giovedì 31 dicembre 2015

Enigma

Se la materia è infinita è anche eterna e non vi può essere nient'altro. Dunque lo spirito non esiste.
Se lo spirito è infinito ed eterno, la materia non può essere se non limitata, ma in questo caso non può essere che spirito trasformato, se esso è infinito. Dunque la materia non esiste in sé.
Il pensiero è materiale o immateriale, nel primo caso è materia, nel secondo spirito. L'evidenza mostra che il pensiero è immateriale, dunque è spirito. L'oggetto del pensiero è infinito, e se esso è immateriale, l'infinito è spirito. Dunque la materia infinita in quanto oggetto del pensiero è spirito.

Se la materia è infinita deve comprendere lo spirito, quindi il pensiero. L'oggetto del pensiero se è infinito deve comprendere il soggetto. Dunque la materia pensa se stessa. Se il pensiero è pensato dalla materia, l'oggetto coincide con il soggetto e viceversa.

Se il pensiero è finito non può pensare una materia infinita. Se la materia è finita, il pensiero che la pensa deve essere o finito o infinito. Se è finito deve poter abbracciare la materia finita in quanto oggetto del pensiero, ma se esiste l'infinito allora questo abbraccia pensiero e materia e quindi pensa il pensato, dunque il pensiero è infinito. E se è infinito, la materia non può essere che pensiero.

Che cos'è tutto questo universo rispetto alla vita del nostro Io ? In noi s'agita un tumultuoso infinito sul quale noi gettiamo lo sguardo come da uno spiraglio, timidamente.
Non conosceremo mai l'infinito fuori di noi e tanto meno quello dentro di noi. Ma siamo almeno consapevoli di essere come una porta che mette in comunicazione l'uno con l'altro.

martedì 29 dicembre 2015

Sogno d'estate







E si tuffò silenziosamente nella profonda notte. “
And plung'd all noiseless into the deep night.

John Keats, Hyperion, I, 357




Vagò a lungo per la foresta, in un labirinto di tronchi neri, appena lambiti da qualche raggio di sole, che il fitto intreccio dei rami impediva, quando non erano mossi dal vento.
Intravedeva non distante una radura, perché la luce colà si faceva più intensa e il colore era un verde brillante.
Sotto l'ampia volta delle fronde si liberava allora un rivo scintillante, garrulo quale uccello appena uscito dal nido, e snodandosi rapido traversava il prato d'erbe rigogliose.
Pareva davvero che un essere silvano lo invitasse alla sosta. Affrettò quindi il passo e giunse nello spazio aperto agli influssi del cielo.
Adagiato sull'erba, preda d'un torpore ebbro di sogni, guardava fisso davanti a sé, immerso nella visione.
Ella gli appariva, luminosa, leggera sui fiori, avvolta in una veste fragile e fluttuante come un alone d'oro, i capelli, lunghissimi e riverberanti bagliori di fiamma, le toccavano morbidi i contorni del corpo sino al tallone, poi parevano fondersi col suolo. Gli occhi erano tinti del colore del sottobosco d'autunno, belli e variegati, bronzei e vibranti lingue di fuoco.
Tutto era luce, e gli alberi erano accarezzati dal vento luminoso, una corrente di pulviscolo aureo irradiantesi nella foresta quasi una linfa vivificante, un'anima infusa per prodigio in un organo da lungo tempo muto.
Il viso si fermò su di lui. Ella lo fissò negli occhi morbidamente, maliosamente e a lui parve di abbandonarsi ad un'onda di luce più forte del turbine tempestoso e più dolce della brezza dell'alba.
Ora sembrava che da uno scrigno d'oro gli si offrisse l'essenza della vita, il tesoro che non ha pari. Doveva dunque abbandonarsi.
E la sua anima si posava sopra il ruscello multicolore che fremente e danzante correva verso la meta del grande mare e i suoi pensieri si perdevano nella brezza vesperale :
La corrente che contemplasti
ruota innanzi, le onde
sono irraggiungibili.
E noi siamo ora
in una terra solitaria,
quali simulacri di memoria
e desideri e timori,
fatui e lievi
nel lucore d'un breve giorno. “
Si aprono le porte della Notte,
si aprono le porte dell'Oscuro,
ma Ella si libra sulle canute
onde nei vortici dei tempi,
i flutti varcando dell'aria
con ali d'uccello marino,
il viso suo rifulge
e specchia le volute
delle fragili nubi
e le creste delle saline spume.
Egli la vide fluttuante
in un alone dorato
e sullo scoglio si sporse,
bramoso del bacio
della Nereide, sia estatico
al canto celeste o cupido
dell'aroma dell'amante nel mare.
Ogni cosa ha senno e parte di mente
e di vita divina respira,
tùffati fra le onde spumose
e croscianti, nello splendente reflusso
ritroverai l'antico incanto
della Nereide, volerai sul flutto
agile più d'un gabbiano.
E' più saggezza nell'alito
marino che in mille volumi
di sapienti, fra l'onde tùffati
riverberanti, nell'amplesso di Teti
incantevole. Ella sulle sabbie
del fondo tesse i vaticinii
tra i guizzi dei pesci d'argento.
Oh, amala sopra il levigato corpo,
avvinto nel suo talamo vasto ! “
Così pensava, perso nei pensieri del tempo perduto, del tempo in cui l'essere umano aveva parte al grande respiro della Natura e viveva non per se stesso ma per la Vita che lo cingeva del suo abbraccio. Allora ogni cosa era vivente, ogni albero, ogni fiore, ogni pietra variegata e levigata dalle acque, ogni uccello del cielo, ogni pesce del mare parlava nel suo linguaggio per nulla oscuro ma chiaro e forte, rivelando all'uomo riverente la grande Verità. E l'uomo venerava la presenza divina in ogni luogo e rapito ed estatico attendeva la propria morte per tornare nel seno del Tutto.
Ah, immergersi nell'alito del mattino, in una corrente d'acqua gelida, sentirne il brivido e l'impeto ! Come la dea Aurora tesse nel suo velo i canti che sgorgano dalla luce presso i lavacri del mare, così dentro di sé era invaso dal fremito dolce del risveglio delle creature. E la luce si dilatava in un'onda iridata sopra le rocce e l'ansimo salino ormai lo attendeva dopo il lungo cammino dai monti.
Il mare dell'essere si rivelava nell'immensa distesa.
Sentiva nel sole dell'estate la pienezza della vita, ricordava il riverbero dei raggi sulle onde quando, immerso nel mare, scorgeva la riva e le case sulle colline, biancheggianti tra il verde dei giardini, ricordava se stesso fra le piante, dedito alla cura dei campi, mentre innaffiava e, ogni tanto sostando, aspirava l'aria intrisa d'aromi e d'esali erbacei, allora era una cosa sola con la Natura, non era più se stesso, ma il puro e semplice atto, il puro e semplice fluire.

