvisamente scorse quasi dietro di lui, dopo un cespo di giunchi, la spuma d’una cascata, un rivo d’acqua piovana, che danzando in vortici innumerevoli fluiva verso l’onda salsa e cupa. Ma brillavano i fiotti del rivo innanzi all’alba, come un saluto, e correvano verso la luce, gioiosi.
Ricordava. Mentre passeggiava lungo la riva, l’immenso mare risonante gli alitava contro l’umido fiato salso, i gabbiani gracchiavano volitanti. E lui era perduto nella sua malinconia, e pensava gli anni non vissuti e che mai nessuno avrebbe potuto vivere, tanto ricca e onnivora sarebbe stata quella vita bruciante e ardente di desideri inespressi e inesprimibili. Ed era il suo cuore quale una coppa di vino generoso troppo colma che trabocca, e il suo contenuto si disperde e nessuno osa portarla alle labbra, per timore di macchiarsi la veste. Così egli rimaneva inerte, arso internamente da una fiamma destinata a estinguersi, dopo avere distrutto ogni cosa.
Ma ora conosceva finalmente la realtà. E quel mondo di sogni lussureggianti e rutilanti quasi un’immensa foresta equatoriale invasa da voli di migliaia di uccelli variopinti d’ogni specie e da miriadi di insetti luccicanti e giganteschi e di farfalle dai vivi colori, attingenti il nettare da corolle purpuree e iridescenti come gemme splendide, e da orchidee inebrianti e mostruose, quel mondo s’era rivelato di tanto superiore alla realtà quanto una meravigliosa statua vince di grazia e di bellezza e d’eterna gioventù ogni misero corpo caduco, il cui fiore svanisce al tramonto della stagione.
E cos’era allora la realtà ? Se analizzava la propria esistenza poteva osservare con un vago senso di disgusto ch’essa era in effetti quanto di più piatto, banale, ed in definitiva di basso e di volgare si potesse immaginare. Perché la volgarità autentica sta tutta in quella perdita volontaria di immaginazione, in quell’immergersi nella quotidianità che rende inevitabilmente limitati, anonimi, vuoti ed ottusi. Ed egli avvertiva quanto la massa degli uomini è senza rimedio bassa e comune e come crogiolandosi in un’apparente vita gioconda sguazzi lorda nel pantano compiaciuta, pari a una mandra di bestie merdose e lubriche. E sebbene il tutto sia ammantato di belle vesti e di monili luccicanti e di portamenti alteri o di frasi timorate, o talvolta da atteggiamenti pieni di riverente decoro e di sacerdotale saviezza, pure non si cessa d’avvertire con un senso di sgomento l’impercettibile odore di cadavere che avvolge il mondo “reale” degli uomini che nascono e muoiono a nugoli, come le mosche.
Guardava il mare. Non più spirava la brezza. Immoto esso si stendeva appena sciabordando contro gli scogli. Si avvicinò alla riva. L'acqua era limpida, trasparente come cristallo. La vampa del meriggio vi si posava in abbandono, il cielo vi si rifletteva in un dolce oblio.
Ma ebbe innanzi agli occhi il fluire delle estati trascorse e un vago sentore del profumo della giovinezza. E gli parve di scorgere nell’effluvio salino del mare la forma, l’ombra d’una donna che s’immergeva, che s’allungava fra le onde dardeggiate dai raggi d’oro.
Ma ebbe il pungente sentore dello scorrere del tempo attraverso il suo corpo, reso stranamente più vecchio dalla consapevolezza del suo cammino inarrestabile. Si sentiva una goccia di pioggia caduta dal cielo a svanire nell’infinità dell’oceano. E non era un destino di morte. Era la stessa vita che, attimo dopo attimo, lo sottraeva a se stesso, lo immergeva in un torpore pari all’oblio, quell’oblio che è tutto della coscienza e ci rende stranieri a noi stessi per sempre. A che vivere ? Era forse questa la vita che si era augurato nelle fantasticherie dell’adolescenza ? Forse se avesse saputo allora che era proprio questa, non avrebbe desiderato di continuarla un attimo di più. Ma certamente prima o poi la sua vista sarebbe stata liberata dall’inganno del velo di Maya ed egli avrebbe avuto la rivelazione che pone fine ad ogni sofferenza come ad ogni desiderio. Così sarebbe stato, poiché tutto è illusione.
