martedì 9 settembre 2025

Eustasia

 

Il tuo sguardo profondo come un vortice

saetta ancora adesso prima

dei fulmini della tempesta, ora in questo

pomeriggio allucinato e cupo d’ombre

nebulose. Ma l’anima abbandonata giace

nella desolante certezza. Ogni fede

pare svanire nel finire senza sole

del giorno. Quale illusione può colmare

la visione degli anni tramontati ?

La vita è piena di mistero, la via

si dirama e si volge altrove,

non ho mai saputo dove,

ma non mai come si spera.


mercoledì 3 settembre 2025

Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia

 


Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, Milano, Adelphi, 2004



Il primo racconto “L’altro” è una variazione sullo stesso tema che ispirò Papini nel racconto “Due immagini in una vasca” de Il tragico quotidiano e il pilota cieco, per confessione dello stesso Borges. Si tratta dell’autore ormai anziano che incontra il suo “doppio” più giovane, in un punto di incontro tra passato e futuro.

Il seguito dell’opera rivela un puro gusto di narrare fine a se stesso, senza inseguire particolari tesi, una narrazione intessuta di riferimenti dotti talvolta o allusivi, ma sempre frutto della immaginazione feconda dell’autore.

P. 45, il racconto alla maniera di Lovecraft “There are more things” testimonia con il finale lasciato in sospeso la capacità di Borges di adattarsi a tutti gli stili e a tutti i generi con la duttilità dell’erudito dalle letture sterminate e del letterato raffinato e a volte stravagante.

P. 68, il racconto “UNDR” è decisamente enigmatico, gioca sull’infinita possibilità di significato delle parole e perciò idoleggia l’unica parola dai sensi infiniti.

P. 98, il titolo della raccolta è dato da un racconto che appunto s’intitola “Il libro di sabbia” ed è incentrato su un volume misterioso dalle pagine infinite che si generano l’una dall’altra al solo sfogliarlo. Per chi accidentalmente ne è venuto in possesso ciò costituisce un vero incubo, tanto da spingerlo ad abbandonare il mostruoso oggetto nei sotterranei di una biblioteca pubblica.

P. 109, in “Venticinque agosto 1983” viene ripreso il tema del doppio che è anche nel primo racconto, influenzato dalla lettura di Papini. In genere trovo una certa affinità tra Papini e Borges, entrambi hanno a base del loro narrare un interrogativo esistenziale, un problema filosofico, una posizione metafisica.


giovedì 28 agosto 2025

Giovanni Papini, Il tragico quotidiano e il pilota cieco

 


Giovanni Papini, Il tragico quotidiano e il pilota cieco, Firenze, Vallecchi, 1920



L’uomo che non poté essere imperatore


Stile allocutivo in questo racconto in cui lo scrittore si rivolge a un ipotetico lettore, che ha specularmente le sue stesse caratteristiche psicologiche. L’impossibilità di realizzare la propria esistenza secondo la propria volontà fa dell’uomo ambizioso un pensatore, un filosofo metafisico, un sognatore insomma. L’attività intellettuale come conseguenza del fallimento nell’azione : il filosofo come uomo politico fallito, un antieroe, un décadent, secondo una visione molto nietzscheana.



I consigli di Amleto


Stile allocutivo si è detto, ma qui rasenta un tono da comizio elettorale. Ed è qui il difetto principale di Papini (che osa rimproverare a D’Annunzio !), quello cioè di giocare con le parole in un crescendo retorico e ripetitivo degli stessi concetti. Ciò non toglie nulla però all’abilità e duttilità della scrittura che è quella di uno spirito originale che talvolta esagera in originalità.



Il demonio mi disse


Il narratore incontra uno strano personaggio che si presenta come il demonio e che lo esorta a una morale superomistica (i grandi peccatori non vengono puniti ma esaltati, sono i piccoli e meschini peccatori ad essere puniti). Bisogna mangiare tutti i frutti dell’albero del bene e del male, non solo uno, per diventare Dei !



Il demonio tentato


E’ un discorso paradossale in cui si rimprovera al diavolo di non essere stato un vero nemico della Divinità per non avere distrutto interamente la creazione, ma anzi avere contribuito al cambiamento e alla diversità e quindi alla moltiplicazione degli stati e degli atti, in una incosciente collaborazione con il Creatore. Ciò dicendo il narratore giunge a far piangere di delusione il demonio stesso. Se fosse stato filosofo avrebbe fatto invece in modo da ridurre tutto a un’unica sostanza o al nulla, il che non sarebbe stato granché differente.



La preghiera del palombaro


Qui si rivela il genio di Papini nella rappresentazione quasi leopardiana del genere umano, una massa di disperati che abita tetri tuguri in attesa della morte, illudendosi di poter procrastinare la propria condanna.



Il mendicante di anime


Uno scrittore alla ricerca di argomenti per un racconto che gli farà sbarcare il lunario incontra il suo soggetto preferito : l’uomo comune. Ma la vita di costui, che si fa narrare brevemente, è talmente piatta, banale e scontata nella sua monotonia che egli ne prova orrore. E’ un po’ come la vita di Ivan Iljìc di Tolstoj, una esistenza calma, confortevole, economicamente sicura, ma priva di passione, di slancio vitale, di creatività. Una vita da automa insomma.



Colui che non poté amare


E’ il lamento di Don Giovanni, sempre alla ricerca dell’amore e di una donna che non trova mai, la donna amata appunto. Così è passato di passione in passione di corpo in corpo senza mai appagamento e sincero sentimento. Ormai vecchio si trova solo in compagnia dell’Ebreo Errante a raccontare la propria vita in una birreria. Quest’ultimo cerca di consolarlo esponendo la sua filosofia del cambiamento, che egli ha sempre consapevolmente praticato, ma non riesce a consolare l’amante deluso.



L’ultima visita del gentiluomo malato


Uno strano personaggio, un gentiluomo rinascimentale dall’aria malaticcia, confessa di essere solo un sogno e di essere alla ricerca del suo sognatore per chiedergli di lasciarlo vivere ancora. Poi però cambia idea e vorrebbe sparire per sempre provocando il risveglio del suo creatore. Infine scompare alla vista del narratore.