domenica 20 dicembre 2015

Ignaro






Chi sei ?
E si volse fra le frondi tremanti
verso il viso della creatura
ignota,
chiaroridente tra le foglie anelanti
nel fresco soffio del vento.
E il raggio dell'alba s'immerse
nel lago dei neri occhi,
profondi come la notte.
E i capelli respirarono
in un'onda calma
lucente ai dardi d'aurora.
E le sue mani toccarono
le sue dita oltre
la siepe verdecupa come
manto di palude o bronzeo scudo,
sentirono ignari.
Ed ella lo guardò e sorrise
e fu come si corica il sole
sopra gli oceani sanguigno,
come ebro di purpureo vino,
innanzi al mistero notturno
in un incantesimo perpetuo.

martedì 8 dicembre 2015

Gabriele D'Annunzio, La città morta.







La città morta, tragedia, 1898.


Lo scandaglio dell'autore s'immerge nelle profondità dell'animo umano, agitato da passioni torbide e funeste come nell'antica tragedia greca.
Vedi l'Atto III, scena I ( il suicidio della madre di Anna, la moglie cieca di Alessandro ) :

ATTO TERZO.
La medesima stanza ove si svolse l'atto primo. La grande loggia è
aperta: in alto, pel vano, tra le due colonne, appare il cielo notturno,
palpitante di stelle. Un candeliere arde su la tavola ingombra. Il silenzio
è profondo.
SCENA PRIMA.
ANNA è seduta presso i gradini; e i soffii della notte passano sul suo
viso bianco, levato verso le stelle per lei non visibili. Mentre parla,
nella sua voce è un'animazione singolare, indefinibile, simile alla
volubilità di una leggera ebrezza. La NUTRICE è inginocchiata dinnanzi a
lei, triste e sommessa.
ANNA, tendendo le mani verso la notte.
Viene qualche soffio, di tratto in tratto.... Si leva un poco di
vento; è vero, nutrice? Non senti l'odore dei mirti?
LA NUTRICE.
Si leva il vento di terra.
ANNA.
La terra respira. Dianzi, quando sono discesa alla fonte con
Bianca Maria, non si sentiva un alito: nulla! Era la calma perfetta,
senza mutamento. Non dicevamo una parola, per non turbarla.
Soltanto la fonte piangeva e rideva.... Sei mai stata attenta alla
voce di quella fonte, nutrice?
LA NUTRICE.
L'acqua dice sempre la stessa cosa.
ANNA.
Non è vero, non è vero. Dianzi, non dicevamo una parola, io e
Bianca Maria; e l'acqua diceva un'infinità di cose che entravano
in me come una persuasione.... come una persuasione.... M'ha
persuasa a fare quel che è necessario, nutrice: essa, la buona
acqua pura che viene dal profondo, dal profondo....
LA NUTRICE, inquieta.
Che vuoi fare? Che vuoi fare?
ANNA.
Voglio andarmene, andarmene lontano....
LA NUTRICE.
Vuoi andartene! Dove?
ANNA, con modi rotti e volubili.
Tu saprai, tu saprai.... Non t'agitare; sii tranquilla, povera
nutrice. Io andrò per quella strada, senza che tu mi conduca. Non
avrò più bisogno di appoggiarmi a te, povera nutrice. Nei miei
occhi si farà la luce.... Che dicevi tu dei miei occhi, l'altro giorno?
“Perché il Signore te li avrebbe lasciati così belli se non volesse
illuminarteli un'altra volta?" Vedi, nutrice? Mi ricordo delle tue
parole, e ora so che i miei occhi sono belli.
LA NUTRICE.
Come parli, stasera! C'è qualche cosa, c'è qualche cosa in
fondo al tuo parlare.... Ma io sono una povera vecchia.
Anna, presa da una commozione
subitanea, ponendo le mani su le
spalle della nutrice.
Tu sei la mia povera e cara vecchia; tu sei la mia prima e la
mia ultima tenerezza, nutrice. Ho sentito sempre qualche goccia
del tuo latte nel sangue del mio cuore, nutrice. Ah, il tuo petto s'è
disseccato, ma la tua bontà s'è fatta ogni giorno più grande. Tu mi
conducevi per la mano quando i miei piccoli piedi non sapevano
ancora dare il passo, e ora con la stessa pazienza fedele tu mi
conduci nell'orribile oscurità. Tu sei santa, nutrice. Io ho un
paradiso per te, nella mia anima....
LA NUTRICE.
Ora tu vuoi farmi piangere....
ANNA, gettandole le braccia al collo.
Ah perdonami, perdonami! Io debbo farti piangere.
LA NUTRICE, sbigottita, sciogliendosi dall'abbraccio, guardandola nel
volto.
Perché, perché parli cosi? Perché mi stringi cosi?
ANNA, cercando di dissipare l'inquietudine.
Oh, no, no.... per nulla, per nulla.... Dicevo cosi perché ormai io
non posso darti nessuna gioia, povera nutrice, nessuna gioia....
LA NUTRICE.
Tu non mi nascondi nulla; è vero? Tu non sapresti ingannare la
tua poveretta, è vero?, tu non sapresti ingannarla....
ANNA.
No, no. Perdonami. Io non so quel che dico, stasera; non so
