domenica 3 maggio 2015

Arturo Graf, L'ultimo viaggio di Ulisse.




Arturo Graf            Poesie            Torino, Giovanni Chiantore, 1922



( L'autore nacque ad Atene nel 1848 e morì a Torino nel 1913 ).
L'ultimo viaggio di Ulisse “ si accompagna all'omonimo poemetto del Pascoli ( “ L'ultimo viaggio “ ) dei Poemi conviviali. Lo stile però è più tradizionale, il linguaggio meno innovativo, anche se ha una sua originalità ( vedi ad es. “ E focoso tranghiotte orbe del sole “ dove il vocabolo “tranghiotte” viene da “inghiottire” e “trangugiare”, cfr. pag. 418 ).
Qui viene trattato il tema del “folle volo” dantesco, mentre il Pascoli aveva fatto ripercorrere le tappe dell'Odissea a un Ulisse ormai vecchio e stanco, il quale scopriva con amarezza che la sua avventura era stata solo un sogno.
La narrazione di Graf risulta nel complesso più avvincente, ricorda per certi aspetti un'avventura alla Conrad, e non è una mera allegoria della vita umana.

L'autore nell'introduzione al poemetto ci rammenta le fonti della sua opera :

Di un viaggio oceanico di Ulisse fanno variamente ricordo Plinio,
Solino, Claudiano. E' a tutti noto il meraviglioso racconto di Dante,
Inf. XXVI, intorno al quale v. Scueck, Dante’s classische Studien,
nei Neue Jahrbucher fur Philologie, vol. XCII, e Moore, Studies
in Dante, serie 3a, Oxford, 1903, pp. 118-9. Si discusse circa
il sentimento di Dante in narrare il folle volo e farne giudizio. V.
Finali, Cristoforo Colombo e il viaggio di Ulisse nel poema di
Dante, Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari, N. 23, Città
di Castello, 1895. In un breve componimento intitolato Ulysses,
il Tennison fa che l’eroe si lagni della inerte sua vita ed esprima
il proposito d’imprendere nuovo viaggio, avventurandosi nell’estremo
occidente. Un Ultimo Viaggio di Ulisse inserì il Pascoli
nei Poemi conviviali, Bologna, 1904. “




Ed ecco un estratto del poemetto :


