Lontano, dormiva, sotto la luce d’un sole divorante, Tebe dalle cento porte.
Le mura e le case biancheggiavano senza un filo d’ombra.
Quasi incandescenti si libravano nell’alto le punte degli obelischi, le torri dei palazzi e dei templi fiammeggiavano come in una fornace.
Il fiume Nilo, quale un pigro serpente, allungava le spire fra le rive ombrose, donde si piegavano sulle acque i palmizi carichi di frutti.
Sullo sfondo s’innalzavano i gioghi delle montagne, mentre dalla parte opposta, verso il deserto, onde di sabbia bronzea si succedevano, le une dietro le altre. Nubi di porpora, un’immane criniera, si allungavano sotto la volta azzurra. Vaporava una polvere d’oro vibrante nell’alito del cielo.
Un labirinto di vie, di portici, di arcate, si smarriva fra tetti piatti, mentre colonne altissime in stile egizio reggevano architravi millenari, e colossi dall’effigie di Ermes Trismegisto e di Anubi dal capo di cane s’ergevano al centro delle piazze.
In grandi serragli elefanti dalle zanne splendenti dondolavano la testa massiccia, e dromedari catturati dai beduini ruminavano flemmaticamente, cavalli bigi e maculati e gazzelle vivaci correvano qua e là nervosamente lungo lo steccato, ed altissime giraffe brucavano le cime dei caprifichi.
Presso la capitale un bosco straordinario, fitto di alti e vasti alberi, ove scorreva una fonte di acqua limpidissima, era stato piantato e curato artificialmente, e presso la fonte era edificata la reggia, non per mano degli uomini, ma certamente dall’arte divina.
Sino dal primo passo al varcar della soglia si poteva arguire che di un qualche nume era quella residenza così fastosa ed amena : soffitti a cassettoni intagliati nel cedro e nell’avorio sostenevano dorate le colonne e le pareti riflettevano in lamine d’argento il volto dei visitatori. Certo una divinità doveva aver profuso tanta ricchezza per dilettare di graziosa scintillazione i propri ozi inenarrabili. Interminabili corridoi conducevano alle stanze segrete, tutti popolati di perle incastonate, come in anelli, nel pavimento e sui lati e nell’acuta volta in cui piroettavano canarini variopinti e canori. Ampi lavacri, nel cui fondo brillavano, smossi talora e sollevati da rossi pesci, mucchi di rubini e lapislazzuli e crisoberilli, erano inseriti al centro di camere lussuose e circolari, il perimetro delle quali era tracciato da letti arcuati dove su tappeti tessuti a mille colori mirabili si adagiavano le più belle schiave dell’Oriente.
Questo palazzo, dovizioso e lussurioso, che avrebbe mandato in estasi il gran re dei Parti, era, sontuoso diletto alla pigrizia, il ricovero di Cleopatra.
Cleopatra d’Egitto discendeva da Tolomeo macedone, figlio di Lagio. Suo padre ebbe nome Dionisio, ma alcuni antichi affermarono che si chiamasse Mineo. Regnò ella grazie alla sua nefanda natura, né fu adorna di virtù alcuna, tranne il pregio della straordinaria bellezza.
Sposata secondo la legge egiziana, in quanto principessa di sangue reale, a suo fratello il faraone Tolomeo, ben presto si volse a tramare contro il proprio marito sino ad una guerra aperta.
Era così l’Egitto in preda alle lotte civili e alle private e pubbliche vendette, quando approdò Giulio Cesare nel porto d’Alessandria. Il duce romano volle dirimere la contesa e ad ambedue ingiunse di presentarsi perché venissero a patti di pace.
Non impressionò Cesare l’aspetto del giovine faraone, ma lo sedusse subito irresistibilmente la regina Cleopatra, coronata delle insegne regali, ammantata delle sue incantevoli forme e delle vesti sfavillanti di gioie, capace cogli occhi di abbattere anche le resistenze del più austero degli asceti. Lo attrasse nella sua lascivia, il dominatore del mondo, con poca fatica, e lo incatenò per molte notti al proprio letto, quando più imperversava il disordine civile. E nell’assiduità degli amplessi concepì un figlio, che dal nome del padre chiamò Cesarione.
