martedì 23 agosto 2016

Cicero, De officiis, III, 15

Sull'opinione degli imperiti

Cum autem aliquid actum est, in quo media officia compareant, id cumulate videtur esse perfectum propterea, quod vulgus, quid absit a perfecto, non fere intellegit; quatenus autem intellegit, nihil putat praetermissum, quod idem in poematis, in picturis usu venit in aliisque compluribus, ut delectentur imperiti laudentque ea, quae laudanda non sint, ob eam, credo, causam, quod insit in his aliquid probi, quod capiat ignaros, qui idem, quid in unaquaque re vitii sit, nequeant iudicare. Itaque cum sunt docti a peritis, desistunt facile sententia. Haec igitur officia, de quibus his libris disserimus, quasi secunda quaedam honesta esse dicunt, non sapientium modo propria, sed cum omni hominum genere communia.

Ovidio, Glauco e Scilla

The Death of Sappho by Gustave Moreau, c. 1872, oil on wood - Scharf-Gerstenberg Collection - DSC03887.JPG






 
Ovidio, Metamorfosi, XIV, 1-74



Iamque Giganteis iniectam faucibus Aetnen
arvaque Cyclopum, quid rastra, quid usus aratri,
nescia nec quicquam iunctis debentia bubus
liquerat Euboicus tumidarum cultor aquarum,
liquerat et Zanclen adversaque moenia Regi
navifragumque fretum, gemino quod litore pressum
Ausoniae Siculaeque tenet confinia terrae.
inde manu magna Tyrrhena per aequora vectus
herbiferos adiit colles atque atria Glaucus
Sole satae Circes, variarum plena ferarum.
quam simul adspexit, dicta acceptaque salute,
'diva, dei miserere, precor! nam sola levare
tu potes hunc,' dixit 'videar modo dignus, amorem.
quanta sit herbarum, Titani, potentia, nulli
quam mihi cognitius, qui sum mutatus ab illis.
neve mei non nota tibi sit causa furoris:
litore in Italico, Messenia moenia contra,
Scylla mihi visa est. pudor est promissa precesque
blanditiasque meas contemptaque verba referre;
at tu, sive aliquid regni est in carmine, carmen
ore move sacro, sive expugnacior herba est,
utere temptatis operosae viribus herbae
nec medeare mihi sanesque haec vulnera mando,
fine nihil opus est: partem ferat illa caloris.'
at Circe (neque enim flammis habet aptius ulla
talibus ingenium, seu causa est huius in ipsa,
seu Venus indicio facit hoc offensa paterno,)
talia verba refert: 'melius sequerere volentem
optantemque eadem parilique cupidine captam.
dignus eras ultro (poteras certeque) rogari,
et, si spem dederis, mihi crede, rogaberis ultro.
neu dubites absitque tuae fiducia formae,
en ego, cum dea sim, nitidi cum filia Solis,
carmine cum tantum, tantum quoque gramine possim,
ut tua sim, voveo. spernentem sperne, sequenti
redde vices, unoque duas ulciscere facto.'
talia temptanti 'prius' inquit 'in aequore frondes'
Glaucus 'et in summis nascentur montibus algae,
Sospite quam Scylla nostri mutentur amores.'
indignata dea est et laedere quatenus ipsum
non poterat (nec vellet amans), irascitur illi,
quae sibi praelata est; venerisque offensa repulsa,
protinus horrendis infamia pabula sucis
conterit et tritis Hecateia carmina miscet
caerulaque induitur velamina perque ferarum
agmen adulantum media procedit ab aula
oppositumque petens contra Zancleia saxa
Region ingreditur ferventes aestibus undas,
in quibus ut solida ponit vestigia terra
summaque decurrit pedibus super aequora siccis.
parvus erat gurges, curvos sinuatus in arcus,
grata quies Scyllae: quo se referebat ab aestu
et maris et caeli, medio cum plurimus orbe
sol erat et minimas a vertice fecerat umbras.
hunc dea praevitiat portentificisque venenis
inquinat; hic pressos latices radice nocenti
spargit et obscurum verborum ambage novorum
ter noviens carmen magico demurmurat ore.
Scylla venit mediaque tenus descenderat alvo,
cum sua foedari latrantibus inguina monstris
adspicit ac primo credens non corporis illas
esse sui partes, refugitque abigitque timetque
ora proterva canum, sed quos fugit, attrahit una
et corpus quaerens femorum crurumque pedumque
Cerbereos rictus pro partibus invenit illis:
statque canum rabie subiectaque terga ferarum
inguinibus truncis uteroque exstante coercet.
Flevit amans Glaucus nimiumque hostiliter usae
viribus herbarum fugit conubia Circes;
Scylla loco mansit cumque est data copia, primum
in Circes odium sociis spoliavit Ulixem;
mox eadem Teucras fuerat mersura carinas,
ni prius in scopulum, qui nunc quoque saxeus exstat,
transformata foret: scopulum quoque navita vitat.