Lo specchio che fugge


Immaginiamo di fermare per un attimo il tempo e di pietrificare la vita che fugge e conduce gli uomini verso il futuro. Gli uomini resi come statue immobili cominceranno a rendersi conto della miseria del presente senza la prospettiva di un futuro che la riscatta nella speranza del meglio. Ma se si rendessero conto che il futuro diviene presente e a sua volta richiama altro futuro a diventare presente sino alla morte che non ha più futuro, allora capirebbero che la vita è assurda perché la si detesta nel presente per una speranza vana. E l’illusione conduce poi alla morte. La vita è abominevole noia, sofferenza, dolore, male, ma lo specchio che fugge ci fa inseguire una catena di illusorie lusinghe, dietro le quali si apre a inghiottirci il baratro della fine.



Non voglio più essere quello che sono


Discorso rivolto ai lettori di colui che non vuole essere più se stesso, perché sa che non potrà mai non essere se stesso. Già da questa espressione si può notare l’assurdità della pretesa. Inoltre l’aspirante all’alienazione non vuole ricorrere al suicidio per sopprimere il proprio Io, perché questo gli toglierebbe appunto la possibilità di essere un altro. Infine giunge un demonio ad annunciargli che presto sarà accontentato, lasciando un vago odore di incenso nella stanza.



Uomo tra uomini


E’ difficile riconoscere l’uomo del destino. Per la folla egli è uno tra i tanti, uno sconosciuto, un individuo anonimo. Ma basta che si riveli e allora tutti immaginano di averlo incontrato, di averlo visto.



Elegia per ciò che non fu


Il rimpianto del tempo perduto, di ciò che non è stato, ma avrebbe potuto essere. Il protagonista prova rimpianto, e spavento per il vuoto della propria esistenza.



Due immagini in una vasca


(Racconto che ha ispirato Jorge Luis Borges nella novella “L’altro” de Il libro di sabbia).

Un uomo ritorna nella città dove ha vissuto la sua giovinezza. Ritrova i luoghi di un tempo e in un giardino affacciandosi su una vasca d’acqua morta vede due immagini riflesse : il sé di oggi e il sé del passato. Il sé della sua giovinezza ora gli si affianca quale assiduo compagno e all’inizio la sua presenza, pur così ossessiva, è piacevole. In seguito però l’uomo non ne può più e decide di eliminarlo affogando in quella stessa vasca il suo sé giovanile. E’ il solo uomo che viva ancora dopo aver ucciso se stesso.



Storia completamente assurda


Il narratore riceve la visita d’uno strano personaggio, attratto dalla sua fama letteraria. Costui estrae da una valigetta un libro consunto e, chiesto il permesso di poterlo leggere e di poterne ricevere il parere (se positivo l’avrebbe accolto con gioia, se negativo si sarebbe suicidato), comincia la lettura. Il narratore-ascoltatore al suono della voce di quello è sempre più sbalordito sino allo stupore più assoluto. Infatti il soggetto del libro è l’esposizione di tutta la sua vita passata, punto per punto. Fuori di sé decide di eliminare l’incomodo lettore e gli presenta alla fine il suo parere negativo. Quello, uscito di casa insieme a lui, si getta nel fiume. Al mattino il narratore appena desto dal sonno ha come la sensazione di essere morto. Ma è solo una sensazione.



Chi sei ?


E’ la voce narrante di un tale che ha molte relazioni e tra queste un buon numero di epistolari. Ma una mattina non gli giunge nessuna lettera e così le mattine seguenti, passate in tormentosa attesa. Uscito in strada, nessuno dei suoi conoscenti mostra di riconoscerlo, neppure gli abituali avventori del caffè, dove è solito recarsi assai spesso. Sul punto di impazzire ritorna affranto a casa sua. Qui a forza di meditare trasforma la domanda degli altri : “Chi è lei ?” in una domanda più profonda rivolta a se stesso : “Chi sei tu ?”. La riflessione su se stesso lo libera a poco a poco dai legami con gli altri e dai loro pregiudizi. Entra in una fase di consapevolezza che gli restituisce fiducia in sé solo. Quindi ritorna nel mondo e scopre che tutto è tornato come prima della mattina fatale. Finalmente riceve la posta, finalmente gli amici lo riconoscono e gli parlano. E’ ritornato l’uomo noto di un tempo, ma nell’animo ormai è segnato da un senso di irrimediabile solitudine.



Il giorno non restituito


Il narratore riferisce di aver conosciuto un’anziana principessa, un tempo bellissima, ma ora relegata in una villa decadente. Costei lo aveva ricevuto e in segno di amicizia gli aveva confidato di aver prestato molti anni prima un anno della sua vita a un misterioso personaggio. Quest’ultimo le aveva garantito che a sua richiesta le avrebbe restituito nel corso della sua esistenza dei giorni di giovinezza compatibilmente agli anni raccolti da altre nobildonne per mantenere in vita sua figlia ammalata. La principessa ogni tanto si era tolta la voglia di ritornare giovane, ma poi non aveva più tenuto il conto dei giorni spesi e si era trovata a disporre di poco tempo residuo. Ora era disperata perché le rimaneva solo un giorno di gioventù. Il narratore ottiene per quel giorno di esserle amante e quando si reca all’appuntamento trova la principessa morta di dolore alla notizia, recatale per via epistolare, che il suo debitore non poteva momentaneamente restituirle nulla del tempo dovutole e le chiedeva di aspettare (chissà per quanto !).



I muti


Il narratore presenta l’incontro con uno strano personaggio che vuole mostrare agli uomini la loro grande miseria. Costui è ritenuto un maestro di saggezza e, eccentrico com’è, ammette al suo insegnamento solo una volta ogni uomo che desideri riceverlo. Nessuno perciò ha mai avuto a che fare con lui in più di una occasione nella vita. Il suo nome è Ariele (rammenta Shakespeare, La tempesta) e il suo insegnamento consiste nello svelare il fatto che tutta la realtà dell’universo è un infinito discorso interrogativo a cui l’umanità finora non è stata in grado di presentare delle risposte. Per questo motivo gli uomini soffrono, vivono nel dolore, muti e poi muoiono. Ma se sapessero rispondere all’universale domanda un nuovo mondo li attenderebbe, una gioia immensa !



L’orologio fermo alle sette


Interessante svago letterario su un orologio dal meccanismo rotto che segna imperturbabile sempre la stessa ora, le sette. Mentre il tempo scorre inesorabile per gli altri, da quell’orologio è segnato invece l’attimo dell’eternità consegnato ad essa definitivamente. E così il narratore sa che il tempo nel suo giro, nel suo ciclo obbligato ripasserà ogni giorno per quel punto del quadrante, che in quel momento darà l’impressione di essere ancora un meccanismo in funzione, vivo.



Noi tutti abbiamo promesso !