quel che provo.... E' una strana volubilità. Dianzi mi sentivo tutta
leggera come se fossi per sollevarmi; mi sentivo quasi allegra:
parlavo, parlavo.... E poi m'è tornata a un tratto la tristezza, e t'ho
fatto pena.... E ora mi sento meglio, mi sento quasi bene, perché
t'ho abbracciata, nutrice. E vorrei che tu mi tenessi su le tue
ginocchia, che tu mi raccontassi le piccole cose lontane che hai
nella memoria, di me, di me quando viveva mia madre.... Ti
ricordi? Ti ricordi?
Una pausa.
Ah, perché non ho avuto un figlio: il figlio ch'egli voleva:
perché? Io sarei salva, sarei salva! Nessuna madre ha mai amata
la creatura del suo sangue come io avrei amata la mia creatura.
Tutto il resto mi sarebbe parso un nulla. Continuamente,
continuamente io avrei trasfuso la più dolce parte della mia vita
nella sua vita. Continuamente io avrei spiata la sua piccola anima
divina per riconoscere in ogni attimo la somiglianza, la
somiglianza unica; e la sua tenerezza mi sarebbe stata più cara
della luce.... Ma lo stesso Giudice mi ha fatta cieca e sterile: per
ammenda di quale colpa, nutrice? Dimmi tu! Qualche gran fallo è
stato commesso....
Una pausa. La nutrice ha gli
occhi pieni di pianto.
Come mi ha lasciata presto, mia madre! Ella aveva me, aveva
me; e m'adorava; e pure non era felice.... Tu lo sai, è vero?, tu lo
sai bene. Tu sai perché ella è morta. Tu non hai voluto mai dirmi,
nutrice, perché ella sia morta.... e come sia morta.
LA NUTRICE, turbata, esitante.
Fu una febbre, una gran febbre improvvisa che la portò via in
una notte. Non lo sapevi?
ANNA.
Ah no, no, non fu la febbre. Perché non hai mai voluto dirmi la
verità?
LA NUTRICE.
Non è quella la verità?
ANNA.
Non è quella, non è quella. La sera, mia madre era rimasta al
mio capezzale; e io, mentre m'addormentavo, sentivo i suoi baci
su la mia faccia e qualche cosa di tiepido come il pianto.... Ah era
così forte il sonno, che vinse la pena confusa del mio piccolo
cuore; e mi parve, nell'ultimo barlume della conoscenza, ch'ella
mi facesse piovere su la faccia, sul collo, su le mani le foglie di
rosa che avevo sfogliate il giorno nella vasca del giardino. Questa
fu l'ultima visione ch'io ebbi di mia madre.... Più tardi tu venisti a
risvegliarmi e mi domandasti se io l'avessi veduta e quando e
come ella m'avesse lasciata; ed eri tutta ansante. E pure io mi
riaddormentai, udendo uno scalpiccio che veniva su dal giardino,
come di gente alla ricerca. E la mattina, poco dopo l'alba, tu
venisti di nuovo a risvegliarmi e, mi chiudesti in un panno e mi
portasti su le braccia che ti vacillavano; mi portasti nell'altra casa
dove tu parlavi sotto voce, dove tutti parlavano sotto voce ed
erano pallidi.... E mai più la vidi.... E poi, quando tornammo nel
nostro giardino, tu sempre m'allontanavi dalla vasca; e quando tu
eri là, le tue labbra si movevano sempre come se pregassero....
Una pausa.
Dimmi la verità! Dimmi la verità! Perché volle morire?
LA NUTRICE, sconvolta.
No, no.... Tu t'inganni, tu t'inganni....
ANNA.
Non lo saprò mai?
LA NUTRICE.
Tu t'inganni.... Ah sempre così tu cerchi di rinnovarmi il
dolore!
ANNA, accarezzandola.
Perdonami, perdonami. Ecco che ti ho data un'altra pena!
Una pausa.
Senti l'odore dei mirti? Senti com'è forte?
Ella si alza e, rivolta verso la
loggia aperta, aspira il profumo,
tende le mani.
S'è levato il vento: pare che tintinni fra le mie dita come un
cristallo. E' aperta, la, la porta delle mie stanze?
LA NUTRICE.
E' aperta.
ANNA.
Tutte le finestre sono aperte?
LA NUTRICE.
Tutte.
ANNA.
Il vento passa come un fiume profumato. Dove sarà Bianca
Maria?
LA NUTRICE.
Forse nelle sue stanze. Vuoi che la chiami?
ANNA.
No, no.... Lasciala riposare, povera creatura! Alla fonte,
l'odore dei mirti era cosi acuto ch'ella stava per venir meno. La
sentivo vacillare, mentre risalivamo. Più d'una volta io l'ho
sorretta.... Vedi come sono sicura, nutrice! Io conducevo lei, non
ella me. Credo che io saprei discendere sola e risalire sola....
LA NUTRICE.
Ma perché tu parli tanto di quella fonte?
ANNA.
Tutti siamo attirati verso di lei come verso una sorgente di
vita. Non è ella forse la sola cosa viva in questo luogo, dove tutto
è morto e bruciato? Ella sola estingue la nostra sete; e tutta la sete
che è in noi si tende avidamente verso la sua freschezza. S'ella
non fosse, nessuno potrebbe vivere qui; tutti moriremmo d'arsura.


