sabato 28 dicembre 2024

Il dio delle folle

 

La Psicologia delle folle (1895), di Gustave Le Bon



Si tratta del ”vademecum” dei dittatori del XX sec. e ancora oggi riveste un'importanza e un'attualità eccezionali.

I legislatori non comprendono l'anima delle folle : «L'esperienza non ha loro ancora abbastanza insegnato che gli uomini non si guidano mai con le prescrizioni della pura ragione.»1

Nelle folle prevale l'inconscio, esso sfugge a ogni controllo razionale. E quindi : «Nell'anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini, e per conseguenza la loro individualità, si cancellano.»2

La folla ha soltanto qualità mediocri e scarsa intelligenza : «Le decisioni di interesse generale prese da un'assemblea di uomini scelti, ma di diverse attitudini non sono sensibilmente superiori alle decisioni che prenderebbe una riunione di imbecilli.»3

«... la storia non può eternare che dei miti.»4 I fatti storici sono già alterati in partenza dalle testimonianze dei molti, cioè della folla che si pasce delle proprie illusioni e deforma ogni avvenimento come le piace. La storia ha per unico fondamento la memoria e questa è fallace. Anche i documenti possono essere interpretati in mille modi diversi. Conoscere la verità del passato è impossibile.

«Non essendo la folla impressionata che da sentimenti eccessivi, l'oratore che vuole sedurla deve abusare delle affermazioni violente. Esagerare, affermare, ripetere, e non mai tentare di nulla dimostrare con un ragionamento, sono i procedimenti di argomentazione familiari agli oratori di riunioni popolari.»5 Il protagonista delle folle è l'imbecille e in esse trionfa soltanto l'istinto e la brutalità.

«Il tipo dell'eroe caro alle folle avrà sempre la struttura di un Cesare. Il suo pennacchio le seduce, la sua autorità si impone e la sua sciabola fa loro paura.»6

Le folle non ragionano, ma vengono sedotte da frasi ad effetto volte a ingannare la loro immaginazione. Il loro quoziente intellettivo è di poco superiore a quello della bestia. E qualunque demagogo abile a far presa su di esse le manovra come un padrone.

Grande è l’importanza delle scene teatrali per suggestionare la folla e colpire la sua immaginazione, che per la folla sostituisce il mondo reale. «Il meraviglioso e il leggendario sono in realtà i veri sostegni delle civiltà.»7

Il sentimento religioso delle folle è rappresentato dalla fede cieca nel capo, come fosse un dio, nell'atteggiamento fanatico e intollerante di ogni opposizione e di ogni contrarietà. La folla non sente ragioni, essa ha fede e crede in tutto quello che dice il capo-dio.

L'opinione della folla assume sempre un carattere religioso e del sentimento religioso ha i peggiori aspetti, quali l'intolleranza e il fanatismo.

«I re non hanno fatto la notte di S. Bartolomeo, né le guerre di religione; e né Robespierre, né Danton, né Saint-Just fecero il Terrore. Dietro a simili avvenimenti c'è sempre l'anima delle folle.»8

Le istituzioni sono solo una veste che copre il carattere dei popoli nel quale risiede il loro vero destino politico. E' la “razza” quella che determina le scelte politiche, cioè in parole povere è il carattere intrinseco di un popolo a determinare la sua storia. Imporre istituzioni dall'alto è deleterio, perché le istituzioni durevoli provengono sempre dal basso, cioè dalla natura particolare dei popoli. Così i paesi anglosassoni saranno sempre naturalmente democratici, mentre quelli latini non lo saranno mai.

Il termine e il concetto di “razza” erano ricorrenti nella mentalità comune degli europei del XX sec. e poggiavano su solide basi come gli scritti dei positivisti in generale e in Francia di Hippolyte-Adolphe Taine, che nella Filosofia dell’arte (1882) scriveva :


Le differenti razze sono fra loro, dal punto di vista morale, come un vertebrato, un articolato, un mollusco sono fra loro, dal punto di vista fisico; sono esseri costruiti su piani distinti e che appartengono a distinte branche. Infine, al piano più basso, si trovano i caratteri propri a ogni razza superiore e capace di civilizzazione spontanea, cioè dotata di quella attitudine alle idee generali che è l’appannaggio dell’uomo e lo conduce a fondare società, religioni, filosofie ed arti; simili disposizioni sussistono attraverso tutte le differenze di razza e le diversità fisiologiche che dominano il resto non giungono a intaccarle.9


Si notino le espressioni “différentes races” e “race supérieure” che testimoniano della mentalità del tempo e sono il frutto della sicumera positivistica e della convinzione della superiorità indiscutibile dell’uomo europeo sul resto dell’umanità. Nelle pagine precedenti si afferma l’importanza dell’influsso dell’ambiente per la varietà delle razze e questa è un’altra convinzione del pensatore positivista. Ma non è frutto esclusivo del positivismo perché già Buffon nella sua Histoire naturelle (1749) (Variétés dans l’espèce humaine) trattava in modo dettagliato delle differenti razze umane.10 Naturalmente Taine non fa che seguire l’insegnamento di Charles Darwin nell’Origine dell’uomo (1871), dove il cap. VII è dedicato esplicitamente alle razze umane nell’ottica della selezione naturale.11

A proposito dell'istruzione pubblica (nella prospettiva del “progresso”), Le Bon cita più volte Il regime moderno di Hippolyte Taine, condannando in blocco il sistema scolastico statale basato sulla manualistica e sugli esami, dove l'aspetto pratico della vita non viene mai preso in considerazione. Invece, come si fa nei paesi anglosassoni, è proprio dalla pratica che bisogna partire, educando i giovani al lavoro, che intendono intraprendere, con il farli appunto lavorare e non trascorrere sui banchi ore e ore a digerire un'inutile teoria. Insomma educare i giovani alla vita futura significa innanzi tutto farli vivere.

Circa la seduzione esercitata dalle parole a effetto ma prive di significato e delle illusioni, l'autore scrive : «Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un'altra parte, preferendo deificare l'orrore, se questo le seduce. Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima.»12

Le illusioni sono necessarie alle folle come gli errori, per evitare i quali l'esperienza di una generazione non è sufficiente.

L'oratore che non sia demagogo avrà poca presa sulle folle. Bisogna indovinare il loro sentimento e parlare secondo quello, perché qualunque ragionamento obiettivo risulta inefficace. La folla è stupida e ha bisogno di discorsi stupidi.

La folla è dominata dal prestigio di un grande personaggio, come fu ad esempio Napoleone che con il solo sguardo si faceva obbedire da chiunque, anche dal più restio. Il prestigio può essere personale, ma anche di un'idea, di una tradizione. In ogni caso l'uomo della folla perde il senso critico ( se ne ha ) e diventa schiavo del prestigio.