Un tale si rivolge a noi tutti, affermando di essere roso dal rimorso di non ricordare la promessa fatta prima di venire al mondo. La vita è senza senso senza appunto il ricordo di questa promessa fatta nell’interesse dell’umanità. Non si vive per godere, si vive per adempiere alla promessa. Sì certo, ma quale ? Il nostro interlocutore, anzi locutore, non se ne ricorda.



Perché vuoi amarmi ?


Elegia in prosa sul desiderio di amare e di essere amati e sulla impossibilità di realizzarlo. L’amato si chiude all’amore dell’amante, in una ripulsa che sdegna l’insistenza della donna, che non può capirlo, non può unirsi a lui veramente nell’anima. Ma poi prevale il senso e qualsiasi ragionamento sfuma, svaporando nella brama.



Più presto !


Sembra quasi una parodia del mito futurista della velocità e del dinamismo. La vita umana è fatta di troppi momenti di noia e di nulla, potrebbe essere condensata anche in un giorno, purché sia di gloria e poi venga la morte !



Una morte mentale


Parodia della Noluntas di Schopenhauer. Un certo Kressler (cognome allusivo di origine tedesca) mette in pratica la sua teoria del suicidio mentale, secondo la quale è sufficiente per morire non volere più vivere. Egli così semplicemente non agisce, non compie nulla che possa spronarlo a vivere. E così alla fine riesce a morire e a realizzare la sua teoria filosofica.



La zia di tutti


Una zitellona, ritenuta, caso singolare, depositaria di tutta la sapienza matrimoniale, dispensa consigli ai suoi devoti, che pullulano sempre più numerosi in tutto il mondo. Un bel giorno arriva a casa sua una giovane ammiratrice che le reca una strana richiesta : avere un figlio straordinario da un uomo straordinario, s’intende senza sposarsi. La zitellona ci pensa e poi promette. In breve trova il soggetto adatto, un grande scrittore, colto e bello, però ahimè ammogliato. Non fa nulla, va bene lo stesso. L’importante è avere un figlio super. Così la giovane donna un po’ stramba ottiene quanto vuole. Però la moglie di lui, donna di larghe vedute, esige il divorzio e lui, il grand’uomo, si sposa con un’altra donna, non la giovane stramba. Quest’ultima, si ritrova sola con un figlio, cacciata di casa dalla sua famiglia inorridita, ed errabonda di paese in paese. Il bello è che il figlio super tanto super non è, anzi è idiota. Così va il mondo.

La vicenda, che è garantita come vera, mi ricorda la sorte di alcune mie colleghe, che in seguito a matrimoni sfortunati sono divenute femministe sfegatate antipatriarca e adoratrici prone a terra dei loro divini rampolli.



Il suicida sostituto


Un uomo annuncia all’amico di volersi uccidere per amor suo, per sostituirsi a lui che, nell’abbandono dei suoi ideali di un tempo, dovrebbe uccidersi necessariamente. In una sorta di parodia del sacrificio di Cristo, l’aspirante suicida vuole annientarsi per la salvezza, se non dell’umanità, dell’amico che ama più di se stesso. Ma l’amico sorride, scettico. Allora l’aspirante suicida salvatore si dilegua alla sua vista, scomparendo nella nebbia della strada, verso la morte.



Lettere d’amore


Un tale ritrova in fondo a un cassettone un plico di lettere d’amore scrittegli anni prima da una donna innamorata (caso attualmente impensabile !). E invece di ricordare la perduta passione e immergersi nel ricordo nostalgico del passato, calcola il peso del pacco di lettere, il loro costo complessivo, il tipo di carta, l’origine e il costo dei francobolli. E’ infatti assolutamente incapace di essere sentimentale (e in questo prelude alla nostra epoca di esibizionisti del sesso).


Indubbiamente si tratta di una lettura che incuriosisce per la spiccata originalità del testo, il cui tono oscilla tra l’ironico e il grottesco.


mercoledì 20 agosto 2025

Circe

 

Sulla collina nel silenzio del vento

cinta da solitaria selva,

quale rupe selvaggia sovra i dorsi

ombrosi, giace la casa,

lontano in coro lamento di gabbiani.

Ella tesse la tela perenne

di trame auree del sole,

quando un ospite giunge

apre labirinti di melodie eternali.

Non sanno quali meraviglie

nasconda, poi che nel giardino azzurro

ripara lieve nelle virenti aurore

e fiori elegge per il suo mistero.

Invano, straniero, volgeresti

la tua vana parola. Ella è sola,

ode il verde mormorio del mare,

nei suoi pensieri assorta,

e vede ciò che tu non vedi.

Non tentare lusinga, non sia mai

ch’ella attinga ai tuoi pensieri !

Quando è presso il tramonto

la veste sèrica indossa ricamata d’oro

e di marini sorrisi di smeraldo

ed al tardo soggiorno dice addio.

Svanisce allora tra le coltri della notte

e sulle ali della sera attende

a porti un sogno.


sabato 9 agosto 2025

Speranza


Forse la pace della Natura universa

non vede l’uomo nel cielo, non vede

nel respiro del mare, non ode nell’ombra

delle selve sonore e il cuore è colmo

di tempesta. S’arresta allora la vita,

l’animo incupisce, sorgono le tenebre

dell’odio, l’occhio non più s’apre

alla luce, non scorge più di notte

le stelle. Dov’è la via, dove

degli avi l’antico sentiero ?  Ecco

buio intorno, non lume s’avverte

lontano, sospira la selva di lamenti.

Il dolore ci assale e in vano errare

disperatamente. Ma poco basta

alla vita e quando all’alba s’irradia

un sorriso sulle acque serene e i monti,

ti consola una rinata fede e il coro

suadente delle creature arboree e il soffio

dei venti canori tra i mormoranti rami.

Allora tace il tumulto e il volto

in alto s’erge e gli occhi attendono,

finché giù dalle cime e dai tetti

lente calano silenti le ombre. 

domenica 20 luglio 2025

Walter F. Otto, Teofania

 


Walter F. Otto, Teofania (1956), Milano, Adelphi, 2021


Contro l’opinione o meglio i dogmi degli antropologi e degli psicologi Otto ritiene che il mito non scaturisca dalla psiche umana né tanto meno dagli archetipi o dall’inconscio collettivo di Jung, ma dallo stesso essere delle cose, cioè abbia un fondamento ontologico. “Il dio è l’intero essere del mondo a rivelarsi nella sua singola manifestazione” (p. 35). S’intende quindi “il logos universalmente divino” secondo l’ottica di Eraclito (p. 36).

Possiamo accostarci alla coscienza universale di Bergson ?