Magistrale è l'equivoco ( Atto IV, scena II ) tra Anna e Alessandro e il crescendo dell'orribile rivelazione. Leonardo, fratello di Bianca Maria, nella solitudine della loro esistenza matura una passione proibita e fatale che lo condurrà quasi alla follia e lo porterà ad uccidere la sorella per liberarsi dall'ossessione, annegandola nella fonte Perseia, che scorre accanto alle mura dell'antica rocca di Micene. 




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lunedì 7 dicembre 2015

Cicero, De officiis, I, 85.

Sui politici

Omnino qui rei publicae praefuturi sunt duo Platonis praecepta teneant: unum, ut utilitatem civium sic tueantur, ut quaecumque agunt, ad eam referant obliti commodorum suorum, alterum, ut totum corpus rei publicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant. Ut enim tutela, sic procuratio rei publicae ad eorum utilitatem, qui commissi sunt, non ad eorum, quibus commissa est, gerenda est. Qui autem parti civium consulunt, partem neglegunt, rem perniciosissimam in civitatem inducunt, seditionem atque discordiam; ex quo evenit, ut alii populares, alii studiosi optimi cuiusque videantur, pauci universorum.
Hinc apud Athenienses magnae discordiae, in nostra re publica non solum seditiones, sed etiam pestifera bella civilia; quae gravis et fortis civis et in re publica dignus principatu fugiet atque oderit tradetque se totum rei publicae neque opes aut potentiam consectabitur totamque eam sic tuebitur, ut omnibus consulat. Nec vero criminibus falsis in odium aut invidiam quemquam vocabit omninoque ita iustitiae honestatique adhaerescet, ut, dum ea conservet, quamvis graviter offendat mortemque oppetat potius, quam deserat illa, quae dixi.
Miserrima omnino est ambitio honorumque contentio, de qua praeclare apud eundem est Platonem "similiter facere eos, qui inter se contenderent, uter potius rem publicam administraret, ut si nautae certarent, quis eorum potissimum gubernaret". Idemque praecipit, "ut eos adversarios existimemus, qui arma contra ferant, non eos, qui suo iudicio tueri rem publicam velint", qualis fuit inter P. Africanum et Q. Metellum sine acerbitate dissensio.

sabato 28 novembre 2015

Giacomo Leopardi, Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco.

