domenica 26 febbraio 2017

Mistero



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Ai confini della terra s'ergeva un'altissima torre.
Sfidava il cielo, cilindrica, come una colonna, cinta da un cinghio vorticoso, e il suo vertice vaniva tra vapori di tempesta.
Nemrod aveva voluto quella torre, il gran cacciatore al cospetto di Ilu.
Egli aveva istituito un tempio per il suo proprio culto e sacerdoti e sceltissime ostie. Nel tempio era una statua d'oro che lo raffigurava in proporzioni naturali, ed ogni giorno era rivestita di quella veste che egli stesso portava. Le vittime a lui predestinate erano fenicotteri, pavoni, galli cedroni, galline di Numidia, galline faraone, fagiani, che volta a volta gli venivano sacrificate secondo la specie.
E nelle notti la piena e fulgente luna egli assiduamente invitava ai suoi amplessi, e talvolta parlava in segreto con il Sommo Dio, ora sussurrandogli, ora bestemmiando. E spesso ripeteva : “ O tu sollevi me o io solleverò te. “
E come lo divorava un ardore inestinguibile, i nervi lo spingevano ad atti di sfrenata crudeltà o a momenti d'inaudita clemenza.
Talvolta, mirando l'orizzonte ove moriva ogni giorno il suo invidiato ed eterno fratello, l'occhio si abbeverava alla luce sanguigna e si saziava di pensieri malinconici. E come egli pensava alla morte, per lui indegna, un rancore profondo lo agitava e gli faceva maledire il destino degli uomini. Quelli, quali greggi di pecore condotte di pascolo in pascolo dal latrato dei cani e dalle nerbate del pastore, trascinavano una stanca esistenza, fatta di esili speranze, di difficili guadagni, di duro ed ingrato lavoro, di meschine invidie, di bestiali bramosie e di gioie materiali, per terminare il loro ciclo di vita dalla culla alla tomba, animali inutili una volta che hanno elargito il seme della progenie.
E così egli guardava sempre più spesso dall'alto delle mura del palazzo i tramonti che si succedevano sempre uguali, sempre immerso in pensieri malinconici.
Quanto il suo occhio avrebbe desiderato poter raggiungere il punto più lontano dell'orizzonte ! Ma la luce anche fievole del crepuscolo lo feriva e gli impediva di sfidare l'infinito. E solenne e silente scorreva l'acqua dei grandi fiumi, modellandosi in lunghi indugi canuti che, quasi impercettibilmente, enfiandosi di una lieve brezza, si riversavano pigramente sulle rive.
E il tedio implacabile della vita lo tormentava con strane ossessioni, rendendolo ora frenetico, ora raggelandolo in un torpore immobile. Le parvenze innumerevoli, che gli si agitavano intorno, erano per lui motivo di disgusto, non era fra esse né un amico né un'amante che potesse amare del suo amore.
Talvolta la disperazione lo conduceva per sentieri solitari per i quali errava senza meta, desideroso di sfuggire gli sguardi degli uomini. E più s'inoltrava, più il suo odio cresceva.
Un bosco sorgeva attorno al letto asciutto di un torrente. Grandi rocce erano sparse, sulle quali erano crollati scheletri d'alberi divelti dalle tempeste. La luna traluceva attraverso le branche rinsecchite e acute come picche, simili a lunghe mani ossute.
Il regno delle tenebre si rivelava piano piano una dimora degna della sua angoscia.
E mentre il piede incontrava le radici dei grandi alberi e il fogliame putrido del sottobosco, il suo occhio scoverse non molto discosto un vasto edificio circolare, la cui cupola di cristallo riluceva d'una luce smeraldina, quasi fosse ricoverta d'uno strato di muschio irrorato dalla rugiada notturna. Essa emanava dall'interno lo splendore, quasi emulasse il candore della luna effondendo il raggio del grembo fertile della terra.
Alte mura adornate di bassorilievi in forma di tori alati e di teste di leone rendevano inaccessibile e inviolabile il tempio, cui soltanto una porta di bronzo pareva custodire l'ingresso. E quella, lentamente cigolando sui cardini massiccia, s'aperse.
Un atrio interminabile e fitto di colonne, come di fusti arborei il seno delle foreste, si dilatava sotto la volta dove aerava un vapore carco d'un aroma marino che saliva da una voragine aperta nel pavimento. Una scala marmorea, a spirale, illuminata da torce ruggenti infisse nella parete, si smarriva a perdita d'occhio nell'abisso.
Per quella scala si mise il sovrano orgoglioso. E poi che fu giunto molto innanzi, scorse un corteo grigio, d'uomini incappucciati, donde si levavano preghiere tra nubi d'incenso.
Un veglio di gigantesca statura li precedeva, avvolto da una veste bianca che gli ricadeva dalle spalle in pieghe così rigide e numerose che sembravano pendere non da un corpo vivo ma da un mobile scheletro. Una copiosa capigliatura argentea s'arricciava per la schiena sì che la pelle del cranio, tesa, lasciava sporgere le orbite e il naso appariva adunco come il becco d'un rapace. Una barba fluente si confondeva con la tunica e a tratti, sollevandosi, alcuni filamenti si libravano nell'aria quasi raggi lunari.
Ed egli diceva discendendo nel baratro : “ Dov'è colei che ci attende ? Per lei nascemmo, per lei rinasceremo. “
E posero il piede su un vasto dorso scaglioso, di mille colori.
Come un manto innervato di arabeschi e di inarrivabili labirinti era disseminato di tutti i lumi dell'iride. E s'attorceva in innumerabili spire, sovra le quali essi incedevano inesorabilmente. S'invorticava in circuiti che suscitavano schiume d'onde sull'oceano plumbeo. S'intravvedeva talora il suo capo crestato emergere e scindere la distesa e di nuovo scomparire nell'oscurità. Ché l'abisso era colmo d'un mare immenso ed essi navigavano ora sul leviatano.
Navigavano in un deserto di correnti furiose che si frangevano contro le squame argentee, dorate, bronzee e rubescenti del mostro dai grandi globi dardeggianti un fulgore glauco, simile ai flutti che s'erano tinti d'alghe. Sopra loro la volta celeste sembrava crollare in masse informi di nubi grigie trafitte da folgori, cui seguiva un rombo che inneggiava per tutto, fin dove l'occhio potesse giungere, all'uragano.
E tra neri vapori e i bagliori subitanei essi scorsero in lontananza un'altissima rupe ove invano cozzavano gli urli del mare, e su di questa apparve una grande croce che univa la terra e il cielo.