E quando il suo secondo amante, Marco Antonio, la incontrò sul fiume Cidno, ella usò ancora più maliose arti per celare la perduta adolescenza e rilevare le lusinghe della donna matura.
L’imbarcazione, che trasportava la sua corte, riluceva come l’aurora o i tramonti sereni sul mare placato, poi che la poppa era d’oro e purpuree le vele e profumate di cinnamomo e di sandalo, e i remi d’argento s’immergevano al ritmo dei flauti e si confondevano quasi con la spuma scintillante e vivace.
Ella era distesa su morbidi cuscini ricamati a fiori e a ghirlande, arabescati di forbite rime di poeti, sotto un baldacchino di drappo dorato, e ai lati ventavano con ampi flabelli due delicati fanciulli ignudi.
Coricata sul ventre, poggiando sui gomiti, sostenendo il volto tra le mani sottili, ella pungeva con lunghi aghi d’oro un cuscino di lino verde.
Stanca per aver troppo dormito, se ne stava sopra il letto disfatto, coperta soltanto dai capelli.
La sua chioma era lucente e profonda, morbida come una pelliccia, fine, interminabile, vivida e profumata. Le copriva la schiena, qua e là lasciando trapelare la pelle rosea, e ondeggiava sino alle ginocchia, in boccoli spessi e vellutati.
Erano strani i suoi capelli, d’un colore caldo, autunnale, come il vello delle volpi o delle foglie morte del sottobosco. Non erano neri e lisci come quelli delle figlie d’Egitto o di Siria o di Palestina.
Erano quasi un prolungamento della capigliatura gli arabeschi delle pareti e del soffitto del talamo regale, verdi, cilestri, cinerei, vermigli e intrecciati talvolta in fiori d’oro di fantastica forma. Un tappeto di pelli di ghepardo copriva interamente il pavimento, donde esalava una musica carezzevole d’artisti premurosi, estasiati al minimo tocco del lieve piede della sovrana.
Ai lati del letto due grandi vasi, opera di ceramisti corinzi, erano colmi di fiori di loto, azzurri gli uni, gli altri d’un roseo incarnato, come le soavi dita della gran dea Iside.
E s’adornò degli anelli e dei bracciali e dei suoi serpenti d’argento, poi al contatto della chioma serica sulla pelle la prese il desiderio di mirarsi. E domandò lo specchio. Temeva di non essere abbastanza bella ?
Esaminando ciascuna delle sue bellezze, avvicinava lo specchio alle parti del corpo, imprimendo la fragranza sull’argento.
Il respiro della pelle aulorosa s’effondeva caldo sul metallo frigido. Considerava il biancore della carne e ne palpava il madore e la morbidezza con i polpastrelli sottili delle dita leggiadre come di musicante. La sua mano scivolò sovra la pienezza dei seni, colmandosi quasi a cogliere. E scivolò verso il ventre plastico, muscoloso.
Uno psittaco innanzi a lei stava su di un tripode. L’indico uccello un poco più piccolo delle colombe, non aveva il loro colore. Infatti non era latteo né livido né screziato, ma verde dalle piume del tronco sino alla punta delle ali, se non che il collo si distingueva. La cervice era ricinta da un circolo minio come un’aurea collana. E ripeteva le parole d’un canto appena appreso, tanto umanamente da apparire, solo ad udirne la voce, veracemente umano. Poi, allo scorgere il lucido casco castano inondantele il bianco collo, il petulante sfoderò alla signora la sua loquela erudita :
“ Per i popoli antichi era assai pregiata la chioma bionda e la rossa. Biondi sono molti dei personaggi delle favole greche : Arianna, Atalanta, Cariclea, Europa, Rodogine, Narciso, Cupido, Fetonte, Antiloco, Giasone, Achille, Menelao, Radamanto, Meleagro. E non solo gli Elleni apprezzarono i biondi, ma gli Ebrei scrissero che era biondo il re Davide e di bell’aspetto e grazioso, e biondo e bello fu il macedone Alessandro, conquistatore del mondo, e bionde furono anche donne famose quali Lucrezia e Aspasia. Omero fa pure biondi i cavalli ed Euripide dice d’Amore :
Ama gli specchi e della chioma i biondeggiamenti,
e altrove scrive :
I biondi ricci della chioma ti componevi allo specchio.
