domenica 15 maggio 2016

Su due novelle di G. D'Annunzio

G. D'Annunzio Terra vergine 1882



Fra' Lucerta” ricorda il romanzo di Anatole France, Thais, 1890. Qui però si tratta di un povero frate che muore di mal d'amore, uno sventurato che suscita la nostra compassione, laddove l'eremita Pafnuzio, che converte la cortigiana Taide e poi se ne innamora, suscita soltanto ribrezzo.
L'ambiente de “La gatta” pare proprio quello della Versilia nell'Alcyone, e invece è in terra d'Abruzzo. Il lido, le alghe, la sabbia, la pineta evocano subito l'atmosfera sensuale di “Stabat nuda aestas”. Segno evidente che il futuro D'Annunzio è già tutto qui, nell'opera giovanile.
Mirabili racconti, dove eccelle l'arte pittorica e musicale dell'autore, la sua prosa è già intrisa di poesia, evocatrice di apparizioni che ammaliano per la ricchezza dei colori, con la seduzione d'un incantatore di serpenti.



LA GATTA


Quella sera l′Adriatico era violetto, d′un violetto carico e lucido come l′ametista, senza onde bianche, senza sbattimenti di vele. Di vele però ce n′era uno sciame lì su la linea estrema, ritte, acute, fiammanti di colore alla vampata ultima del sole, sopra un fondo argentino, sotto un ricamo agilissimo di vapori che parevano profili di case moresche e di minareti in fuga.
Tora veniva giù per il lido, tra le dune coperte di alighe e di rottami rigettati dalla burrasca, canticchiando una canzone di Francaviva, una selvaggia canzone che non diceva d′amore. Dopo l′ultima nota lunga d′una strofe, andava innanzi per un tratto in silenzio, con la bocca socchiusa, bevendo il maestraletto pregno di sale, o ascoltando il mareggiare sommesso e il grido di qualche gabbiano solitario a volo nell′immensità. La cagna dietro, a coda bassa, fermandosi a fiutare le alighe.
Qua, Vespa, qua! – vociava Tora battendosi la coscia; e l′animale via di corsa a saetta per la sabbia fulva come il suo pelo.
Ma quella voce la sentì anche Mingo che stava seduto dentro la sciàbica in secco a tagliare un sughero: e il cuore gli diè un guizzo, perché gli occhi gialli di Tora, due occhi tondi di pesce morto, una mattina gliel′avevano trapassato. Oh, quella mattina! Se ne ricordava: era alla pesca delle telline, alta e diritta, con le gambe tuffate nell′acqua verde screziata di scintille d′oro, tutta nel sole... Lui passò proprio di lì su la paranza e le pescatrici gli gettarono un grido; Tora guardava senza pararsi il riverbero con le palme. Chi sa se la guardò più poi la punta rossa di quella vela che si perdeva gonfia di scirocco in alto mare!
Qua, Vespa, qua! – ripetè la voce gaia squillante vicinissima, tra i latrati, mentre Mingo balzava fuori dalla sciàbica, scuotendosi via di su gli occhi i capelli, con un′agilità di giaguaro innamorato.′
Dove andate, Tora? – le disse; e il viso pareva un rosolaccio salvatico.
Tora non rispose, non si fermò neanche; egli la seguì a capo chino, con il cuore che gli batteva forte, con la gola serrata da un groppo di parole ardenti, ascoltando la canzone interrotta, sentendosi tutto rimescolare da certe note strane gittate là improvvisamente come schianti di fiotto in mezzo al romorìo monotono della marea.
Alla pineta, Tora si arrestò: una folata di odore acuto fresco sanissimo le passò per la faccia insieme con gli ultimi bagliori crepuscolari filtranti nei rami.
O Tora...
Che volete?
Vi voglio dire che i vostri occhi li vedo sempre la notte, e non posso dormire.
C′era nelle parole di quel fanciullo un accento di passione così selvaggio e nello sguardo un luccicore così disperato, che Tora ne ebbe un fremito.
Va, va... – soggiunse poi; e si perse con la cagna rossa fra le tortuosità dei pini.
Mingo udì ancóra i latrati laggiù al ponticello, mentre guardava tristamente sull′orizzonte le paranze ingolfarsi nell′ombra a poco a poco.
Eppure non era bella la Gatta: non aveva che quelle due iridi gialle, talora verdognole, immobili sul bianco largo dell′occhio, piene di fascino; e certi capelli corti, ricciuti, d′un colore di foglia secca, vivi di riflessi metallici alla luce.
Era sola al mondo, sola con quella cagnaccia rossa sottile famelica come uno sciacallo, sola con le sue canzoni e con il suo mare.
Nel mare ci stava dentro tutta la mattinata a pescar le telline , ci stava anche quando le onde crescenti le spumavan d′intorno spruzzandole la gonna succinta e la facevano traballare; e in quei momenti era una splendida figura anche ne′ cenci, mentre i gabbiani sentendo la bufera le turbinavano sul capo. Dopo la pesca conduceva al pascolo i tacchini per i prati e per le stoppie, stornellando, facendo dei lunghi discorsi con Vespa che stava lì a guardarla pazientemente, accoccolata.
Non era triste però: i suoi canti avevano una monotonia malinconica, ritmi bizzarri che facean pensare agl′incantatori egiziani; ma lei li diceva come inconscia, come se non le vibrasse nulla nell′orecchio, nulla nell′anima, li diceva guardando una nuvola, un uccello, una vela, con le pupille sbarrate, quasi attonite, affondando nella sabbia la piccola rete, senza stancarsi mai.
