Alla finestra della
propria stanza coglieva, con il trapassare del giorno in lunghi lembi
violacei come il sangue del sole, la luce lunare sul volto immobile.
Immaginava che oltre l’orizzonte si fosse scatenata l’orrenda
battaglia degli dei e dei giganti e ne crollasse l’universo, così
come si narrava nei canti barbarici, e il suo cuore si nutriva di una
strana voluttà. Una musica a lui nota sorgeva dalla profondità del
ricordo e fantasie colme di ebbrezza tornavano ad agitarsi nella sua
mente. Ma insieme tutta la massa delle memorie arrivava, ahimé, non
perdute, e lo circondava con volti noti e misteriosi.
Intuiva l’abisso della
coscienza, e che affacciarsi sul baratro significasse sfidare
temerariamente le proprie forze.
La folta vegetazione del
giardino era mossa dai sussulti di un vento caldo. Un greve sentore,
un torpore sconosciuto proveniva dal fondo del groviglio silvestre.
Un luminoso colibrì dal
piccolo capo smeraldino, dall’ali rubre, dalla pettorina turchese
sortì dal suo letto di fiori. Quale trillo di sonagliere che
preannunzi l’arrivo d’un personaggio atteso ma sconosciuto,
lampeggiò il vivace volo, un rapido raggio che traversa l’aria
frizzante nell’aurora.
Il vento dolcemente
spirava sommuovendo sulla nuca d’un biondo cavaliere le ricciute
chiome ondeggianti parimente al mantello, che morbidamente ricadeva
sui fianchi lucenti del destriero fulvo, il quale fieramente avanzava
in misurata cadenza percotendo il suolo, agile e lieve, ergendo il
collo possente su cui la criniera fluttuava. Il volto del cavaliere
era ombreggiato dal pallore della bruma che s’innalzava nel sorgere
della sera. Il suo sguardo vagava ad una collinetta non lungi dalla
riva del mare, donde si propagava un canto simile al dolce spirare
dell’aurora che risveglia la terra e fa palpitare le onde.
Un’aura senza mutamento
circondava di lucori cristallini il colle rivolto al bruire marino,
alla cui sommità appariva un coro festevole di giovani donne. Un
candido Pègaso aleggiava intorno con le ali dalle penne di fiamma,
che raccoglievano nella trasparenza del finissimo tessuto tutta la
ricchezza ramata dell’ora vespertina, come a protezione d’un
mistero profondo che si celasse al mondo dei molti per rivelarsi nel
risveglio degli eletti.
Un giovane, dalla lunga
chioma bruna e dal corpo puro quale avorio a tratti velato di
tonalità azzurrine, immergeva lo sguardo nell’epilogo oltremarino.
Dalla sua bocca illuminata emanava un canto dolcissimo. Attorno al
suo corpo, pervaso d’un colorito roseo, le Muse danzavano e
libravano le dita sottili sovra antichi strumenti a corda, strani
quali le parole dell’inno. L’astro, come un dio onnipotente che
rinunci al trono di gloria per svanire in un sonno eterno, copriva il
capo innanzi al mondo.
E il mare era ormai
un’immensa distesa oscura, solo riconoscibile dal rantolo roco. Ma
in quel rumore pareva salire una rabbia repressa e avvolgersi in
spire crescenti. E una passione non mai soddisfatta, non mai
consolata si piegava su se stessa, contorcendosi, fremendo,
piangendo, urlando. E i legami del furore s’avvinghiavano in reti
vorticose, inghiottivano ogni speranza nei gorghi lividi, mentre il
vento fischiava, ululava impazzito. Le onde s’aggrovigliavano in
schianti istantanei, un urto stridente di lamine bronzee, che si
scindevano in creste furenti a perdersi nel cupo manto cilestre. Come
mani gigantesche le ondate si volvevano sopra se stesse abbrancando
il vento alla cieca sotto il vano lume delle stelle, mentre le
tenebre velavano ogni elemento mobile e mutevole quale un nero vapore
sul mare insondabile.
Con un suono di dischi
d’argento o di cristalli infranti le onde si schiantavano le une
contro le altre come i rami agitati di un’immensa foresta preda del
turbine. Nere come chiome invase dal fiato furente dell’aria si
levavano e si prolungavano indefinitamente verso l’orizzonte e
verso le rocce del lido s’impennavano caparbie e ostili, lunghi
capelli neri fluttuanti.
Mauro non poteva dormire.
L’angoscia aveva preso il sopravvento. Un’oppressione
insopportabile lo costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi alla
finestra. La aperse e per alcuni istanti respirò profondamente
l’aria balsamica della notte. Poi i suoi occhi s’immersero
nell’oscurità, a contemplare in alto la luce gialla delle stelle e
nel giardino le corolle grigiastre dei fiori, ormai insignificanti.
Udiva il mormorio della fontana nel silenzio profondo e gli pareva
volesse rivelare qualche segreto. Volse lo sguardo intorno, ma il
resto della casa era al buio. Solo una stanza pareva ancora
illuminata. Era la portafinestra della camera di Misandra, che dava
sul balcone. Aveva le tende accostate alle pareti si che poteva
agevolmente scorgersi l’interno. Tra gli armadi neri spiccava il
letto bianco. Due figure v’erano distese, la cui nudità levigata
rifletteva la luce della luna come le morbide corolle dei tulipani o
le curve delicate delle ceramiche colme di fiori.
Ella accolse l’amata tra
le sue braccia e le sfiorò con la punta delle dita la bella schiena
rosea che i raggi della luna accarezzavano. Le ombre giocavano con le
sue dita, lunghe e sottili, e, risalendo alla chioma nera come la
notte, si confondevano coi capelli seguendo il moto fluido delle
mani.