E Teocrito cantando la beltà d’un pastore…”
La regina allora gli versò del vino affinché s’ubriacasse, e mentre il rostro scompariva entro il liquido purpureo, ella levò lo specchio al di sopra del viso ed ammirò gli occhi chiari di malizia, simili a un velluto brunito che rendono fulvo i raggi del mattino inserendosi tra i veli del talamo. I capelli, siccome la fronda d’una selva autunnale, scioglievano i nodi sulle ricche stoffe che giacevano sparse intorno ai suoi fianchi pallidi.
Giunse pertanto l’ora del bagno. Il maestro delle cerimonie si presentò al suo cospetto, prosternandosi. Era un giovane scriba alto, snello, dai lunghi capelli neri, dal volto ovale e olivastro e dagli zigomi prominenti, dalle labbra spesse e scarlatte, dagli occhi a mandorla. Era vestito d’una tunica verde e dalle larghe maniche, quali ampie ali di pipistrello, che s’allungavano sino alle caviglie. I sandali di papiro dorato e ingemmato lasciavano intravedere unghie color cremisi e tra le dita erano, intrecciato lo stelo, fiori di ninfea.
Uscì dunque dalla nave la regina egiziana e, scesa la scaletta d’ebano, si trovò sul molo a mosaico delle sue terme, non distanti dal fiume.
I bagni di Cleopatra erano cinti da vasti giardini colmi di mimose, di limoni odorosi e di piante d’aloe, di pomari di Persia, la cui sensuale freschezza contrastava con l’aridità del circostante deserto; terrazze immense sostenevano giungle inestricabili e innalzavano al cielo piramidi di fiori su giganteschi ripiani di granito rosa. Vasi di marmo pentelico sbocciavano come grandi gigli ai bordi di ciascun ripiano e le piante che contenevano non sembravano altro che i loro pistilli. Alcune chimere vellicate dal cesello dei più abili scultori greci erano mollemente adagiate sul prato variopinto, quali svelte levriere candide su di un tappeto da salotto.
Quattro scalinate di porfido adducevano ad un ampio bacino. Attraverso la trasparenza dell’acqua diamantina si vedevano i gradini discendere sino al fondo ricoverto di sabbia d’oro. Scaturivano come esili ruscelli dalle mammelle di eburnee statue femminili getti d’acqua profumata, che nel bacino ricadeva in rugiada d’argento, le cui gocce picchiettavano lo specchio luminoso. Le rive erano folte d’ombre di salici e di amaranti ed in capaci tripodi traboccavano i datteri e i dolci fichi d’India, e qua e là canneti e papiri dal fusto flessuoso celavano musicanti, come organi misteriosi, diffondendo una musica soave.
Passeggiava ella tra rigogliosi cespi di rose ardenti d’un rosso vivo e sanguigno, quali calici di cristallo traboccanti d’un vino purpureo e generoso, e l’aroma s’effondeva per l’aria limpida inebriando del sapore della giovinezza.
In una aiuola campeggiava il narciso cantato dai poeti. Il fiore dai bianchi petali era coronato al centro d’una corona d’oro. Narra la leggenda che il bel pastore Narciso suscitò i sospiri di tutte le ninfe innamorate. Ma vanamente lo amarono, poi che i suoi occhi miravano oltre gli spazi terrestri.
E un meriggio d’estate, dopo una corsa nella caccia, quando la vampa del solleone bruciava l’arena e riluceva sui tamerischi ed ebriava del profumo del rosmarino, il bel Narciso giunse alla riva d’una fonte tranquilla.
