sabato 17 ottobre 2015

Gabriele D'Annunzio, Le Vergini delle Rocce ( 1895 )






Dal Libro I :


Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel
sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta
una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio:
- O Socrate, componi e coltiva musica. - Allora appresi che l'officio
dell'uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel
corso della sua vita una serie di musiche le quali, pur essendo varie,
sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l'impronta
d'un solo stile. Onde mi parve che da quell'Antico - eccellentissimo
nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo
vigore - potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento.
Scrutinando sè medesimo e i suoi prossimi, colui aveva scoperto
i pregi inestimabili che conferisce alla vita una disciplina
assidua e intenta sempre in uno scopo certo. La sua somma saggezza
mi sembra risplendere in questo: ch'egli non collocò il suo
Ideale fuori della sua pratica quotidiana, fuori delle realità necessarie,
ma ne formò il centro vivo della sua sostanza e ne dedusse
le proprie leggi e secondo quelle si svolse ritmicamente negli
anni, esercitando con tranquilla fierezza i diritti che quelle gli
consentivano, separando - egli cittadino d'Atene, e sotto la tirannide
dei Trenta e sotto la tirannide plebea - separando per deliberato
proposito la sua esistenza morale da quella della Città. Egli
volle e seppe conservarsi a sè medesimo fino alla morte. «Io non
obbedisco se non all'Iddio» voleva significare «Io non obbedisco
se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto
di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera.»
Egli con mano ferma, artefice assai più raro di Apelle e di Protogene,
riuscì a descrivere per una linea continua l'imagine integra
di sè medesimo. E la sublime letizia nell'ultima sera non gli
veniva dalla speranza di quell'altra vita ch'egli aveva rappresentata
nel discorso, ma sì bene dalla visione di quella sua propria imagine
che s'integrava con la morte.
Ah perchè non rivive oggi in qualche terra latina il Maestro
che sapeva con un'arte così profonda e così nascosta risvegliare
ed eccitare tutte le energie dell'intelletto e dell'animo in quanti gli
s'accostavano per ascoltarlo?
Una strana malinconia mi occupava, nell'adolescenza, alla lettura
dei Dialoghi, quando volevo raffigurarmi quel cerchio di discepoli
avidi e inquieti intorno a lui. Ammiravo i più belli, ornati
di più nitide eleganze, su i quali i suoi occhi rotondi e sporgenti -
quei suoi occhi nuovi, in cui era una vista propria a lui solo - si
posavano più spesso. Si prolungavano nella mia imaginazione le
avventure dei forestieri venutigli di lontano come quel trace Antistene
che faceva quaranta stadii al giorno per udirlo e come quell'Euclide
che - avendo gli Ateniesi fatto divieto d'entrare in Atene
ai cittadini di Megara e decretato per i trasgressori l'ultima pena -
si vestiva di abiti muliebri, e così vestito e velato esciva dalla sua
città in sul vespro, compiva un lungo cammino per trovarsi presente
ai colloquii del Saggio, quindi all'alba riprendeva la sua via
sotto la stessa larva pieno il petto di un entusiasmo inestinguibile.
E mi commoveva la sorte di quel giovinetto elèo Fedone bellissimo
che, fatto prigioniero di guerra nella sua patria e venduto a un
tenitor di postriboli, dal luogo di vergogna erasene fuggito a Socrate,
e aveva ottenuto per opera di lui il riscatto e partecipato alle
feste del puro pensiero.
Pareva a me veramente che quel gioviale maestro vincesse di
generosità il Nazareno. Forse l'Ebreo, se i suoi nemici non l'avessero
ucciso nel fiore degli anni, avrebbe scosso alfine il peso delle
sue tristezze e ritrovato un sapor nuovo nei frutti maturi della sua
Galilea e indicato al suo stuolo un altro Bene. Il Greco aveva
sempre amata la vita, e l'amava, ed insegnava ad amarla. Profeta e
divinatore quasi infallibile, egli accoglieva tutte le anime in cui il
suo sguardo profondo scoprisse una forza, ed in ciascuna sviluppava