Le credenze e le opinioni costituiscono il fondo permanente e apparentemente mutevole delle civiltà. Le credenze permanenti sono l'ossatura della civiltà e come tali per quanto ragionevolmente assurde non vengono mai messe in discussione se non quando una rivoluzione vi pone fine. Ma alla morte di una credenza segue la nascita di un'altra e quindi una nuova civiltà e società. Le opinioni sono come le onde mutevoli sulla superficie dell'acqua, ma per quanto variabili derivano anch'esse nella loro sostanza dalle credenze permanenti e costituiscono come il volto delle civiltà.

Le folle sono criminali. Come esempio è presa la rivoluzione francese del 1789, in cui esplose in tutta la sua brutalità la violenza delle folle. Furono compiuti orribili massacri, giustificati dalla folla come azioni meritorie in favore degli ideali della rivoluzione.

Il trionfo del demagogo alle elezioni è dato dalla natura stessa delle folle, come già scrisse Guicciardini nei suoi Ricordi : «Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità.»

Chi lusinga l'elettore e rafforza le sue speranze illudendolo, vince le elezioni.

Le istituzioni e i governi hanno poca importanza nella vita dei popoli, quello che foggia il loro destino è l'ereditarietà del carattere, ciò che l'autore definisce “razza”. Ne segue che i vari regimi politici non costituiscono che la facciata nella vita politica, di fatto ogni popolo ha un suo destino preciso determinato appunto dalla “razza”.

Anche le assemblee parlamentari sono folla e non certo di miglior specie. Esse sono dominate dai capi-gruppo che fanno valere le loro opinioni e influiscono in maniera preponderante su ogni decisione. Ne segue che anche in democrazia di fatto sono pochi, pochissimi a esercitare il potere e a fare le leggi. E queste leggi non sono certo il frutto di una saggia ponderatezza : «Le assemblee politiche sono il luogo della terra dove il genio si fa meno sentire.» E queste non sono certo affermazioni nuove né originali, perché già Platone nella Repubblica (561, b) ci dipinge l’uomo democratico come anarchico e abietto, schiavo dei propri impulsi bestiali e illuso dall’apparenza della libertà, ma di fatto succube dei propri vizi e dei demagoghi :


Vive dunque, penso, costui, non meno spendendo denari, pene e brighe in piaceri necessari o non necessari, e se fortunato e non si sia dato troppo ai bagordi, ma divenuto anziano, una volta passata la follia, si sia convertito al passato e non si sia gettato in braccio alle novità, considerandoli tutti uguali passa la vita nei piaceri, sottomettendosi a quanto gli capita come se questo avesse vinto al sorteggio, finché ne ha sazietà, e di nuovo ancora, senza disprezzarne alcuno, ma coltivandoli tutti alla pari. … Dunque, dicevo, egli vivrà alla giornata compiacendosi del primo desiderio, ora ubriacandosi al suono del flauto, ed ora bevendo acqua fresca e facendo la dieta, ed ora andando in palestra, ora poltroneggiando incurante di tutto, ora cincischiando in filosofia. Spesso partecipa alla politica e saltando su dice e fa quello che gli passa per la testa, e se ammira il guerrafondaio va di là o se l’uomo d’affari dall’altra parte. Non v’è ordine né regola, ma chiamando bella e libera e beata la sua vita, così vive senza fare una piega.


Un leader non è che il portavoce delle opinioni della folla e le segue sia nel bene che nel male. E' inutile incolpare un condottiero dei disastri provocati alla nazione, egli si è limitato a seguire l'opinione pubblica e ad adottarne gli errori.

Il condottiero non è una persona intelligente. «E' spaventoso pensare al potere che una convinzione forte, unita a un'estrema angustia mentale, conferisce a un uomo circondato da un certo prestigio.»13

Il miglior regime è quello democratico, ma il pericolo in questo caso è rappresentato dal proliferare delle leggi e della burocrazia, che alla fine diventa la vera padrona dello Stato. Così con l'illusione di garantire e difendere la libertà e gli interessi dei cittadini, si prepara di fatto il loro asservimento a uno Stato pletorico e asfissiante che imprigiona il cittadino in un labirinto di leggi e regolamenti.

Il superamento dell'esistenza della folla si ha quando l'agglomerato umano si identifica nella vita comune volta a un ideale. Allora si passa dalla folla al popolo e si fonda la civiltà, mentre prima era la barbarie. Tuttavia, quando un popolo perde i suoi ideali, perde anche la propria identità e ridiventa folla, una folla di barbari : «Passare dalla barbarie alla civiltà seguendo un ideale, poi declinare e morire non appena questo ideale ha perduto la sua forza, tale è il ciclo della vita di un popolo.»14




Nostalgia aristocratica dannunziana



Pochi anni prima della diffusione dell’opera di Le Bon, Gabriele D’Annunzio pubblicava su «Il Mattino», il 25 settembre del 1892, un articolo intitolato La bestia elettiva, dove esponeva una concezione superomistica della vita nel dispregio delle masse quale apparirà nel 1895 (contemporaneamente all’opera del filosofo francese) nel romanzo o poema in prosa Le vergini delle rocce. L’ispiratore è Nietzsche ma il vero maestro è l’esteta Walter Pater.

Scriveva D’Annunzio :


La condizione delle plebi resta sempre la medesima, sia la volontà governatrice quella d’un tribuno o sia quella d’un re, sia classe privilegiata la nobiltà o sia la maggioranza della Camera. Le plebi restano sempre schiave e condannate a soffrire, tanto all’ombra delle torri feudali quanto all’ombra dei feudali fumaiuoli nelle officine moderne. Esse non avranno mai dentro di loro il sentimento della libertà. Invano i Cleoni gridano alle moltitudini : «Voi non soltanto siete la forza ma siete la luce, il pensiero, la saggezza». Forse neppure le moltitudini credono a queste adulazioni. - Esse credono in un solo progresso : nell’aumento del benessere fisico. Il lievito dello spirito non vale a sollevare questa pasta densa, grossolana e grigiastra. Per trascinare una folla bisogna contrapporre a un suo vizio un altro vizio. E i Cleoni conoscono bene questa psicologia, hanno l’aria di adorare il gran burattino di cui tirano i fili.15


In particolare D’Annunzio prevede lo sviluppo pletorico delle funzioni dello Stato democratico che alla fine soffocheranno le masse, come afferma anche Le Bon :


I popoli, vittime di questa illusione, che moltiplicando le leggi, l’eguaglianza e la libertà si trovino più sicure, accettano ogni giorno i legami più gravosi. E non li accettano impunemente. Abituati a sopportare tutti i gioghi, essi finiscono col cercarli, e perdere ogni spontaneità ed energia. Non sono più che ombre vane, automi passivi, senza volontà, senza resistenza e senza forza.16


Il resto dell’articolo di D’Annunzio inneggia al messaggio etico-politico di Nietzsche e quindi al dominio degli aristocratici come è presentato nella Genealogia della morale (1887).17