Pari a uno specchio incorniciato di muschi e di giunchiglie il fonte scintillava nel silenzio del giorno generoso. Intorno ligustri e giacinti crescevano, pervasi di freschezza.
Come egli vide il volto riflesso, lucido di sudore dorato, coronato dal fulgore dell’astro all’apice della forza, e mirò gli occhi estatici d’una vita inesausta, quale l’ombra d’inviolate foreste in cui si smarrisce la luce nel labirinto degli alberi, dove cantano e volano di ramo in ramo alati dal piumaggio vario dei colori più seducenti che possono far sognare una mente d’artista, come vide i suoi occhi profondi quali gemme nere, il volto suo impietrì. E l’eterno rimpianto lo colse.
Appena si volse il volto di Cleopatra allo stelo solitario, e poi ch’ella ebbe saziato gli occhi della dovizia delle piante e dei fiori che pullulavano per le aiuole opulente, si diresse verso l’alta reggia sorgente in mezzo al parco, donde partivano i mille rivoli che irrigavano quel giardino di delizie.
L’ora del tramonto più che nelle precedenti metamorfosi del dio lasciava spazio agli estremi disegni della fantasia che già non fossero calati in archi e colonne e architravi e volte e torri a suscitare lo stupore dei più arditi sognatori, quale era appunto la meraviglia di quel palazzo superbo. Così le ombre e le luci circondavano d’un alone di mistero quegli edifici, sottraendo alla vista la capacità di coglierne la fine. Come da una coppa aurea si spargeva purpurea la piena radiosa inondando gli ultimi lembi del mondo. La fiumana sanguinea si confondeva con le ombre dilaganti in un violaceo manto misterioso che avvolgeva le colonne scanalate di marmo candido, le colonne a spirale di porfido, di granito, di malachite reggenti architravi scolpiti a ghirlande, a maschere tragiche e comiche, con figure d’animali favolosi seminascosti da una vegetazione fittizia. Immense cupole viola costellate di stelle argentee annunciavano la sera imminente, mentre già nereggiavano gli obelischi di granito.
Verso occidente agonizzava in un coro sommesso di luci il dardeggiante Apollo, fiottando ardenti gli estremi scintillii sovra le immagini levigate delle ninfe delle fontane, quali vivaci liocorni che ancora invitino al gioco fuggendo nel cupo dei boschi.
La regina si specchiava nell’acqua delle fontane, ove si compiaceva l’ora vespertina di intrecciare capricciosamente i suoi colori d’oro e di rame in ornamenti fugaci. Il viso, aureolato dal tramonto che si perdeva dietro di lei, le appariva nelle acque un’ombra lontana.
Innalzando l’onice delle sue unghie pure, coglievano le dita sottili l’oro morente del vespero, un’urna quasi, che comprendesse le ceneri d’una splendida e favolosa Fenice.
La luna con giochi d’ombra e di luce trasformava le mura, le arcate e le colonne gigantesche del palazzo, che risaltavano nella notte di un blu caldo e chiaro. Le onde del fiume ridevano, argentate dall’astro. Una brezza leggera commuoveva appena il canneto e carezzava i calici del loto. Le imbarcazioni ondeggiavano lentamente presso i pontili e gemevano sommessi i flutti del Nilo.
La regina, seduta su un ampio scanno, fra morbidi cuscini, solo coverta da un diadema e da un cinto tempestato di gioielli, che le fermava un velo leggero sulle anche, volgeva la vista al fiume, sospirando di insoddisfazione e di desiderio.
Oltre le acque confuse da un vapore azzurro si levavano i cumuli sabbiosi del deserto, ondeggiante sotto la luna come un mare bianco.
Nelle oasi giacevano i leoni, e sulle alture della valle dei re i corvi gracchiavano, recando brani di preda al nido. I loro voli neri calavano nelle tenebre, messaggeri di misteriosi riti.
