Il conte aveva deciso di
festeggiare il compleanno di Misandra. Aveva così organizzato un
grande ricevimento e dato ordine di non badare a spese e di allestire
in tutto l’edificio un apparato magnifico e sontuoso.
Pareva che una strana
frenesìa lo possedesse di scialacquare le sue ultime sostanze. In
effetti la villa sembrava invasa dal corteo di Bacco e la musica
delle danze risuonava entro le mura e fuori del giardino si effondeva
sul mare e sovra la selva addormentata.
Le luci delle finestre e
dei lampioni erano i fuochi notturni di misteriosi riti e solo l’alta
luna assisteva conscia e indifferente, pallida del suo statuario
pallore.
Mauro s’aggirava
sbigottito tra la folla che aveva invaso il palazzo solitario e che
rumoreggiava fastidiosamente tra le volte agili del salone e correva
dietro chimere amorose nei viali del parco.
La musica di Strauss,
banalissima, accompagnava quella frenesìa di godimento, che
s’inebetiva di champagne e di pasticcini.
Mauro trascorreva nel
fiume ignoto delle chiacchiere, delle occhiate, delle risa convulse,
delle barzellette, delle maldicenze, tra quella moltitudine
congestionata, dallo sguardo scintillante e dalle pupille spalancate.
Passava come una foglia
secca sull’acqua torbida d’un torrente, ignaro e ignorato,
anonimo. Gli altri non lo notavano infatti, lo sfioravano, gli
ostacolavano la via, gliela tagliavano e per poco non lo urtavano,
quasi che egli non esistesse neppure.
Egli allora s’affacciò
alla finestra e guardò nel giardino.
Al centro di esso
un’antica fontana di marmo, segnata dal tempo, lasciava scaturire
il suo mormorìo diffuso all’intorno quasi una melodia misteriosa e
leggiadra, come la veste fluttuante d’una ninfa che corresse a
celarsi nei boschi profondi. Attorno al bacino marmoreo crescevano
piante diverse, dalle foglie gigantesche e dai fiori magnifici e
sontuosi. C’era un arbusto, in un vaso d’alabastro, che offriva
alla vista una profusione di fiori purpurei e pareva scintillare d’un
alone di magici raggi. Tutto il suolo era coverto di rami e di
foglie, di erbe sconosciute e floride e ridenti in un intrico di
fogliame lussureggiante.
E allora scorse Misandra.
Camminava lentamente nel giardino, accarezzando con la veste
sollevata dal venticello le piante e i fiori. Tra i rami degli alberi
la sua capigliatura era una fronda copiosa e scintillante che
ondeggiava al respiro della primavera. La sua gonna scarlatta si
confondeva coi cespugli delle rose rampicanti e poi ella appariva a
mezzo busto fra l’orgoglio delle ortensie, come ninfa in una
visione di poeta.
Allora veramente pensò
d’essere giunto in un mondo meraviglioso e incantato, che la sua
fantasia aveva sempre evocato nei lunghi momenti d’ozio degli
inverni trascorsi. Fioriva la primavera e rinasceva quel mondo.
Prima di concedersi ai
molti, Misandra aveva intrattenuto i più intimi. Ella, seduta
innanzi al caminetto, aveva letto il racconto di Eichendorff, e aveva
così creato un’atmosfera di malìa indicibile. Un brivido, in
verità, aveva attraversato Mauro. Egli aveva riconosciuto la
singolare somiglianza del suo destino con il personaggio di Raimondo.
“ Perduto, tutto è
perduto ! “ Ripeteva anch’egli a se stesso. In effetti anche per
lui gli anni della giovinezza erano trascorsi velocemente come in un
oscuro sogno.
E allora lo invase un
senso di infelicità profonda, irrevocabile, senza appello, la
sensazione che la vita fosse per lui un buio carcere, ove dovesse
trascorrere un’esistenza priva di luce, priva di gioia. Lo catturò
un sentimento di solitudine senza conforto, di abbandono. E come
Misandra l’aveva respinto a suo tempo, così lo respingeva per
sempre la vita.
Ma egli comprendeva anche
che il volto impassibile di Misandra, i suoi celesti occhi quali
gelide acque d’oceano, fissandolo mentre ella raccontava,
simboleggiavano per lui la vita stessa. Parevano dirgli : “ Non sai
che l’esistenza stessa è abbandono, desolazione e rovina ? Non sai
che Amore si compiace del tormento e che il desiderio è una tabe
infame ? Ma che speri, che hai sperato ? Illuso ! La felicità non
esiste e l’uomo che la cerca piangerà le lacrime amare della
disperazione. “
La vita fuggiva. Dalla
finestra egli scorgeva i raggi che attraversavano i rami degli
alberi, nel giardino pervaso dalla luce stanca del crepuscolo. E un
lembo di piana marina, calmo e desolato, taceva presso gli scogli
dell’alto dorso del promontorio oscuro.