Vagamente ricordava l’immagine del poeta, e, se avesse potuto averne il libro tra le mani, avrebbe riletto i versi seguenti :

Era la vita. Dopo il moto alterno
d’un’onda sola che salìa cantando,
scendea scrosciando, mormorava il mare
immobilmente. E molte vite in fila
salìan dal mare riscendean nel mare :
quindi l’eterno. E dall’eterno altre onde :
i figli. Altre onde dall’eterno : i figli
dei figli. E onde e onde, e onde e onde … “

Così s’allontanava anch’egli sulla riva del mare. E incamminandosi per le dune sabbiose e tra brulli cespi di giunchi, la sua sagoma si stagliava oscura contro il sole, un’ombra triste, debole. Dov’erano le fanciulle d’un giorno ? Dove le illusioni dell’immaginazione ancora ingenua, non ancora intaccata dal sentore di morte ?
Ma quelle illusioni non erano solo le sue, sarebbero state le illusioni di tanti nel tempo a venire, un giorno più bello di altri. Tutto passa, scorre e ritorna, come un ruscello nel mare che riconduce l’acqua delle piogge generate dagli stessi vapori del mare. Tutto muore, perché dunque lamentarsi ? Compiuto un ciclo ne inizia un altro e così la storia continua. Chi può dire se vivremo ancora, chi può dire se siamo già vissuti ?
Una voce sorgeva dall’abisso della coscienza, gli diceva : “ Accetta il destino, solo così sarai liberato nell’abbraccio della morte “.
Ma quando discese, per l’ennesima volta, il disco del sole oltre le acque violacee dell’orizzonte, allora nell’atmosfera bluastra lo avvolse il solito misterioso torpore, ed egli rivide nel breve spazio di qualche minuto la propria monotona esistenza scandita nei ritmi del metabolismo suo e cosmico, invariabile come i variabili giorni che nell’apparente mutevolezza sempre trascorrono all’uniforme tocco del tempo.
E si sentì pervaso dal gelo dell’eternità, in un brivido dell’epidermide, una sensazione di bruto, priva di consapevolezza e perciò terribile. E, mentre gli si arrestava il sangue e si annebbiava la vista e gli pareva che le tempie fossero immerse in un’acqua fredda, avvertì il silenzio dell’infinito e pure l’immobile, strano a dirsi, corsa dei pianeti, e una mano di ghiaccio gli strinse il cuore.
E nel manto infinito del crepuscolo egli scorse la lunga ombra degli esseri già avvolti dalla tenebra, lamentosamente precipitarsi nella morte. Egli scorse il corteo funebre degli eroi, rigidi sul catafalco, tra le fiaccole e gli inni della gloria, e vide i loro roghi splendidi sul mare. Considerò allora la propria vita non più lunga d’un giorno, destinata a svanire in una eterna notte. E il dèmone lo invase, implacabile. Il dèmone della distruzione, dell’offerta votiva del sangue, il dèmone che ha sete e brama il sangue schiumante delle vittime svenate. Il volto s’irrigidì, non più svelò alcun sentimento umano. Ah, questo era dunque il retaggio della solitudine, dell’abbandono, un immenso, bruciante, infecondo deserto di sabbia e di tormentosi venti omicidi.
Ma quei venti non erano forse il respiro incessante dell’Essere, della Vita incoercibile, ah, certo, d’un dèmone assai più potente degli uomini. Terribile, questo dio circondato di belve possiede certo i segreti dell’esistenza, e ogni forza con assoluto potere sprigiona e domina.
Oh, quanto vanamente l’uomo crede o spera di poter domare quell’Essere ! Tanto è più grande e più forte di lui che tutta la vita degli uomini sembra un racconto la cui trama dipenda dal capriccio d’un sempre insoddisfatto scrittore, Egli mira per le Sue vie e le Sue ragioni stanno spesso negli intoppi della Sua penna. E l’uomo s’illude di governarsi con la ragione, quando questa non è che una scusa con la quale far tacere una buona volta il pungolo della fastidiosa ignoranza.
Tuttavia una strana calma sopraggiungeva. La calma dell’indifferenza, la quiete della sconfitta, della resa definitiva. Scopriva a poco a poco che per vivere ogni giorno doveva ogni giorno morire e lentamente staccarsi dalla vita. Doveva separarsi da ogni affetto, da ogni desiderio, serbarsi immoto e imperturbabile come una statua di granito, altrimenti come un frutto troppo maturo sarebbe marcito ancora attaccato al ramo. Doveva per vivere, vivere morto.
Ebbe sopra di lui la sensazione di un influsso maligno, era posseduto da un torpore malsano, da un innaturale desiderio di sonno, di oblio. Ricordava i discorsi delle persone volgari che un tempo lo avevano consolato e incitato alla vita, e quale vita ? La loro ? Ma se erano già morti da tempo e non se n’erano neppure accorti !