Tutto rivela la presenza del divino e “l’essere del mondo si compie nel canto” (p. 51).

Nietzsche non comprese la necessità di un dolore eternato e sublimato nel canto (Iliade). In questo Otto si mostra assai più illuminato. Hölderlin si rese invece conto di questo aspetto del divino nel mondo greco, dimostrandosi più perspicace di Nietzsche. In genere Otto ritiene superiori agli studiosi dell’età positivistica i pensatori del Neoclassicismo.

Gli dei, pur essendo lontanissimi e irraggiungibili, sono onnipossenti e intervengono direttamente nelle vicende umane. L’azione eroica dell’uomo è in realtà un atto divino. Infatti la vastità dell’essere coinvolge l’interiorità e umano e divino si compenetrano.

La psicologia moderna che attribuisce tutto agli istinti e al carattere psichico è in realtà frutto della miopia narcisistica propria del nostro tempo. L’individualismo a tutti i livelli è ripudiato da Otto. Così nel rifiutare il libero arbitrio cristiano Otto mostra una grande perspicacia. Il male comunque causato dalla divinità acquista una valenza sublime e nobile in ogni caso e non si cade nella volgarità e nell’oscenità (del diavolo ?).

Insomma la vita è nobilitata dalla presenza degli dei nelle azioni degli uomini. Così la morte è concepita come un transito e i morti sono nature superiori ai viventi. Contro E. Rohde Otto ritiene infatti che la cremazione non fosse dovuta alla paura di un ritorno del morto, ma a un dovere nei confronti del defunto per fargli raggiungere più velocemente l’Ade.

E dunque nell’ottica di questa visione il famoso “senso della terra” di Nietzsche sarebbe da interpretare come il senso del divino sulla terra ossia la terra divina. Il divino è nell’umano, l’antropomorfismo religioso è celebrato da Goethe, visto quale spirito guida della cultura tedesca nella concezione del mondo greco, come innalzamento dell’uomo al divino. Il divino è infatti presente nella vita dell’uomo. Hölderlin poi è stato l’unico a comprendere pienamente il divino e la bellezza come intendevano i Greci.

A p. 106 si ribadisce che il dio è l’intero essere del mondo. Dunque gli dei sarebbero manifestazioni dell’essere. E a p. 114 si avverte l’influsso di Schelling : “soggetto e oggetto sono un tutt’uno”.

Tutto è pieno di dei” secondo il detto di Talete (p. 116) e ogni singola divinità è manifestazione dell’Essere universale. Tutto è manifestazione del divino, ogni essere della Natura, e quindi l’uomo.

Omero soprattutto ed Esiodo hanno elaborato o meglio rivelato la concezione greca del divino come molteplicità nell’unità (di Zeus) (p. 121).

P. 123, come in Colli anche in Otto si sente l’influsso di Nietzsche : “l’unica vita divina, l’unica verità divina dell’essere”. Anche il Così parlò Zarathustra sarebbe da reinterpretare secondo l’intuizione profonda di Otto.

Il carattere filosofico di Otto si può definire “pagano”. Contrappone Plotino ad Agostino, perché il primo ha rinvigorito l’atteggiamento spirituale greco (pagano). Il suo pensiero è radicale e infatti “le realtà del mondo non sono in verità altro che dei” (p. 128). Fra gli dei assume un’importanza particolare Apollo, il dio della conoscenza di sé, il dio di Delfi, l’oracolo la cui funzione non viene considerata secondo le prospettive materialistiche dell’antropologia moderna.

Apollo è il primo grande educatore dell’umanità e la sua natura è musicale. Mentre dunque Nietzsche fa derivare lo spirito della musica da Dioniso, Otto lo fa derivare da Apollo, l’ordinatore del mondo, il sovrano delle forme pure e dell’armonia. In effetti le Muse, da cui la musica, sono al servizio di Apollo.

Nella tragedia greca si realizza l’unificazione dell’elemento dionisiaco e apollineo. La tragedia costituisce una rappresentazione sacra in cui si celebra il culto di Dioniso, il dio della tragedia, la “maschera”. Al dionisiaco corrisponde il canto corale, all’apollineo il dialogo e il monologo. Le due divinità non sono separate, l’uno è il complemento dell’altro a fondamento della religione greca come la luce sta alla tenebra e il cielo all’abisso (p. 173).


mercoledì 9 luglio 2025

Diòniso

 

Come polvere in vortice di vento,

come pioggia dalla nube impetuosa,

quasi polline bottino di api

quale ai fiori il calice colma,

il mio sangue flutto di fiume

fragoroso corra al mare crosciante !

I miei occhi lievi pari a farfalle

si librassero fra ombrose foreste,

reso falco tra le nubi più alte

od incendio furioso nel cielo !

Fossi onda del mare echeggiante

od ulivo per gli storni foresta

o tra i pruni notturna rugiada

o la resina rubea tra i pini

o la polla d’una fonte montana.

Sotto il sole per i rospi palude,

tra le canne di libellule il volo

ed il flauto sovra il lago dei cigni.


domenica 15 giugno 2025

In aenigmate et quasi per speculum

 


De vita tua aeterna certus eram, quamvis eam in aenigmate et quasi per speculum videram; dubitatio tamen omnis de incorruptibili substantia, quod ab illa esset omnis substantia, ablata mihi erat, nec certior de te, sed stabilior in te esse cupiebam.

Augustinus, Confessionum libri XIII, VIII, 1


In tumida fonte cinta di muschio

il riflesso affiora coronato

d’una luce dorata e bizantina,

quale antico mosaico, imbrunito

nelle ombre del tempo, il volto appare.

Il bellissimo viso aureolato

dall’incanto dell’iride maliosa,

un sorriso dell’estasi notturna

nell’abbraccio del dono meduseo.

Bocca delicata, ed occhi languidi

d’amore, ad una candida luce

scintillante visione di dea !

Quale responso fra le fragili onde

si cela, quale celeste annunzio ?

O dea rispondimi ! O tu, dea,

volgiti a me, confida il tuo segreto !

Quando a me in una nube verrai

di passeri fremida d’agili ali ?

In silente notte sotto le stelle

palpiti candido raggio di luna,

quale bellezza cerchi sulle acque

tremanti di pudore ? Quale avorio

di membra ? Forse il tormento insidioso

delle lacrime ti avvolse per sempre

nel suo fascino e il rimpianto ti avvinse

coi suoi sogni impossibili ? Ma non sei

tu stessa un impossibile sogno ?