ed esaltava quella forza nativa; cosicchè tutte, investite dalla
sua fiamma, si rivelavano nella lor diversità possenti. Il suo più
alto pregio era in quell'effetto di cui l'accusavano i nemici: che
dalla sua scuola - dove convenivano l'onesto Critone e Platone
uranio e il delirante Apollodoro e quel gentil Teeteto simile a un
rivo d'olio fluente senza strepito - escissero il molle cirenaico Aristippo
e Critia, il più violento dei Trenta Tiranni, e l'altro tiranno
Caricle, e il meraviglioso violator di leggi Alcibiade che non conobbe
limiti alla sua licenza meditata. «Il cuor mi balza assai più
che ai coribanti, quando io odo i discorsi di costui» diceva il figliuolo
di Clinia, leggiadra fiera coronata di edera e di violette,
tessendo il più fulgido elogio con cui siasi mai deificato in terra
un uomo, alla fine di un convito che dalla bocca del Sileno aveva
raccolto la grande iniziazione di Diotima.
Or quali energie avrebbe stimolate in me un tal maestro? Quali
musiche mi avrebbe condotto a trovare?
Primieramente mi avrebbe cattivato l'animo per quella eletta
facoltà ch'egli possedeva di sentire anche il fascino della bellezza
caduca e di distinguere con una qualche misura i piaceri comuni e
di riconoscere il pregio che l'idea della morte conferisce alla grazia
delle cose terrene.
Puro ed austero quant'altri mai nell'atto dello speculare, egli
possedeva tuttavia sensi così squisiti che potevan essere quasi direi
gli artefici eleganti delle sue sensazioni.
Non v'era nei banchetti - secondo Alcibiade ottimo giudice -
alcuno che sapesse goderne com'egli sapeva. Sul principio del
Simposio di Senofonte egli contempla con gli altri in lungo silenzio
la perfetta bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza
sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi
e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini
vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di
venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali:
«Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio
più molle del tuo?» Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con
una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo
ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a
sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di
lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del
flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle
Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone
l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di
musica e maestro di stile.
Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e
frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano
e ancor mi commuove; perocchè la mia anima talvolta ami allentare
la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate
perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili
eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare,
del continuo perire.
Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto
in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrom-
pe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se
vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e
va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine
dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi
stupiscono i momenti estremi in cui l'uomo compie con brevi atti
e con brevi detti la sua perfezione sì lucidamente e, come quell'artefice
il quale abbia dato alla sua opera l'ultimo tocco, contento riguarda
alfine la sua propria imagine - miracolo di stile - che rimarrà
immortale in terra; quanto mi rapisce l'impreveduta pausa
che segue i dubbii opposti da Cebete e da Simmia alla certezza
manifestata dal maestro eloquente.
Profonda pausa fu quella, in cui tutte le anime a un tratto cieche
si profondarono come in un abisso, spentosi a un tratto il raggio
di foco appuntato verso il Mistero da colui che stava per entrarvi.
Indovinò il maestro la tristezza di quell'oscurazione subitanea
ne' suoi fedeli; e le ali della sua idea per poco si ripiegarono. La
realità gli si ripresentò nei sensi e lo ritenne anche per poco nel