Sull’articolo di D’Annunzio si esprime Anacleto Verrecchia ne La catastrofe di Nietzsche a Torino18, riportandone ampi stralci e sottolineando l’opera di divulgazione del messaggio di Nietzsche fatta dal poeta. In generale Verrecchia nel delineare il ritratto intellettuale di Nietzsche sottolinea l’influsso della mentalità del tempo e dei suoi pregiudizi sul pensiero del filosofo e a proposito della morale dei signori e della razza ariana scrive :


Quello dei rapporti fra Nietzsche e Gobineau è un capitolo ancora aperto. Che Nietzsche non lo citi non significa molto. Si ha motivo di pensare che i suoi rapporti con Gobineau siano stati maggiori di quel che non sembri. … Elisabeth Förster disse che suo fratello aveva senz’altro conosciuto e venerato Gobineau, e che lei stessa gli aveva letto l’Essai sur l’inegalité. C’è poi la testimonianza di Overbeck, il quale … dichiarò che Nietzsche, durante il periodo di Basilea, non solo conosceva, ma teneva in alta considerazione Gobineau.19


Sempre la sorella scrisse che Nietzsche aveva rimpianto molto di non aver conosciuto personalmente Gobineau «che sarebbe stato del tutto qualificato per il suo modo di pensare.»20

Infatti al paragrafo 5 del Saggio primo della Genealogia della morale i riferimenti allo studioso francese “scopritore “ della razza ariana sono evidenti. Nietzsche parla di arya e di aristocratici nordici dalla testa bionda, per questo tanto più puri e nobili dei preariani scuri e dai capelli neri (che vengono addirittura accostati ai moderni socialisti!).

Il messaggio aristocratico dannunziano si palesa in maniera evidente ne Le vergini delle rocce, nel quale l’influsso dello stile di Così parlò Zarathustra (1885) di Nietzsche è avvertibile, ad esempio nelle frequenti anafore e sentenze lapidarie.

Nei tre discorsi tuttavia, all’inizio dell’opera, attribuiti a Massimilla, Anatolia e Violante, si sente un’eco dei discorsi delle tre Madri nelle Confessioni di un oppiomane (1822), precisamente nei Suspiria de Profundis (1845), di Thomas De Quincey.21

Le prime pagine del romanzo, da Socrate alla polemica antidemocratica e oltre sono all’insegna dello stile. L’ideale estetico, alla Gautier per intenderci e cioè parnassiano, è il vero dominatore dell’animo di Claudio Cantelmo ed è anche il fondamento della sua posa aristocratica al di sopra della mischia. D’Annunzio in realtà non ha vere idee politiche, anche la politica e lo Stato per lui si traducono in una sorta di “philosophie dans le boudoir” e in un disprezzo per i vili mortali che erediterà il Dorian Gray di Wilde.

Il superomismo di origine nietzscheana e l’estetismo alla Walter Pater lo conducono ad affermazioni che anticipano di molto i tempi e preludono all’ideale nazionalista nel suo disprezzo per la democrazia, considerata come il trionfo della moltitudine plebea :


Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all’obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà.22


Pur disprezzando il contatto e la vicinanza della folla, Cantelmo non si discosta dall’atteggiamento del demagogo : «… ricordatevi sempre che l’anima della Folla è in balia del Pànico. Vi converrà dunque, all’occasione, provvedere fruste sibilanti , assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro statagemma.»23 Infatti, come ogni demagogo, vuole servirsi della folla e addomesticarne gli istinti esclusivamente a proprio profitto.

La folla e i suoi domatori vengono presentati nelle tinte più fosche :


Assai lontano, in verità, appariva il giorno; poiché l’arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d’una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d’imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d’un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l’onda delle basse cupidige invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l’attraversasse la fiamma di un’ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d’un bel delitto.24


Dove, nelle ultime parole, si vede chiaramente che dal tono moralistico delle prime si passa a un’idealità puramente estetica, e addirittura un delitto può risultare artisticamente pregevole.25


1G. Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, Monanni, 1927 (prima edizione italiana), p. 18

2Ivi, p. 28

3Ivi, p. 29

4Ivi, p. 48

5Ivi. p. 49, cfr. Aristotele, Retorica, II, cap. 22 : «… di fronte alla folla risultano più convincenti gli oratori incolti di quelli colti, proprio come affermano i poeti che gli incolti “parlano alla folla più abilmente” ...» (Aristotele, Retorica, Milano, Mondadori, 1998, p. 239)

6Ivi, p. 52

7Ivi, p. 65

8Ivi, p. 73

9H. A. Taine, Philosophie de l’art (Filosofia dell’arte), Milano, Bompiani, 2001, p. 256

10Oeuvres complètes de Buffon, vol. XI, Paris, Librairie Abel Pilon, s. d., p. 138

11Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Roma, Newton Compton, 2003, p. 138

12Op. cit., p. 107

13Ivi, p. 189

14Ivi, p. 201

15G. D’Annunzio, Scritti giornalistici, 1889-1938, vol. II, Milano, Meridiani Mondadori, 2003, p. 90

16G. Le Bon, op. cit., p. 197

17D’Annunzio, op. cit., p. 92 : «Secondo la dottrina di Federico Nietzsche, una fra le ragioni del general decadimento sta in questo : che l’Europa intera ha ricevuta la sua definitiva impronta dalla nozione del bene e del male presa nel senso della morale degli schiavi. Due sono le morali : quella dei «nobili» e quella del gregge servile. Ora, poiché in tutte le lingue primitive nobile e buono sono termini equivalenti e poiché la parola nobile è anche una designazione di classe, ne vien per conseguenza manifesta che la casta dei signori ha creata la prima nozione del Bene. Tutta la loro morale ha la sua radice nella sovrana concezione della loro dignità e tende alla glorificazione superba della vita.

La genesi del Bene è necessariamente diversa nello schiavo. Per istinto, egli diffida di ciò che il signore chiama il Bene; poiché in fatti ciò che per costui merita un tal nome è cattivo per lo schiavo e quindi rappresenta il Male.

Ma pur troppo la morale degli schiavi ha vinto l’altra. Era necessario, per condurla alla vittoria, un qualche potere di seduzione. Gesù di Nazareth le portò l’artifizio dell’amore, attirando a sé gli infelici e i vili. Tutte le sofferenze del debole e dell’oppresso si cangiarono in virtù; e parve abominevole l’uomo forte che derivava le sue leggi dal principio contrario. L’ascetismo diffuse un velo di pallore e di tristezza su tutte le cose. Questa morale dunque non è che l’istinto del gregge.»

18A. Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Milano, Bompiani, 2003, p. 453-457

19Ivi, p. 107

20Ibidem

21D’Annunzio avrà probabilmente potuto averne conoscenza dai Paradis artificiels (1860) di Ch. Baudelaire, che contengono una sintesi dell’opera di De Quincey non meno suggestiva dell’originale.