Siamo davvero dei bambini illusi che presumono di sapere qualcosa e invece non sanno nulla. Quanti discorsi tronfi, quante arie di importanza ! Imbecilli, che esprimono con sussiego tanto quanto è il vuoto del loro cervello.
E pensò allora a una strofa del Canto dell’Illuminato : “ Chi, essendo soggetto a morte, malattia e vecchiaia, trova diletto in chi è a sua volta partecipe di morte, malattia e vecchiaia, e non se ne turba, è pari alle bestie e agli uccelli. “

Mentre tornava alla villa lo assalse improvvisa l’angoscia, il senso profondo di solitudine e d’abbandono. Lo strinse implacabile alla gola, lo piegò quasi su se stesso, sì che gli pareva non poter più sostenere il peso dei ricordi. La sua vita era insopportabile ! Il suo essere medesimo gli era alieno, e un invincibile disgusto s’impossessava di lui come una mania che la volontà non domina.
Affranto, disorientato e smarrito percorreva il sentiero ghiaioso nervosamente e per qualche tratto correndo, inutilmente volendo sfuggire all’assillo.
E quando giunse nelle vicinanze del giardino, udì voci allegre di fanciulle che echeggiavano nei meandri intrecciatisi fra le piante secolari e frementi.
Colse nell’affanno un’onda di respiro silvestre, profumata di rose, di mirto e di resine. Si fermò, ebbro. Udiva le voci risuonare nell’aria. Il crepuscolo effondeva i suoi bagliori purpurei fra le membra degli alberi ondeggianti alla brezza. La villa era ormai una sagoma oscura tra i rami. Le voci divenivano più fioche. S’allontavano verso l’edificio.
Oltrepassato il cancello egli ne colse ancora l’incanto diffuso nel verde labirinto. Si sentì pervadere dal desiderio. Vide il getto schiumante della fontana dell’antico delfino e respirò un fresco e intenso odore di muschio e di foglie putrescenti. La sera lo ammaliava con soave sentore di morte. L’orlo del laghetto era circondato da cespugli rosseggianti di belledinotte che in quell’ora schiudevano le corolle.
Egli s’inoltrò nel buio, sotto gli eucalipti, e avanzò lentamente, un’anima perduta. Immaginò di scorgerla, di incontrarla nel giardino. Gli appariva il suo viso, pallido ai raggi della luna sorgente, coronato dai capelli misteriosamente neri come la notte. Immaginò ch’ella lo osservasse intensamente e che la luce degli occhi le variasse in ogni istante, pari al scintillare delle onde sotto le stelle. Sognava d’abbracciarla, di tenerla, d’essere invaso dal suo profumo, dalla sua bellezza.
Ma aveva innanzi a sé null’altro che l’ombra del proprio corpo, percettibile appena al chiarore del crepuscolo, un’ombra che s’allungava e si perdeva nell’ombra degli alti alberi.



lunedì 1 dicembre 2014

Misandra, cap. 19





Sulla selva antica s’addensava l’ombra e il profondo fruscìo del silenzio. Dal viale del giardino egli scorgeva nel cielo, sopra la foresta assopita, la luna sorgente in una veste rossa, e innanzi le trascorrevano tenui vapori del vasto vagito del mare, e sopra le rupi del promontorio s’elevava lenta la luna, quasi galleggiando sulla nebbia arrossata che si fondeva, s’immergeva nel parco oscurato.
Nel giardino ella lo attendeva. Nel giardino ove le piante procombevano nel crepuscolo stanco, estendendo le ombre dei lunghi rami. E si sentiva l’alitare intenso degli aranci e il profumo delle siepi di rose rampicanti.
Ella lo attendeva e la luna si rivelava ora dietro di lei, un vasto disco di luce pallida rifulgente sul mare. E come si perdevano i rossi rivoli del tramonto ormai dissolto oltre l’orizzonte, quasi lembi d’una veste prolissa, d’un manto effuso nel vento e lacerato, e svanivano bevuti dall’ombre della notte uniforme, non altra luce che quella incantata e velata dell’antica Artemide si deponeva cautamente sovra il silente golfo della terra assonnata e si dimostrava maliosa agli occhi di Mauro, forse per la prima volta aperti al suo dischiuso mistero.
Ed ella lo attendeva, immota e bianca come un giglio. Ed egli s’avvicinò, e, quasi per bere da un candido e puro calice, l’avvolse tra le braccia e lentamente la baciò, bevendo a lunghi sorsi l’ebrietà del suo fiato. E Misandra s’abbandonò, si lasciò sostenere la bella nuca, e il corpo suo fremette poi che l’anima fluiva tutta e si riversava fra le labbra di lui per dissetarlo. Poi, esausta, si distaccò, soverchiata dall’amplesso, paga del suo dono, e il viso suo risplendette nell’alone della luna virginea.