campo del finito e del percettibile. Egli sentì il tempo scorrere, la
vita fluire. Forse i suoi orecchi raccolsero qualche romore della
città magnifica, le sue nari aspirarono forse il profumo della nuova
estate sopravveniente, come i suoi occhi si posarono sul bel
Fedone chiomato.
Poichè era seduto sul letto e accanto a lui sopra uno sgabello
basso era Fedone, pose egli la mano sul capo del discepolo e gli
accarezzò e gli premette i capelli sul collo, avendo già consuetudine
di scherzare così con le dita in quella ricca selva giovenile.
Non parlava ancora, tanto la sua commozione doveva essere intensa
e rigata di delizia. Per mezzo di quella cosa bella vivente e
caduca egli comunicava anche una volta con la vita terrena in cui
aveva compiuto la sua perfezione, in cui aveva effettuato il suo
ideale di virtù; e sentiva forse che nulla eravi oltre, che la sua esistenza
finita bastava a sè stessa, che il prolungamento nell'eterno
non era se non una parvenza - simile all'alone di un astro - prodotta
dallo splendore straordinario della sua umanità. Non mai la
capellatura del giovinetto d'Elide aveva avuto per lui un pregio
tanto sublime. Egli ne godeva per l'ultima volta, dovendo morire;
e anche sapeva che al dimane in segno di lutto sarebbe stata recisa.
Disse alfine - e i suoi discepoli non gli avevano mai conosciuto
nella voce un tal suono - disse: «Domani, o Fedone, tu te le taglierai
queste belle chiome.» E il chiomato: «Sembra, o Socrate.»
Questo sentimento - che súbito assunsi ed esaltai in me medesimo
leggendo per la prima volta l'episodio nel dialogo platonico
- mi divenne in séguito per via di analogie tanto complesso, e tanto
l'ebbi familiare, ch'io ne feci il tema aperto o dissimulato delle
musiche alle quali volli attendere.
Così l'Antico m'insegnò la commemorazione della morte in un
modo consentaneo alla mia natura, affinchè io trovassi un pregio
più raro e un significato più grave nelle cose a me prossime. E
m'insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere
come i sinceri difetti per disporre le une e gli altri secondo un disegno
premeditato, per dare a questi con pazienti cure un'apparenza
decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E
m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea
regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine,
rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero.
E m'insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui
esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche
straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò in fine la sua
fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente
significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur
da lui medesimo nella sua persona mai.
Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all'opera
con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e
forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante
cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita
serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria
di Socrate nomavasi eugenéia, mi si rivelava più gagliardamente
come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva
l'orgoglio insieme con la contentezza, poichè pensavo che
troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato
o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici
stesse della mia sostanza - là dove dorme l'anima indistruttibile
degli avi - sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi
e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in
un'epoca in cui la vita publica non è se non uno spettacolo miserabile
di bassezza e di disonore. «Certo, è meraviglioso» mi diceva
il demònico «che queste antiche forze barbare si sieno conservate
in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene importune.
In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell'officio
che si conviene ai tuoi pari; ciò è l'officio di colui che indica una
mèta certa e guida i seguaci a quella. Poichè un tal giorno sembra
lontano, tu cerca per ora, condensandole, di trasformarle in viva
poesia.»