22G. D’Annunzio, Le vergini delle rocce (1895), Milano, Mondadori, I Meridiani, Prose di romanzi, vol. II, 2011, p. 31

23Ibidem

24Ivi, p. 19

25Su D’Annunzio si vedano le pagine che Giovanni Papini dedica al poeta in Stroncature, Firenze, Libreria della Voce, 1919. Papini ci dipinge D’Annunzio molto diversamente da come il poeta intendeva se stesso. Se nelle Vergini delle rocce egli assume la posa plastica di un Claudio Cantelmo, aristocratico dispregiatore delle masse, nell’articolo del giornalista fiorentino appare invece come un affabulatore arido e noioso, nonché demagogo perfetto, e tra l’invettiva veramente spassosa risalta l’immagine grottesca della «oscena bocca del gelatiere abruzzese». Poco prima aveva scritto nell’articolo La sagra dei mille (1915) : «Ma siccome la sua natura corinzia di umanista e di cosmopolita e la sua stessa squisitezza di lavoratore dell’aggettivo non gli permettono di sentire in modo sicuro e diretto questo amor bestiale e filiale della patria, egli è ridotto a gonfiar le gote e ad allargar la bocca o a stender le braccia o a sgranare gli occhi o a trombettar col culo pur di nascondere l’interno silenzio dell’animo suo.» ( ivi, p. 64)


sabato 23 novembre 2024

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Iljìc

 

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Iljìc. Padre Sergio, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2014


La morte di Ivan Iljìc (1886)


Pjotr Ivànovic è il tipico borghese ligio alle proprie abitudini di uomo superficiale dedito ai piccoli piaceri di una vita confortevole. L’incontro con la salma di Ivan Iljìc nella camera mortuaria gli desta soltanto un senso di fastidio. Così trascorre il funerale di Ivan Iljìc come una vuota formalità, anche nell’atteggiamento della vedova, preoccupata soltanto del prezzo della tomba e del costo delle esequie. E questa premessa fa da introduzione al racconto della vita del defunto, vita che sin dai primordi appare d’una mirabile ovvietà e banalità borghese.

Nella rievocazione della trascorsa esistenza di Ivan Iljìc si pone in risalto il suo anelito alla carriera, la sua ambizione a raggiungere uno stipendio di cinquemila rubli, per realizzare una vita “secondo il suo vero carattere di amena giocondità e di decoro”. Sennonché questa vita, una volta raggiunta la prosperità familiare, si muta dapprima in una alternanza di noia e di banalità e poi, con un piccolo incidente domestico, una caduta da una scaletta usata per sistemare delle tende, in una progressiva inquietudine.

L’inquietudine trova la sua giustificazione nella crescita di un dolore al fianco, nella irritabilità del non più sereno Ivan Iljìc, che decide di recarsi dal medico. Nello studio del dottore ha la rivelazione, sebbene più intuita che manifesta, di una malattia dai contorni non ancora definiti. Ma l’immagine del male è destinata a diventare più nitida e più minacciosa. E così egli si strugge al pensare allo strano dolore che lo perseguita ad ogni istante e non lo lascia mai in pace. La sua esistenza ne viene avvelenata e più egli vi pensa più il dolore aumenta e la virulenza della malattia. Egli osserva i familiari e gli amici e ricorda d’essere stato come loro, sano e spensierato e superficiale nella visione della vita. Ora invece sente di essere diverso e che la vita non è un sentiero contornato di rose.

Il decorso della malattia viene riferito con estremo realismo, così come l’evoluzione psicologica del malato. Il male è mortale e nonostante le promesse dei medici, Ivan Iljìc si rende conto di essere condannato. Alla fine la sua coscienza gli presenta il dilemma più straziante : è vissuto come doveva oppure tutta la sua vita è stata un errore ? Le sue preoccupazioni borghesi, l’ambizione di far carriera, il successo in società, tutto si manifesta per quello che è, un nulla. Conscio di aver vissuto nell’errore, Ivan si illude ancora confessandosi e comunicandosi negli estremi atti della fede, ma anche questo è una vana consolazione. Da ultimo ha l’improvvisa rivelazione di una luce che lo attende in fondo all’oscurità. Finalmente liberato dalla sofferenza si affida grato alla morte.


Padre Sergio (1890)


Il bel principe Kassàtskij in seguito a una delusione d’amore si fa monaco. Era ufficiale dell’imperatore, ma appunto la sua fidanzata, nel momento della sua dichiarazione, gli rivela di essere stata (e lo era ancora !) l’amante dello zar. In preda allo sdegno s’immerge nella disciplina della vita monastica, che sostituisce quella militare, nella quale eccelleva.

Ma le tentazioni del mondo e soprattutto quelle della carne lo tormentano, insinuandosi a poco a poco nel suo animo. Si sente un fondo di scetticismo illuminista nella scarsa fiducia delle possibilità umane di dominare completamente gli istinti. Si ricordi La monaca del Diderot, ma vi è anche un alone di quella morbosità decadente e un po’ compiaciuta che si incontra nella Taide (1890) di Anatole France (il monaco Pafnuzio) e nella novella di D’Annunzio Frà Lucerta (in Terra vergine, 1882).

L’opera di Tolstoj fu pubblicata nel 1912, ma già composta dal 1890, sicché può dirsi se non un modello per gli scrittori citati, senza dubbio analoga nello spirito e testimone d’una stessa temperie culturale.

All’inizio sembra vincitore sulle tentazioni della carne in un esito eroico e magnanimo, ma un semplice e inaspettato episodio mina l’edificio ascetico di virtù e rinunce che egli si è costruito nel tempo. Così il santo eremita cade nell’abiezione e, conscio della sua condizione di semplice peccatore, si umilia riducendosi a mendico e recandosi da una vecchia conoscenza, una povera vedova, che lo accoglie meravigliata. A lei confessa la propria caduta, umiliandosi come il più misero dei peccatori, ma è proprio nella disgrazia che si avvicina alla verità dell’esistenza umana.

Il principe divenuto eremita nell’ansiosa ricerca di Dio compie l’ultima metamorfosi e si trasforma in pellegrino vagabondo, finché arrestato viene mandato in Siberia. E qui, servo di un ricco contadino, nell’anonimato raggiunge la semplicità evangelica.


venerdì 1 novembre 2024

Addio ad Euridice

 

For Poesy ! - no – she has not a joy, -

At least for me, …

(J. Keats, Ode on Indolence, IV)


Come nell’incarnato del tramonto

muore la fiamma del giorno,

così si dilegua nel cuore

ogni speranza delle tue visioni,

noncurante fanciulla del futuro.

Perché svanisci quando la luce

si fa più acuta e sfreccia nelle tenebre ?

Ora davvero potrebbe essere il giorno,

senza menzogna, senza morte,

primo della tua vita.