La vita fuggiva. Insieme
al mormorìo delle piante vetuste nella brezza leggera che di quando
in quando faceva tremolare le foglie, anche nel suo cuore sentiva
risonare un murmure roco, quasi un’eco del sordo flusso del sangue.
Correvano gli attimi via assieme alla luce sempre più fievole e si
sperdevano le foglie trascinate dal respiro notturno, via.
Eppure egli provava
inesplicabilmente, proprio nell’attimo stesso in cui coglieva la
vanità delle vanità, provava un senso di pace, un invito certo alla
quiete notturna, eppure non al semplice sonno. Era un conforto,
quasi, quel pensiero vago che gli si formava nella mente; proprio
all’annuncio della morte del giorno nella corsa del tempo che non
ha requie, avvertiva la presenza dell’eterno.
E udì una musica fluire
tenue nella stanza ed empirla con la sua malìa. Misandra suonava al
pianoforte alcuni brani dal concerto n. 21 di Mozart.
E lo prese una dolce
sensazione d’abbandono. Gli pareva che la sua intima essenza
unendosi a quelle note incantate si dissolvesse in onde trasparenti e
fugaci fantasmi, o nei vortici di fumo dei sigari, accesi dal conte e
da qualche ospite. Gli pareva di fuggire e di perdersi nei meandri
della memoria o nei labirinti del desiderio d’un tempo. E come
scorse la luna nella vasta notte, sola nel mare delle tenebre, lo
morse la consapevolezza amara della propria solitudine senza rimedio,
della disperazione del suo amore proibito e negato sin dalla nascita.
Il suo volto s’irrigidì,
non volle esprimere più alcun sentimento.
E, come un tempo, amare
lacrime salirono dal profondo del cuore. Amare lacrime come un tempo,
quando, nell’estate dopo l’ultimo anno di liceo, sgomento innanzi
al vuoto del futuro e al deserto del passato, mentre se ne stava,
momentaneamente ospite, nella villa di Misandra, seduto sopra un
divano a baldacchino posto nel mezzo del giardino rigoglioso, amare
lacrime aveva trattenuto a stento, colpito da un senso d’abbandono
senza pari, di desolazione senza rimedio, reggendo tra le mani il
volume dell’oscuro irlandese, che aveva voluto rinnovare le
peripezie d’Ulisse. E, come allora, la memoria tenera e lenta lo
pervase del suo languore, lo adagiò nel vago sognare un sogno
lontano.
E la melodìa interiore,
figlia della rimembranza di molte musiche più volte ascoltate con
rapimento ed estasi, lo condusse verso gli anni della sua prima
giovinezza, quando, nell’atmosfera di una biblioteca, leggeva libri
di poesie, avvolto dalla luce violacea e sensuale della sera che si
faceva innanzi, speranza tentatrice, quasi un miraggio di donna,
sorridente nell’ombra.
Il convito notturno iniziò
tra lo scintillìo dei vassoi e le portate rigogliose e variegate
come fioriture.
Mentre i commensali
bevevano e mangiavano con ostentazione di gaudio, meccanicamente,
Mauro osservava Misandra, la quale sorseggiava a tratti, pigramente,
il vino rosso nel calice. Oh, ella beveva il sangue della vita ! Così
gli pareva, che quella bevanda fosse sangue, scaturito con forza
dalle vene aperte, caldo sangue. E le sue labbra violacee lo bevevano
con lentezza, lo assaporavano con una voluttà amara, crudele. Gli
angoli delle labbra erano appena convessi, gli angoli esterni delle
palpebre, ma solo per un istante, aggrinzivano appena. Gli occhi
grandi irradiavano una luce febbrile, le pupille erano un cielo
accecante. Ella arcuava un poco la nuca, sì che i capelli cadevano
sulle spalle, risaltanti dalla scollatura dell’abito, con un’onda
di color cupo, scintillante alla luce dei candelabri in fili d’oro,
quali sul mare crespo i raggi già declinanti dell’astro fuggente.
I suoi occhi, le sue
labbra, i suoi capelli fluttuanti risaltavano inebriando sulla veste
rossa, dall’ampia scollatura, una veste come una fiamma che
l’avvolgesse, ne annunziava i lineamenti e il disegno mirabile
della figura elegante, nobile, maestosa.
Il silenzio, fuori, si
stendeva sconfinato sulle colline selvose, mescendosi agli
impenetrabili brani di tenebra nel folto delle valli,
nell’insondabile buio del mare. Era un’orda brulicante di lupi
famelici, un’onda baluginante d’occhi crudeli.
Avesse potuto cogliere in
quel momento il mistero profondo della luna pallida e lucente sul
mare come una regina sovra il suo magico trono, cosciente di tutti
gli incanti ch’effonde sopra le onde nere, e rappresentarne la
malìa da pittore scaltrito ad ogni sfumatura. Avesse potuto cogliere
il bagliore dei suoi occhi e chiuderlo come una gemma in un castone
prezioso e sentire fra le dita la fragranza dei capelli e avere le
tempie ebbre del loro profumo !