Il suo sogno era prossimo. Aveva bevuto alla presenza di Antonio una coppa d’aceto in cui aveva dissolto la perla che le adornava l’orecchio. Il fasto del banchetto aveva superato gli sperperi e la dissolutezza di Baldassarre, ed ella aveva danzato nell’esaltazione dei profumi arabici, nell’odore salino e dolce della sua pelle fresca di sudore e palpitante e infuocata come un vino della Colchide.
La penombra della sala era stata illuminata dal fulgore della sua danza irresistibile. Sovra i satrapi e gli scribi e i proconsoli aveva imperato la nudità splendida del suo corpo, cui anelava la concupiscenza gravida di tutte le brame e le ossessioni e le dilanianti angosce delle quali si serve la lussuria ad asservire la miseria dei mortali. Percorsa da un manto di seta nera che le volteggiava attorno come ali di nebbie innanzi alla luna, ella aveva trionfato sulle mitre, sulle corone d’alloro, sui turbanti, sulla superbia dei sacerdoti, sull’astuzia dei mercanti, sull’intelligenza dei filosofi, sulla virtù dei guerrieri.
Ed ora all’aria aperta, in un chiarore virginale, torme di passeri saltellavano e svolazzavano a lei intorno, sovra il balcone le cui colonne quali cedri bruni si diramavano in una fronda fantastica di sculture di divinità silvane.
Una fusione delicata, diafana, d’ombra viola ed azzurra il vespero le pingeva sull’epidermide delle palpebre, negli occhi s’illuminava l’iride lionata degli angeli notturni.
Al chiarore lunare, nella landa solitaria estesa come un oceano, si disegnava la sagoma nera degli alberi in un alone giallastro, evanescente. Si protendevano i rami cinerei nell’ansito greve, nel silenzio che li mordeva gelido.
Dalle fattorie remote, disperse nei campi lungo il corso del fiume, alcuni cani, rotte le catene, in preda al furore, rasparono in corsa i seminati, divelti dalla foga degli artigli.
Si adunavano ululando verso le montagne, gigantesche ombre, elevando il muso, gonfiando il collo terribile, effondendo dalle nari rosse l’umido fiato.
Ed ella immaginò di trascorrere nella notte tra loro, quasi dispersa viatrice, una candida figura in un coro di demoni.
Una candida figura in un coro di demoni era ella, indifesa e smarrita nel labirinto, ove di latrati si dilania la solitudine.
Ah, i polmoni bruciano, le tempie battono, la notte precipita negli occhi come un sole.
La luna purpurea ritagliava ombre entro la sua lucentezza per i canneti agitati, cadendo nell’acqua del Nilo come un serpente dalle scaglie vitree.
Ella vide la sua immagine riflessa dallo specchio mormorante.
Il suo corpo, quasi una statua d’ambra, si disegnava pallido a fior d’acqua. I boccioli dei seni contrastavano con il loro smalto rubeo, lievi ombre si prolungavano per il costato. I fianchi liberati del velo si arcuavano e si armonizzavano alla coppa muscolosa del ventre, lucido sotto la fiammella nera dell’ombelico. Una lieve peluria adombrava la vagina fra le forti gambe tornite e sottili verso la caviglia.
I capelli parevano due flutti, due vortici di luce lunare, e si confondevano entro il mistero notturno. Le nari si dilatavano talvolta sovra le labbra mobili e spesse, dove si soffermavano i desideri, e la gola morbida e bianca era un’offerta alle giovani bocche ardenti.
Gli occhi erano profondi e impenetrabili e nel contempo scintillanti e vivaci, cangianti a seconda dello sguardo e dei raggi quale cristallo, ora del colore della savana selvaggia, ora della palude insondabile, ora del verde delle foreste sature di piogge, ora glauchi come l’onda del mare invernale, e incantavano della malia furtiva delle sirene.
Dietro di lei s’innalzavano i gioghi delle montagne, donde provenivano a intervalli bagliori di fiamma. Quasi l’esaltazione resinosa delle foreste di cedri e del lontano confine degli Etiopi le affluiva nel respiro sovra le tarde acque del fiume.