Le compagne cantavano anche loro; ma a volte erano vinte da un senso di sgomento, di solitudine, di angoscia, a quelle note, a quella voce; e tacevano e chinavano il capo scottato dal solleone, e provavano più gelidi i brividi su pe′ ginocchi, più doloroso nelle pupille il barbaglio di quell′incendio; e tendevano le braccia affrante, mentre la cantilena della Gatta perdevasi nella immensa afa accidiosa, come una imprecazione, come un singulto.
Le parole, gli sguardi di Mingo la turbarono un istante; non aveva compreso. Pure sentiva giù giù in fondo all′anima una inquietudine vaga, sentiva quasi ira contro quel ragazzaccio audace dai denti bianchi e dalle labbra grosse.
Si fermò agli ultimi pini, chiamò Vespa, le accarezzò il pelo ruvido; poi risollevandosi era fredda, serena, canterellava.
Ma in un pomeriggio di agosto alla pineta ci tornò con un branco di tacchini cercando ombra, e ci trovò l′amore.
Stava poggiata a un tronco; aveva le palpebre gravi di sonnolenza, gli occhi pieni di bagliori confusi. I tacchini pascolavano d′intorno affondando la testa paonazza nell′erba brulicante d′insetti, due stavano accoccolati sopra un cespuglio di mortella; il vento alitava per entro alle cupole verdi bisbigliando; poi fuori a distesa il lido riarso e la linea turchina del mare animato di vele.
Mingo comparve fra i fusti densi, e s′avvicinò a poco a poco, trattenendo il respiro, s′avvicinò, s′avvicinò: la sua maga era lì assopita, in piedi, abbracciata al tronco.
Tora!
Ella si scosse, si volse, gli aprì in faccia que′ due occhi tondi pieni di stupore.
Tora... – ripetè Mingo tremando.
Che volete?
Vi voglio dire che i vostri occhi li vedo sempre la notte, e non posso dormire.
Forse allora comprese: chinò il capo a terra, pareva stesse in ascolto o cercasse nella memoria qualche cosa: quelle parole le aveva udite anche un′altra volta, era la stessa voce; non si rammentava più dove, ma le aveva udite. Risollevò la fronte: il mozzo le stava dinanzi, lì incantato, col volto in fiamme, con le labbra semichiuse, giovine, forte; e il vento portava via buffi d′odore dall′erbe selvagge, e l′Adriatico era tutto un barbaglio di faville, fra i tronchi torti de′ pini.
Ehi, Mingo! – urlò una voce aspra di lontano in quel momento.
Egli si scosse, afferrò a Tora una mano, la strinse con tutta la sua forza, e poi via per l′arena di corsa, come un forsennato, verso la paranza che aspettava nell′acqua dondolando.
Mingo! – susurrò la Gatta con un accento strano, figgendo lo sguardo nella vela latina che si allontanava rapidamente. E rise come una bimba; e al ritorno cantava una canzone dalla movenza vivace di tarantella, cacciandosi innanzi con la canna i tacchini sazii, mentre il sole tramontava sanguigno dietro Montecorno in mezzo ai nuvoli cacciati dal garbino improvviso.
Ma col garbino quella notte venne burrasca, e il mare arrivava fino alle case con certi urli da far rabbrividire, e tutta quella povera gente della spiaggia stava rinchiusa ad ascoltare la raffica o a pregare la Vergine Santissima per i pescatori.
Soltanto la Gatta vagava nel buio come una fiera, a testa bassa, rompendo la furia del temporale, ficcando nel buio que′ suoi occhi gialli pieni d′angoscia, tendendo l′orecchio se le giungesse un grido umano... Nulla. Non si udiva nel frastuono che il latrato rabbioso di Vespa perduta là, in lontananza, chi sa dove!
Ed ella s′accostava, s′accostava al lido, abbarbagliata dai lampi che scoprivano tutto un tratto di mare sconvolto, tutto un lembo di spiaggia desolata. Si accostò troppo: un′onda la investì e la rovesciò bocconi, un′altra onda le passò sopra e la ghiacciò tutta, mentre, inferocita dall′istinto vitale, ella si contorceva come un delfino arenato, tra l′acqua incalzante che le empiva di amaro la bocca aperta all′urlo, su la sabbia che cedeva ad ogni aggrappo, disperatamente.
Si drizzò in ginocchio alla fine, si sottrasse carponi alla furia della bufera; e rientrò nel suo covile, grondante, diaccia, con i denti stretti, pazza di terrore e d′amore.
La mattina l′Adriatico era calmo, viscido come nafta, senza l′anima d′una vela, muto, spietato. Alla Gatta parve come di destarsi dalle angosce di un incubo, provò nell′anima un senso nuovo di solitudine, sentì paura del buio... Poi in que′ grandi occhi gialli tornò lo sguardo immobile di pesce morto. Ed ella va ancóra con le compagne a frangersi le braccia, a farsi ghiacciare i piedi dall′acqua, bruciare il cranio dal sole; e le sue cantilene seguitano a dileguarsi nell′aria splendida e triste, a scendere nel cuore di quella gente che spasima per un tozzo di pane, senza speranza, senza conforto, senza riposo, mentre i gabbiani passano e ripassano a folate gittando i loro liberi gridi alle tempeste ed ai sereni.