Mentre il convito si
quietava e s’allontanavano i commensali in un’altra stanza e la
penombra si stendeva sovra il mobilio non più lucente, egli si
dileguava, percorreva il lungo corridoio, fuggiva nell’ombra e
intorno a lui turbinavano i lumi dei candelabri, egli s’immergeva
nella notte oscura.
Richiamato da un canto
lontano, dal canto malinconico della luna alta nel cielo, si
precipitava nei viali del giardino invaso dalla brezza, respirava
profondamente, ansimava, guardava le stelle, estatico e atterrito.
E il canto lunare era
sempre più forte, stringeva il suo cuore, lo avvolgeva nella
spirale. Ah, non finiva, non finiva mai !
Come il fluido sonoro
delle danze, percepito in lontananza, lo attrasse, egli inviò se
stesso colà, ove meno avrebbe voluto, e s’immise nella luce
dolciastra.
Mauro le si avvicinò
lentamente, mentre la musica da ballo si diffondeva sempre più
imperiosa, e, senza quasi ch’ella se ne accorgesse, le prese la
mano e la strinse nella sua con forza. Ella non si mosse, stupita, e
pervasa dal fluido invisibile del desiderio, ma poi, vinta dal dolore
della stretta che si faceva a poco a poco più intensa, ritrasse il
braccio con lievissimo disappunto, che soltanto si percepiva dallo
sguardo smarrito, e volse a Mauro un’occhiata interrogativa, colma
di dubbi e di domande senza risposta.
E mentre la musica intorno
vibrava, volteggiava nell’aria calda della festa, il pendolo
ondeggiava scandendo il ritmo del tempo e le ore procedevano senza
indugio verso la fine. Come un esercito inesorabile le ore
avanzavano, parevano circondare gli ospiti, ormai impauriti, li
assalivano, li coglievano alla gola col cappio invisibile.
Momentaneamente ammutolì l’orchestrina e la musica vanì
vaporosamente nel fumo delle candele. Le gambe divennero di pietra e
il tempo parve fermarsi.
Oltre l’ampia vetrata,
lievemente socchiusa, la grande sagoma nera del mare rumoreggiava
contro la scogliera. S’avviluppavano le onde e a tratti scorgevasi
la cresta spumosa al bagliore della luce lunare come di prodigiosi
cavalli neri dalla bianca criniera. Rollava, rombava, rampava e si
tendeva sul lido con le sue spire, friggeva la spuma sulla sabbia e
succhiata svaniva, smuovendo crepitanti i granelli quasi scintille.
Sulla collina, a destra
del lido, cerea al lucore notturno, come una statua di nudo marmo,
posava l’antica abbazia cinta da resti di un borgo, come spezzate
vertebre accanto a lunghe ossa eburnee. Sagome oscillanti di fusti
nati sulle rovine si stagliavano sulle mura quasi un teatro d’ombre.
Ma sulla sommità d’un torrione una cupola ingannava a quella luce
e sembrava un gigantesco teschio che volgesse il suo ghigno ai vivi,
ancora immersi nell’illusione.
E fu allora che il cumulo
delle ansie nell’animo suo precipitò entro di lui come un masso
improvvisamente staccatosi dalla rupe, il male nero lo soffocò e i
suoi occhi si gonfiarono quasi offesi da un fumo denso e maligno.
Voleva liberarsene e non poteva. La maledizione del suo essere lo
schiacciava, lo distruggeva. Il male innato pareva invincibile.
Si volse e pose attenzione
alla ripresa della danza. La sala era tutta un seguito di vortici.
Dame e cavalieri, cavalieri e dame; ma non erano dame, erano idoli
dorati, scintillanti di gemme e di seta e pure innalzate sull’altare,
anzi sul trono. Dominavano la scena e gli altri erano dominati. Sul
loro viso non si scorgeva che un solo pensiero, desiderio e
sentimento : dominare e stringere nelle spire del possesso. Erano
dame ? Non erano neppure donne, in verità. Il volto era duro,
tirato, segnato da rughe premature, legnoso. Il profilo marcato, gli
occhi scintillanti e maligni, la bocca amara. Pareva che al lembo
della loro veste fluttuante nel movimento fossero aggrappate, anzi
agganciate le male grazie in uno strascico di pervertita bramosìa e
di livore, frutto dell’invidia. Il loro anelito, nel sollevarsi dei
petti, emanava un efflusso malsano, che stordiva. I cavalieri,
allucinati, parevano girare su se stessi come trottole.
Ed egli guardò di nuovo
verso la finestra.
Fuori non s’udiva più
il minimo rumore. Non era altro che buio. Niente altro. Il nulla.
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