martedì 13 ottobre 2015

Il gesto







    - Quello è diventato pazzo,
    in quest'aula a fare un c... !
    - E perdirindirindina,
    ma che mano birichina !
    - Or si stracciano le vesti
    quando fanno tali gesti !
    - Sono proprio farisei
    ad odiar gli zebedei,
    essi che, e non è un lazzo,
    stanno lì per fare un c... !
    - La gentile deputata
    giustamente s'è indignata,
    tutti sanno anche chi sogna
    che ti porta la cicogna.
    - Ma quell'uomo, che volgare,
    non ha altro da pensare !
    - Certo a stare sull'assito
    poi ti viene del prurito.
    - Ma che dici è innominabile,
    tale cosa è imperdonabile,
    mi tortura proprio il cuore,
    quasi svengo per l'orrore !
    - Ma che turpe decadenza
    da attribuire all'ascendenza,
    pure i nostri amati avi,
    in materia molto savi,
    per non dire proprio quello
    designarono l'augello.
    - E che schiatta ora villana,
    pensa all'aquila romana !
    - A una stirpe superiore
    l'attributo era maggiore.
    Da che siamo tanto sotto
    a noi basta un passerotto,
    non abbiamo altro da fare
    che grattarci e cincischiare,
    poi ch'è gloria ormai appassita
    armeggiare con le dita.
    - E dov'è la dignità
    della carica che ha ?
    - E ti sembra ora il momento
    d'inveire contro il vento ?
    Il potere amico caro
    a sé reca un lustro raro,
    ma se dentro ancora cerco
    mi ritrovo nello sterco.
    - Sono queste menti rare
    al volere popolare ?
    Di noi tutti disgraziati
    sono questi gli avvocati ?
    Sono addetti a 'sti lavori
    questa sfilza di dottori ?
    - Il palato hanno più fino
    per le cene di Marino,
    e son pronti per orgoglio
    a cacare in Campidoglio.
    - Della patria son la crema,
    ma è un'Italia un poco scema,
    che si pone sul groppone
    chi le succia la pensione.
    - Tra le mani siamo stretti
    d'una banda di furetti.
    E per stare ancora a galla
    fanno come Caracalla,
    per aver tasse abbastanza
    tutti han cittadinanza.
    - Tutti siete buoni e belli
    ed un fiore di fratelli,
    ed in alto stiano i cuori
    a raccoglier pomidori !
    - Siete uguali tutti quanti,
    mano dietro e una davanti,
    io non sono certo omòfobo,
    ma mi sento un poco idròfobo
    quando vedo allo sconquasso
    un trionfo da smargiasso.
    Passo, passo dopo passo
    e le tasse ora v'abbasso,
    a promesse i parolai
    sono come i marinai.
    - E che fare allora a questo ?
    - A me basta solo un gesto,
    tanto sono un italiano,
    presta lingua e lesta mano,
    bravi a scrivere orazioni
    come il prete i suoi sermoni,
    mentre il coro sta in concordia
    a cantar misericordia !
    - State freschi o cittadini,
    buggerati e poverini,
    vede il mondo or a soqquadro
    e vi ruba a casa il ladro.
    Poveretto pure quello,
    il bisogno è cattivello,
    se qualcuno poi lo piglia
    non succeda un parapiglia !
    Non ti passi per la testa
    gli si possa far la festa,
    che se il ventre gli sbudelli
    ti ritrovi fra i cancelli.
    Perché pur ti meravigli ?
    Non sai a chi lo rassomigli ?
    Ma se alla televisione
    stanno sempre, pecorone !
    Sono i grandi, i magna magna,
    i devoti d'Alemagna,
    non risparmiano i mezzucci
    purché vinca Vanni Fucci !

domenica 11 ottobre 2015

Honoré de Balzac, Le père Goriot

Honoré de Balzac                    Le père Goriot                   Paris, Flammarion, s. d.


Il vero protagonista è Rastignac, che, dopo l'incontro rivelatore con Mme de Beauséant sul conto di papà Goriot, sogna la scalata sociale :

Son imagination, transportée dans les hautes régions de la société parisienne, lui inspira mille pensées mauvaises au coeur, en lui élargissant la tête et la conscience. Il vit le monde comme il est : les lois et la morale impuissantes chez les riches, et vit dans la fortune l’ultima ratio mundi. « Vautrin a raison, la fortune est la vertu ! » se dit-il.
( pag. 91 )

Vautrin è il machiavellico consigliere di Rastignac, l'avvocato del diavolo, il lato oscuro della sua anima. Tuttavia, anche se le sue deduzioni conducono al crimine, non manca di sincerità, è un cinico, un disilluso, un moralista che ha ripudiato la morale, mentre Rastignac è un dandy ancora vittima dell'illusione.
Pag. 248, la morale del borghese : “ L'argent c'est la vie. Monnaie fait tout. “ ( chi parla è “ le père Goriot “ ).