Fluiscono immagini vane nell’acqua,

un seguito d’inganni, una ridda

di fiottanti larve, cui risponde

la mente vacillante in un oscuro

Tartaro. Ma il destino non è questo

dell’uomo, in alto sorge il Sole, luce

s’effonde alle radici delle selve.

Tutto è luce. A sé chiama il dio.

Tu questo sapevi, tu che ora taci

nel rimpianto.

                       Ma dove le parole ?

Dove se ne vanno vuote di senso ?

Ed oltre le immagini dove pulsa

il tuo cuore ? Volgi il viso d’ambra

al fondo luminoso, il mistero

dov’è del tuo orgoglioso metro ?

L’indicibile modo ti risponde,

ti placa di Bellezza un’infinita

estasi, il culmine del desiderio

s’effonde alle luci, innumerevoli

specchi. Tu cerca la parola sola

che me tutto avvolga come un manto.


giovedì 1 maggio 2025

Giorgio Colli, La natura ama nascondersi

 


Giorgio Colli, La natura ama nascondersi, Milano, Adelphi, 2014


P. 29: “Dioniso da collettivo diventa individuale, anzi veramente divino, oltrepassando nell’abisso noumenico la distinzione gioia-dolore; di fronte a questo abisso il mondo si svela per la prima volta nella sua vera natura fenomenica, che è espressione di interiorità fondamentali.”

Il θυμός, l’interiorità individuale, si esprime nell’adesione al flusso trascinatore di Dioniso in un’adesione gioiosa di esso, prima di piombare nel pessimismo orfico che nega la vita terrena e si rifugia nell’immortalità dell’anima e nel ritualismo dei gesti purificatori che hanno lo scopo di giustificare la vita stessa in funzione di una vita ultraterrena. Direi che Colli è uno dei migliori interpreti di Nietzsche, e soprattutto ha capito che Nietzsche non è materialista né tantomeno positivista, il suo “senso della terra” non è il razionalismo scientifico, ma coincide con l’estasi dionisiaca di fronte alla corrente trascinatrice del vitalismo che supera qualunque trascendenza. Non esiste un al di qua e un al di là, tutto è dovunque.

Bisogna però dire che la visione di Nietzsche ossia la visione dionisiaca del mondo non contraddice quella neoplatonica o gnostica o ermetica. Il De mysteriis di Giamblico, I, 9 riporta : “La luce visibile è un solo continuo, dovunque lo stesso tutto…”. E così anche Bergson non ci raffigura la coscienza che come un interminato flusso.

P. 34, a proposito della decadenza della filosofia all’epoca dei sofisti : “Protagora … si prosterna senza dignità al demos, dichiarando l’eguaglianza degli uomini, parola sacrilega.” E’ chiaro qui l’insegnamento di Nietzsche, ma è anche platonico perché nella Repubblica Platone distingue i vari tipi umani a seconda del predominio di una delle parti dell’anima.

P. 33, nonostante la decadenza del mondo greco, dovuta al razionalismo e che culmina con Aristotele, si ha un breve ritorno all’illuminazione presocratica con Plotino, l’ultimo grande illuminato ed entusiasta. E questo conferma l’osservazione precedente a proposito di p. 29, e cioè che la visione dionisiaca del mondo non contraddice quella neoplatonica ed ermetica.

P. 171, a proposito di Parmenide (la sua interpretazione pare avvicinarsi alla filosofia indiana Sankhya) dice che sembra che il filosofo greco “non si limiti a parlare di un unico essere, ma ammetta parecchi ἐόντα, non bene distinti è vero tra loro, ma neppure fusi in un solo ἐόν.” In questo modo Parmenide ammette una pluralità di essenze.

P. 173, nella sua originale interpretazione Colli ribadisce l’impossibilità di concepire un essere franto nella molteplicità che in quanto tale è illusoria, sia un unico essere limitato, perché ciò presuppone la realtà di un non essere fuori dall’essere, o un altro che l’essere, che però necessariamente sarebbe porre sempre qualcosa, cioè essere.

P. 174 : “Tutto è unità, in quanto ‘è continuo, da qualunque punto io cominci’, e proprio questo persistere identico, moltiplicato in infiniti punti di partenza indifferenti, centri irradianti che impercettibilmente trasmutano, costituisce la variegata molteplicità noumenica. Con ciò la forma espressiva balza d’un tratto intuitivamente concreta, in una sfera riempita di cammini circolari, dove quanto è esterno si riconosce come proprio e identico, e ogni centro di vita riprende ciclicamente a pulsare quando il suo fremito è trascorso per le infinite vie che si aggirano nella pienezza dell’essere.”

P. 199, nella trattazione su Eraclito (ma anche su Parmenide) Colli insiste sempre sull’intervento di una facoltà interiore che illumina l’essenza della realtà e la sottrae all’arbitrio illusorio del soggetto perso nel fenomeno. Ma di che si tratta ? Che cos’è questa facoltà interiore ? Il filosofo ci suggerisce la parola “intuizione”, ma non è essa stessa un’illusione e un arbitrio ? Chi ci garantisce della sua verità ? Chi mi garantisce che la presunta intuizione non sia altro che il volere le cose in un certo modo, un autoinganno, un bendarsi gli occhi e immaginare quello che non è ?

P. 208, il capitolo su Eraclito, pur nella inevitabile complessità dell’esegesi, ci svela l’impostazione di fondo. Colli nell’individuare l’opposizione esistenziale tra esterno ed interno, tra quantità e qualità, tra apparenza ed essenza, va oltre e, come Nietzsche, si immerge nell’abisso caotico dell’indistinto e dell’indicibile, in cui la natura ama nascondersi. Non vi è dunque una ragione ultima delle cose, ma “la vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera : reggimento di un fanciullo”, nel frammento di Eraclito.

P. 217, il cap. su Empedocle è anche, oltre una disamina dell’opera del filosofo, una sorta di celebrazione del potere creativo della poesia : “La poesia diventa fisica e filosofica, e l’intero mondo dell’apparenza è espressione, incatenata nel ferreo ciclo della necessità in cui i motivi poetici compaiono in forme scultorie, in sintetiche parole immutabili, e in cui nel flusso eternamente rinnovantesi del tempo si sgrana la molteplicità indicibilmente fissata al di là di ogni rappresentazione. Una radicale trascendenza viene così ridotta totalmente in termini di vita concreta, plastica, individuata, e il pessimismo che spezza ogni determinazione non si consuma in un tormento distruttore, ma si risolve in un ottimismo più forte, che nell’espressione trova un raddoppiamento della realtà e che ricostituisce al di là della rottura di ogni limite una nuova figura pulsante da contemplarsi.”