Operette morali (1827)

Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco


Questo Frammento, che io per passatempo ho recato dal greco in volgare, è tratto da un codice a penna che trovavasi alcuni anni sono, e forse ancora si trova, nella libreria dei monaci del monte Athos. Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro; laddove Stratone da Lampsaco, filosofo peripatetico, detto il fisico, visse da trecento anni avanti l’era cristiana. È ben vero che il capitolo della origine del mondo concorda a un di presso con quel poco che abbiamo delle opinioni di quel filosofo negli scrittori antichi. E però si potrebbe credere che il primo capitolo, anzi forse ancora il principio dell’altro, sieno veramente di Stratone; il resto vi sia stato aggiunto da qualche dotto Greco non prima del secolo passato. Giudichino gli eruditi lettori.
Le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno. Imperocché se dal vedere che le cose materiali crescono e diminuiscono e all’ultimo si dissolvono, conchiudesi che elle non sono per sé né ab eterno, ma incominciate e prodotte, per lo contrario quello che mai non cresce né scema e mai non perisce, si dovrà giudicare che mai non cominciasse e che non provenga da causa alcuna. E certamente in niun modo si potrebbe provare che delle due argomentazioni, se questa fosse falsa, quella fosse pur vera. Ma poiché noi siamo certi quella esser vera il medesimo abbiamo a concedere anco dell’altra. Ora noi veggiamo che la materia non si accresce mai di una eziandio menoma quantità, niuna anco menoma parte della materia si perde, in guisa che essa materia non è sottoposta a perire. Per tanto i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le bisogni alcuna causa o forza fuori di sé. Il mondo, cioè l’essere della materia in un cotal modo, è cosa incominciata e caduca. Ora diremo della origine del mondo.
La materia in universale, siccome in particolare le piante e le creature animate, ha in sé per natura una o più forze sue proprie, che l’agitano e muovono in diversissime guise continuamente. Le quali forze noi possiamo congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in sé, né scoprir la natura loro. Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più, e se per contrario quelle forze che noi significhiamo con diversi nomi, sieno veramente diverse forze, o pure una stessa. Siccome tutto dì nell’uomo con diversi vocaboli si dinota una sola passione o forza: per modo di esempio, l’ambizione, l’amor del piacere e simili, da ciascuna delle quali fonti derivano effetti talora semplicemente diversi, talora eziandio contrari a quei delle altre, sono in fatti una medesima passione, cioè l’amor di se stesso, il quale opera in diversi casi diversamente. Queste forze adunque o si debba dire questa forza della materia, movendola, come abbiamo detto, ed agitandola di continuo, forma di essa materia innumerabili creature, cioè la modifica in variatissime guise. Le quali creature, comprendendole tutte insieme, e considerandole siccome distribuite in certi generi e certe specie, e congiunte tra sé con certi tali ordini e certe tali relazioni che provengono dalla loro natura, si chiamano mondo. Ma imperciocché la detta forza non resta mai di operare e di modificar la materia, però quelle creature che essa continuamente forma, essa altresì le distrugge, formando della materia loro nuove creature. Insino a tanto che distruggendosi le creature individue, i generi nondimeno e le specie delle medesime si mantengono, tutte o le più, e che gli ordini e le relazioni naturali delle cose non si cangiano o in tutto o nella più parte, si dice durare ancora quel cotal mondo. Ma infiniti mondi nello spazio infinito della eternità, essendo durati più o men tempo, finalmente sono venuti meno, perdutisi per li continui rivolgimenti della materia, cagionati dalla predetta forza, quei generi e quelle specie onde essi mondi si componevano, e mancate quelle relazioni e quegli ordini che li governavano. Né perciò la materia è venuta meno in qual si sia particella, ma solo sono mancati que’ suoi tali modi di essere, succedendo immantinente a ciascuno di loro un altro modo, cioè un altro mondo, di mano in mano.