Ma tu volgi ancora gli occhi

altrove,

né io ti posso guardare;

ti bacio la mano in silenzio,

mentre il respiro della cenere

si spegne lento nel crepuscolo.






martedì 29 ottobre 2024

Federico Faggin e la nuova metafisica

 

Federico Faggin, Irriducibile, la coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Milano, Mondadori, 2023



P. 4, importante nella prefazione il cenno alla filosofia perenne (cfr. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, Milano, Rusconi, 1994, p. 5).

P. 8, 9, quanto l’autore afferma, concorda con la concezione di Bergson, solo che, pare, Faggin non ne ha conoscenza o lo ignora volutamente. Il fatto, a mio parere, è che Faggin non ha una formazione filosofica, ma eminentemente scientifica, il che nulla toglie al grande valore del suo messaggio. Egli dice in particolare :


l’evoluzione dell’universo parte da enti coscienti dotati di libero arbitrio che emergono da Uno. Uno è un Tutto, sia in potenza che in atto, irriducibilmente dinamico e olistico, che vuole conoscere se stesso per autorealizzarsi. Uno è fatto di parti-intero, inseparabili e in continua evoluzione che da Lui emergono e che comunicano tra di loro per conoscere se stesse. Nel conoscere se stesse, esse realizzano l’intenzione e lo scopo comune. Pertanto c’è un divenire nell’universo, e il futuro non è assolutamente predicibile, nemmeno da Uno.


P. 14, per esperienza personale l’autore comprende che la sostanza di cui è fatto tutto ciò che esiste è la coscienza, sostanza incorporea che va oltre la materia. In questo egli è perfettamente in linea con quanto afferma Bergson (L’evoluzione creatrice, Milano, BUR, 2016, p. 235).

P. 16 (Laddove parla di Uno e di noi come eterni punti di vista dell’Uno, bisognerebbe prendere in considerazione Leibniz, anche se qui siamo ancora nel campo del meccanicismo, secondo Bergson).

P. 17, in seguito all’autoanalisi l’autore può asserire la propria convinzione che gli esseri umani non sono macchine biologiche o robot biologici, ma (e in questo vi è una straordinaria conferma della dottrina platonico-orfica) “esseri spirituali temporaneamente imprigionati in un corpo fisico simile a una macchina.”

P. 18, ritiene che, data l’importanza del problema, bisogna prendere sul serio l’ipotesi che “la coscienza venga prima della materia, o contemporaneamente a essa.” Si noti che la questione era già stata trattata da Bergson nella sua contrapposizione tra vita e materia, nella sua definizione di Dio come “vita incessante, azione, libertà” (op. cit., p. 239).

P. 19, l’autore parla di natura spirituale dell’universo, che viene ignorata dal fisicalismo e dal riduzionismo materialisti. Ma la fisica quantistica è orientata verso la concezione di un universo olistico e creativo e secondo il punto di vista di Faggin l’universo è “esso stesso consapevole e vivo fin dall’inizio.” Anche per questa affermazione si veda l’opera di Bergson che considera l’universo come un corpo materiale animato dalla vita cosciente.

P. 28, anche nella esposizione della storia della fisica è evidente la posizione di Faggin, che giustamente ritiene superata la fisica di Laplace e in genere del materialismo di origine positivista. E’ una conferma del valore della filosofia di Bergson.

P. 30-34, l’esposizione sommaria ma precisa dell’evoluzione della fisica quantistica conferma l’affermazione di Bergson che la materia è energia e che spazio e tempo non hanno un valore assoluto ma relativo.

P. 39, nel capitolo intitolato La fine della certezza leggiamo :


Un altro aspetto importante della matematica, che spesso viene sottovalutato, è che la verità dei suoi enunciati è relativa soltanto a quella dell’insieme di assiomi non dimostrabili su cui c’è accordo. Tali assiomi sono infatti considerati verità autoevidenti, accettate come tali per convenzione perché non dimostrabili. La presunta oggettività della matematica si basa quindi sull’accettazione soggettiva di ciò che è ritenuto autoevidente.


Il capitolo presenta soprattutto per i profani un’assoluta importanza, infatti crolla agli occhi del non addetto ai lavori il mito della certezza matematica, che si rivela pura illusione.

P. 48, le pagine dedicate alla fisica quantistica sono ovviamente di difficile comprensione, però l’affermazione “l’indeterminismo è una proprietà irriducibile della natura” si accorda con quanto sostenuto già da Bergson. Infatti a p. 212, 213 dell’Evoluzione creatrice Bergson afferma : “… alla base della natura non vi è nessun sistema definito di leggi matematiche …” E poco avanti sottolinea “quale ruolo importantissimo abbia l’idea di disordine nei problemi relativi alla teoria della conoscenza.”

A p. 50 si dichiara che la realtà soggettiva e oggettiva si creano a vicenda e nessun fenomeno è tale finché non è osservato, come a dire che l’oggetto non è tale senza un soggetto. Inoltre si sottolinea il ruolo fondamentale della coscienza nella fisica, e questo è un concetto chiaramente già espresso da Bergson. Ma tale concezione è ancor prima, e naturalmente siamo molto lontani dal retroterra culturale di un fisico moderno, del filosofo tedesco Schelling, cioè nel Sistema dell’idealismo trascendentale. Si veda ad esempio il paragrafo 1 dell’introduzione (Concetto della filosofia trascendentale) laddove si dice :


1. Ogni sapere si fonda sull’accordo di due elementi, l’uno subbiettivo, l’altro obbiettivo. Infatti si conosce soltanto il vero; ma la verità è generalmente posta nell’accordo delle rappresentazioni coi loro oggetti.

2. Possiamo chiamar Natura la totalità degli elementi obbiettivi del nostro sapere, mentre l’insieme di tutti gli elementi subbiettivi dicesi Io, o intelligenza. I due concetti sono antitetici. In origine l’intelligenza è concepita come il puro rappresentativo, la natura come il puro rappresentabile; quella come il conscio, questa come l’inconscio. Tuttavia in ogni sorta di sapere è necessario il mutuo concorso di ambedue.

(F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Bari, Laterza, 1990, p. 7)


P. 52, il sistema assiomatico esemplificato dalla geometria euclidea è stato alla base della presunta certezza delle matematiche e delle scienze cosiddette esatte, ma si tratta di presunzione, per quanto umanamente comprensibile. Anche Bergson critica la falsa certezza della scienza con l’individuazione del meccanismo cinematografico del pensiero che ingabbia in una visione distorta il fluire continuo del reale.

P. 53, si passa alla considerazione della differenza tra l’intelligenza umana e quella dei robot. La prima è cosciente e basata sulla conoscenza semantica, cioè che include un significato di cui si è consapevoli, la seconda è incosciente e basata su una conoscenza simbolica, cioè su segni che sono collegati tra loro meccanicamente in un processo inconsapevole, senza un soggetto.