Luigi Pirandello, “ Quando si comprende “

Luigi Pirandello                Novelle per un anno                   1922


Cos'è la vita, cos'è la morte ?
Solo un genitore può veramente capirlo o comunque una persona che percepisca con chiarezza e senza illusioni la brevità dell'esistenza.



Quando si comprende


I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l’alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche.
All’alba, in una lercia vettura di seconda classe, nella quale avevano già preso posto cinque viaggiatori, fu portata quasi di peso una signora così abbandonata nel cordoglio che non si reggeva più in piedi.
Lo squallor crudo della prima luce, nell’angustia opprimente di quella sudicia vettura intanfata di fumo, fece apparire come un incubo ai cinque viaggiatori che avevano passato insonne la notte, tutto quel viluppo di panni, goffo e pietoso, issato con sbuffi e gemiti su dalla banchina e poi su dal montatojo.
Gli sbuffi e i gemiti che accompagnavano e quasi sostenevano, da dietro, lo stento, erano del marito, che alla fine spuntò, gracile e sparuto, pallido come un morto, ma con gli occhietti vivi vivi, aguzzi nel pallore.
L’afflizione di veder la moglie in quello stato non gl’impediva tuttavia di mostrarsi, pur nel grave imbarazzo, cerimonioso; ma lo sforzo fatto lo aveva anche, evidentemente, un po’ stizzito, forse per timore di non aver dato prova davanti a quei cinque viaggiatori di bastante forza a sorreggere e introdurre nella vettura il pesante fardello di quella moglie.
Preso posto, però, dopo aver porto scusa e ringraziamenti ai compagni di viaggio che si erano scostati per far subito posto alla signora sofferente, poté mostrarsi cerimonioso e premuroso anche con lei e le rassettò le vesti addosso e il bavero della mantiglia che le era salito sul naso.
Stai bene, cara?
La moglie, non solo non gli rispose, ma con ira si tirò su di nuovo la mantiglia – più su, fino a nascondersi tutta la faccia. Egli allora sorrise afflitto; poi sospirò:
Eh... mondo!
E volle spiegare ai compagni di viaggio che la moglie era da compatire perché si trovava in quello stato per l’improvvisa e imminente partenza dell’unico figliuolo per la guerra. Disse che da vent’anni non vivevano più che per quell’unico figliuolo. Per non lasciarlo solo, l’anno avanti, dovendo egli intraprendere gli studii universitari, s’erano trasferiti da Sulmona a Roma. Scoppiata la guerra, il figliuolo, chiamato sotto le armi, s’era iscritto al corso accelerato degli allievi ufficiali; dopo tre mesi, nominato sottotenente di fanteria e assegnato al 12° reggimento, brigata Casale, era andato a raggiungere il deposito a Macerata, assicurando loro che sarebbe rimasto colà almeno un mese e mezzo per l’istruzione delle reclute; ma ecco che, invece, dopo tre soli giorni lo mandavano al fronte. Avevano ricevuto a Roma il giorno avanti un telegramma che annunziava questa partenza a tradimento. E si recavano a salutarlo, a vederlo partire.
La moglie sotto la mantiglia s’agitò, si restrinse, si contorse, rugliò anche più volte come una belva, esasperata da quella lunga spiegazione del marito, il quale, non comprendendo che nessun compatimento speciale poteva venir loro per un caso che capitava a tanti, forse a tutti, avrebbe anzi suscitato irritazione e sdegno in quei cinque viaggiatori che non si mostravano abbattuti e vinti come lei nel cordoglio, pur avendo anch’essi probabilmente uno o più figliuoli alla guerra. Ma forse il marito parlava apposta e dava quei ragguagli del figlio unico e della partenza improvvisa dopo tre soli giorni, ecc., perché gli altri ripetessero a lei con dura freddezza tutte quelle parole ch’egli andava dicendo da alcuni mesi, cioè da quando il figliuolo era sotto le armi; e non tanto per confortarla e confortarsi, quanto per persuaderla dispettosamente a una rassegnazione per lei impossibile.