Questo mondo presente del quale gli uomini sono parte, cioè a dir l’una delle specie delle quali esso è composto, quanto tempo sia durato fin qui, non si può facilmente dire, come né anche si può conoscere quanto tempo esso sia per durare da questo innanzi. Gli ordini che lo reggono paiono immutabili, e tali sono creduti, perciocché essi non si mutano se non che a poco a poco e con lunghezza incomprensibile di tempo, per modo che le mutazioni loro non cadono appena sotto il conoscimento, non che sotto i sensi dell’uomo. La quale lunghezza di tempo, quanta che ella si sia, è ciò non ostante menoma per rispetto alla durazione eterna della materia. Vedesi in questo presente mondo un continuo perire degl’individui ed un continuo trasformarsi delle cose da una in altra; ma perciocché la distruzione è compensata continuamente dalla produzione, e i generi si conservano, stimasi che esso mondo non abbia né sia per avere in sé alcuna causa per la quale debba né possa perire, e che non dimostri alcun segno di caducità. Nondimeno si può pur conoscere il contrario, e ciò da più d’uno indizio, ma tra gli altri da questo.
Sappiamo che la terra, a cagione del suo perpetuo rivolgersi intorno al proprio asse, fuggendo dal centro le parti dintorno all’equatore, e però spingendosi verso il centro quelle dintorno ai poli, è cangiata di figura e continuamente cangiasi, divenendo intorno all’equatore ogni dì più ricolma, e per lo contrario intorno ai poli sempre più deprimendosi. Or dunque da ciò debbe avvenire che in capo di certo tempo, la quantità del quale, avvengaché sia misurabile in sé, non può essere conosciuta dagli uomini, la terra si appiani di qua e di là dall’equatore per modo, che perduta al tutto la figura globosa, si riduca in forma di una tavola sottile ritonda. Questa ruota aggirandosi pur di continuo dattorno al suo centro, attenuata tuttavia più e dilatata, a lungo andare, fuggendo dal centro tutte le sue parti, riuscirà traforata nel mezzo. Il qual foro ampliandosi a cerchio di giorno in giorno, la terra ridotta per cotal modo a figura di uno anello, ultimamente andrà in pezzi; i quali usciti della presente orbita della terra, e perduto il movimento circolare, precipiteranno nel sole o forse in qualche pianeta.
Potrebbesi per avventura in confermazione di questo discorso addurre un esempio, io voglio dire dell’anello di Saturno, della natura del quale non si accordano tra loro i fisici. E quantunque nuova e inaudita, forse non sarebbe perciò inverisimile congettura il presumere che il detto anello fosse da principio uno dei pianeti minori destinati alla sequela di Saturno; indi appianato e poscia traforato nel mezzo per cagioni conformi a quelle che abbiamo dette della terra, ma più presto assai, per essere di materia forse più rara e più molle, cadesse dalla sua orbita nel pianeta di Saturno, dal quale colla virtù attrattiva della sua massa e del suo centro, sia ritenuto, siccome lo veggiamo essere veramente, dintorno a esso centro. E si potrebbe credere che questo anello, continuando ancora a rivolgersi, come pur fa, intorno al suo mezzo, che è medesimamente quello del globo di Saturno, sempre più si assottigli e dilati, e sempre si accresca quello intervallo che è tra esso e il predetto globo, quantunque ciò accada troppo più lentamente di quello che si richiederebbe a voler che tali mutazioni fossero potute notare e conoscere dagli uomini, massime così distanti. Queste cose, o seriamente o da scherzo, sieno dette circa all’anello di Saturno.
Ora quel cangiamento che noi sappiamo essere intervenuto e intervenire ogni giorno alla figura della terra, non è dubbio alcuno che per le medesime cause non intervenga somigliantemente a quella di ciascun pianeta, comeché negli altri pianeti esso non ci sia così manifesto agli occhi come egli ci è pure in quello di Giove. Né solo a quelli che a similitudine della terra si aggirano intorno al sole, ma il medesimo senza alcun fallo interviene ancora a quei pianeti che ogni ragion vuole che si credano essere intorno a ciascuna stella. Per tanto in quel modo che si è divisato della terra tutti i pianeti in capo di certo tempo, ridotti per se medesimi in pezzi, hanno a precipitare gli uni nel sole, gli altri nelle stelle loro. Nelle quali fiamme manifesto è che non pure alquanti o molti individui, ma universalmente quei generi e quelle specie che ora si contengono nella terra e nei pianeti, saranno distrutte insino, per dir così, dalla stirpe. E questo per avventura, o alcuna cosa a ciò somigliante, ebbero nell’animo quei filosofi, così greci come barbari, i quali affermarono dovere alla fine questo presente mondo perire di fuoco. Ma perciocché noi veggiamo che anco il sole si ruota dintorno al proprio asse, e quindi il medesimo si dee credere delle stelle, segue che l’uno e le altre in corso di tempo debbano non meno che i pianeti venire in dissoluzione, e le loro fiamme dispergersi nello spazio. In tal guisa adunque il moto circolare delle sfere mondane, il quale è principalissima parte dei presenti ordini naturali, e quasi principio e fonte della conservazione di questo universo, sarà causa altresì della distruzione di esso universo e dei detti ordini.
Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degl’innumerabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare.