Seguono diverse considerazioni sull’intelligenza artificiale, i robot e le differenze sostanziali tra questi e gli esseri viventi e la mente umana. Gli argomenti sono quelli di un fisico e non sono sempre di facile comprensione, ma dal punto di vista filosofico la questione è se i robot possono in qualche modo essere considerati alla stregua degli esseri umani, se questi secondo alcuni fisici sono robot biologici. La risposta è no, perché all’intelligenza artificiale, che è pura e semplice intelligenza, manca un elemento che già per Bergson era fondamentale e cioè l’intuizione. I robot sono del tutto privi di intuizione e questo è di per sé un grande limite. Non si può affidare alcun potere decisionale a un robot, come nel caso delle auto a guida autonoma, perché, riconosce Faggin, esse in molti casi potrebbero incorrere in errori fatali. Inoltre le macchine sono sistemi deterministici e riduzionistici e sono costituite secondo un modello teorico, schematico della realtà, mentre le cellule, la cui natura è in gran parte ancora misteriosa, sono fenomeni quantistici il cui “funzionamento” risulta generalmente imprevedibile. Le prime sono create per compiere determinate e specifiche operazioni, sempre le stesse, e sono utili appunto nei lavori ripetitivi laddove la mente umana tende a distrarsi, mentre le cellule viventi e in genere gli organismi viventi si adattano alle più diverse esigenze.

P. 88, questa lunga spiegazione dell’informazione di Shannon non è adatta a un pubblico di lettori non specialisti o che hanno da tempo abbandonato ogni interesse per la fisica (come me !).

P. 96, nella percezione del linguaggio, in quanto complesso di suoni aventi un significato, vi è una fondamentale differenza tra noi e le macchine, per esse si tratta di simboli che danno avvio a un processo meccanico e inconscio, per noi si tratta di segni dotati di valore semantico non solo oggettivo ma anche soggettivo e come tali rielaborati dalla coscienza.

L’elaborazione dell’esperienza cosciente va oltre quella simbolica e algoritmica dei computer e la comprensione e la creatività vanno oltre ciò che può fare una macchina. I programmi dei computer ci rivelano soltanto l’aspetto simbolico della mente e i computer sono nostre creazioni in quanto dotate della parte algoritmica della nostra essenza. Ma la coscienza è la nostra vera ricchezza ed è ciò che ci permette di comprendere, mentre i computer non potranno mai capire ciò che fanno né essere coscienti.

Una volta compresa la differenza fondamentale che c’è tra un organismo vivente, ad esempio la cellula, e un computer, le pagine dedicate a sottolineare tale differenza nelle più minute sfumature riescono stucchevoli e noiose a chi non sia immerso negli studi di fisica e informatica. Sembrano pagine scritte per ingrossare il volume e sono a mio parere superflue, ma si dirà che appunto penso così perché non sono un fisico.

A p. 112 si ribadisce un concetto propriamente bergsoniano e cioè che “la vita è una espressione della coscienza e non della materia inanimata.” Tuttavia pare che di Bergson Faggin non si ricordi minimamente.

P. 125, probabilmente un collaboratore ha fornito all’autore qualche notizia della filosofia di Eraclito, che giustamente e a proposito viene citato. Leggendo il testo, infatti, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno scienziato e non certamente a un umanista. Inoltre riappare la visione della natura quale è nell’Evoluzione creatrice di Bergson. Nulla è permanente se non l’illusorio, il tutto è continuo mutamento e fluire incessante.

A p. 126 si manifesta chiaramente la concezione bergsoniana. Faggin scrive che ogni organismo vivente è collegato con un ente cosciente dotato di libero arbitrio. E qui con evidenza appare che la vita è coscienza che domina la materia. Vedi infatti a p. 127 : “Considerando che la vita è una realtà olistica, l’essenza del tutto deve essere contenuta in ciascuna delle sue parti.” La coscienza di un organismo è perciò presente anche in ogni sua cellula.

P. 137, a parte una certa concessione alla moda ambientalista nelle pagine precedenti, si conferma la concezione bergsoniana della coscienza : “Credo che sia impossibile spiegare la vita senza i concetti di coscienza e di libero arbitrio …”

P. 138 :


Secondo le nostre teorie fisiche, le particelle sono emerse dal campo unificato che componeva il tutto, ma non sono separabili dal tutto e non lo precedono. In un universo olografico e olistico, le parti che si autoassemblano devono contenere l’essenza del tutto, e quindi non possono essere separate da esso, perché il tutto deve poter influenzare le parti.


P. 154, la realtà interiore, cioè della coscienza, si distingue nettamente da quella fisica e dei computer. La realtà fisica è simbolica, quella della coscienza è semantica. Similmente lo spazio e il tempo della realtà fisica non sono quelli della realtà interiore. Anche quando leggiamo un romanzo viviamo in una realtà della coscienza, creata da essa nella traduzione in significato di simboli convenzionali della scrittura.

P. 161, mentre per l’apprendimento una mente artificiale ha bisogno di molti esempi di riferimento e facilmente cade nell’equivoco perché si basa solo su dati esterni dell’oggetto, la mente umana si basa invece sull’intuizione che spesso non ha bisogno di altro che di se stessa o comunque di pochi esempi. Anche qui si evidenzia la condivisione del pensiero di Bergson secondo cui l’intelligenza di per sé è cieca quando manca l’intuizione.

P. 164, la vera intelligenza non può essere disgiunta dalla coscienza. “La vera intelligenza è intuizione, immaginazione, creatività, ingegno e inventiva”, un essere umano che si identifichi con il corpo e la mente logica non è più tale, è un robot. E purtroppo i “robot” umani nella società attuale dell’occidente e dell’oriente sono numerosi.

P. 187, con il concetto quantistico di “seity”, cioè sostanzialmente il Sé della tradizione teosofica e indiana e l’Io di quella idealistica di Schelling, si afferma che : “Una seity esiste anche senza il corpo fisico … la nostra esistenza non dipende dall’esistenza del corpo.” E questo, mi sia concesso, è affermare l’immortalità dell’anima.

P. 190, NB : la fisica quantistica non descrive il mondo esteriore ma quello interiore.

Ibidem, a partire dal cap. L’esistenza del libero arbitrio, Faggin entra nel campo della teosofia. Questa non è una critica negativa all’autore, anzi! Però è evidente che le affermazioni di Faggin non appartengono più al campo della scienza sperimentale. Egli (e questo è un merito!) ha finalmente superato i vincoli della mera intelligenza per entrare nel regno dell’intuizione.


tutto ciò che vediamo nell’universo è stato inizialmente immaginato nella coscienza delle seity perché la realtà fisica segue la realtà quantistica, che segue l’informazione quantistica, che a sua volta rappresenta il pensiero, i desideri e le esperienze coscienti delle seity.