Dopo lo prese per mano e, dapprima procedendo con lentezza, poi in un cammino affrettato e quindi in una corsa simile a un volo, lo trascinò verso la collina. In cima sorgevano le rovine d’un antico borgo medioevale. Quando v’entrarono, la luna l’illuminò attraverso una bifora, dall’alto, perché erano in una vasta navata d’un antico tempio decaduto. Essendo crollato il tetto, il cielo stellato appariva sopra di loro. Le mura del borgo, nere e minacciose, s’innalzavano sulla collina. Essi erano nel vestibolo d’un mondo morto.
Vinci la tua paura ! “ ella disse, e lo condusse attraverso la porta della cripta, risonante dei loro passi per il lungo andito oscuro. Poi discesero per una scala umida e si trovarono in una vasta aula cinta di nicchie, cupa e verdastra come caverna marina. Il soffitto concavo era occupato da una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio, in alcune cavità del sotterraneo dormivano i pipistrelli, qualcuno però aliava sommuovendo la trasparente tela e lacerandone alcuni lembi fluttuanti.
Sul pavimento sconnesso era cresciuto uno strato di muschio e sulle pareti ancora, nonostante la ramificazione delle muffe, si notavano figure d’affresco, sirene che si curvavano verso l’onde mentre l’oro delle chiome fluide e volitanti una mano ignota tentava di afferrare invano.
Un tritone suonava la bùccina dorata che risaltava sullo sfondo divorato dall’umido, e sembrava davvero uscire dalla profondità del mare, e un raggio di luna filtrato da un pertugio nel soffitto lo illuminava, quasi fioca luce negli abissi.
Ed iniziarono allora la discesa nel sotterraneo, poiché nel centro della cupa grotta una botola era aperta, come un invito ad entrare, mentre s’udiva dal profondo salire un rumore quale d’acque mormoranti.
Entrarono. Un turbine improvviso li colse nelle sue spire, li trascinò nel suo gorgo oscuro. Ed essi furono ingoiati dalle tenebre, né vedevano né udivano più nulla.
Ma poi si trovarono in una vasta cavità, ove echeggiava il brontolìo di acque correnti che si frangevano contro la riva. E in alto scorgevano quasi bagliori di fulmini ed ascoltavano con meraviglia il rimbombare del tuono. Stavano entrambi sulla sponda, come in attesa.
I raggi rosei dell’alba ormai serpeggiavano nei flutti e la grande bocca della caverna pareva aprirsi con denti scintillanti.
Alla roccia era legata una barca. Vi salirono e Mauro cominciò a remare verso l’apertura luminosa.
Sotto la vasta cupola risonante essi si smarrivano tra le brume dei sogni. Scorgevano sulle alte pareti i colori risaltanti stranamente alla luce del lago, oscillante in un lucore verde rame, i colori di mosaici grandiosi, dalle figure splendidamente ieratiche, immobili nella loro maestà.
Come uscirono, li avvolse l’aria del mattino in una fresca ebbrezza. Le onde pigramente si stendevano sul lido, altre roteavano presso le rocce, e si ritraevano in cadenza. Una luce calda e verde circondava le colline intorno. Sul promontorio la villa sorgeva come una roccia minacciosa. La torre con l’orologio era un grande occhio spalancato sugli abissi echeggianti. Ricordava il palazzo dei Farnese che domina il grande lago, il palazzo dalla porta dalle due teste d’angelo, o di Medusa ?
Ed era la dimora dell’illusione. Alta, inaccessibile, l’illusione d’amore circondava in una veste irradiante la figura di Misandra che si stagliava sulla distesa marina greve ancora dell’ombra notturna, quasi lucente di proprio lume.
E l’aurora aleggiava all’orizzonte e si fondeva con l’alitante tepore lunare, che si schermiva dietro gli alti pini del promontorio a occidente, procombente sulle acque oscure.
S’udì un improvviso tintinnìo, ed ecco si staccava dalla penombra, sotto la massa frondosa della costa, una navicella nera, avanzando sull’aleggiare di bianche vele. S’avvicinava rapidamente, sopra lo specchio del mare, e come fu presso la barca, Mauro vide che dalla poppa alla prua era colma di bambole d’ogni tipo e d’ogni colore, che lo fissavano coi loro occhi dipinti. Misandra fu tratta a bordo dal braccio d’un destro marinaio, quindi la navicella s’allontanò ancor più velocemente di prima.
Mauro allora si diresse verso la spiaggia, remando in fretta, stupito e adirato per il comportamento di Misandra, e, quando vi giunse, abbandonò la barca sulla sabbia e s’incamminò verso la villa.