sabato 17 ottobre 2015

Gabriele D'Annunzio, Le Vergini delle Rocce ( 1895 )






Dal Libro I :


Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel
sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta
una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio:
- O Socrate, componi e coltiva musica. - Allora appresi che l'officio
dell'uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel
corso della sua vita una serie di musiche le quali, pur essendo varie,
sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l'impronta
d'un solo stile. Onde mi parve che da quell'Antico - eccellentissimo
nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo
vigore - potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento.
Scrutinando sè medesimo e i suoi prossimi, colui aveva scoperto
i pregi inestimabili che conferisce alla vita una disciplina
assidua e intenta sempre in uno scopo certo. La sua somma saggezza
mi sembra risplendere in questo: ch'egli non collocò il suo
Ideale fuori della sua pratica quotidiana, fuori delle realità necessarie,
ma ne formò il centro vivo della sua sostanza e ne dedusse
le proprie leggi e secondo quelle si svolse ritmicamente negli
anni, esercitando con tranquilla fierezza i diritti che quelle gli
consentivano, separando - egli cittadino d'Atene, e sotto la tirannide
dei Trenta e sotto la tirannide plebea - separando per deliberato
proposito la sua esistenza morale da quella della Città. Egli
volle e seppe conservarsi a sè medesimo fino alla morte. «Io non
obbedisco se non all'Iddio» voleva significare «Io non obbedisco
se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto
di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera.»
Egli con mano ferma, artefice assai più raro di Apelle e di Protogene,
riuscì a descrivere per una linea continua l'imagine integra
di sè medesimo. E la sublime letizia nell'ultima sera non gli
veniva dalla speranza di quell'altra vita ch'egli aveva rappresentata
nel discorso, ma sì bene dalla visione di quella sua propria imagine
che s'integrava con la morte.
Ah perchè non rivive oggi in qualche terra latina il Maestro
che sapeva con un'arte così profonda e così nascosta risvegliare
ed eccitare tutte le energie dell'intelletto e dell'animo in quanti gli
s'accostavano per ascoltarlo?
Una strana malinconia mi occupava, nell'adolescenza, alla lettura
dei Dialoghi, quando volevo raffigurarmi quel cerchio di discepoli
avidi e inquieti intorno a lui. Ammiravo i più belli, ornati
di più nitide eleganze, su i quali i suoi occhi rotondi e sporgenti -
quei suoi occhi nuovi, in cui era una vista propria a lui solo - si
posavano più spesso. Si prolungavano nella mia imaginazione le
avventure dei forestieri venutigli di lontano come quel trace Antistene
che faceva quaranta stadii al giorno per udirlo e come quell'Euclide
che - avendo gli Ateniesi fatto divieto d'entrare in Atene
ai cittadini di Megara e decretato per i trasgressori l'ultima pena -
si vestiva di abiti muliebri, e così vestito e velato esciva dalla sua
città in sul vespro, compiva un lungo cammino per trovarsi presente
ai colloquii del Saggio, quindi all'alba riprendeva la sua via
sotto la stessa larva pieno il petto di un entusiasmo inestinguibile.
E mi commoveva la sorte di quel giovinetto elèo Fedone bellissimo
che, fatto prigioniero di guerra nella sua patria e venduto a un
tenitor di postriboli, dal luogo di vergogna erasene fuggito a Socrate,
e aveva ottenuto per opera di lui il riscatto e partecipato alle
feste del puro pensiero.
Pareva a me veramente che quel gioviale maestro vincesse di
generosità il Nazareno. Forse l'Ebreo, se i suoi nemici non l'avessero
ucciso nel fiore degli anni, avrebbe scosso alfine il peso delle
sue tristezze e ritrovato un sapor nuovo nei frutti maturi della sua
Galilea e indicato al suo stuolo un altro Bene. Il Greco aveva
sempre amata la vita, e l'amava, ed insegnava ad amarla. Profeta e
divinatore quasi infallibile, egli accoglieva tutte le anime in cui il
suo sguardo profondo scoprisse una forza, ed in ciascuna sviluppava
ed esaltava quella forza nativa; cosicchè tutte, investite dalla
sua fiamma, si rivelavano nella lor diversità possenti. Il suo più
alto pregio era in quell'effetto di cui l'accusavano i nemici: che
dalla sua scuola - dove convenivano l'onesto Critone e Platone
uranio e il delirante Apollodoro e quel gentil Teeteto simile a un
rivo d'olio fluente senza strepito - escissero il molle cirenaico Aristippo
e Critia, il più violento dei Trenta Tiranni, e l'altro tiranno
Caricle, e il meraviglioso violator di leggi Alcibiade che non conobbe
limiti alla sua licenza meditata. «Il cuor mi balza assai più
che ai coribanti, quando io odo i discorsi di costui» diceva il figliuolo
di Clinia, leggiadra fiera coronata di edera e di violette,
tessendo il più fulgido elogio con cui siasi mai deificato in terra
un uomo, alla fine di un convito che dalla bocca del Sileno aveva
raccolto la grande iniziazione di Diotima.
Or quali energie avrebbe stimolate in me un tal maestro? Quali
musiche mi avrebbe condotto a trovare?
Primieramente mi avrebbe cattivato l'animo per quella eletta
facoltà ch'egli possedeva di sentire anche il fascino della bellezza
caduca e di distinguere con una qualche misura i piaceri comuni e
di riconoscere il pregio che l'idea della morte conferisce alla grazia
delle cose terrene.
Puro ed austero quant'altri mai nell'atto dello speculare, egli
possedeva tuttavia sensi così squisiti che potevan essere quasi direi
gli artefici eleganti delle sue sensazioni.
Non v'era nei banchetti - secondo Alcibiade ottimo giudice -
alcuno che sapesse goderne com'egli sapeva. Sul principio del
Simposio di Senofonte egli contempla con gli altri in lungo silenzio
la perfetta bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza
sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi
e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini
vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di
venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali:
«Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio
più molle del tuo?» Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con
una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo
ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a
sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di
lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del
flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle
Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone
l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di
musica e maestro di stile.
Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e
frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano
e ancor mi commuove; perocchè la mia anima talvolta ami allentare
la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate
perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili
eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare,
del continuo perire.
Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto
in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrom-
pe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se
vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e
va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine
dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi
stupiscono i momenti estremi in cui l'uomo compie con brevi atti
e con brevi detti la sua perfezione sì lucidamente e, come quell'artefice
il quale abbia dato alla sua opera l'ultimo tocco, contento riguarda
alfine la sua propria imagine - miracolo di stile - che rimarrà
immortale in terra; quanto mi rapisce l'impreveduta pausa
che segue i dubbii opposti da Cebete e da Simmia alla certezza
manifestata dal maestro eloquente.
Profonda pausa fu quella, in cui tutte le anime a un tratto cieche
si profondarono come in un abisso, spentosi a un tratto il raggio
di foco appuntato verso il Mistero da colui che stava per entrarvi.
Indovinò il maestro la tristezza di quell'oscurazione subitanea
ne' suoi fedeli; e le ali della sua idea per poco si ripiegarono. La
realità gli si ripresentò nei sensi e lo ritenne anche per poco nel
campo del finito e del percettibile. Egli sentì il tempo scorrere, la
vita fluire. Forse i suoi orecchi raccolsero qualche romore della
città magnifica, le sue nari aspirarono forse il profumo della nuova
estate sopravveniente, come i suoi occhi si posarono sul bel
Fedone chiomato.
Poichè era seduto sul letto e accanto a lui sopra uno sgabello
basso era Fedone, pose egli la mano sul capo del discepolo e gli
accarezzò e gli premette i capelli sul collo, avendo già consuetudine
di scherzare così con le dita in quella ricca selva giovenile.
Non parlava ancora, tanto la sua commozione doveva essere intensa
e rigata di delizia. Per mezzo di quella cosa bella vivente e
caduca egli comunicava anche una volta con la vita terrena in cui
aveva compiuto la sua perfezione, in cui aveva effettuato il suo
ideale di virtù; e sentiva forse che nulla eravi oltre, che la sua esistenza
finita bastava a sè stessa, che il prolungamento nell'eterno
non era se non una parvenza - simile all'alone di un astro - prodotta
dallo splendore straordinario della sua umanità. Non mai la
capellatura del giovinetto d'Elide aveva avuto per lui un pregio
tanto sublime. Egli ne godeva per l'ultima volta, dovendo morire;
e anche sapeva che al dimane in segno di lutto sarebbe stata recisa.
Disse alfine - e i suoi discepoli non gli avevano mai conosciuto
nella voce un tal suono - disse: «Domani, o Fedone, tu te le taglierai
queste belle chiome.» E il chiomato: «Sembra, o Socrate.»
Questo sentimento - che súbito assunsi ed esaltai in me medesimo
leggendo per la prima volta l'episodio nel dialogo platonico
- mi divenne in séguito per via di analogie tanto complesso, e tanto
l'ebbi familiare, ch'io ne feci il tema aperto o dissimulato delle
musiche alle quali volli attendere.
Così l'Antico m'insegnò la commemorazione della morte in un
modo consentaneo alla mia natura, affinchè io trovassi un pregio
più raro e un significato più grave nelle cose a me prossime. E
m'insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere
come i sinceri difetti per disporre le une e gli altri secondo un disegno
premeditato, per dare a questi con pazienti cure un'apparenza
decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E
m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea
regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine,
rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero.
E m'insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui
esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche
straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò in fine la sua
fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente
significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur
da lui medesimo nella sua persona mai.
Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all'opera
con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e
forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante
cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita
serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria
di Socrate nomavasi eugenéia, mi si rivelava più gagliardamente
come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva
l'orgoglio insieme con la contentezza, poichè pensavo che
troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato
o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici
stesse della mia sostanza - là dove dorme l'anima indistruttibile
degli avi - sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi
e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in
un'epoca in cui la vita publica non è se non uno spettacolo miserabile
di bassezza e di disonore. «Certo, è meraviglioso» mi diceva
il demònico «che queste antiche forze barbare si sieno conservate
in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene importune.
In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell'officio
che si conviene ai tuoi pari; ciò è l'officio di colui che indica una
mèta certa e guida i seguaci a quella. Poichè un tal giorno sembra
lontano, tu cerca per ora, condensandole, di trasformarle in viva
poesia.»