P. 223, è avvertibile l’interpretazione in chiave nietzscheana del pensiero di Empedocle o anche in chiave bergsoniana : “… l’essenza noumenica di ogni realtà è il suo impulso vitale invisibile a reagire in quanto la circonda, a congiungere se stessa con il tutto, ritrovandosi fuori di sé …”. Dove è evidente che il noumeno non è un’ipotesi astratta o un’idea iperuranica, ma il principio interiore che si identifica con la coscienza e che si manifesta, si esprime nel mondo della materia, non dunque separato da essa ma forza agente su di essa.

P. 227, nell’interpretazione del pensiero di Empedocle trova sviluppo e compimento l’intuizione originaria di Colli, che egli aveva già manifestato in Apollineo e Dionisiaco, opera della giovinezza. Al di là dell’influsso di Nietzsche qui troviamo una posizione del tutto originale che al limite si potrebbe accostare all’intuizionismo di Bergson : “Al di là di ogni apparenza sta il mondo indicibile del φρονεῖν, dove le determinazioni svaniscono. Nella divina intimità la dispersione si unifica, cade ogni limite di estraneità, si scopre in un distacco inesprimibile la straripante ricchezza seminale, che è abissalmente insita nella molteplicità visibile :

Soltanto un cuore sacro e indicibile sussiste allora,

Che con veloci pensieri si slancia attraverso il mondo intero.”

P. 264, l’analisi del Fedone pone alla luce un’interpretazione del tutto originale del pensiero di Platone e cioè la sua origine e fondamento dionisiaco, nell’isolamento dell’individuo nella propria interiorità irraggiungibile per altri, egli posa la prima pietra dell’edificio filosofico, che non poggia, contrariamente a quanto si crede, sull’astratta razionalità, ma sull’intimità dell’anima e sul mistero indicibile della sua essenza.

P. 271, se Platone non fosse stato poeta non avrebbe elaborato la dottrina delle idee che ha come fondamento una concezione pluralistica della realtà. Avrebbe infatti affermato piuttosto un monismo mistico quale si diffonderà in seguito con i neoplatonici o prima di lui aveva sostenuto Parmenide. Ma : “In quanto poeta, egli è portato ad amare profondamente ogni cosa del mondo che cada sotto i suoi occhi, a scoprire una bellezza in ogni oggetto visibile, a trasfigurare liricamente ogni realtà prosaica.”

P. 288, parlando del Fedro e del mondo iperuranico è da notare il misticismo di Platone che introduce il viaggio dell’anima in uno spazio di pure essenze di cui è partecipe nello slancio dell’eros metafisico, che non è pura razionalità, ma “impulso dell’intima spontaneità primordiale”.

P. 306, l’idea in Platone non è astratta, ma intuitiva, è intuizione e sentimento. Questa è l’interpretazione originalissima del Parmenide, che Colli affronta (forse in chiave nietzscheana ?) affermando che Platone è scettico e propende a negare la possibilità di una conoscenza razionale (p. 303).

Nel cap. X, “Spegnersi di un mondo”, l’analisi di Colli si avvicina sempre più all’intuizione quale fondamento della conoscenza, in un atteggiamento prerazionale che si rifà a Spinoza e Schopenhauer : “Non solo la Critica della ragion pura è anticipata, ma i suoi risultati non sono ritenuti in un certo senso una cosa seria” (p. 317). Il noumeno nel suo isolamento viene accostato al Prajāpati delle Upanishad, a Puruṣa (Uomo Cosmico primordiale), (p. 318, nota 11). Si veda, per la tradizione indiana, Roberto Calasso, L’ardore, 2010.

P. 324, la concezione etico-politica della Repubblica è frutto della decadenza del pensiero platonico così come in genere gli altri suoi scritti politici.


sabato 19 aprile 2025

Honoré de Balzac, La peau de chagrin

 








Honoré de Balzac, La peau de chagrin, Club des libraires de France, riproduzione dell’edizione del 1838, Paris, H. Delloye et Victor Lecou



L’ingresso del giovane alla roulette del Casinò è presentato come una discesa all’inferno da parte di un dannato. Vi è già in Balzac molto di Dostoevskij.

P. 43, il vecchio mercante ebreo mostra al giovane damerino aspirante al suicidio (per aver perso tutte le sue sostanze al gioco) una pelle di zigrino dove è impresso il sigillo di Salomone. E qui viene fuori tutta la mania esoterica del secolo, compediata nella figura e nell’opera di Éliphas Lévi.

P. 58, ecco che leggiamo per la prima volta il nome del protagonista, Raphaël, dopo il suo incontro con i tre compagni di baldoria. E’ ormai uscito dal negozio del mercante ebreo, dove ha potuto avere ragguagli sulla misteriosa pelle di zigrino ed è stato avvertito del suo potere di soddisfare ogni desiderio, ma anche di condurre alla morte ! Pure Raphaël ha accettato di ricevere il dono fatale. La scena seguente del banchetto in casa del milionario riecheggia la “Cena di Trimalchione” del Satyricon di Petronio ed è occasione di trovate davvero comiche e di giochi di parole.

Di seguito, la descrizione delle giovani cortigiane, come ad esempio Aquilina, dimostra una capacità di osservazione e un’esperienza della bellezza femminile davvero notevole.

P. 96, la morale di Euphrasie è quella del marchese de Sade, ella sembra la sorella malvagia di Justine, Juliette. Ma il suo pensiero è quello delle ragazze d’oggi, divertirsi, amoreggiare finché si è giovani, senza mai sottostare al maschio patriarca. Bella prospettiva, se la giovinezza e la bellezza fossero eterne !

P. 120-122, nella confessione di Raphaël a Émile si avverte qualche elemento autobiografico di Balzac oltre a un atteggiamento romantico di rivalsa dell’Io che culmina nell’evocazione di Byron. Si preannuncia il futuro eroe dannunziano. Anche nell’eloquio fluente che contrasta con lo stile tutto azione di Dickens, si sente lo scrittore dandy. Si veda anche la prosa d’un Barbey d’Aurevilly e di Huysmans. Balzac è un maestro di eloquenza.

P. 134, sempre nella lunga confessione di Raphaël apprendiamo che il personaggio era autore d’una Théorie de la volonté, “ce long ouvrage pour lequel j’avais appris les langues orientales, l’anatomie, la physiologie”. Che sia un’eco del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer ? Sembra anche miracolosamente anticipare Bergson !