P. 197, “Sono le seity che hanno cooperativamente dato esistenza alle stelle, ai pianeti e agli organismi viventi …” in questo c’è una sorprendente analogia con la dottrina Sankhya indiana che prevede l’esistenza di entità infinite o anime (purusa) e di una natura naturante (prakrti) anch’essa eterna (cfr. p. 73, Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza, 2012).

P. 198, la creazione dell’universo e dell’uomo è dovuta al fatto che Uno vuole conoscere se stesso e conoscere significa venire ad esistenza. Così tutti noi siamo emanazione di Uno (p. 199). In quest’ultima espressione si riconosce l’influsso delle Enneadi di Plotino (non so se Faggin ne abbia effettivamente notizia o conoscenza diretta, ma l’atteggiamento mentale è lo stesso).

A p. 203 cita Schelling, ma non credo sia farina del suo sacco, mi sa di suggerimento. Faggin ha infatti una conoscenza incredibile della fisica, ma di filosofia non mi pare sappia molto.

Ibidem, sembra di leggere un testo gnostico. Dall’Uno sono emanati o creati (la cosa non è chiara) le Seity o Entità che a loro volta riproducendosi creano altre Seity e così via all’infinito.

P. 208, viviamo nella confusione più totale, avendo scambiato la realtà esteriore e la sua simulazione nell’IA con quella interiore, che è la vera realtà.


Pensare che l’IA sia realmente intelligente, mentre invece, essendo priva di interiorità, è solo un’imitazione del comportamento umano, è un fraintendimento analogo a quello che si fa quando si confonde la teoria della realtà con la realtà. La realtà è viva, ma non vive nella materia, bensì nella conoscenza esperienziale di sé. E’ l’idea di materia che abbiamo che è sbagliata, perché gli studiosi hanno dato valore di realtà all’informazione astratta senza significato e lo hanno tolto alla conoscenza di sé, che in questa nuova concezione è la realtà più profonda.


P. 212, affermazione rivelatrice . “Noi, in quanto seity, siamo eterni.”

P. 216 : “Riassumendo, ritengo che dal Principio creativo segua la necessità logica che da Uno debbano emergere enti il cui scopo è conoscere se stessi, e aumentare così la Sua conoscenza.” Nella nota a piè di pagina fa chiaramente riferimento a Leibniz, che mostra di seguire dal punto di vista teoretico, mentre appoggia la posizione di Leibniz contro il meccanicismo di Newton. Invece Bergson considera anche Leibniz un meccanicista.

P. 220, Plotino e Giordano Bruno sono da tenere in considerazione come pensatori che hanno anticipato queste nuove concezioni del mondo e dell’uomo. Faggin dice : “Tutti noi abbiamo una natura divina. Questa è la nostra vera essenza, e il nostro compito è cercare di ricondurre il divino che è in noi al divino che è nell’universo”, citando appunto Plotino.

P. 224, come Bergson anche Faggin ritiene che “l’universo è aperto e il suo futuro non è determinato.” La differenza fondamentale con Bergson è che Faggin sostanzialmente accoglie la dottrina di Leibniz, che invece Bergson biasima in quanto lo considera un meccanicista, cioè precisamente un puro razionalista, mentre Bergson rivaluta l’istinto e l’intuizione.

P. 230, la seity è un ente cosciente che può incarnarsi nel corpo, ecco la metempsicosi platonica e una piena conferma della verità del platonismo, dell’orfismo, del pitagorismo e poi del neoplatonismo. L’ego è la parte della seity che si è identificata con il corpo e che può essere irretita da esso a tal punto da immergersi totalmente nella materia e perdere il contatto con lo spirito o “seity”, come lo chiama Faggin.

P. 244, indubbiamente c’è un po’ di deformazione professionale in queste teorie di Faggin che è un fisico informatico. Egli ritiene infatti che la vita biologica sia creata dalle seity come un mondo “virtuale” nel quale incarnandosi, come immerse in una sorta di “metaverso”, esse esperiscono la vita corporea. Però se tralasciamo questi aspetti della teoria e ci rivolgiamo al suo interno vediamo che questa visione della realtà vera si avvicina molto a quella degli antichi gnostici o alla religione dell’antica India.

P. 246, all’inizio del capitolo Faggin sembra collegarsi al viaggio dell’anima nell’Iperuranio e al mondo delle Idee di Platone. L’anima foggerebbe le sue idee-simbolo per comunicare e conoscere meglio se stessa, poi si incarnerebbe nel corpo, simbolo materializzato, sempre allo scopo dell’autoconoscenza. Ma poi darebbe luogo alla costruzione di macchine, computer, robot e quant’altro e a nuovi tipi di corpi cibernetici. Mi sembra che qui si ripiombi in pieno meccanicismo e ciò contraddice profondamente il messaggio di Bergson, non si va infatti verso l’intuizione, ma verso un’iper-intelligenza.

P. 247, è evidente che la concezione “metafisica” di Faggin è tratta dalla pratica della realtà virtuale. La seity è paragonata a un giocatore che nel videogioco manovra il suo avatar, ben consapevole che la realtà virtuale è parte della realtà più vasta in cui vive il giocatore. Così l’avatar nel videogioco corrisponde al corpo nella vita fisica che è mosso dall’anima, cioè la seity. L’identificazione della seity con il corpo viene esemplificata dal metaverso. Queste similitudini tecnologiche richiamano a grandi linee il mito platonico della caverna, nel libro VII della Repubblica.

P. 248, con la morte, risvegliandosi come da un sogno, la seity ritrova se stessa nella sua vera realtà. A questo proposito cita Seneca nelle Lettere morali a Lucilio, 102. Brano che rivela pienamente come di questa realtà vera gli antichi filosofi fossero consapevoli.

P. 249, fa riferimento al secondo corpo o doppio e cita l’esperienza di chi “esce” dal corpo. A questo proposito cfr. Robert A. Monroe, I miei viaggi fuori dal corpo, Padova, MEB, 1994.

P. 252, 253, la realtà è il frutto dell’azione delle seity, dotate di libero arbitrio, coscienza e vita.

P. 255, il mondo reale, studiato dalla fisica, non è regolato da leggi immutabili ma dall’interazione di enti coscienti.

Il mondo delle seity sarebbe un po’ come nella fantasia di Shelley vengono presentate le vite custodite dalla Maga dell’Atlante :


Like one asleep in a green hermitage,

With gentle smiles about its eyelids playing,

And living in its dreams beyond the rage

Of death or life; …

(The Witch of Atlas, LXXI, 611-614)


P. 264, noi siamo coscienza e ciascuno di noi è una parte-intero di Uno, e Uno è dentro ciascuno di noi. Non può esistere una sola coscienza universale, perché ci siamo noi, altri osservatori dell’universo. Le tesi deterministiche che annullano il soggetto e ammettono solo l’oggetto esprimono un chiaro non senso, perché non è possibile conoscenza senza soggetto conoscente.