I.
Già quattr’anni passar dappoi che Ulisse
In Itaca tornò. Quattr’anni ei visse
In compagnia della fedel consorte
E del caro figliuol: grato alla sorte
Che dall’ira de’ venti e del vorace
Mar scampato l’avea; godendo in pace
De’ sudati riposi e del sonoro
Applauso della Fama, e in coppe d’oro
Bevendo il vin de’ floridi vigneti
Che dal padre eredò. Spesso co’ lieti
Compagni antichi delle sue fortune,
Sedendo a mensa, o al foco, ei la comune
Vita di riandar si dilettava
Col pensier vigilante: e memorava
D’Ilio le pugne, e dell’invitto Achille
Il magnanimo sdegno, e di ben mille
Eroi le gesta invidiate e chiare;
E memorava dell’incerto mare
I portenti e i perigli, e il covo atroce
Di Polifemo, e la bugiarda voce
Delle vaghe sirene, e a parte a parte,
Di Calipso e di Circe i vezzi e l’arte.
Note cose ei narrava, e già da molti
E molt’anni trascorse; eppur con volti
Pallidi d’ansia, e con immote ciglia,
Come fanciulli a cui di meraviglia
Nova sieno cagion le antiche fole,
Bevevan l’onda delle sue parole
Quei prodi: e in cotal guisa a lui d’intorno
Spesso li colse, rinascendo, il giorno.
Ma tranquilli, uniformi, in pace e in gioco
Passar altri quattr’anni: e a poco a poco
D’Ulisse il labbro ammutolì, l’arguto
Riso, onde gli atrii già sonar, fu muto,
E una torbida nube il guardo acceso,
L’ampia fronte oscurò. Non già che il peso
Ei dell’età sentisse, o di celato
Morbo l’insidia, o di nemico fato
L’ira funesta paventasse e i danni.
Non così salde mai come in quegli anni
Le membra egli ebbe, né sì pronto e forte
Mai l’intelletto, né fu mai la sorte
Alle sue case più benigna e al regno;
Ma sottil come tossico un disdegno
Di se stesse e d’altrui lento serpeva
Nelle vene d’Ulisse; e qual si leva
Da ree paludi accidiosa e tetra
Nebbia che infosca il sole, occupa l’etra,
Tale in Ulisse si levava il tedio
E al cor poneagli ed alla mente assedio.
Spesso, quando stridea più crudo il verno,
E i dì volgean più torbi, egli al paterno
Pio focolare, ove di quercia o d’olmo
Annoso tronco inceneria, nel colmo
Della notte, sedea tacito e solo,
Guatando come trasognato il volo
Delle fulve scintille in fosca avvolte
E densa onda di fumo. Oh, quante volte,
Fuggendo ogni uom, veduto fu, nell’ora
Che il giorno manca, e il ciel si trascolora,
Mirar dal ciglio di scoscesa rupe
L’arroventato sol che nelle cupe
Voragini del mar lento scendea!
O fantasma d’incognita galea
Fremebondo spiar, là, dell’acceso
Orizzonte sul curvo orlo sospeso!
Ovver d’uccelli peregrini un denso
Stuolo, di là dal mar, per l’etra immenso,
A recondite plaghe alto volanti!
E il cor nel petto gli bolliva! Oh quanti
Vide egli pur de’ suoi compagni, in quello
Stesso modo, inquieti, e di rovello
Tacito pieni, errar lungo le sponde
Cui sempre sferza il vento e batton l’onde!
E l’un l’altro squadrava e negli strutti
Volti un solo pensier leggeasi a tutti.
Volse così lunga stagion, per sino
A un di che l’immutabile destino
A novi casi, a novo error non vile
Prefisso avea. Già l’amoroso aprile
Discingeva alle rose il sen vermiglio,
Quando un mattino di Laerte il figlio,
Levato innanzi al sol, fece da un messo
I soci suoi richiedere a consesso
In cima a un colle che l’aperto grembo
Scopre del mar, sino all’estremo lembo
Dell’oriente. Ivi di lucid’oro
Cinta la fronte augusta, in mezzo a loro
Egli apparì, tale nel maschio volto,
Tal nel nobile incesso, e nel raccolto
Vigor marmoreo delle membra, quale
Apparir già solea nel marziale
Cimento, là sui verdi campi dove
Fu Troja un dì. Ivi, com’uom di nuove
Speranze lieto e di giocondi auspici,
Ridente apparve e salutò gli amici:
Fatto poi dispensar nelle forbite
Patere il sangue dell’ambrosia vite,
A ber seco invitolli, ed egli primo
Bevve, adorando il sol, che fuor dell’imo
Gorgo spuntava a sfolgorare il mondo.
Alfin, simile a un nume, e tra profondo
Silenzio, a favellar prese in tal forma.
Compagni, amici! o voi cui sola norma
Fu sempre e fu solo desio la gloria;
Avventurosi eroi, la cui memoria
Non perirà, se fra l’umana gente
Ogni nobile orgoglio, ogni fervente
Spirto, ogni pregio di valor non pera;
Le mie parole udite. Ad uom di vera
Virtù precinto e per gran fatti egregio
E' pena l’ozio, onta la pace, sfregio
La securtà. Qual è di voi che questa
Vita all’antica, e le passate gesta
Col presente torpor paragonando,
Dite, qual è di voi si miserando,
Che da vergogna e da rimorso il core
Addentar non si senta? Oh, tristo errore!
O, gran viltà! Noi che di Troja l’are
Vertemmo al suol; noi che per tanto mare
Gimmo raminghi, d’inauditi mali,
D’intentate fatiche e di mortali
Perigli esperti, ora noi gli anni in pigra
Quiete logoriam, che ne denigra
Agli stessi occhi nostri e ne fa vili.
Che più? se in tutto non si fer servili
Gli animi vostri; se obliato in tutto
Il nome vostro non avete, e il frutto
Di vostr’opere antiche, or m’ascoltate.
Già stringe il tempo, già ne son contate
L’ore. Deh, non lasciam che in tanto oblio
Pur di noi stessi, in così basso e rio
Stato ne colga l’aborrita morte.
Anzi l’ultimo sol, di noi, del forte
Nostro lignaggio rifacciamci degni.
Rompiam gl’indugi; i frivoli ritegni
Rimoviamo oramai. Tentar ne giovi
Anche una volta il dubbio caso, e novi
Mari solcar, premere ignote arene,
Cercar genti remote; al male e al bene
Parati a un modo; alla comun salute
Devoti sempre; e di non più vedute
Meraviglie i beati occhi pascendo.
Non io per vano imaginar m’accendo.
Di là dai segni ond’ha il confin prescritto
Agli umani ardimenti Ercole invitto,
Di là da Calpe si distende un mare
Ignoto, il quale altro confin non pare
Aver che il cielo; il cupo mar di Crono,
Che ribollendo e sibilando il prono
E focoso tranghiotte orbe del sole.
Chi potria rinarrar con le parole
Tutti i prodigi onde quel mare è pieno?
Molte quivi sbocciar dal vitreo seno,
Il qual fondo non ha, si veggon, pari
A canestre di fior nitidi e rari,
O a lucenti smeraldi, isole ascose
Dove sedi beate, e avventurose
Genti; incognito il mal, dell’aspro inverno
Sconosciuti i rigori, e sempiterno
Della feconda primavera il riso.
Potrieno queste al decantato Eliso
Togliere il vanto. Altre ne son cui d’ombra
Un perpetuo vel fascia ed ingombra;
Né mai potria le favolose rive
Prora alcuna toccar; né se di vive
Genti o di larve sieno stanza è dato
Sapere ad uom che di mortal sia nato;
Salvo che spesso su per l’onde i venti
Ne portan grida e lugubri lamenti.
Altre di saldo e cristallino gelo
Irte e rigide sempre; altre che al cielo
Da’ cavernosi baratri muggendo
Sbuffano acherontee vampe d’orrendo
Foco e procelle di nigrante fumo.
Soci, non io tutto ridir presumo
Ciò che in Egitto da vetusti savi
Narrare un tempo udii, cui son degli avi
Note le storie tenebrose, e noti
Quali più strani lidi e più remoti
L’orbe in grembo raccoglie, e di natura
Ogni occulta possanza, ogni fattura.
Ma questo ancor vo’ che sappiate, e sia
Pegno del ver l’asseveranza mia.
Nave che, posto ogni timore in bando,
Per quel mar lunghi dì gisse volando
Dietro al corso del sol, vedria dal fondo
Sorger dell’acque alfine un altro mondo,
Assai maggior di questo nostro, e dove
Sono incogniti regni e genti nuove,
E d’inaudite cose e peregrine
Indicibil dovizia. Or ecco al fine
Giunto son io di mie parole. Amici;
Per quell’ignoto mare alle felici
Plaghe io voglio migrar. Se alcun di voi,
Che del nome superbi ite d’eroi,
Voglia meco tentar l’impresa audace,
Caro l’avrò; ma se desio di pace
Abbarbicati come piante al suolo
Vi tenga, sia col vostro danno: io solo
Novo cammino tenterò di gloria:
Mia l’audacia sarà, mia la vittoria≫.