P. 152, Raphaël continua a narrare e riferisce del suo incontro con la nobile russa, la contessa Foedora, bellissima ed algida, che, pur aprendo la sua casa a tutti gli intellettuali e politici di Parigi, non si concede a nessuno. Costei, informata da Rastignac, riceve nel suo palazzo Raphaël accompagnato appunto da Rastignac, che ha combinato l’incontro. E’ un colpo di fulmine. E la frase pronunciata da Rastignac irretisce definitivamente Raphaël : “Cette femme n’est-elle pas une énigme ?”

Seguono la narrazione della corte che Raphaël fa a Foedora e (p. 166) le schermaglie amorose. Foedora è il tipo classico della femme fatale, che si ritrova generalmente replicata nei romanzi dell’epoca : “Et j’aimais toujours, j’aimais cette femme froide dont le coeur voulait être conquis à tout moment, et qui, en effaçant toujours les promesses de la veille, se produisait le lendemain comme une maîtresse nouvelle” (p. 168).

Il “crescendo” della passione d’amore viene analizzato in tutte le sue sfumature, con eloquenza e grande capacità di introspezione psicologica. Per sostenere il tenore di vita di cortigiano di Foedora, già povero, s’indebita ulteriormente sino a non avere più un soldo. Anche il lavoro di ghost-writer offertogli grazie all’amicizia di Rastignac non è sufficiente.

P. 194, nonostante i sogni, le illusioni e i servigi di Raphaël, che si umilia recandosi in visita da un suo parente ricco per soddisfare a una richiesta di Foedora, la gran dama si dimostra sempre più una donna insensibile, fredda e arida.

P. 200, sempre a corto di quattrini, Raphaël non ha il coraggio di recarsi al Monte di Pietà e cerca soccorso dalla sua pigionante e da sua figlia Pauline, che forse è innamorata di lui. Ma scopre in seguito a un breve colloquio che non è così. Tuttavia Pauline, che ha una forte simpatia per lui, prendendogli la mano gli legge il destino quasi involontariamente e gli dice che la donna ch’egli avesse amato l’avrebbe ucciso.

P. 212. Trascinato dalla folle passione per Foedora, Raphaël s’introduce nel palazzo quando la contessa riceve molti ospiti e penetra in camera sua. Qui si apposta dietro le tende d’una finestra e, quando la donna entra nella stanza, assiste al colloquio tra lei e la cameriera e poi la scorge nella sua splendente nudità. Scopre così dal colloquio con la serva Giustina, che Foedora non ha mai in realtà amato nessuno e scorge chiaramente nella perfezione d’un corpo ancora inviolato la sua verginità. Ma si rende conto, nonostante la vicinanza momentanea, della sua abissale distanza dalla contessa. Infatti nell’incontro che segue con la contessa, in seguito a un appuntamento concessogli nel salotto di lei, Raphaël ha modo di constatare quanto la donna gli sia lontana, avvolta in un manto di inavvicinabile indifferenza. Egli allora in preda alla disperazione promette di allontanarsi definitivamente e di non vederla mai più.

Incontra Rastignac che lo converte a una vita di dissipazione, pari a una lenta morte, ma senza dubbio piacevole. Così si reca a casa dove saluta per l’ultima volta Pauline in una scena commovente quanto scontata. E’ chiaro che ormai di fronte al bivio egli ha scelto la via del vizio e della depravazione. In queste pagine si sente quasi l’eco del futuro Dorian Gray.

Dopo la vincita di una grossa somma al gioco da parte di Rastignac Raphaël ne dispone per la metà e si precipita nell’abisso di una vita dissoluta. Ma non si è liberato di Foedora. Una volta la incontra sulla via ed è ricambiato da uno sguardo beffardo e da una frase di circostanza.

Ormai alla fine del suo racconto-confessione all’amico Émile, Raphaël si ricorda della pelle di zigrino che porta con sé ed è preso da un’improvvisa esaltazione (p. 247). L’esaltazione è dovuta ai litri di vino e liquore ingeriti durante l’orgia notturna. E’ curioso che però ne risenta solo ora, dopo aver profuso un fiume di eloquenza distinta in disquisizioni di ordine morale, osservazioni psicologiche ed esistenziali, contornate da un’avveduta narrazione autobiografica. Balzac ci fa notare che era ubriaco soltanto poco prima di addormentarsi ! L’ampia digressione è dunque terminata, e dopo essere stati informati degli antefatti ora veniamo introdotti, finalmente, alla vicenda vera e propria, che è la giustificazione del titolo del romanzo.

Il mattino dopo l’orgia, nel palazzo del notaio, è lo stesso Taillefer che annuncia dinanzi alla folla dei convitati che si apprestano a fare colazione (p. 254) una favolosa eredità di sei milioni di franchi disposta in favore di Raphaël de Valentin. Nello stesso momento Raphaël misura la pelle di zigrino su un tovagliolo che recava il segno del contorno precedente e nota con terrore che essa si è di molto rimpicciolita. Colto da una strana premonizione sulla brevità della sua vita, egli comincia a rendersi conto che il compimento dei suoi desideri lo porterà alla morte.

Nel capitolo seguente, L’agonie, veniamo a sapere che il marchese Raphaël de Valentin è il proprietario d’uno splendido palazzo a Parigi e conduce vita da viziato milionario, ma è minato nel fisico da un’oscura malattia. E’ dominato dalla tirannia della pelle di zigrino, che, minaccia costante, è appesa dinanzi a lui nella sua camera, e che lo costringe a reprimere, pena la morte, qualunque desiderio. Minato nel fisico, ha tutto, è ricchissimo, ma non può soddisfare neppure il minimo capriccio. Sprofondato in una poltrona, febbricitante, riceve il suo vecchio professore dell’università, il quale resta assai sorpreso di vedere così malridotto il suo giovane allievo.

La pelle di zigrino può aver suggerito a Oscar Wilde il ritratto vivente di Dorian Gray, che si modifica a seconda dei misfatti del protagonista, ma è evidente che, mentre Dorian Gray non risente affatto delle conseguenze dei suoi atti, Raphaël è invece costantemente sotto l’incubo del restringimento della pelle di zigrino, che simboleggia ormai la brevità della sua vita.