Ella depose un bacio sulla
nuca dell’amata che si adagiava, vinta dal sonno, sui cuscini.
Ergendosi, discese dal letto, nuda e bianca. Era magra e levigata
come marmo vivente. Le lunghe gambe, i fianchi eleganti innalzavano
il ventre sottile e il busto su cui sbocciavano i piccoli fiori
violacei e delicati, un collo candido, l’opale del viso ancora
nella penombra del capo, uno scintillare di pupille mobili. La luce e
l’ombra s’alternavano sul profilo cangiante della sua nudità,
che pareva, nel buio della stanza, essere l’anima furtiva della
notte.
Con rapide movenze
spalancò la finestra. La stanza accolse l’onda carezzevole della
luce lunare. Ella se ne stava in piedi avvolta dai raggi d’argento,
quasi una ninfa del mare che esce dall’acque, per essere scorta dal
pescatore ancora assonnato sovra la barca dondolante sulla
scintillante e violacea distesa. E la sua sagoma si rifletteva nello
specchio della vasca marmorea del giardino sottostante, della fontana
ove l’acqua susurrava in ritmi d’onde nate nel gorgoglìo delle
spume dai getti lattei delle cornucopie. Nel flutto l’immagine sua
s’allungava e si perdeva nel fluido incanto di lire e di flauti,
fondendosi con i fiori delle ninfee e intorno nel profumo delle
piante mormoranti.
Mauro assisteva alla scena
da una finestra di fronte, all’altro lato del chiostro. Ogni cosa
aveva veduto e nulla gli era ormai ignoto. Immobile rimaneva
nell’ombra, come un’insidia. Ed ella, pur non potendo scorgerlo,
guardava proprio verso di lui, insistentemente, sicuramente ignara, e
le sue pupille parevano riflettere i giochi di luce della fontana e
baluginare sinistre fra i vapori della notte.
La luna splendeva alta,
d’una luce fulva, un ampio specchio ovale dov’erano racchiusi i
misteri notturni, che ora venivano svelati, essendosi essa dischiusa
come un grande occhio.
Il disco d’ambra sovra
il mare irradiava l’incantesimo tra la folta vegetazione dei
boschi, serpeggiava la sua malìa fra le fronde scure e palpitanti
del giardino, abbracciando i tronchi, vellicando le foglie,
insinuandosi nei fiori.
Allora gli parve scorgere,
nell’abbraccio delle tenebre, discendere nell’ignota oscurità
una donna, bella ed alta, dal viso triste, come avesse per sempre
perduto un incanto di sogni e di gioia.
Ella sormontava le creste
del mare nel fragore dei venti contrastanti coronata degli astri
sorgenti, e la cupa chioma carica di profumi e di corone di fiori
procombeva sopra il suo corpo argenteo. Era sollevata dall’onda
furiosa, regina delle vie marine e delle vie del cielo, pallida, e
con fredde mani reggeva il papavero rosso dell’oblio, che baciava
con languide labbra. Sotto di lei fluiva l’eterno fiume d’oro,
d’improvviso fiorendo ad un sole occiduo in cerchi roteanti e
barbaglianti quali sfere ignite, crollando in subitanee cascate e
innervandosi in trame e rabeschi e in rinnovate cateratte frementi.
Sotto di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a
fiotti dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla
terra a saziare i ricordi dei morti, a nutrire i campi di grano e
nuove speranze e forze nuove d’esseri avidi d’esistere.
Consapevole del suo potere risuona tumultuante il sacro bosco, e
delle vittime offerte le ceneri vengono sparse sulle terre da arare,
poi che ogni cosa finisce e rinasce nel medesimo modo e dal seme di
vita cresce la morte.
Era l’ultimo giorno,
l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la
riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un
dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute.
Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della
linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine
mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende
la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo
sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si
sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La vita incessante,
tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una
nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli
vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì
l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non
dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di
speranze oltre la morte ?
Sul balcone era buio. La
luce era scomparsa. Mauro uscì dalla stanza. Era inebriato, esaltato
e nel contempo invaso da ignote furie e perciò si diresse
inconsciamente verso il luogo dell’apparizione.
La porta dell’appartamento
di Misandra era stranamente aperta. Entrava, errava per sale
silenziose, il cui soffitto a lacunari era molto alto e l’ambiente
pervaso da un lume vermiglio che svelava le oblunghe finestre gotiche
e finiva sopra i pesanti arazzi che pendevano dalle pareti. Libri e
strumenti a corda e flauti erano sparsi dovunque su cassepanche,
tavoli e savonarole. L’eco dei suoi passi era l’unico rumore a
fargli compagnia. Un grande candelabro era posto sopra un pianoforte.
La luce vagava fra le ombre.
La luce era nell’altra
camera.
Egli entrò, inondato
dalla luce degli specchi, mentre la donna, apparentemente, dormiva
sul grande letto bianco. Si curvò sopra di lei e ascoltò,
avvicinando al suo seno l’orecchio. Non udiva il battito del suo
cuore.
“ Io non sono vivente “
gli parve sentire. Si voltò improvvisamente.
La crisalide lignea era
là, in piedi, e gli sorrideva maligna, identica alla donna distesa e
similmente vestita. Lo guardava fissamente, e i suoi occhi si
muovevano come gli occhi delle bambole meccaniche.
Un’ira inesorabile,
cupa, devastante invase la sua mente in un’improvvisa eclissi del
lume della ragione. Barcollante si diresse verso la porta e corse
via, in preda a un sudore gelido. Le sue pupille si dilatavano nel
buio della notte, egli voleva vedere oltre l’orizzonte della sua
mente, ma era impossibile.
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