Difatti quelli accolsero freddamente la spiegazione. Uno disse:
Ma ringrazii Dio, caro signore, che parta soltanto adesso il suo figliuolo! Il mio è già su dal primo giorno della guerra. Ed è stato ferito, sa? già due volte. Per fortuna, una volta al braccio, una volta alla gamba, leggermente. Un mese di licenza, e via di nuovo al fronte.
Un altro disse:
Ce n’ho due, io. E tre nipoti.
Eh, ma un figlio unico... – si provò a far considerare il marito.
Non è vero, non lo dica! – lo interruppe quello sgarbatamente. – S’avvizia un figlio unico; non si ama mica di più! Un pezzo di pane, quando s’hanno più figliuoli, tanto a ciascuno, va bene; ma non l’amore paterno; a ciascun figliuolo un padre dà tutto quello di cui è capace. E s’io peno adesso, non peno metà per l’uno, metà per l’altro; peno per due.
È vero, sì, quest’è vero, – ammise con un sorriso timido, pietoso e impacciato, il marito. – Ma guardi... (siamo a discorso, adesso, e facciamo tutti gli scongiuri) ma ponga il caso... non il suo, per carità, egregio signore... il caso d’un padre ch’abbia più figliuoli alla guerra: ne perde (non sia mai!) uno, gli resta l’altro almeno!
Già, sì; e l’obbligo di vivere per quest’altro, – affermò subito, accigliato, quello. – Il che vuol dire che se a lei... non diciamo a lei, a un padre che abbia un solo figliuolo, capita il caso che questo gli muoja, se della vita lui non sa più che farsene, morto il figliuolo, se la può togliere, e addio; mentr’io, capisce? bisogna che me la tenga io, la vita, per l’altro che mi resta; e il caso peggiore dunque è sempre il mio!
Ma che discorsi! – scattò a questo punto un altro viaggiatore, grasso e sanguigno, guardando in giro coi grossi occhi chiari acquosi e venati di sangue.
Ansimava, e pareva gli dovessero schizzar fuori, quegli occhi, dalla interna violenza affannosa d’una vitalità esuberante, che il corpaccio disfatto non riusciva più a contenere. Si pose una manona sformata davanti la bocca, come assalito improvvisamente dal pensiero dei due denti che gli mancavano; ma poi, tanto non ci pensò più e seguitò a dire, sdegnato:
O che i figliuoli li facciamo per noi?
Gli altri si sporsero a guardarlo, costernati. Il primo, quello che aveva il figlio al fronte fin dal primo giorno della guerra, sospirò:
Eh, per la patria, già...
Eh, – rifece il viaggiatore grasso, – caro signore, se lei dice così, per la patria, può parere una smorfia!
Figlio mio, t’ho partorito
per la patria e non per me...
Storie! Quando? Ci pensa lei alla patria, quando le nasce un figliuolo? Roba da ridere! I figliuoli vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi. E quand’hanno vent’anni... ma pensi un po’, sono tali e quali eravamo io e lei quand’avevamo vent’anni. C’era nostra madre; c’era nostro padre; ma c’erano anche tant’altre cose, i vizii, la ragazza, le cravatte nuove, le illusioni, le sigarette, e anche la patria, già, a vent’anni, quando non avevamo figliuoli; la patria che, se ci avesse chiamati, dica un po’, non sarebbe stata per noi sopra a nostro padre, sopra a nostra madre? Ne abbiamo cinquanta, sessanta, ora, caro lei: e c’è pure la patria, sì; ma dentro di noi, per forza, c’è anche più forte l’affetto per i nostri figliuoli. Chi di noi, potendo, non andrebbe, non vorrebbe andare a combattere invece del proprio figliuolo? Ma tutti! E non vogliamo considerare adesso il sentimento dei nostri figliuoli a vent’anni? dei nostri figliuoli che per forza, venuto il momento, debbono