P. 266, se ho ben capito (e non è detto) quando Faggin dice che la conoscenza di una seity evoluta può esprimersi adeguatamente soltanto con un simbolo vivo come un essere umano, intende dire che essa si incarna in un essere umano, e quando essa raggiunge un livello di conoscenza ancora maggiore si incarna o incorpora ad esempio nel nostro pianeta. Allora questo significa che tutto è vivente e animato, dal più piccolo microbo al più grande degli astri, e che i pianeti sono i corpi di seity più evolute di noi, quelle che gli antichi chiamavano “dei”.

P. 266, la vita esiste per dar modo alle seity di conoscere se stesse nell’esperienza di sé, incarnandosi in organismi che sono il frutto della conoscenza sinora raggiunta dalle seity. E questo incarnarsi in organismi per la conoscenza prosegue all’infinito.

P. 271, mentre la seity elabora il significato, il computer opera solo sui simboli e, non avendo coscienza, non comprende alcun significato. Quindi l’IA non può essere neppure creativa, nel senso di creare idee nuove, per quanto i suoi risultati possano essere per noi stupefacenti. Ma, si badi, stupefacenti per la nostra coscienza che comprende il significato, non per l’IA, che non comprende nulla.

P. 272, ci si avvicina forse alla filosofia Sankhya indiana. Le seity, utilizzando i simboli della fisica classica ma ricorrendo nel contempo al simbolo dinamico della fisica quantistica, hanno creato le cellule e hanno quindi dato il via alla vita sulla terra. Dal punto di vista filosofico siamo nello gnosticismo, nell’esoterismo, nell’ermetismo, insomma siamo alle soglie di una rivoluzione totale nel pensiero. La magia celebra la sua vittoria sulla scienza!

P. 280, la matematica e la fisica classica non sono in grado di descrivere tutto il vivente, esiste una interiorità della coscienza che si sottrae a qualunque indagine razionale. Inoltre l’universo quantistico è assai più vasto di quello prospettato dalla fisica classica e non è conoscibile razionalmente.

P. 282, si celebra la musica come linguaggio diretto dell’anima e universale, come Schopenhauer l’aveva considerato la immediata espressione della Voluntas.

P. 288, le seity, mosse dal bisogno di capire l’esistenza della riproduzione con cui loro stesse sono state create dall’Uno, hanno adoperato il loro linguaggio costituito da simboli vivi per creare simboli in grado di autoriprodursi. L’essere umano, mosso da pari curiosità, ha creato le macchine, ma bisogna notare che esso è una seity incarnata. L’uomo nella sua esteriorità è un simbolo vivo, mosso dalla coscienza dell’anima, cioè da quella che Faggin chiama seity.

P. 294, quando Faggin afferma che siamo un insieme di cuore, testa e pancia, e afferma che bisogna armonizzare questi membri del corpo perché ognuno di essi è sede di una facoltà particolare, il cervello del ragionamento e dell’intelletto, il cuore dei sentimenti, la pancia degli impulsi, egli non fa altro che tradurre l’insegnamento platonico presente fra l’altro nella Repubblica, libro IV. Platone parla di tre facoltà dell’anima umana, o tre anime addirittura, l’elemento razionale, l’irascibile e l’appetitivo. Come si può notare, il fisico non aggiunge granché a quanto già detto dal filosofo.


Leibniz e Faggin


Quando Leibniz afferma che i cambiamenti naturali delle Monadi derivano da un principio interno, viene richiamato da Faggin che intende le seity come portatrici di qualità in costante mutamento dovuto all’esperienza cognitiva, ma questa esperienza non aggiunge o toglie nulla alle seity in quanto esse, parti del Tutto, contengono però il Tutto, come dice anche Leibniz. Data la totalità presente nella Monade, essa attraversa una pluralità di affezioni o di stati o di percezioni. La corrispondenza nella fisica quantistica o nuova metafisica ai vari stati quantistici e ai campi è evidente.

Leibniz inoltre pone l’esempio di una macchina gigantesca apparentemente pensante e senziente, come una sorta di robot. Se, dice Leibniz, vi entriamo dentro, noteremo che, a parte i meccanismi, non vi è nulla che giustifichi la presenza di una coscienza pensante o senziente. Dunque è solo nella sostanza semplice, dove è presente il Tutto, che va cercata la ragione della percezione. Il corpo, la materia, non è altro che uno strumento apparente.

Nella Monadologia (1714) il filosofo tedesco distingue tra la Monade nuda e la Monade razionale o spirito. Gli esseri umani corrispondono a quest’ultima, mentre gli animali sono dotati di anime che percepiscono e hanno memoria, ma sono privi di ragione. Le Monadi semplici poi sono al di sotto di queste, nella gerarchia, e corrispondono a esseri inferiori, come i vegetali, privi di una percezione distinta.

Sebbene consideri Leibniz un meccanicista anche Bergson estende a tutto il vivente l’anelito della Coscienza, non riservando l’anima al solo genere umano (cfr. p. 250 dell’Evoluzione creatrice). Però Bergson contesta a Leibniz come a tutti i filosofi sistematici l’aver inquadrato tutta la realtà visibile ed invisibile in uno schema di logica umana. La Divinità di Leibniz ad esempio opera sulla base di una logica rigorosa che però è pur sempre la logica dell’uomo. E anche Faggin, a mio parere, tende a misurare l’operato della Divinità sul modello della mente umana.

Quando Leibniz parla dell’armonia universale, dice quanto ripetuto da Faggin e cioè che ogni sostanza semplice o monade è specchio vivente e perpetuo dell’universo, questo infatti significa che le parti contengono il Tutto, come afferma il fisico italiano a p. 138.

Leibniz afferma che le monadi rispecchiano in sé tutto l’esistente e che tutto è pieno, perché il vuoto non esiste. Queste dichiarazioni sono riprese da Faggin nella sua esposizione della fisica quantistica e del vuoto quantistico. Infatti se si legge l’opera di Leibniz dopo aver letto il libro di Faggin si è come pervasi dalla sensazione che la fisica quantistica fosse già nota al filosofo tedesco. Quando Faggin ci mostra che ogni cellula del corpo è come un altro corpo in miniatura, ma che ogni componente di un computer non è a sua volta un minicomputer, così Leibniz aveva affermato che ogni macchina costruita dall’uomo non è una macchina anche in ciascuna sua parte, ma le sue componenti hanno caratteristiche del tutto diverse dall’insieme, mentre i corpi naturali sono macchine viventi anche nelle loro infime parti. E questo accade perché ogni porzione della materia è suddivisibile all’infinito e ogni minima particella esprime da sé tutto l’universo.

Per quanto riguarda la concezione della materia sia Leibniz che Faggin, ma anche Bergson, ritengono che essa sia un fluire in cui le parti entrano ed escono continuamente e così anche i nostri corpi non sono mai in ogni momento gli stessi.