giovedì 13 ottobre 2016

La battaglia




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Un'arena immensa era divorata su un fianco da maree incanutite che si squamavano sul pietrisco con croscii scissi.
Le sabbie, arse dal sole, barbagliavano accecanti. Il calore invetriava l'aria.
Molto lontano su di una collina si discerneva una casa bianca.
Un cavaliere montava un destriero d'ignota razza, dall'orbite di fuoco, che nitriva agitando il fortissimo collo velloso. Il cavaliere, ammantato d'una pelle di lupo montano, faceva roteare una mazza ferrata, serrandone l'impugnatura nella destra. Sulla sella era cinghiata saldamente una spada pesante.
Dietro lui rompeva le dune, ammorbando di fiotti di polvere, un esercito interminato, irto di picche e di bandiere, che sprigionava un frastornìo metallico.
Giovani dai biondi cimieri e dalle corazze scintillanti agitavano gli scudi, che ondavano come per i venti i campi di messi d'oro, in tutta la schiera gridando, e colpendoli con le aste impennacchiate presso la punta o annodate di orifiamme. Essi gridavano e inneggiavano al sole, e gioivano di forza, eccitandosi all'acre escrezione del sudore equino, che si mesceva al respiro salso del mare, e alla vista dell'interminabile legione di rossi vessilli crepitanti.
Essi avanzavano al rullo dei tamburi e allo squillo delle trombe che annunciavano la prossima battaglia. I loro cavalli, bianchi o fulvi o pezzati o neri, innitrivano e scotevano le criniere lanose e dilatavano le froge umide, gli oculi oscuri, lucidi e venati di sangue, indovinavano lo scontro devastatore.
Di fronte già si profilava una selva di picche, negra sovra le sabbie, e ormai un manto di morte si propagava con nubi grigie sospinte dal vento.
Sovra una rupe, che svettava come un pinnacolo, una donna contemplava gli eserciti avversi.
Da lontano i suoi occhi tenevano la sterile piana e si posavano sui gonfaloni di guerra. Ella era triste come avesse perduto per sempre un incanto di sogni e di gioia.
Una bianca stola aveva indosso e fluenti capelli fiammei, innanzi a lei ardeva un tripode ove bruciavano essenze. E mentre recitava preghiere in una lingua sconosciuta, rivolta al cielo minaccioso, le schiere nemiche s'affrontarono.
Un urlo insostenibile rimbombò sotto la volta funerea e uno schianto atroce straziò l'aria, un urto di lame squarcianti e di spietati arnesi bellici, mossi da mani bramose di vendetta.
Le file serrate sobbalzavano, s'arrestavano, assaltavano, cozzavano fra loro quali onde eccitate da spiri contrari, e tutta la pianura era invasa da un'alluvione assordante di colpi di maglio, di fragore di scudi, di grida orribili, un boato simile a quello d'un mare in tempesta.
E su quella tempesta traspariva, dietro il velo mortuario della nuvolaglia plumbea, il disco del sole, puro nel suo giro perfetto, in un candore lunare, quasi un sole notturno che sorga su regioni di tenebra, quasi un sole maligno che nutra dei suoi effluvi una terra di male.

E le apparve il principe sul cavallo nero.
Il suo volto dal rilievo marcato non sembrava rivelare alcuna emozione. Il sangue della vita non colorava il suo volto, pallido, dalle labbra serrate e violacee, dagli occhi grandi e impassibili quali d'un alato rapace, immobili, fissi nell'orizzonte infinito. Ogni passione era trascorsa senza infine mutare quella espressione aspra, implacabile e granitica, donde soltanto le pupille parevano dardeggiare un fuoco interiore, inestinguibile.
Egli brandì la rutilante spada insanguinata ergendo le braccia, e calò un fendente che sibilando sfiorò le ciocche castane riposanti sulla spalla della fanciulla.
E come il principe vide se stesso in lei ed ella si specchiò nell'oscurità dei suoi occhi, la luce pallida della luna attraversò la notte entro la sua pupilla senza fine.
La fanciulla era innanzi a lui, nella luminosità della bellezza. Egli guardò a lungo il corpo giovane e forte e ricco di vita, avvolto dalla tunica che aderiva alle forme nel soffio dei venti. Il petto si sollevava nel respiro, i capelli le ricadevano sovra le spalle robuste. Negli occhi egli scorse la sottomissione alla sua volontà e la fermezza dell'adempimento, vide la forte madre della progenie, non una femmina ribelle e proterva, invida della virilità, ma una donna degna di stare al suo fianco.
Ed egli ricordò d'averla già vista nel tempo della giovinezza trascorrere veloce, le chiome al vento, quando si era dileguata nell'ora del sole.
E vide la forte madre delle generazioni, la partoriente nel dolore, e chinò il volto.
E lo invase una grande pace, e l'oblìo calava sopra di lui come le ali della notte. E il suo cuore dolente lo allontanava.
E vide sovra il mare tempestoso, sovra l'innito delle ondate dilaniantisi, sull'oscuro ventre dell'abisso, la forte madre delle generazioni che lo chiamava a sé, e i suoi capelli erano aspidi nella tormenta.
E sotto il piede suo vide il serpente che s'attorceva in infinite spire, e tutte le vite umane prese dagli artigli del drago.
E pronunciò il santo nome di Proserpina, e s'appressò alla notte.

sabato 1 ottobre 2016

La via








Tutto passò. E seduto ammiravo
dall'avita campagna il verde dorso
del mare verso sera, già sognavo
d'una vita futura il dolce corso,

sedotto da una musica ascoltata
mi cullava quell'ora in un miraggio
d'incanto, una visione obliata
mai, sospiro eterno in un breve viaggio.

Ma non sapevo, non sapevo il nulla
che m'attendeva dopo, era brulla
la via ed un lento camminare,

le buche della strada ed occhi amenti,
la polvere che asseta labbra amare
ed il dispregio degli indifferenti.