sentire per la patria un affetto più grande che per noi? Parlo, s’intende, dei buoni figliuoli, e dico per forza, perché davanti alla patria, per essi, diventiamo figliuoli anche noi, figliuoli vecchi che non possono più muoversi e debbono restarsene a casa. Se la patria c’è, se è una necessità naturale la patria, come il pane che ciascuno per forza deve mangiare se non vuol morir di fame, bisogna che qualcuno vada a difenderla, venuto il momento. E vanno essi, a vent’anni, vanno perché debbono andare e non vogliono lagrime. Non ne vogliono perché, anche se muojono, muojono infiammati e contenti. (Parlo sempre, s’intende, dei buoni figliuoli!) Ora, quando si muore contenti, senz’aver veduto tutte le brutture, le noje, le miserie di questa vitaccia che avanza, le amarezze delle disillusioni, o che vogliamo di più? Bisogna non piangere, ridere... o come piango io, sissignori, contento, perché mio figlio m’ha mandato a dire che la sua vita – la sua, capite? quella che noi dobbiamo vedere in loro, e non la nostra – la sua vita lui se l’era spesa come meglio non avrebbe potuto, e che è morto contento, e che io non stessi a vestirmi di nero, come difatti lor signori vedono che non mi sono vestito.
Scosse, così dicendo, la giacca chiara, per mostrarla; le labbra livide sui denti mancanti gli tremavano; gli occhi, quasi liquefatti, gli sgocciolavano; e terminò con due scatti di riso che potevano anche esser singhiozzi.
Ecco... ecco.
Da tre mesi quella madre, lì nascosta sotto la mantiglia, cercava in tutto ciò che il marito e gli altri le dicevano per confortarla e indurla a rassegnarsi, una parola, una parola sola che, nella sordità del suo cupo dolore, le destasse un’eco, le facesse intendere come possibile per una madre la rassegnazione a mandare il figlio, non già alla morte, ma solo a un probabile rischio di vita. Non ne aveva trovata una, mai, tra le tante e tante che le erano state dette. Aveva ritenuto perciò che gli altri parlavano, potevano parlare a lei così, di rassegnazione e di conforto, solo perché non sentivano ciò che sentiva lei.
Le parole di questo viaggiatore, adesso, la stordirono, la sbalordirono. Tutt’a un tratto comprese che non già gli altri non sentivano ciò che ella sentiva; ma lei, al contrario, non riusciva a sentire qualcosa che tutti gli altri sentivano e per cui potevano rassegnarsi, non solo alla partenza, ma ecco, anche alla morte del proprio figliuolo.
Levò il capo, si tirò su dall’angolo della vettura ad ascoltare le risposte che quel viaggiatore dava alle interrogazioni dei compagni sul quando, sul come gli fosse morto quel figliuolo, e trasecolò, le parve d’esser piombata in un mondo ch’ella non conosceva, in cui s’affacciava ora per la prima volta, sentendo che tutti gli altri non solo capivano, ma ammiravano anzi quel vecchio e si congratulavano con lui che poteva parlare così della morte del figliuolo.
Se non che, all’improvviso, vide dipingersi sul volto di quei cinque viaggiatori lo stesso sbalordimento che doveva esser sul suo, allorquando, proprio senza che ella lo volesse, come se veramente non avesse ancora inteso né compreso nulla, saltò su a domandare a quel vecchio:
Ma dunque... dunque il suo figliuolo è morto?
Il vecchio si voltò a guardarla con quegli occhi atroci, smisuratamente sbarrati. La guardò, la guardò e tutt’a un tratto, a sua volta, come se soltanto adesso, a quella domanda incongruente, a quella meraviglia fuor di posto, comprendesse che alla fine, in quel punto, il suo figliuolo era veramente morto per lui, s’arruffò, si contraffece, trasse a precipizio il fazzoletto dalla tasca e, tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi.