domenica 31 dicembre 2017

Friedrich Nietzsche, Il servizio divino dei Greci






Friedrich Nietzsche Il servizio divino dei Greci ( 1875-1878 ) Milano, Adelphi, 2012



P. 25. “ Pressoché tutti i culti comprendono un drama, un frammento di mito rappresentato che si riferisce alle origini del culto. Il senso autentico sembrerebbe questo : fare e patire ciò che un dio stesso ha fatto e patito è il più alto segno di devozione : in breve, sforzarsi di essere il dio stesso o il suo seguace. Questo vale come mezzo per spingere il dio a partecipare lui stesso e a mostrarsi. Nelle celebrazioni di Diòniso sul Parnaso si credette sempre che il dio fosse lì presente, che lo si potesse udire nelle grida e nei cimbali bacchici. “
P. 29. Influenze semitiche in Grecia : “ Una dominazione semitica deve aver preceduto l'ellenizzazione in Grecia; gli edifici delle città, gli impianti e le istituzioni, così come i loro dei, i loro culti e le loro saghe, giunsero in parte ai Greci. Il culto degli astri, l'adorazione dei 7 pianeti ( vale a dire il Sole, la Luna e i cinque pianeti conosciuti nell'antichità ) e l'astrologia ad essa collegata appartengono alla religione semitica primitiva. “
P. 32. Europa : dea della luna fenicia. Più avanti si sostiene l'origine fenicia di Troia. Il culto del fenicio Adone è riferibile ad Anchise, identificato appunto con Adone, e allo stesso Diòniso ( Adone e Diòniso sono considerati identici ).
P. 33. Origine semitica di Calipso e di Ogigia.
P. 38. Le Muse ( spiriti della fonte ) legate in origine più strettamente al culto di Diòniso che non a quello di Apollo. Come il Pater anche Nietzsche collega il culto di Diòniso a quello di Demetra e Core.
P. 46. Identità di Zeus e Diòniso : “ … è il dio del cielo, da un lato come cielo diurno e, dall'altro, in quanto dio del cielo notturno, dell'oscurità, del maltempo, degli inferi. “ Interessanti notizie anche sul Diòniso dei Celti : Sabo.
Le informazioni seguenti hanno grande somiglianza, soprattutto nel metodo, con quelle di Frazer ( Il ramo d'oro ), ad esempio relativamente al culto degli alberi.
P. 58. Origine tracia del culto delle Muse e di Diòniso.
P. 62. Clan e tribù dell'Attica.
P. 67. Il culto delle 12 divinità olimpiche è di matrice politica, dovuto alla fondazione della lega tra le varie città-stato, l'Anfizionia.
P. 106. Culto dei serpenti collegato a quello degli alberi. Il serpente è simbolo del genius loci.
P. 121. La città considerata come templum. Simile concezione in Elèmire Zolla, Che cos'è la tradizione, ( 1971 ) Milano, Adelphi, 2003, p. 194.
P. 129. Concezione originaria del tempio come casa dei morti.
P. 133. NB : gesta e sofferenze della vita del dio ( così anche Cristo è concepito come un eroe greco, che come Eracle diventa dio ).
P. 135, qui si parla della direzione e funzione delle strade della città. Vedi E. Zolla, p. 213 di Che cos'è la tradizione. Ci sono dei punti di contatto tra la lettura di Nietzsche e quella di Zolla ( anche se quella del primo è rigorosamente positivistica ).
P. 139-140. Differenza fondamentale tra il sacerdozio greco e quello asiatico ( ebraico e cristiano ). Manca la gerarchia, l'associazione in genere, il sacerdote è un interprete del dio che molto spesso rappresenta.
P. 143, le vicissitudini toccate in sorte al dio ( cfr. Bachofen, La dottrina dell'immortalità della teologia orfica, 1867, Bachofen afferma che per gli Orfici tutte le anime sono divinità ). Concezione originaria del sacerdote come incarnazione temporanea della divinità. Nietzsche porta l'esempio dei sacerdoti tibetani incarnazioni di Buddha. In origine non era sviluppata la statuaria a causa appunto della sufficiente presenza del sacerdote, incarnazione della divinità. Vedi anche a tal proposito Frazer, Il ramo d'oro ( 1890 ) relativamente al cap. “ Il re del bosco “, laddove il sacerdote di Nemi è incarnazione del dio Virbio.
P. 147 : origine del tempio dalla tomba. Vedi anche E. Rohde che in Psiche ( 1897 ) parla di tomba di Zeus, di Diòniso ecc. Si tratta evidentemente di un equivoco, sono infatti luoghi di culto. Cfr. Nietzsche : “ … il tempio si forma a partire dalla tomba, il culto del tempio dal culto delle tombe. “ NB : l'uomo secondo gli Orfici è un dio ( cfr. il Fedro di Platone ).
P. 148, “ nobiltà sacerdotale ereditaria … nocciolo duro della comunità cittadina “, qui si elabora inconsciamente il futuro messaggio di una casta aristocratica dominatrice.
P. 158, la legge di Delfi : “ La legge che si diffuse a partire da Delfi, e che normalizzava quella parte della religione greca che era la medesima ovunque, era scritta in esametri ed era formata da sentenze oracolari. E' stata scritta prima di tutte le legislazioni dei singoli Stati, o quanto meno prima di quelle più importanti. L'esercizio di questa legge è affidato agli esegeti. “
P. 161 : nell'antica Grecia i sacerdoti non esercitarono mai alcuna egemonia sulla società come nell'età cristiana.
P. 172 : origine troiana della Sibilla. Profezia su Roma. “ Essa vive al tempo di Solone, annuncia ai Teucri, le cui spoglie venivano custodite sul monte Ida, una nuova fioritura sotto l'antica casa regnante degli Eneidi; le sue sentenze giunsero a Cuma, nella terra degli Oschi, e di lì a Roma, all'epoca di Tarquinio Secondo. Esse furono trascritte su tela e custodite sul Campidoglio insieme ad altre profezie straniere; … “
P. 177, su Diòniso e Apollo. L'affermazione più interessante è che l'oracolo di Delfi divenne apollineo soltanto tardi ( cfr. Rohde, Psiche ). “ … sul Parnaso il culto di Diòniso ( quello tracio ) è più antico del culto di Apollo. “ Il sito di Delfi viene descritto con una certa precisione, ma si nota che Nietzsche non l'ha mai visitato direttamente perché sembra che il tempio sorga alle pendici delle Fedriadi, mentre queste rispetto al tempio sono situate di lato ( a destra per chi sale al tempio ). Importante è di nuovo l'affermazione che nei mesi invernali, quando Apollo dimora presso gli Iperborei, è Diòniso a regnare a Delfi.
P. 179. Si ribadisce la presenza di Diòniso nel sostenere che dei due sacerdoti assistenti della Pizia, uno era di Apollo, l'altro di Diòniso. Vedi gli Studi greci ( 1895 ) di W. Pater ( Milano, SE, 2007 ) a p. 17 si dice che in Delfi erano riservati onori particolari a Diòniso, che precedette Apollo nel culto del santuario, e comunque furono sempre tributati onoranze e sacrifici in egual misura a lui come ad Apollo. Pater, come Nietzsche, afferma che i mesi invernali erano consacrati a Diòniso. Negli Studi greci di Pater, p. 31 ( “ Studio su Diòniso “ ) si ribadisce che Diòniso divide con Apollo il santuario di Delfi.
P. 180. Le cosiddette rhètrai spartane non sono altro che spiegazioni ( oracolari ) dei sacerdoti di Delfi. P. 182, l'Eubea, patria della Sibilla Cumana.
P. 184. Anche l'oracolo di Zeus Dodoneo sarebbe stato in origine un oracolo di Diòniso.
P. 185, residuo del culto tracio di Diòniso nello Zeus ctonio.
P. 193. Il punto di svolta per l'arte drammatica greca è quando gli attori diventano professionisti ( a proposito delle associazioni di artisti dionisiaci ).
P. 196 : progressiva affermazione della musica nelle rappresentazioni teatrali. La funzione infatti di attore e musico era distinta sin dall'origine. NB : “ E' un fatto notevole che nelle rappresentazioni di tragedie tutta l'azione fosse limitata a tre attori, come un tempo, e che non facesse il suo ingresso nessun coro. “ ( Dopo il 279 a. C. ).
P. 199-200. Aspetti comuni con il Cristianesimo ( acqua lustrale, purificazione, tempio vivente ).
P. 200 : vino per i sacrifici, bagno purificatore : elementi confluiti nel rituale cristiano.
P. 202, la trasformazione del sacrificio da reale a simbolico richiama Frazer, Il ramo d'oro. E' chiara l'impostazione positivistica del Nietzsche.
P. 209 : l'animale sacrificale porta in sé la sciagura.
P. 210, religione orfico-tracia : bisogno di espiazione e purificazione ( stretta parentela fra Traci e Lidi ).
P. 214, il ramo dell'albero simbolo della divinità, vedi Frazer, Il ramo d'oro. Ibidem, NB : “ secondo la dottrina segreta orfica “ qui vi è un probabile influsso di Bachofen.
P. 219. Interessante spiegazione del significato del sacrificio e del pasto rituale dell'animale sacrificato, banchetto in comunione con gli dei, in ricordo dell'antica comunione tra dei e uomini.

Si tratta di un testo di antropologia che rivela la tendenza di Nietzsche all'approfondimento psicologico, tipico anche delle opere maggiori e “filosofiche “, basti pensare all'Anticristo.




martedì 26 dicembre 2017

Walter Pater, Diòniso






Walter Pater Studi greci ( 1895 ) Milano, SE, 2007


P. 12-13. La concezione che Pater ha di Diòniso è diversa da quella di Nietzsche. Il filosofo tedesco sulla scia della Poetica di Aristotele collega il culto dionisiaco a sacrifici cruenti ( soprattutto del “capro” ), mentre Pater ne fa una sorta di divinità della vite, derivata dall'originario culto degli alberi, e in seguito in un simbolo della vita di tutte le cose che fluiscono, come la linfa, come il vino, come la stessa transitoria vita umana. Il suo simbolo, la vite e la coppa, saranno poi con il Cristianesimo il vino-sangue e il sacro calice.
C'è tra la concezione di Nietzsche e quella di Pater un vero abisso. Il tedesco pone a fondamento del culto di Diòniso il suo sacrificio cruento e la sua rinascita o resurrezione, mentre per Pater Diòniso è la vita della pianta di vite, il simbolo più elevato di una concezione naturalistica dell'esistenza, che si circonda di simboli animali e vegetali, satiri e ninfe. Indubbiamente l'idea che noi oggi abbiamo del dionisismo è dovuta all'influsso di Nietzsche che ne ha fatto un culto cruento, sanguinoso, appunto tragico, mentre se avesse prevalso la visione di Pater forse Diòniso oggi sarebbe il dio degli ambientalisti.
P. 17. Diòniso e Apollo a Delfi. Culto di Diòniso che precedette quello per Apollo e urna cineraria dedicatagli nel tempio di Delfi ( vedi Il servizio divino dei Greci di Nietzsche ).
p. 18. Sacrificio della capra in onore di Diòniso, dapprima per propiziarsi il vino buono, dato che la cerimonia avveniva in dicembre, quando si riponeva nelle anfore il vino nuovo, poi anche come sacrifici per i morti, spiriti affamati e assetati.
P. 20. Un'altra differenza rispetto al Nietzsche. Pater ritiene Euripide “ preminente come poeta del pathos “ mostrando di apprezzare proprio l'aspetto passionale, sentimentale del dramma. In un certo senso sotto questo aspetto si può accostare Euripide a Shakespeare.
( ibidem ) Il canto corale in onore di Diòniso, il Ditirambo, è caratterizzato dalla musica selvaggia, questo è un aspetto in comune con le considerazioni che fa Nietzsche ne La nascita della tragedia.
P. 21. Nel conferire un senso razionale al mito della folgorazione di Semele e della nascita di Diòniso, la vite che nasce dal terreno vulcanico arso dal sole, Pater non può fare a meno di rivolgersi nella serie delle similitudini seguenti ad accennare a Tannhäuser, e in ciò mostra la sua sensibilità estetico-musicale, e il culto per Wagner, tipico dei simbolisti. ( Per la nascita di Diòniso vedi le Immagini di Filostrato, precisamente il cap. 14 “Semele”, p. 58 di Elder Philostratus. Imagines, Harvard, Loeb Classical Library, 2000 ).
( ibidem ). La religione di Diòniso, in quanto culto della vite, si collega anche all'antico culto dell'acqua, grazie alle Iadi, ninfe delle sorgenti, seguaci di Bacco.
P. 25-26. La visione di Pater è decisamente diversa da quella di Nietzsche, perché mentre in Nietzsche l'arte, soprattutto quella musicale e tragica, si risolve nella liberazione, nella catarsi o catastrofe dionisiaca, in Pater quell'elemento dionisiaco, naturale, presente nella sensibilità ellenica si risolve, si ferma nell'idea estetica, nella statuaria, nel bello ideale e nello stesso tempo fedele alle forme terrene ed umane, nella Baccante, nel Centauro, nell'Amazzone, nel divino Apollo. Mentre per Nietzsche l'istinto artistico dei Greci trova la sua massima espressione nella tragedia e nella musica dei cori, per Pater esso culmina nell'arte plastica, nel culto “apollineo” per la bellezza.
P. 28. Diòniso come incarnazione, o nome evocatore, dell'anima della vite, avente tutte le qualità proprie della pianta, la sua fragranza, il colore, i ricciuti pampini nelle abbondanti chiome floride come le foglie. E' evidente la concezione estetica di Pater aliena da qualsiasi implicazione di ordine metafisico o esistenziale o, tantomeno, tragico.
P. 29. Pater concorda col Nietzsche riguardo all'origine della tragedia : “ E' dai dolori di Diòniso, dunque – di Diòniso in inverno – che nasce e si sviluppa la tragedia greca; dal canto dei dolori di Diòniso, intonato durante la festa invernale dal coro dei satiri, cantori vestiti di pelle di capra, in memoria della sua vita rustica, ora l'uno ora l'altro dei quali, di tanto in tanto, esce dalla fila per sottolineare e sviluppare questa o quella circostanza della storia; e così il canto si fa drammatico. “
P. 32. Nascita di Diòniso dall'unione di Zeus con una mortale, Semele.Viene accostato a Persefone negli attributi di divinità invernale, che scende appunto all'Ade in inverno, le sue feste coincidono con quelle eleusine. Viene portato in processione ad Eleusi col nome di Iacco, insieme alle altre due dee cioè Demetra e Core ( Persefone ).
P. 34. Sacrifici cruenti in onore di Diòniso. Oltre a essergli sacro il lupo, e da ciò la leggenda del licantropo, cioè della trasformazione in lupo, a Diòniso il mito attribuisce il sacrificio di un fanciullo, che lo simboleggia appunto come Diòniso-Zagreo. A Delfi era custodito un lupo in suo onore, a cui il sacerdote offriva in sacrificio un capretto, che rappresentava in verità la sostituzione a un fanciullo originariamente offerto. Pater riferisce l'episodio di Plutarco ( nella vita di Temistocle ) secondo il quale prima della battaglia di Salamina Temistocle avrebbe offerto in sacrificio tre giovani persiani prigionieri a Diòniso il divoratore ( o “carnivoro” ).
P. 35. Dal culto di Diòniso-Zagreo, dio sacrificato e sofferente, gli Orfici derivarono l'idea di una vita consacrata all'ascetismo, alla purificazione, nella promessa di una vita ultraterrena e di una resurrezione. E' chiaro il collegamento con il Cristianesimo e questo spiega anche perché il Nietzsche, che pure non era a conoscenza del Pater, abbia firmato i cosiddetti biglietti della follia con la dicitura “ Diòniso il Crocifisso “.
P. 37 e sg. Nello studio sulle “Baccanti” di Euripide è evidente un atteggiamento diverso rispetto al tragico greco dalla considerazione che ne aveva Nietzsche. Pater infatti considera questo tardo parto del poeta come una sorta di palinodia e quasi di ripudio della sua mentalità razionalistica e un ritorno alle origini eschilee, quando il mito si presentava nel suo alone di magica rivelazione.
L'opera fu rappresentata a Pella, alla corte del re macedone Archelao, in un paese lontano dalle raffinatezze intellettuali di Atene, ancora circondato dalla natura selvaggia. E pare proprio che nel dramma come nell'animo del poeta vi fosse un vero e proprio ritorno, in una dimensione vagheggiata con nostalgia, all'intesa tra uomo e natura.
P. 44. Oltre alle interessanti riflessioni sugli effetti musicali del coro nelle “Baccanti” è importante l'affermazione secondo la quale il riso era l'elemento essenziale del più antico culto di Diòniso. Questa asserzione di Pater è abbastanza in contrasto ( ma forse no ) con la tragicità invece riscontrata da Nietzsche nel mito stesso di Diòniso. Penso però che Pater qui volesse sottolineare soprattutto l'elemento ferino, selvaggio e puramente istintuale rappresentato dal dio e ciò in effetti non è in contrasto con la visione di Nietzsche.
P. 50-51. Ritorna in considerazione la figura e il mito di Diòniso, che Euripide ha sottoposto al suo sofisma, cioè ha trasformato l'invasamento delle Baccanti in pura e improvvisa follia. Ma Pater coglie ugualmente la presenza, sottesa al significato stesso di tragedia, del mito. Un mito davvero singolare, nel quale il dio omofago e meilichius, dolce come miele ma anche bevitore di sangue, si presenta come il cacciatore e nel contempo la preda. Un mito selvaggio, nato sugli aspri monti di Tracia e connesso a quel filone di leggende collegato alla vita agreste e ai rituali della fecondazione dei campi e della rinascita della vegetazione in primavera dopo la sterilità dell'inverno.





domenica 10 dicembre 2017

Terenzio, Heautontimorumenos

Atto III, scena I

vv. 483-485

Nam deteriores omnes sumu' licentia.
Quod quoique quomque inciderit in mentem volet
neque id putabit pravom an rectum sit : petet.


“ … La troppa libertà
rende tutti peggiori. Lui vorrà
qualunque cosa, né si chiederà
se sia giusta o sbagliata, … “

Trad. di Mario Scaffidi Abbate




Giustamente gli antichi invocavano il rigore nei confronti delle nuove generazioni o per lo meno, come qui Terenzio, la prudenza nei confronti di una natura non ancora domata dai rigori dell'età adulta e responsabile. I giovani animati dalle loro brame e dal loro egoismo non sanno porsi un limite perché non lo conoscono anzi non l'immaginano neppure, ma i più anziani dovrebbero sapere che la natura umana è spesso una brutta bestia cui è meglio mettere il basto.

sabato 18 novembre 2017

Risveglio

L'ora fuggiasca tradisce l'ultimo addio,
sulla corrente dorata il volto del tuo tempo
trasale, a lidi lontani alita al bagliore
dell'ala l'austro del tuo deserto. Mortale,
dal lungo sonno svegliati, albeggia l'orizzonte,
bianchi stormi solcano il cielo tra cupree onde.
Il sole è caldo, profuma l'aria di mare
e il giardino esala di fiori antico ricordo,
tu dove sei ? Tra foglie iridate di raggi
seduto da un tempo saturnio ora qui sei
tu solitario respiro nel mare profondo,
solitario ansito al cielo. Oltremontana
salpa al radiato sangue la vedova nave
dei sogni fuggita dai viventi vecchia lacera
desolata orfana di memorie, si lascia
alle livide correnti dei flutti cinerea
di rimpianti un'urna smarrita tra le brame
delle maree tra il più ostinato respiro
dello sconfinato flusso. E tu la trascorsa
vita nel bagliore scorgi nella crespa chioma
spumosa fuggita via nelle ombre sognate,
amata giovinezza, desolate speranze.
E tu dove sei ? Sei forse ora giunto alla meta ?
Sei forse qui a cogliere infine il frutto maturo
della tua pianta ? Da molto non piove, la terra
arida s'apre, ma sui rami cantano ancora
le alate voci del cielo e i colori degli anni
ritornano fra le fragili foglie fruscianti.

sabato 23 settembre 2017

Ade

Come l'ombra s'avvolge del tramonto
fluttua memoria che s'abbraccia al fuoco
quasi legna che bruci. Io non ora,
non più trattengo una pallente vista
né di porpora o d'oro, ma già sento
muovere verso il fiume la nera
culla di Caronte al notturno sole
che stride già qual ferro di fucina.

Un altro mondo, forse. E questo
non è che un sonno
occorso in un sognare torvo
dietro le trame dei giorni annerite
in un rovo che involge
una fuga di brame.

Tu non sai, non chiedere.
Presto la notte ci coglierà con le stelle
oltre il sonno del sole.
Sentiremo allora l'amaro e il dolce,
cercheremo l'oblio.
Sulle rughe di un mare di bronzo
ondeggerà la vela all'ultimo respiro,
si volgerà alle terre lontane,
perduta nel suo desiderio.

sabato 16 settembre 2017

Leggenda di Osiride






Nell'epoca più antica della storia egizia Osiride era considerato un eroe civilizzatore, che regnò sull'Egitto ed assicurò la pace e la ricchezza. Il suo malvagio fratello, Set o Tifone, ne procurò la morte per gelosia e dilaniò il suo corpo in quattordici pezzi. La sorella e sua sposa Iside ricercò dovunque i frammenti del suo corpo, li trovò ed eresse su ciascuno di essi una tomba magnifica. Horo, figlio di Osiride ed Iside, una volta divenuto adulto, vendicò il padre e grazie a formule magiche lo richiamò in vita. Osiride divenne così il sovrano del mondo ultraterreno e il giudice dei morti, in quanto morto tornato in vita. Infatti le anime degli Egizi, secondo la loro religione, qualora fossero ritenute buone e meritevoli della “beatitudine eterna“ diventavano degli Osiride, cioè si identificavano con il dio della vita ultraterrena.
Osiride, come Dioniso, Orfeo e Gesù, è un eroe sofferente, la cui morte è pianta da tutti, ma che infine viene resuscitato. Il suo mito implica un antico rituale, in cui probabilmente veniva sacrificato un toro, tagliato poi in quattordici parti e mangiato in comunione dai fedeli. Il toro ucciso veniva immediatamente rimpiazzato da un altro toro consacrato, e questo fatto aveva lo scopo di indicare ai fedeli che il dio era resuscitato, in quanto appunto il toro simboleggiava il dio stesso. I Greci erano stupiti della somiglianza di questo mito egizio con quello di Dioniso, il giovane toro divorato dai Titani della leggenda orfica, che Zeus fa rinascere a una vita gloriosa.
Nel mitraismo, religione dell'antica Persia, sono presenti evidenti analogie con questo mito egizio ( sacrificio del toro ). L'importanza data al sacrificio simbolico dell'uomo-dio e all'idea di resurrezione è ovviamente riscontrabile nel culto cristiano. La religione di Osiride ed Iside, così come quella di Mitra, si sviluppò in effetti nel mondo greco-romano contemporaneamente alla predicazione cristiana, e non è fuori luogo ipotizzare un reciproco influsso tra queste diverse fedi e culture, come farebbe anche supporre la concezione del Verbo creatore, cioè la Parola datrice di vita, espressa non solo nel Vangelo di San Giovanni ma pure e con un maggior supporto teorico negli scritti attribuiti ad Ermete Trismegisto, cioè al dio egizio Thot di Ermopoli.

Orfeo

L'idea della metempsicosi o reincarnazione esisteva in Grecia come in India allo stato di credenza popolare. Essa trovò la sua espressione religiosa nell'orfismo e la sua forma filosofica nel pitagorismo, ossia nella dottrina del filosofo Pitagora.
Orfeo, personaggio mitico, era probabilmente una divinità della Tracia ( a nord-est della Grecia ), la cui morte e resurrezione erano alla base d'un culto mistico. La fede orfica ebbe un'espansione straordinaria in tutto il mondo greco e quindi anche nell'Italia meridionale, e, inoltre, ispirò pensatori profondi come Pitagora e Platone che dettero una forma più o meno scientifica all'orfismo. La dottrina di Orfeo affermava che in seguito al peccato originale l'anima era stata imprigionata nel corpo. Il peccato originale era dovuto all'uccisione di Dioniso Zagreo operata dai Titani, antenati degli uomini. La conseguenza di tale concezione era un rito di iniziazione che aveva come scopo quello di risparmiare alle anime il “ciclo della rinascita“.
Pare che anche gli Esseni e i Terapeuti, monaci asceti del mondo ebraico, avessero subito l'influsso della dottrina orfica.

domenica 10 settembre 2017

Oriente e Occidente







I termini di Oriente ed Occidente si usano, per convenzione, allo scopo di designare due diverse mentalità e culture. Essi sono il frutto della riflessione storica europea, erede della civiltà greco-romana. Per i Greci l'Oriente era rappresentato dai popoli che abitavano le terre dell'Asia minore e le lontane rive della Libia e dell'Egitto, cioè per i Greci l'Oriente era situato più o meno al di là dell'Ellesponto.
Bisogna tener presente inoltre che “ solo presso i Greci la cartografia si sviluppò come scienza e soprattutto essa mirò a rappresentare non singoli lembi territoriali, ma l'intero mondo conosciuto “ ( Introduzione allo studio della cultura classica, ed. Marzorati, vol. III, p. 106 ). Questo significa che furono i Greci a formulare e a stabilire la terminologia geografica a cui ancora oggi noi facciamo ricorso. Infatti nella rappresentazione delle terre conosciute, “ il Mediterraneo occupava la posizione centrale, in modo da dividere l'Europa ( a nord ) dall'Asia ( a sud ); grosso modo l'orizzonte geografico andava dalle Colonne d'Ercole al Caucaso ( o poco oltre ) ed al Mare Ircano ( cioè al Caspio, ritenuto un golfo dell'Oceano ) “ ( ibidem ). Il geografo Dicearco nel tentativo di dare esattezza alla cartografia “ come linea centrale di riferimento aveva tracciato nel planisfero un diaframma orizzontale ( dalle Colonne d'Ercole ad ovest ai monti dell'Asia centrale ad est ), passante per Rodi, allora ritenuta il centro della Terra. In senso verticale fu inserita … una perpendicolare sempre passante per quell'isola “ ( ibidem ).

La nostra mentalità occidentale è l'erede della mentalità greca. Quando noi infatti pensiamo alla Grecia dal punto di vista geografico, pensiamo a una regione dell'Europa vicina all'Asia, cioè all'Oriente. Infatti, secondo il nostro modo di pensare, l'Oriente è l'Asia. Nell'area dell'Oriente noi facciamo rientrare sovente anche l'Africa settentrionale, in quanto abitata da popolazioni la cui civiltà è di origine asiatica, precisamente araba.
Il termine di Oriente, come quello di Occidente, traggono dunque origine dal punto di vista, o meglio, dalla “posizione” dell'uomo greco. Ritenendosi infatti pressoché al centro del mondo conosciuto, i Greci ed in seguito i Romani stabilirono quale dovesse essere la denominazione delle terre donde sorgeva il sole ( Oriente ) e dove tramontava ( Occidente ).

domenica 3 settembre 2017

Il mito di Cleopatra

Théophile Gautier, Une nuit de Cléopâtre
( 1845 )


Cléopâtre ne s’endormit que le matin, à l’heure où rentrent les songes envolés
par la porte d’ivoire. L’illusion du sommeil lui fit voir toute sorte d’amants se jetant
à la nage, escaladant les murs pour arriver jusqu’à elle, et, souvenir de la veille, ses
rêves étaient criblés de flèches chargées de déclarations amoureuses. Ses petits
talons agités de tressaillements nerveux frappaient la poitrine de Charmion, couchée
en travers du lit pour lui servir de coussin.
Lorsqu’elle s’éveilla, un gai rayon jouait dans le rideau de la fenêtre dont il
trouait la trame de mille points lumineux, et venait familièrement jusque sur le
lit voltiger comme un papillon d’or autour de ses belles épaules qu’il effleurait en
passant d’un baiser lumineux. Heureux rayon que les dieux eussent envié !
Cléopâtre demanda à se lever d’une voix mourante comme un enfant malade ;
deux de ses femmes l’enlevèrent dans leurs bras et la posèrent précieusement à
terre, sur une grande peau de tigre dont les ongles étaient d’or et les yeux d’escarboucles.
Charmion l’enveloppa d’une calasiris de lin plus blanche que le lait,
lui entoura les cheveux d’une résille de fils d’argent, et lui plaça les pieds dans
des tatbebs de liège sur la semelle desquels, en signe demépris, l’on avait dessiné
deux figures grotesques représentant deux hommes des races Nahasi et Nahmou,
les mains et les pieds liés, en sorte que Cléopâtre méritait littéralement l’épithète
de conculcatrice des peuples, que lui donnent les cartouches royaux.
C’était l’heure du bain. Cléopâtre s’y rendit avec ses femmes.
Les bains de Cléopâtre étaient bâtis dans de vastes jardins remplis de mimosas,
de caroubiers, d’aloès, de citronniers, de pommiers persiques, dont la fraîcheur
luxuriante faisait un délicieux contraste avec l’aridité des environs ; d’immenses
terrasses soutenaient des massifs de verdure et faisaient monter les fleurs
jusqu’au ciel par de gigantesques escaliers de granit rosé ; des vases de marbre
pentélique s’épanouissaient comme de grands lis au bord de chaque rampe, et
les plantes qu’ils contenaient ne semblaient que leurs pistils ; des chimères caressées
par le ciseau des plus habiles sculpteurs grecs, et d’une physionomie moins
rébarbative que les sphinx égyptiens avec leur mine renfrognée et leur attitude
morose, étaient couchées mollement sur le gazon tout piqué de fleurs, comme
de sveltes levrettes blanches sur un tapis de salon : c’étaient de charmantes figures
de femme, le nez droit, le front uni, la bouche petite, les bras délicatement
potelés, la gorge ronde et pure, avec des boucles d’oreilles, des colliers et des
ajustements d’un caprice adorable, se bifurquant en queue de poisson comme la
femme dont parle Horace, se déployant en aile d’oiseau, s’arrondissant en croupe
de lionne, se contournant en volute de feuillage, selon la fantaisie de l’artiste ou
les convenances de la position architecturale ? une double rangée de ces délicieux
monstres bordait l’allée qui conduisait du palais à la salle.
Au bout de cette allée, on trouvait un large bassin avec quatre escaliers de porphyre
; à travers la transparence de l’eau diamantée on voyait les marches descendre
jusqu’au fond sablé de poudre d’or ; des femmes terminées en gaine comme
des cariatides faisaient jaillir de leurs mamelles un filet d’eau parfumée qui retombait
dans le bassin en rosée d’argent, et en picotait le clair miroir de ses gouttelettes
grésillantes. Outre cet emploi, ces cariatides avaient encore celui de porter
sur leur tête un entablement orné de néréides et de tritons en bas-relief et muni
d’anneaux de bronze pour attacher les cordes de soie du vélarium. Au delà du
portique l’on apercevait des verdures humides et bleuâtres, des fraîcheurs ombreuses,
un morceau de la vallée de Tempe transporté en Egypte. Les fameux jardins
de Sémiramis n’étaient rien auprès de cela.
Nous ne parlerons pus de sept ou huit autres salles de différentes températures,
avec leur vapeur chaude ou froide, leurs boîtes de parfums, leurs cosmétiques,
leurs huiles, leurs pierres ponces, leurs gantelets de crin, et tous les raffinements
de l’art balnéatoire antique poussé à un si haut degré de volupté et de raffinement.
Cléopâtre arriva, la main sur l’épaule de Charmion ; elle avait fait au moins
trente pas toute seule ! grand effort ! fatigue énorme! Un léger nuage rosé, se répandant sous la peau transparente de ses joues, en rafraîchissait la pâleur passionnée ; ses tempes blondes comme l’ambre laissaient voir un réseau de veines bleues ; son front uni, peu élevé comme les fronts antiques, mais d’une rondeur et d’une forme parfaites, s’unissait par une ligne irréprochable à un nez sévère et
droit, en façon de camée, coupé de narines rosés et palpitantes à la moindre émotion,
comme les naseaux d’une tigresse amoureuse ; la bouche petite, ronde, très
rapprochée du nez, avait la lèvre dédaigneusement arquée ; mais une volupté effrénée, une ardeur de vie incroyable rayonnait dans le rouge éclat et dans le lustre humide de la lèvre inférieure. Ses yeux avaient des paupières étroites, des sourcils minces et presque sans inflexion. Nous n’essayerons pas d’en donner une idée ; c’était un feu, une langueur, une limpidité étincelante à faire tourner la tête de chien d’Anubis lui-même; chaque regard de ses yeux était un poème supérieur à ceux d’Homère ou de Mimnerme; un menton impérial, plein de force et de domination, terminait dignement ce charmant profil.
Elle se tenait debout sur la première marche du bassin, dans une attitude pleine
de grâce et de fierté ; légèrement cambrée en arrière, le pied suspendu comme une
déesse qui va quitter son piédestal et dont le regard est encore au ciel ; deux plis
superbes partaient des pointes de sa gorge et filaient d’un seul jet jusqu’à terre.
Cléomène, s’il eût été son contemporain et s’il eût pu la voir, aurait brisé sa Vénus
de dépit.


Lucano, Pharsalia, X, 111 e sg ( il lusso degli appartamenti della regina ) :

pax ubi parta ducis donisque ingentibus empta est,
excepere epulae tantarum gaudia rerum,
explicuitque suos magno Cleopatra tumultu
nondum translatos Romana in saecula luxus.                  110
ipse locus templi, quod uix corruptior aetas
extruat, instar erat, laqueataque tecta ferebant
diuitias crassumque trabes absconderat aurum.
nec summis crustata domus sectisque nitebat
marmoribus, stabatque sibi non segnis achates                  115
purpureusque lapis, totaque effusus in aula
calcabatur onyx; hebenus Mareotica uastos
non operit postes sed stat pro robore uili,
auxilium non forma domus. ebur atria uestit,
et suffecta manu foribus testudinis Indae                  120
terga sedent, crebro maculas distincta zmaragdo.
fulget gemma toris, et iaspide fulua supellex
<stat mensas onerans, uariaque triclinia ueste>                  122a
strata micant, Tyrio cuius pars maxima fuco
cocta diu uirus non uno duxit aeno,
pars auro plumata nitet, pars ignea cocco,                  125
ut mos est Phariis miscendi licia telis.
tum famulae numerus turbae populusque minister.
discolor hos sanguis, alios distinxerat aetas;
haec Libycos, pars tam flauos gerit altera crines
ut nullis Caesar Rheni se dicat in aruis                  130
tam rutilas uidisse comas; pars sanguinis usti
torta caput refugosque gerens a fronte capillos;
nec non infelix ferro mollita iuuentus
atque exsecta uirum: stat contra fortior aetas
uix ulla fuscante tamen lanugine malas.                  135
     discubuere illic reges maiorque potestas
Caesar; et inmodice formam fucata nocentem,
nec sceptris contenta suis nec fratre marito,
plena maris rubri spoliis, colloque comisque
diuitias Cleopatra gerit cultuque laborat.                  140
candida Sidonio perlucent pectora filo,
quod Nilotis acus conpressum pectine Serum
soluit et extenso laxauit stamina uelo.
dentibus hic niueis sectos Atlantide silua
inposuere orbes, quales ad Caesaris ora                  145
nec capto uenere Iuba. pro caecus et amens
ambitione furor, ciuilia bella gerenti
diuitias aperire suas, incendere mentem
hospitis armati. non sit licet ille nefando
Marte paratus opes mundi quaesisse ruina;                  150
pone duces priscos et nomina pauperis aeui
Fabricios Curiosque graues, hic ille recumbat
sordidus Etruscis abductus consul aratris:
optabit patriae talem duxisse triumphum.
     infudere epulas auro, quod terra, quod aer,                  155
quod pelagus Nilusque dedit, quod luxus inani
ambitione furens toto quaesiuit in orbe
non mandante fame; multas uolucresque ferasque
Aegypti posuere deos, manibusque ministrat
Niliacas crystallos aquas, gemmaeque capaces                  160
excepere merum, sed non Mareotidos uuae,
nobile sed paucis senium cui contulit annis
indomitum Meroe cogens spumare Falernum.
accipiunt sertas nardo florente coronas
et numquam fugiente rosa, multumque madenti                  165
infudere comae quod nondum euanuit aura
cinnamon externa nec perdidit aera terrae,
aduectumque recens uicinae messis amomon.
discit opes Caesar spoliati perdere mundi
et gessisse pudet genero cum paupere bellum                  170


Shakespeare, Antonio e Cleopatra

Atto II, scena II


ENOBARBO: Vi dirò. La barca in cui sedeva simile a un trono brunito splendeva sull'acqua: la poppa era d'oro battuto: le vele di porpora e così profumate che i venti languivano d'amore per esse; i remi erano d'argento e si abbassavano ritmicamente al suono dei flauti obbligando l'acqua che essi colpivano a seguirli più rapida quasi fosse innamorata delle loro percosse. In quanto alla sua persona rendeva meschina ogni descrizione: ella giaceva sotto la sua tenda di drappo d'oro tessuto offuscando quella Venere in cui vediamo l'immaginazione superare la natura: da entrambi i lati le stavano dei graziosi bambini paffuti come sorridenti amorini con flabelli versicolori la cui brezza pareva infiammare le delicate guance che essi rinfrescavano facendo ciò che essi disfacevano.
AGRIPPA: Oh mirabile spettacolo per Antonio!
ENOBARBO: Le sue donzelle simili a Nereidi o sirene le si affaccendavano d'attorno e nell'atto d'inchinarla l'adornavano; al timone governava una dall'aspetto di sirena; il serico sartiame si tendeva sotto il tocco di quelle mani delicate come fiori che celermente accudivano al loro ufficio. Dalla barca uno strano e sottile profumo si spandeva a colpire i sensi delle vicine sponde. La città riversava il suo popolo verso di lei e Antonio troneggiante sulla piazza del mercato rimase seduto solo solo zufolando all'aria; la quale se il vuoto fosse stato cosa possibile sarebbe andata anch'essa a contemplare Cleopatra lasciando una lacuna nella natura.
AGRIPPA: Mirabile Egiziana!






Domitius Enobarus. I will tell you.
The barge she sat in, like a burnish'd throne,
Burn'd on the water: the poop was beaten gold;
Purple the sails, and so perfumed that
The winds were love-sick with them; the oars were silver,
Which to the tune of flutes kept stroke, and made
The water which they beat to follow faster,
As amorous of their strokes. For her own person,
It beggar'd all description: she did lie
In her pavilion—cloth-of-gold of tissue—
O'er-picturing that Venus where we see
The fancy outwork nature: on each side her
Stood pretty dimpled boys, like smiling Cupids,
With divers-colour'd fans, whose wind did seem
To glow the delicate cheeks which they did cool,
And what they undid did.

Agrippa. O, rare for Antony!
Domitius Enobarus. Her gentlewomen, like the Nereides,
So many mermaids, tended her i' the eyes,
And made their bends adornings: at the helm
A seeming mermaid steers: the silken tackle
Swell with the touches of those flower-soft hands,
That yarely frame the office. From the barge
A strange invisible perfume hits the sense
Of the adjacent wharfs. The city cast
Her people out upon her; and Antony,
Enthroned i' the market-place, did sit alone,
Whistling to the air; which, but for vacancy,
Had gone to gaze on Cleopatra too,
And made a gap in nature.

Agrippa. Rare Egyptian!




Vedi, come fonte di Shakespeare, Plutarco, “ Vita di Antonio “, cap. 26.


martedì 22 agosto 2017

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Tre autori dell'Ottocento

Giuseppe Tomasi di Lampedusa Opere
Milano, Meridiani Mondadori, 2011



Tre autori dell'Ottocento

Stendhal

L'autore si rivela un conoscitore profondissimo della letteratura francese ( e inglese ) e di Stendhal ci rivela l'aspetto meno noto di artista : ( p. 1859 ) “ Nel suo Julien Sorel Stendhal ha espresso se stesso, quale realmente era, con i suoi ambiziosi desideri. In Fabrizio del Dongo ha conferito vita reale, invece, all'uomo che avrebbe voluto essere, all'uomo nobile, ricco, amato, che egli non fu. Gli diede la vita e poi lo rinchiuse in prigione, commovente espressione della chiarezza della sua intuizione. “
P. 1863. Considerazioni sullo stile di Stendhal assai perspicaci e basate sulla constatazione che lo scrittore francese tende costantemente a sfrondare la frase di ogni aggettivazione o altra ridondanza inutile e a fornire al lettore l'essenziale, come l'essenza di un profumo, perché è proprio nella sensazione profonda, nel forte sentire quello che l'immaginazione e il ricordo gli suggeriscono, che consiste la motivazione allo scrivere.
P. 1870 e sg., le considerazioni sulla Histoire de la peinture en Italie sottolineano l'importanza dello scritto in quanto rivela appieno la personalità originalissima di Stendhal, che vivifica e rende attuale una materia oggetto da sempre delle elucubrazioni accademiche dei pedanti, i cosiddetti “specialisti”, in verità la peggior genìa di ammorbanti noiosi che ci sia sulla faccia della terra.
P. 1884. Retroscena e origini di Armance. La storia dell'impotente Octave era stata già narrata nell'Olivier di Mme De Duras e nell'omonimo romanzo di M. de Latouche. La malizia di Stendhal sta nel fatto di aver trasformato nel classico misterioso eroe romantico un impotente. Come a dire che i tenebrosi segreti dei bei tenebrosi sono dovuti a inconfessabili “défaillances”.
P. 1891-92. Geniale è l'individuazione del punto di vista del narratore. Non si tratta nel caso di Le rouge et le noir di una narrazione in prima persona, ma di un intervento indiretto dell'autore che a seconda delle circostanze canalizza anche in personaggi secondari il flusso dell'azione e il punto di vista da cui la si osserva. Sicché a volte riferisce i pensieri anche più reconditi di Julien a volte quelli di Mathilde e così via. Interessanti le seguenti affermazioni : “ Risultato di questa tecnica di quasi incredibile sottigliezza … è la completa fusione dell'autore, del personaggio e del lettore. Questi non è più un estraneo che contempla l'azione ma quasi sempre uno degli attori della azione stessa. “
P. 1895-96. Riguardo agli ambienti nota giustamente Tomasi che essi non vengono mai descritti direttamente né minuziosamente ( come Manzoni ! ) ma piuttosto suggeriti in pochi tratti, qualche aggettivo che accompagna un nome significativo. Insomma l'ambiente è affidato soprattutto all'immaginazione del lettore ed è il frutto dell'azione stessa dei personaggi che ne è necessariamente condizionata. Basta pensare ( l'esempio è riportato da Tomasi ) alla biblioteca di palazzo De La Mole dove si svolgono scene madri per il romanzo. Ricordo anche, e questa è una differenza fondamentale tra Stendhal e Manzoni, che il lago di Como è appena tratteggiato ne La Chartreuse de Parme, mentre ne I promessi sposi costituisce quella tremenda tortura cinese per gli studenti dei primi anni del Liceo.
P. 1900-01. Importante, qui a proposito dei Mémoires d'un touriste, ma in genere circa lo stile di Stendhal, è la seguente affermazione : “ … ed alcune sono davvero delle idee e non delle sensazioni che costituiscono l'autentica riserva di caccia stendhaliana. ” Insomma, anche se Stendhal non descrive le sensazioni, come ad es. D'Annunzio, però le fa “sentire” nell'ambiente, nell'espressione dei suoi personaggi e quindi, nonostante tutte le evidenti differenze, mostra una sensibilità affine a quella dei parnassiani ( Gautier ) e dei decadenti ( Huysmans, D'Annunzio, Wilde ).
P. 1907-08. Caratteristica fondamentale de La chartreuse de Parme è che “ i fatti non intendono esser narrati come sono ma come appaiono al temperamento frivolo, ma nello stesso tempo coraggioso e “strafottente” di Fabrizio, temperamento di “uomo di società” che riduce al proprio livello il mondo esteriore. “ Insomma tutti gli avvenimenti del romanzo sono visti attraverso gli occhi di Fabrizio del Dongo “ mente smagata, simpatica, accomodante, signorile e non troppo intelligente. “

P. 1917 e sg. A proposito di Prosper Mérimée sottolinea la sua parentela e discendenza stilistica da Stendhal. Forse più di Stendhal Mérimée ha dato vita a uno stile asciutto, privo di qualsiasi elemento non essenziale, rifiutando l'emotività romantica pur occupandosi sempre di vicende passionali. E' chiaro che Tomasi predilige questa razza di scrittori, del resto la sua Sicilia è stata la patria del Verismo.

P. 1934. A proposito di Gobineau, a parte le considerazioni su uno scrittore, indubbiamente valido, ma che oggi è praticamente impossibile leggere, è interessante il riferimento all'amicizia tra questo autore francese, cui viene attribuita la paternità dell'idea razzista della supremazia della stirpe ariana, e Nietzsche e Wagner. Non solo, ma se effettivamente si potessero leggere le opere di Gobineau ( che al pubblico medio sono viete ) si capirebbero molte cose sull'atmosfera culturale del suo tempo e anche forse su questo benedetto ( o maledetto ? ) mito ariano che ha dato la stura all'autoesaltazione germanica ( ma gli ariani erano i persiani ! ).