Era forse anch’ella chiamata al banchetto degli dei nella terra degli uomini felici e longevi, per essere onorata quale sacerdotessa di sconosciuti riti ?
Volse il volto verso la siepe che si propagava tra le onde per avvincere i giunchi flessibili, la siepe di rose rosse fragranti di rugiada, i cui petali olezzavano del sentore dei talami sognati, sparsi di essenze arabiche fra tendaggi intessuti di enigmi.
Nubi si addensavano intorno alla luna ignea, portali immensi e fragili sovra contrade che non temono il tempo, e parevano schiudere orizzonti ove i mondi fluttuano in un mare arroventato e crespo donde sgorga incandescente il disco del sole.
Cogliendo la luce da quel celeste spiraglio, il suo viso era appena illuminato, la grande penombra empiva la volta dello spazio come una camera chiusa e buia.
Sull’orlo di baratri nella terra arida dove incombevano le palme, ai confini delle lande sterili, un cavallo eburneo scoteva l’ampia criniera luminosa.
Nitriva innanzi all’abisso, dal quale salivano due luci fulve, maligne.
Un lento ansito roco s’inerpicava su per le rocce, una lunga ombra flessuosa rampava per il dirupato pendio. Un gigantesco leone dalla giuba rovente aperse in un ruggito il rosso morso.
Veniva su dal baratro, cinto della tenebra, i suoi occhi erano incubi in oscuri antri ignoti. I suoi occhi erano quali i cerchi delle febbri che imprigionano in malefiche ossessioni.
Esso balzò sopra il cavallo bianco. Il suo artiglio gli lacerò il dorso candido, e un fiotto di sangue ramificandosi brillò acre e denso per il vello madido di sudore e lucente come marmo.
Si riscosse la bestia possente in un impeto di terrore, i globi degli occhi parvero gemere d’un dolore infinito.
S’innalzò il grido sovra il cielo, quale imprecazione d’un demente senza speranza, che nutra del suo odio tutto l’universo, e l’animale s’inarcò fulmineo, svincolandosi dalla branca uncinata.
Furente per la ferita, aspirò per le froge la vampa amara del deserto e si sentiva invaso entro il cuore da una sofferenza bruciante. La vita si sperdeva quasi tempesta sul mare sterile.
Percosse il suo zoccolo il suolo sollevando nugoli di sabbie, il furore colmò lo spazio echeggiante d’un travolgente galoppo. Pulsarono le ombre del ritmo della corsa come delle pulsazioni d’un cuore teso sino allo spasimo.
Cleopatra giaceva nella sala fra manti d’oro che l’avvolgevano tutta circondandole il capo, come un’aureola. Solo i lunghi capelli ora erano quali flutti su sabbie aurate, sfumati di linee violacee. I suoi occhi posavano immobili su punti remoti e indistinguibili dello spazio celeste, essi riflettevano quasi il respiro di astri sconosciuti.
Ella usciva fra le colonne avvolta nelle onde della veste costellata di scintillazioni, quale il mare nella notte serena, quando risplende dei fuochi delle feste e brulica d’una vita interiore non mai prima svelata, così ella si affidava alla profondità del cielo e lo osservava, come una sirena che guardi su dall’insondata altezza dell’oceano.
Dall’interno della stanza s’udiva la voce del cantore arabo, accompagnata dalla cetra :
“ Il tempo della mia durata è come una visita che io faccio agli uomini,
e chi spera di possedermi a lungo è in errore.
Dovunque sboccia il mio fiore
le mie radici sono bagnate dalla fonte dell’amarezza,
e una corona di spine avvolge il mio stelo.
I loro aghi mi trafiggono
e sprizzano sangue
sui miei petali e li imporporano.
Il mio profumo inebria chi lo respira,
ma
chi mi coglie
soffre la mia condanna,
poi che nessuno
può sottrarsi al tormento
e al dolore.”
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