mercoledì 17 agosto 2016

Come il respiro del mare

γῆς ἱδρῶτα θάλασσαν 

Empedocle





Sudore della terra rombava il mare,
un profondo respiro si placava
sulle arene e le rive scoscese,
risonava notturno e greve di scirocco.
E fra le fronde cupree s'addensava
la chioma folta di Febe,
sull'amata anima si reclinava alata.
Nel vasto giardino esalava
l'umido profumo dell'erba
e il rosmarino e la fronda carca
degli aranci, l'ansimo dei venti
si destreggiava tra ritorti rami.
Un suono lontano si frangeva
naufrago del lontano Oceano,
nostalgico aroma di sirene.
Occhi chiusi, portavo il divino morbo d'Estate
nel chiuso seno di sogni,
sacerdote errante di chimere,
entravo estatico in un duomo vitreo
di scaglie loquaci fra mille riflessi
di flessuosi arabeschi su acque lustrali,
torri si levavano al cielo guglie
eburnee come su rapide rampe
una voce levitava in volute d'incensi,
sopra la massa nera delle mura
cupide del buio roteava nella danza
nei veli cangiante per antri
sibillini, sortita da giardini
d'ametista.
Nell'onda, nell'acqua amara
colsi allora il segreto sapore
della vita fugace. Liquore
offerto alle bocche senza pace
a saziarsi di divine vocitanti
icone, profezie intese ad evocare
la fine. Ma il mare
si perdeva ansietato, tumido, immenso
nei vorticosi pensieri, il fato
m'illudeva ancora, la vista
s'intorbidava nel gurgite convulso.
Il mulso bevvi salino
e mi vidi ai piedi della vergine
di Febo, predata nello spasmo dell'oracolo.
Sospiravano le foglie degli allori
al presente mistero del dio,
lunghe branche nere si protendevano
adoranti, la fonte scorreva
limpida, verde come il mare.
Verdi rifulsero gli sguardi
della Pitonessa, quale raggio riluce
entro l'acque sul fondo.
Immerso ero allora
nel grembo di Tetide,
come nell'Egeo sferzato
dai venti orientali. E m'immersi allora
nella profonda notte
e nel silenzio udivo la voce del mare.
La voce profonda dell'Essere
ascoltavo attonito
quasi senza vita,
immoto e disperso nell'Oscurità.
E fui ai piedi della vergine
e udii la voce sua fluire come aura
fra l'onda delle foglie inquiete,
ma era un suono solo, un'unica parola
che assordava il silenzio.
E udivo poi il clamore delle valli suonanti,
delle masse tumultuanti
emergere dal fango delle tane
ciclopiche, dove una genìa di ciechi
brancola in una gabbia d'oro,
e caddi ai piedi della vergine
nel pianto della rabbia.
E il pianto si mutava intorno
in una fonte amara e l'acqua ancora
mi cingeva del mare,
in un turbine, in un gorgo
correvo rapito, lieve fuscello,
dalla tempesta del dio,
di misteriose parole il rombo
crosciava alla luce spumeggiando,
crepitando quale fiamma
sull'ara sacra.
E il respiro del mare infinito, onnipossente,
colmava la vasta terra dormente
sotto il manto disegnato di stelle,
nell'ampio braccio del mare
abbandonata, immota, silente.
E nel respiro del mare si fondeva il mio respiro
sulla soglia della casa notturna,
si placava la mia vita
nella sua vita eterna.






venerdì 5 agosto 2016

Soren Kierkegaard, Sul concetto d'ironia






Soren Kierkegaard           Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate ( 1841 )
Milano, BUR, 1995