martedì 15 agosto 2017

Gustave Flaubert, L'éducation sentimentale

Gustave Flaubert L'éducation sentimentale ( 1870 )
Paris, Gallimard, 1965




P. 23, innamoramento di Frédéric Moreau. Mme Arnoux ha qualcosa della Bovary, ma come si vedrà è un angelo di virtù : “ Jamais il n'avait vu cette splendeur de sa peau brune, la séduction de sa taille, ni cette finesse des doigts que la lumière traversait. “ Il carattere di Emma Bovary appartiene però non a Mme Arnoux ma proprio a Federico. A p. 27 ecco il suo sogno romantico : “ Elle ressemblait aux femmes des livres romantiques. … Elle était le point lumineux où l'ensemble des choses convergeait; … le regard dans les nuages, il s'abandonnait à une joie rêveuse et infinie. “ In tutto il romanzo infatti sarà Federico a rincorrere un suo inafferrabile sogno d'amore e non Mme Arnoux, sempre ferma e salda nel suo ruolo di madre di famiglia, nonostante qualche cedimento.
P. 33, velleità artistiche di Federico ( un po' come Emma Bovary ), sogna addirittura sinfonie !
P. 34, la razza dei diseredati. L'amore secondo Frédéric, romantico e impossibile.
P. 54, Pellerin è la caricatura dell'artista che teorizza e non segue il proprio istinto. La filosofia uccide l'arte.
P. 56. NB lo stile nervoso, spesso con salti logici, scorre come un ruscello volteggiante qua e là fermandosi nelle descrizioni minuziose. Ricorda un po' quello di Stendhal. Lo trovo meno coerente di quello di Madame Bovary o di Salammbô.
A p. 469 si trova l'interessante articolo di Marcel Proust “ Ce que signifie le style de Flaubert “, nel quale con molta acutezza Proust individua nell'uso anomalo dei tempi verbali, delle preposizioni e della congiunzione copulativa le caratteristiche di uno stile che vuole trasformare le azioni in impressioni e attribuire vita propria alle cose : ( p. 470 ) “ ce qui jusqu'à Flaubert était action devient impression. Les choses ont autant de vie que les hommes, car c'est le raisonnement qui après assigne à tout phénomène visuel des causes extérieures, mais dans l'impression première que nous recevons cette cause n'est pas impliquée. “
Il tempo verbale che Flaubert predilige è l'imperfetto che viene utilizzato non soltanto nelle descrizioni ma anche nell'esporre i pensieri o i discorsi dei personaggi, dal momento, come scrive Proust, che Flaubert “ ha deciso di usare il meno possibile le virgolette “. Talvolta il passato remoto interrompe l'imperfetto, ma non per designare un'azione compiuta, bensì per indicare qualcosa di indefinito che si prolunga nel tempo o nell'immaginazione. Ed anche il presente ha un suo scopo particolare, quello di gettare un raggio di luce, di aprire al pieno giorno una realtà che si sottrae al moto inarrestabile degli eventi.
La congiunzione “e” non ha poi assolutamente la funzione assegnatale dalla grammatica, ma piuttosto quella di marcare una pausa ed iniziare un nuovo quadro. Insomma, dice Proust, “e” comincia sempre una frase secondaria e non termina quasi mai una enumerazione. Come tutti i grandi scrittori Flaubert personalizza le regole grammaticali, le trasforma e le rende docili al suo linguaggio poetico.
P. 56, Regimbart, altra caricatura. Lo sfaccendato che si nutre di politicume e assume un'aria da intellettualoide tra un bicchiere e l'altro.
P. 57, Jacques Arnoux, il borghese che prostituisce l'arte e l'abbassa ai gusti della massa. Il marito di Mme Arnoux, della quale è innamorato F. Moreau.
P. 96, disperazione del sognatore romantico. Come è diverso questo romanzo da Anna Karenina di Tolstoj, la cui vicenda è scontata sin dall'inizio, ma in cui tutto procede “positivamente”.
P. 102, Mme Arnoux mantiene sempre le caratteristiche della donna fatale ( come Salammbô ), qui risalta su sfondo color porpora ( cfr. “ Cleopatra “ quadro di G. Moreau ) : “ Mme Arnoux se tenait assise sur une grosse pierre, ayant cette lueur d'incendie derrière elle. “
P. 112. Temperamento da sognatore ( vedi l'inetto Corrado Silla in Malombra di Fogazzaro ) : “ En de certains jours, pourtant, une indignation le prenait contre lui-même. … Il vagabondait jusqu'au soir … il voulait se faire trappeur en Amérique, servir un pacha en Orient, s'embarquer comme matelot … “
P. 125. Il romanzo non manca di episodi umoristici. Come a questo punto, quando F. Moreau aspetta invano in un bar l'arrivo del suo amico ubriacone, inghiottendo un bicchiere dopo l'altro.
P. 130. Ci si riconosce nell'atteggiamento ormai disincantato di Frédéric. In genere ci si riconosce nelle sensazioni e nei sentimenti di questi personaggi di Flaubert, mentre nel caso di Tolstoj ( Anna Karenina ) direi che, anche se la narrazione è magistrale, si tratta di personaggi lontani da noi e quasi stereotipati. Forse perché si narra di vicende dell'aristocrazia russa, quanto mai lontana dalla nostra realtà.
P. 134. Il linguaggio usato spesso è quello proprio del parlato, sicuramente meno letterario di Salammbô.
P. 140 ( Seconda Parte, cap. I ). Suggestiva rassegna di tipi femminili ( il ballo in casa di Rosanette ) :
Elles tournaient si près de lui, que Frédéric distinguait les gouttelettes de leur front ; -- et ce mouvement giratoire, de plus en plus vif et régulier, vertigineux, communiquant à sa pensée une sorte d'ivresse, y faisait surgir d'autres images, tandis que toutes passaient dans le même éblouissement, et chacune avec une excitation particulière selon le genre de sa beauté. La Polonaise, qui s'abandonnait d'une façon langoureuse, lui inspirait l'envie de la tenir contre son coeur, en filant tous les deux dans un traîneau sur une plaine couverte de neige. Des horizons de volupté tranquille, au bord d'un lac, dans un chalet, se déroulaient sous les pas de la Suissesse, qui valsait le torse droit et les paupières baissées. Puis, tout à coup, la Bacchante, penchant en arrière sa tête brune, le faisait rêver à des caresses dévoratrices, dans des bois de lauriers-roses, par un temps d'orage, au bruit confus des tambourins. La Poissarde, que la mesure trop rapide essoufflait, poussait des rires ; et il aurait voulu, buvant avec elle aux Porcherons, chiffonner à pleines mains son fichu, comme au bon vieux temps. Mais la Débardeuse, dont les orteils légers effleuraient à peine le parquet, semblait receler dans la souplesse de ses membres et le sérieux de son visage tous les raffinements de l'amour moderne, qui a la justesse d'une science et la mobilité d'un oiseau. Rosanette tournait, le poing sur la hanche ; sa perruque à marteau, sautillant sur son collet, envoyait de la poudre d'iris autour d'elle ; et, à chaque tour, du bout de ses éperons d'or, elle manquait d'attraper Frédéric.
P. 144. Tutto l'episodio del primo capitolo della seconda parte ricorda la cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio.
P. 158. Nel personaggio di Sénécal abbiamo la satira del comunismo.
P. 165. Rosanette e Mme Arnoux, la donna perversa e la donna angelo sono un motivo che troviamo ne Il piacere di D'Annunzio nella persona di Elena Muti ( la perversa ) e Maria Ferres ( la donna angelo ).
P. 169. La codardia è caratteristica negativa di questi eroi decadenti, vedi Emilio Brentani in Senilità di Italo Svevo ( romanzo di molto posteriore, ma che ha qualche affinità con questo ).
P. 192. Cfr. Salammbô, Mme Arnoux è posta al di là della condizione umana, come la principessa cartaginese.
P. 199. Considerazioni politiche di Deslauriers che sono più che mai attuali ( vedi U. E. Che differenza c'è tra la S. Alleanza e l'Unione europea ? ).
P. 222. Mme Arnoux è l'esatto contrario di Mme Bovary.
P. 224 e seg. : un seguito di colpi di scena, dopo la corsa dei cavalli all'ippodromo. La velocità degli eventi trascina il protagonista nel turbine delle passioni. La sua difesa delle donne ( Rosanette e Mme Arnoux ) lo fa litigare gravemente col giovane visconte Cisy, durante un pranzo offerto dallo stesso giovane visconte ( pag. 245 ).
P. 296-297. Forse il suo amore sta per raggiungere il proprio compimento. Ma la cosa non è chiara. Mme Arnoux mantiene un atteggiamento assolutamente inespugnabile, pur con qualche cedimento. Federico le prova tutte e affitta un appartamento per una tenera “insidia”.
P. 303. L'attesa disperata di Mme Arnoux, il vagabondaggio per le strade alla sua ricerca, lo scambiare altre donne per lei, ricordano le stesse azioni di Emilio Brentani, in Senilità di I. Svevo, alla ricerca notturna di Angiolina. Che l'opera di Flaubert sia una fonte per il romanzo di Svevo ?
P. 308. Come ne Il piacere di D'Annunzio, qui troviamo già lo scambio di maîtresses sul letto d'amore, che in questo caso è una donna poco rispettabile, mentre nel romanzo di D'Annunzio l'incontro è tra Andrea Sperelli e Maria Ferres ( che sostituisce appunto la donna veramente desiderata : Elena Muti ).
P. 311. Nella Parte Terza inizia la descrizione di una rivolta popolare a Parigi. Si tratta infatti di un romanzo realista che ha anche valore di documento storico ( si tratta della rivoluzione del 1848 ).
P. 325. Frédéric dopo tutto è un inetto, esattamente come i personaggi di Italo Svevo. Quando riceve la proposta di presentarsi come candidato alla camera dei deputati “ uomo di tutte le debolezze, fu conquistato dalla demenza generale “. Le pagine che seguono rendono ragione alla definizione, o meglio agli attributi che si potrebbero dare a questo romanzo “ ironico, straziante e nello stesso tempo comico “. In effetti i momenti umoristici vi abbondano.
P. 330. L'utopia dell'Unione europea era già presente allora, solo che si pensava ad una lingua unica piuttosto che a una moneta soltanto. NB : la lingua unica avrebbe dovuto essere il latino.
P. 331, ecco che si evidenziano anche le utopie cristiano-socialiste ( quanto tutte queste sciocchezze stanno alla base del mondo moderno ! ).
P. 352, splendida descrizione della foresta ( III Parte, cap. I ).
III Parte, cap. II. Federico è ormai preso dal vortice dell'ambizione e degli amorazzi, Mme Dambreuse forse e certo Rosanette amante prezzolata, e addolora profondamente Louise, la fanciulla ingenua e bruttina, innamorata follemente di lui.
III Parte, cap. III, p. 386-387. L'incontro con Mme Arnoux culmina nella reciproca confessione d'amore, ma è nello stesso tempo una delusione per lei, dal momento che vengono sorpresi proprio da Rosanette, con cui Moreau convive, e che poi rivelerà di essere incinta.
P. 392. L'ammirazione e il tentativo di seduzione nei confronti di Mme Dambreuse anticipa il futuro e “cerebrale” Andrea Sperelli di D'Annunzio. In effetti F. Moreau ormai è un vero e proprio avventuriero.
III Parte, cap. III, verso la fine. La carriera del libertino si compie, raggiunge l'apice e F. Moreau diviene amante di Mme Dambreuse, che favorisce la sua ascesa sociale e politica, ma naturalmente non cessa di essere contemporaneamente l'amante di Rosanette. E' il trionfo di don Giovanni.
P. 405. Alla morte quasi improvvisa di M. Dambreuse, riceve la proposta di matrimonio da parte di Mme Dambreuse, erede di una colossale fortuna. Ma il sogno non si realizza, perché Madame non riceve l'eredità sperata. Così F. Moreau mantiene la relazione con Rosanette dalla quale ha un figlio e con Mme Dambreuse, che si rivela una donna noiosa e gelosa.
P. 429. Morte del bimbo avuto da Rosanette. La donna vuole fargli un ritratto per conservarne il ricordo e perciò viene chiamato il pittore Pellerin. Da costui apprende la rovina finanziaria di Arnoux, che rischia la prigione e che è partito per Le Havre insieme alla famiglia. Incurante del dolore di Rosanette Frédéric si precipita fuori casa.
P. 435. Ottenuta da Mme Dambreuse una somma di denaro per aiutare M. Arnoux, F. Moreau torna a casa dove trova Rosanette accanto alla culla del bimbo morto. Ma rimane indifferente e pensa sempre a Mme Arnoux. Impossibilitato a raggiungerla, riporta la somma a Mme Dambreuse, la quale però ha saputo tutto, dal momento che aveva concesso il denaro dietro la scusa di aiutare un amico in difficoltà, cioè Dussardier.
P. 439-40. Mme Dambreuse decide di vendicarsi con la rovina finanziaria degli Arnoux, ai quali viene imposta la vendita del mobilio di casa dietro l'esigibilità di crediti in sua mano.
P. 445. In seguito all'atteggiamento poco rispettoso di Mme Dambreuse nei confronti del ricordo di Mme Arnoux, Frédéric rifiuta di sposarla e torna al paesello natale, dove sogna il vecchio e non colto amore di Louise. L'episodio ricorda la Sylvie di Gérard de Nerval, dove il protagonista rimpiange l'occasione perduta di un amore campagnolo. Ma anche qui subentra la delusione e Federico scopre che Louise si è appena sposata ( con il suo migliore amico, Deslauriers ! ). Ritorna dunque a Parigi dove ha altre sorprese. Decide infine di mettersi a viaggiare. Dopo lungo tempo, mentre si trova a Parigi, riceve la visita di Mme Arnoux. E' l'ultimo incontro con la donna amata per tutta la vita e ne riceve in compenso una ciocca di capelli. Si tratta naturalmente di un incontro assolutamente casto tra due anime, o meglio quasi tra un figlio e una madre, dal momento che Mme Arnoux è molto invecchiata.
L'ultimo capitolo termina con la comica visita a un bordello di provincia e nel ricordare anche quest'ultima disavventura sia F. Moreau che Deslauriers ( abbandonato da Louise ! ), i quali si sono di nuovo messi insieme come ai vecchi tempi, suggellano la fine del romanzo dicendo che quella era la loro più bella storia.
Lo definirei romanzo delle coscienze, e non ancora della coscienza ( aspettando Proust ! ) e senza dubbio romanzo dell'illusione.


