La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica,
sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se
stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella disperazione
placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l’uomo, perduta ogni speranza di
felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le
circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il
tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione,
sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616. fine,
617. principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della
filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de’ tempi moderni. Ed
ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un
certo grado d’ingegno e di sentimento, fatta che ha l’esperienza del mondo, e
in particolare poi tutti quelli ch’essendo tali, e giunti a un’età matura, sono
sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla
disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi
alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima
disperazione è l’odio di se stesso, (perchè resta ancora all’uomo tanta forza
di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose. Della seconda,
la noncuranza e il disprezzo e l’indifferenza verso le cose; verso se stesso un
certo languido amore (perchè l’uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza
di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non
porta l’uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le
cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell’animo,
e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec. insomma le
passioni e gli affetti d’ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e
lunga pressione, quasi tutta l’elasticità delle [620]molle e forze dell’anima.
Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato
presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già
per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l’opposto, ma
per una timidità derivata dall’esperienza delle sciagure, la quale porta l’uomo
a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o
sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l’animo suo finalmente
s’è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è pieno oggidì di
disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi
quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere quanto debba
guadagnare l’attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando
tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono
incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6. Feb. 1821.)
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