P. 63, sullo sprofondare in se stesso di Socrate : “ ecco, con questo sguardo fisso davanti a sé, cui tanto spesso s'abbandonava, potrebbe fornire un'immagine plastica della sintesi astratta di comico e tragico, di cui può essere qui questione. Lo sguardo fisso può appunto denotare, o lo sprofondare speculativo ( questa sarebbe piuttosto la postura platonica ), o quel che diciamo il non pensare a niente, nel momento in cui il “niente” ti si fa quasi visibile. Una sintesi superiore di tal fatta Socrate poteva fornirla certo, ma è la sintesi astratta e negativa nel nulla. “
P. 88-89, nel momento in cui Kierkegaard fa di Socrate un nichilista conferisce piena validità alle argomentazioni di Nietzsche nella Nascita della tragedia : “ La filosofia platonica vuole che l'uomo muoia alla conoscenza sensibile per dissolversi attraverso la morte nel regno dell'immortalità, dove l'eguale in sé e per sé, il bello in sé e per sé ecc. vivono in un silenzio di tomba. Con forza ancor maggiore ciò viene espresso nelle parole di Socrate, che il desiderio del filosofo è di morire ed esser morto. Ma un desiderio simile della morte in sé e per sé non può essere fondato sull'entusiasmo, se si vuole davvero rispettare questa parola, e non riferirla ad es. alla frenesia con cui talvolta si vede l'uomo aspirare all'autoannientamento, probabilmente fondata su una specie di tedio della vita. Sin quando non si può dire di veder chiaro in tale aspirazione, può esserci ancora l'entusiasmo, ma quando essa ha il suo fondamento in una certa inerzia, oppure il soggetto è consapevole di ciò cui aspira, allora a predominare è il tedio della vita. “
P. 132, il dèmone di Socrate, il dèmone “mostruoso” dell'ironia : “ … qual dèmone mostruoso abiti nei vuoti luoghi ed aridi dell'ironia. … per uno come Platone dev'essere stato sempre molto difficile capire del tutto Socrate … davvero non si può cercare in Platone una mera restituzione di Socrate. “
P. 138, Aristofane porta in scena nelle Nuvole il Socrate reale : “ Per prima cosa è importante convincersi che quello portato in scena da Aristofane è il Socrate reale. “
P. 179, aspetti negativi dell'operato di Socrate ( in questo Kierkegaard sembra andare d'accordo con Nietzsche ) : “ E quando col singolo aveva concluso, allora per un attimo si placava la fiamma divorante dell'invidia ( nell'accezione metafisica del termine ), per un attimo allora l'entusiasmo distruttivo della negatività era appagato, e così Socrate assaporava appieno la gioia del'ironia, godendone doppiamente, poiché sentiva d'avere agito per il dio, col suo avallo. … La negatività sottesa alla sua ignoranza per lui non era un risultato, non un punto d'avvio per una speculazione più profonda … Questa ignoranza era la vittoria eterna sull'apparenza, che nessun fenomeno singolo né la somma di tutti i fenomeni poteva strappargli, ma in virtù della quale ad ogni istante vinceva sull'apparenza. … Se dunque Socrate poté trovar pace in quell'ignoranza, è perché non lo muoveva un bisogno speculativo più profondo. “
P. 215, Socrate distrugge la classicità, vedi Nietzsche, La nascita della tragedia : “ Ma l'ironia a sua volta è il gladio, la spada a doppia lama che Socrate fece roteare, qual angelo di morte, sopra la Grecia. L'ha colto ironicamente bene egli stesso nell'Apologia, dove dice d'essere come un dono degli dèi, e specifica : un tafano indispensabile a quel grande e nobile, ma tardo destriero che era lo stato greco. … In lui si conclude uno sviluppo e con lui ne inizia uno nuovo. E' l'ultima figura classica, ma consuma questa sua sorgiva, naturale pienezza nella missione divina con cui distrugge la classicità. “
P. 233, l'opera di Kierkegaard si rivela sempre più un'interpretazione del socratismo alla luce dell'hegelismo.
P. 273, Socrate il nihilista, in questo la tesi di Kierkegaard combacia con quella del Nietzsche : “ … per lui l'intera vita sostanziale della grecità aveva perduto il suo valore, vale a dire dunque che la realtà sussistente era per lui irreale, e non per questo o quel singolo verso, ma nella sua totalità intera in quanto tale; nel rapportarsi a questa realtà senza valore, lasciò sussistere per finta il sussistente, e così lo portò a rovina; in tutto ciò divenne sempre più leggero, sempre più libero in negativo. Ebbene, stando a questo vediamo bene che il punto di vista di Socrate, in quanto negatività infinita e assoluta, fu ironia. ”
P. 285, ricorda sempre il Nietzsche : la volontà di autodeterminazione, essere il proprio destino : “ L'ironista però ha sempre in serbo la sua libertà poetica, sicché, quando s'accorge di non diventare nulla, ci poeta sopra, e, come noto, tra i modi poetici di vita preconizzati dall'ironia ve n'è uno, anzi il più nobile fra tutti : diventare puro nulla. “
P. 288, la noia, fondamentale stato d'animo dell'ironista, vedi Leopardi : “ Noia è l'unica continuità dell'ironista. Noia, quest'eternità senza contenuto, questa felicità senza piacere, questa profondità superficiale, questa sazietà affamata. Ma noia è precisamente l'unità negativa, sussunta in una coscienza personale, in cui le opposizioni scompaiono. “
NB vedi Diogene Laerzio, libro II, 32-33 :
Ἔλεγε δὲ καὶ προσημαίνειν τὸ δαιμόνιον τὰ μέλλοντα αὐτῷ· τό τε εὖ ἄρχεσθαι μικρὸν μὲν μὴ εἶναι, παρὰ μικρὸν δέ· καὶ εἰδέναι μὲν μηδὲν πλὴν αὐτὸ τοῦτο [εἰδέναι].