domenica 6 agosto 2017

Carpe diem

Nell'afa dell'estate
giace la stanza e il vento
risuona intorno, fuori il verde
s'indora degli aranci e s'agitano
le foglie quasi onde del mare.
M'assale la marea dei ricordi
al canto delle cicale,
quando volgevo il capo al futuro,
all'infinita distesa azzurra
e sedevo nella campagna assolata
ignaro e pieno di speranze.
Avaro il tempo le infranse
e qui rimango rivolto al mare.
Ma il sole indora le foglie degli aranci
che s'agitano come le onde del mare,
cullate dalla brezza. Il cielo azzurro
è quasi bianco, una nuvola tenue traspare.
Trasalisce il cuore. E' un attimo.

domenica 16 luglio 2017

Il dramma musicale







Edouard Schuré Storia del dramma musicale ( 1872 )
Milano, Bottega di Poesia, 1924


L'indagine di S. coincide con l'asserto del Nietzsche nella Nascita della tragedia, anche il francese considera il dramma musicale “ la forma drammatica più elevata e più completa che l'arte umana è riuscita a creare. Questa forma apparve la prima volta, con una purezza e una maestà senza pari, nella tragedia greca. “ ( p. 11 )
P. 12. Quell'unità dell'Arte che i Greci avevano realizzato, quell'unità dell'Uomo, ora è distrutta nonostante il progresso della scienza e della tecnica, “ l'unità dell'uomo è distrutta, il suo equilibrio è rotto. Non altrimenti l'arte divina non è più viva : vive solo nelle sue parti. Le due Muse sorelle, che furono unite, sono adesso separate. Vuol forse dire questo che ciascuna basta a se stessa ? Ambedue lo credono, lo dicono; ma non è così, e istintivamente esse non fanno che cercarsi. “
P. 13. Sede dell'unità originaria di musica e poesia è il dramma musicale. Sia Shakespeare che Beethoven mostrano di anelare all'antica unità, ma è soprattutto Wagner colui che ha tentato di riunificare le due arti.
P. 20. “ Il popolo greco fu il popolo educatore per eccellenza. Se l'arte è stata lo scopo unico della sua vita, riconosciamo che tutta la sua vita, pubblica e privata, è stata un'opera d'arte. “ La scintilla divina che giace sopita nell'uomo dei secoli precedenti e seguenti si è rivelata appieno nel mondo ellenico e ha dato vita alla civiltà della bellezza, dell'umanità più elevata e aristocratica che ci sia mai stata. Schuré al contrario di Nietzsche punta il dito su quello che a lui sembra essere il pregio principale di quella civiltà, cioè l'equilibrio, la razionalità, l'armonia d'anima e corpo. Ma dopo tutto questa è una concezione che anche il Nietzsche condivide ( come tutti gli uomini colti del suo tempo ).
P. 22. “ Il genio ellenico culmina nell'arte tragica. Nel mito questo è il regno del mago Dioniso, che nel tempio augusto della tragedia svolge i destini degli uomini e degli dei. “ Come si vede, Schuré non si discosta poi molto dal dionisismo di Nietzsche.
P. 26. Il mito viene fatto risalire ai primordi della civiltà greca, quando l'uomo era ancora primitivo ma “ chi può assicurarci che l'uomo primitivo non abbia avuto un sentimento della vita più vero di noi, con tutte le nostre scienze e tutte le nostre filosofie ? “ L'ebbrezza pànica, la mistica unione col tutto, ecco gli stessi ingredienti del dionisismo nicciano : “ ebbrezza senza confini, profondo amplesso dello spirito e della natura, simile a quello della terra e del cielo nell'uragano. Da questo grande, ardente amplesso nacquero gli dei. “
P. 30. Se il Nietzsche ci parla di apollineo e dionisiaco, Schuré forse più esattamente si rifà ai due elementi opposti ma indispensabili dell'anima ellenica cioè quello orgiastico dei riti di Cibele e dei coribanti e quello euritmico dello Zeus pelasgico, simbolo di luce, saggezza e misura. Due entità opposte ma compenetrantisi, il Cielo e la Terra, Zeus e Cibele, il culto pelasgico e quello frigio sono per Schuré gli elementi originali di quell'antitesi che sta alla base della futura tragedia e che Nietzsche ha identificato in divinità posteriori e seguenti all'epoca omerica. L'interpretazione di Schuré mi sembra più calzante e attendibile.
P. 39-40. Importanza fondamentale della musica per lo sviluppo della lirica greca, nata appunto dalla stessa ispirazione musicale. Schuré intuisce molto bene che la metrica greca è prima di tutto notazione musicale e in ciò la lirica antica si distingue nettamente da quella moderna, in cui la metrica è un dettaglio secondario rispetto all'ispirazione poetica ( e infatti molta poesia moderna potrebbe anche essersi espressa in prosa, vedi ad es. Shakespeare che alterna versi a prosa ).
P. 40-47. Dopo le belle pagine dedicate a Saffo, Alceo, Alcmane e Pindaro, in cui si sottolinea l'importanza della coesistenza di musica e poesia, nonché della danza, soprattutto in Alcmane e Pindaro, ecco che si arriva al punto fondamentale per collegare quest'opera con quella di Nietzsche e cioè il culto di Dioniso.
P. 57. Schuré, trattando del culto dionisiaco, cita in nota La nascita della tragedia dallo spirito della musica di Nietzsche, e le assegna la data del 1870. Senza dubbio l'opera precede di qualche anno quella di Schuré, altrimenti è ovvio che il francese non l'avrebbe potuta citare. E' interessante, comunque, l'apprezzamento da parte di Schuré, quando sappiamo che in ambiente filologico tedesco il libro del Nietzsche fu piuttosto denigrato. D'altra parte tra i due autori vi sono non pochi punti in comune, uno dei quali è senza dubbio l'entusiasmo poetico.
P. 67. Generalmente in accordo con Nietzsche, Schuré attribuisce alle tragedie di Eschilo il preponderante peso del coro e l'impeto musicale che sostiene tutto l'impianto dell'opera. Con Sofocle comincia a stagliarsi sullo sfondo del coro l'eroe e ad essere rappresentato in modo più realistico. Tuttavia, se si sottrae alle tragedie di Sofocle il coro, le si priva della loro componente essenziale. Tanto in Eschilo che in Sofocle l'elemento religioso e musicale, cioè, per dirla con Nietzsche, dionisiaco, è inscindibile dall'opera drammatica.
P. 70. Non è detto esplicitamente, ma ( anche nel brano citato da Opera e dramma di R. Wagner ) è evidente che l'atto d'amore assoluto d'Antigone prelude al messaggio cristiano. Qui Schuré mostra il suo punto di vista radicalmente diverso da quello di Nietzsche, l'istinto dionisiaco viene superato dalla superiore coscienza dell'essere uomo.
P. 72. A proposito di Euripide Schuré si attiene sostanzialmente al giudizio di Nietzsche di cui riporta l'espressione secondo la quale Euripide portò sulla scena lo spettatore. Anche a parere di Schuré il senso critico è stato fatale ad Euripide perché ha soffocato il poeta ch'era in lui. Il giudizio sulla commedia di Aristofane e poi sul dramma “borghese” di Menandro è sempre concorde con quello di Nietzsche. L'Arte vivente della tragedia venne sostituita dalla letteratura così come al grande greco dell'epoca classica animato da eroismo e amore della misura e del bello, subentrò il greculo meschino dell'età romana.
NB : sia Schuré che Nietzsche ( cap. 11 ) riportano l'aneddoto riferito da Plutarco ne “ La morte degli oracoli “ e cioè il grido udito dal navigante che costeggiava l'isola di Paxo e che annunciava la morte di Pan. Questo racconto di Plutarco, diversamente interpretato da Frazer e Reinach, evidentemente colpì molto la fantasia dell'autore francese e del filosofo tedesco, sicuramente per il suo fascino romantico.
P. 114. Interessante, relativamente a Shakespeare, la considerazione della musica celeste del dramma “La tempesta” che si contrappone alle tempeste dell'anima proprie della precedente produzione artistica del grande inglese. Shakespeare è visto infatti come l'evocatore delle passioni più violente dell'animo, conoscitore di tutto quel mondo magmatico e vario che s'agita mirabilmente nel cuore umano.
P. 128. Nelle pagine precedenti Schuré delinea il ritratto artistico di lord Byron, genio del romanticismo ribelle, assetato di libertà, ma è nell'opera di Shelley che vede il ritorno al panteismo ellenico, la riconquista dell'armonia originaria perduta e di una musica che risulta dall'accordo universale di tutto il creato. Cfr. “Ode alla libertà” di Shelley ( si noti l'influsso su Carducci es. “Alle fonti del Clitumno” ) : “ poiché tu gemesti, non piangesti, allorché dal suo mare di morte – per uccidere e bruciare – il serpe di Galilea uscì, strisciando, fuori, e fece del tuo mondo un mucchio di rovine indistinguibili ! “ vedi p. 152, strofa 8 di “Ode to liberty”, in P. B. Shelley, Liriche e frammenti, a cura di Cino Chiarini, Firenze, Sansoni, 1985.
P. 135-136. Con Goethe ritorna il culto ellenico della bellezza vivente. Il poeta tedesco fonde insieme il ribellismo di Byron con la religiosità panteista di Shelley, filosofo e poeta è l'araldo d'una futura Ellade che sola può dare slancio allo spirito umano, per lui la natura è l'immagine, il corpo della divinità e la scienza non è un'applicazione arida all'osservazione dei fenomeni, ma la divinazione vera e propria del verbo divino che s'agita nella materia ( cfr. Italo Alighiero Chiusano, Vita di Goethe, per il panteismo di origine spinoziana del poeta tedesco ).
P. 145. Con Goethe la poesia ritorna al mito e “ al dramma ideale che rappresenta l'uomo eterno e innalza l'arte all'altezza di una religione. “ NB : “ La poesia, tornata con Shakespeare alla mimica viva e suggestiva, col Fausto ritorna verso la musica e già sembra tenderle la mano fin quasi a toccarla. “
P. 151. Dopo la storia della poesia da Dante a Goethe, inizia la storia della musica dal Rinascimento in poi. Quando con Goethe la poesia raggiunge il suo più alto grado di idealità tende a trasformarsi in musica, la quale in poesia non è testimoniata dalla sonorità verbale, si badi bene, ma dall'alto grado di universalità dei contenuti e di idealità d'espressione. Nella musica lo spirito umano viene a contatto con il mistero profondo della Vita universale, con la Volontà di cui aveva già parlato Schopenhauer. La concezione di Schuré nella sua esaltazione di Goethe e della musica ( nonché di Wagner ) si avvicina moltissimo a quella di Nietzsche. In fin dei conti Faust è un precursore di Zarathustra, forse un Zarathustra un po' meno rivoluzionario ( e per nulla misogino ! ).
P. 154. Interessante la nota a piè di pagina, nella quale Schuré rivela con chiarezza l'influsso diretto della filosofia di Schopenhauer nella sua concezione della musica. Del resto tale concezione è la stessa di Wagner, del romanticismo decadente. Ma in un punto Schuré non concorda con il filosofo tedesco e quindi neppure col Nietzsche, cioè nel fatto di considerare il noumeno, l'al di là del fenomeno, il Wille, come Natura incosciente. Per Schuré si tratta invece di Natura cosciente e in questo la sua posizione si avvicina a quella dello stoicismo e di Spinoza.
P. 169, Schuré, a proposito del Palestrina, definisce la musica moderna come “ sentimento infinito “, mentre quella di Palestrina sarebbe armonia pura.
P. 177, Schuré ci informa riguardo alla musica greca in maniera decisamente dettagliata, distinguendo i modi musicali ellenici, cioè lo ionio, il lidio, il dorio, il frigio. Queste nozioni non ci sono in alcun modo fornite dal Nietzsche la cui argomentazione si mantiene sempre piuttosto generica. Il passaggio dalla melodia all'armonia si ha con la fusione dei vari e distinti modi e questo avviene con la musica rinascimentale.
P. 185, Schuré fa derivare la sinfonia dalla danza : “ La sinfonia di Haydn è dunque la danza armonizzata “. E inventore della sinfonia è appunto secondo S. proprio Haydn.
P. 186, NB : importante l'affermazione secondo la quale “ Mozart diresse il fiume inesausto dell'armonia nell'intimo cuore della melodia come per darle tutto il fervore del sentimento che risiede nel cuore dell'uomo. “ Inoltre “ fa cantare gli strumenti con una passione in cui si sente il desiderio della voce umana. “ Dunque l'intenzione della musica, se non vuol naufragare nel mare dei suoni, è pur sempre quello di volgersi alla poesia, cioè alla creazione di un cosmo di immagini, di sentimenti, di pensieri in germe.
P. 189. Beethoven è definito lo Shakespeare della musica. In particolare è apprezzata la famosa sonata patetica : “ Il fiume della sua melodia scorre libero e grandioso al di sopra delle dighe formali. Ci incanta e ci avvolge quella melodia infinita, in tanti dei suoi adagio. Ricordiamo qui solo l'adagio cantabile della sonata patetica. Come non riconoscervi il canto che vien direttamente dall'anima, prima e al di sopra del linguaggio articolato, dolce cantilena che afferma un amore ineffabile di cui l'obbietto ci sfugge, ma di cui l'essenza divina si espande in un abbandono, in una dedizione senza limiti ? “
Seguono osservazioni tratte anche dagli scritti di Wagner sulle sinfonie di Beethoven, tra le quali la nona esprime una sorta di religione dionisiaca, un inno alla vita, alla divinità che si manifesta in tutti gli uomini, alla fratellanza universale.
P. 226. Origine artificiale dell'opera lirica. Il tentativo di unificare poesia e musica sfocia nel melodramma, ma la sua origine non è spontanea, esso nasce nelle corti dei signori e non è un prodotto ingenuo del popolo né corrisponde a un intimo bisogno dell'anima.
P. 232 : accusa l'opera di origine italiana e in genere l'opera lirica di avere realizzato un'illusoria fusione delle tre arti, di fatto di avere messo insieme parti tra loro profondamente diverse e di avere dato vita a un meccanismo in cui trionfa l'artificio a discapito della naturalezza, tutto insomma è finto nell'opera lirica, è affettazione e subordinazione alle esigenze melodiche di un momento culminante, avendo come mira un semplice effetto musicale che risalta come una macchia di colore su un abito logoro e sbiadito.
P. 237. Il capitolo su Gluck è originale per la tesi che individua nel compositore tedesco il creatore del dramma musicale, come Beethoven è stato l'Omero della sinfonia, Gluck è stato l'Eschilo del dramma musicale ed ha fatto rivivere l'essenza dell'antica tragedia greca. Questo il parere di Schuré, che considera l'Orfeo di Gluck come la rivelazione del suo genio musicale e il ritorno della tragedia e del mondo ellenico. Effettivamente i recitativi di Gluck insieme ai cori hanno qualcosa della tragedia antica. Ma questo insistere sul genio di Gluck in quanto interprete musicale del mito di Orfeo ed Euridice emulo degli antichi tragici greci, anzi, in quanto la musica dei moderni con la scoperta dell'armonia è superiore a quella degli antichi, superiore addirittura agli stessi Greci, mi sembra esagerato. Del resto nella tragedia antica non era certo la musica l'elemento fondamentale, ma piuttosto la parola, anche se il motivo ispiratore poteva condensarsi in qualche melodia. Mi sembra che, come in genere nella cultura ottocentesca, la concezione dell'unione primitiva di poesia, musica e danza fosse basata sull'equivoco, e l'equivoco era che queste arti fossero per così dire fuse nella tragedia o prima nell'opera di Pindaro. Ma pensare a una intima fusione delle arti è un assurdo. Si può invece pensare a un linguaggio poetico, qual era appunto, estremamente metaforico, allusivo e talvolta misterioso e per ciò tanto più suggestivo. Che cioè il risultato, l'efficacia della poesia gareggiasse nella capacità suggestiva ed evocativa con la musica, questo può ragionevolmente considerarsi una sorta di unione con la musica, ma è ovvio che la parola e il puro suono sono cose diverse, così come lo è il movimento armonioso del corpo.
Direi che unione di poesia e musica si realizza laddove la parola svolge la stessa funzione di una melodia, e molti versi insieme quella di una sinfonia, cioè la funzione evocatrice, allusiva, che è di per sé fonte di sensazioni, sentimenti, fantasie la cui origine è del tutto irrazionale e scaturisce dalle regioni ignote dell'anima, dall'inconscio. Un esempio può essere offerto dai sonetti di Shakespeare, pregevoli proprio per il loro carattere squisitamente alogico e musicale, la stessa passione d'amore, che ne è l'argomento esclusivo, difficilmente si può cogliere nella sua realtà, ma è sempre sfumata, suggerita, evocata nel ricordo della bellezza come un motivo musicale che ci ossessiona pur avendone perduto la traccia.
P. 253-54-55. Quando al dramma musicale si dedicano musicisti puri come Mozart e Rossini ecco che esso scompare per dare luogo all'opera lirica originaria dove la melodia la faccia da padrona. Allora la musica governa sovrana e la poesia e la danza le sono sottomesse, è impossibile la nascita del dramma perché il poeta non esercita più il suo ruolo ma è una figura di secondo piano, è un librettista, un rimaiolo che scrive secondo le esigenze del musicista creatore di belle melodie. Solo in Wagner il poeta si è imposto al musicista e infatti la sua musica è squisitamente evocativa, allude a qualcosa fuori di sé o nascosto in sé.
Pur essendo l'argomentazione di Schuré assai suggestiva, non mi convince del tutto. Secondo lui con Wagner la musica si unisce finalmente alla parola e non la sovrasta né la rende sua schiava perché è una musica essenzialmente drammatica e scaturisce dall'impeto stesso dell'azione scenica. A mio parere al contrario si tratta di una musica che come ha bene intuito il Nietzsche costituisce lo “spirito” della tragedia e perciò è prima e dopo di essa, tant'è vero che la si apprezza maggiormente se ascoltata senza il canto degli attori, separata dal testo del dramma. Allora si coglie veramente quello che Schopenhauer intendeva per Volontà, per espressione della pura e semplice Volontà nell'arte suprema e cioè nella musica. L'arte dei suoni all'epoca di Wagner, e anche prima, era troppo evoluta, troppo complessa per potere limitarsi ad essere ancella della parola, questo poteva accadere soltanto all'epoca dei Greci, dal momento che essi ignoravano tutte le risorse dell'armonia. E così si rivela l'equivoco di fondo sul quale volle reggersi la teoria di Wagner e di Schuré, il fatto che con Wagner e prima con Gluck si fosse ritornati alla tragedia antica. Nulla di più falso e di più illusorio. La musica dei Greci doveva essere di una semplicità veramente per noi sbalorditiva, pari a una cantilena o al più ai canti gregoriani ( che già rappresentano uno sviluppo dell'arte ). Lo “spirito” della musica è poi un altro equivoco, perché Nietzsche probabilmente nella sua concezione della musica dionisiaca aspirava, come poi dimostrò, a qualcosa di sostanzialmente diverso dalla musica di Wagner, ma il fatto di aver dedicato la sua opera a Riccardo Wagner ha contribuito in maniera irrimediabile all'investitura del musicista tedesco quale restauratore dell'antica tragedia.