La visita dell’anziano professore, che lamenta di essere stato privato della cattedra per motivi politici e gli formula alcune richieste, lo getta in uno stato di alterazione mentale, poiché egli scorge una lieve diminuzione della pelle di zigrino non appena esprime un augurio, rivolgendosi all’ospite. Dopo una terribile crisi si reca al teatro lirico ad assistere alla rappresentazione della Semiramide di Rossini e qui vagando nei corridoi scorge con disappunto uno strano personaggio. Si tratta del mercante che gli ha consegnato la pelle di zigrino e che ha ora i tratti evidenti di Mefistofele, nello sguardo diabolico con il quale gli si rivolge. Costui è accompagnato dalla bella e corrotta Euphrasie che sembra richiamare il povero marchese malato a una vita di dissipazione, da lui ormai aborrita. Subito dopo incontra da lontano lo sguardo perfido e maliardo di Foedora, ma le resiste sdegnandola. Non può però resistere a lungo a un’altra apparizione vicino alla sua loggia. Si tratta di una bellissima donna ammirata da tutti, meno che da lui. Ma dopo poco anch’egli cede e voltandosi, con estrema meraviglia, scorge Pauline, ora trasformata in una dama di eccezionale bellezza (p. 287). Inizia così l’idillio. I due giovani si incontrano nella vecchia mansarda dove abitava da povero Raphaël e si dichiarano a vicenda il proprio amore. E’ una scena commovente che sembra preludere al riscatto morale del protagonista, ma si tratta evidentemente di un’illusione.

Trascorrono un periodo di vita insieme, nella prospettiva del prossimo matrimonio, follemente innamorati e circondati dalla fortuna e dalla ricchezza. Ma il destino è avverso. La pelle di zigrino osservata per caso da Raphaël mostra di essersi di nuovo ristretta e allora il povero giovane, disperato, la getta in un pozzo. Sembra che la persecuzione sia finita e i due giovani si trovano a trascorrere una piacevole mattinata nella serra del giardino, quando il giardiniere reca come oggetto di curiosità al suo padrone la pelle di zigrino ripescata dal pozzo. In preda allo sconforto Raphaël cerca allora un qualche espediente per eluderne la maledizione. Si reca da un celebre naturalista per avere delucidazioni sulla natura del misterioso talismano e in questo incontro Balzac approfitta dell’occasione per fare una satira degli accademici, arrivando alla conclusione che tutta la scienza con la sua prosopopea si riduce a una semplice e vuota nomenclatura.

P. 316, 317, è straordinario, ma l’esposizione delle idee del fisico Planchette sul movimento sembrano anticipare quelle di Bergson nell’Evoluzione creatrice. “Tout est mouvement. La pensée est un mouvement. La nature est établie sur le mouvement.” E Dio stesso in quanto eterno è probabilmente eterno movimento.

Nonostante abbia sottoposto all’esame del fisico, alla prova della pressa idraulica di un ingegnere meccanico e poi ai solventi di un chimico la diabolica pelle di zigrino, questa rimane inalterata come se nulla fosse. Raphaël ormai dispera di poter mutare la propria sorte, segnata dalla condanna.

P. 336, dopo una notte d’amore con Pauline, in cui vibra tutta la passione romantica, il giovane viene colto da una crisi di tosse e stremato appare alla sua amata nella luce sinistra di un malato di tisi.

P. 340, segue un consulto di quattro medici illustri, che costituisce una vera satira dell’arte medica, tanto celebrata e onorata quanto vana. Uno di essi è un giovane amico di Raphaël, gli altri sono maturi professoroni dall’aria saputa. Ognuno esplicita le proprie teorie, ma nessuno prescrive una cura sensata, né riesce tanto meno a comprendere le cause della malattia.

In seguito al consiglio dei medici, Raphaël ricorre alle cure termali, alle acque d’Aix in Savoia. Improvvisamente, senza dare inizio a un nuovo capitolo, lo scrittore ci immerge in un interno d’albergo in alta montagna. L’atteggiamento chiuso e scontroso del protagonista offende gli altri clienti che si affidano alle cure termali e qui Balzac dà un saggio della sua profonda conoscenza della psicologia umana.

Messo ai margini della società termale di aristocratici indifferenti e infastiditi dal suo aspetto di persona gravemente malata, il protagonista si rifugia in profonde riflessioni sulla natura umana, che hanno un esito beffardo quando il medico dello stabilimento termale cerca di allontanarlo con consigli apparentemente benevoli. L’ostilità circostante cresce sino al punto di suscitare contro di lui una lite e un duello. Ma il potere della pelle di zigrino è tale che Raphaël senza neppure mirare con la pistola al suo avversario riesce a colpirlo in pieno petto, dritto al cuore. Naturalmente questo successo gli costa caro. La pelle si riduce alla grandezza di una foglia di quercia.

Quindi, mutando soggiorno, si porta alle Acque del Mont-d’Or. Il meraviglioso panorama alpino e la semplicità dei contadini gli donano un illusorio senso di ritrovata salute, ma si tratta appunto di un’illusione. Intercettando un dialogo tra la montanara che lo ospita e il suo devoto servitore, Raphaël scopre di essere disperatamente malato e senza possibilità di guarigione.

Infatti la sua situazione peggiora in maniera continua e irrimediabile, tanto che, disgustato anche dalle chiacchiere fatte dai suoi ospiti sulla sua condizione, decide di cambiare aria e di tornare a Parigi. Qui trova un plico di lettere inviate dalla sua amata Pauline, all’oscuro del suo peregrinare, ma decide di gettarle nel caminetto. Poi si pente e ne estrae una quasi integra dal fuoco. Si rende così conto dell’amore assoluto e disinteressato della giovane, ma ormai la malattia lo domina completamente.

Decide di sopravvivere dormendo e così sottrarsi al pericolo di concepire nuovi desideri per lui esiziali. Si fa prescrivere degli oppiacei dal medico e cerca di prolungare la sua esistenza quasi nella condizione d’una crisalide. Ma gli eventi contrastano questi tentativi e un ultimo incontro con Pauline, disperata per la sua salute, gli fa formulare il desiderio definitivo e fatale, egli vorrebbe abbracciarla, invaso dalla passione, ma il talismano, ridotto all’estremo, svanisce e così anche la vita di Raphaël, che muore in un gesto folle d’amore.

Il pessimismo di Balzac si manifesta pienamente nella sorte di questo povero personaggio che dall’inizio alla fine è perseguitato da un destino ostile. Pur eccellendo per le sue alte qualità egli sembra punito per la sua umana fragilità di giovane propenso ad amare e avido d’amore. E’ come se l’autore, riconoscendosi in lui, confessasse che ai migliori e ai più degni è negata la felicità, forse perché la sanno riconoscere. L’epilogo sembra confermare questa interpretazione nella contrapposizione dell’ideale figura di Pauline, donna angelo, e della perfida, ma, ahimé, molto comune e concreta Foedora.