I
Giunto a quarantasei anni, aveva ormai raggiunto l’acme. Ed era nel pieno della giovinezza e della creatività.
Sovente gli appariva l’immagine d’una montagna assolata durante una gita fatta subito dopo gli studi, molto tempo prima, e aveva la sensazione che il tempo non fosse trascorso, ma fosse sempre quello presente.
E quando osservava da casa sua il panorama tra i due promontori, rivolto verso il mare, rivedeva i sogni passati come i ricami di un ampio manto che coprisse la sua dea, la dea sorta dalle acque e dalla brezza e dalla scorza degli alberi e dal cielo azzurro, dal sole e dalla luna incantatrice.
Aveva, negli anni della prima giovinezza, conosciuto il figlio d’un pittore, un ragazzo ammirato dalle fanciulle per l’avvenenza del portamento, un misto d’introversione e d’arditezza, sì che la sua ritrosia attraeva, quasi un cavaliere misterioso le cui eclatanti imprese sono velate da improvvise fughe in foreste impenetrabili.
E aveva conosciuto un giovane artista, coetaneo di costui, ambedue erano più giovani di alcuni anni, il quale frequentava l’Accademia di Belle Arti ed era entusiasta della filosofia estetica. Egli aveva nella fisionomia, nel contempo forte ed elegante, nella sicurezza e nell’intelligenza dello sguardo, nell’energia che da lui promanava, la sembianza di Leonardo in età novella.
E la memoria lo attraeva nella corrente sinfonica di Bruckner, che lo incantava più di altri, in un viaggio senza meta, in una dolce ondata di malinconia, e alternandosi i momenti di abbandono al vigore, alla forza maestosa che interpretava la lotta incessante, universale, si smarriva in un labirinto, in un mondo irreale, ma assai più autentico di quello in cui vivono le ombre sicure degli uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni sublimi, di vera vita. Quella vita che, pur fatta di passioni, non appartiene alla volgare folla delle brame né alle deviazioni e agli smarrimenti propri alle condizioni del corpo, ma, tramata di sogni e di desideri luminosi come luci dell’alba o raggi di sole fulgente in un chiaro giorno di giovinezza, ci seduce senza requie e ci sprona a inseguire le sue irresistibili, incantevoli visioni.
Procedevano allora, egli e i suoi amici, per un sentiero nella campagna, e discorrevano d’argomenti seri o futili, a seconda dell’estro. I due gli erano in realtà compagni in rari momenti e più per curiosità che per ammirazione sincera. Ognuno infatti percorreva la propria strada nella vita, senza badare troppo agli eventuali incontri. Ma certo la curiosità non poteva che condurli, in quei rari momenti, a cercare la sua presenza. Egli infatti pareva sancire un misterioso patto e appariva quale un antico idolo peruviano, il suo incarnato olivastro dava risalto agli occhi grandi ma spesso socchiusi, infastiditi dalla luce. La bocca era sovente serrata in un’espressione di disprezzo. La fronte era ampia e lucente e i capelli neri la coronavano; le palpebre, quando non offese dai raggi diurni, sotto i neri sopraccigli, si rilassavano e si aprivano, lasciando scorgere il colore dell’iride, che non era nerastra, ma chiara e fulva e macchiata di verde, con un alone cinereo.
Suggeriva l’idea d’un Montezuma avvezzo a sacrificare vite sugli altari delle piramidi, sacre a divinità sanguinarie. La rigidezza dello sguardo sembrava tradire un profondo rimpianto e nostalgia per un bene perduto o un amore inesplicabile. Nella statura mediocre, ma protesa in atti nervosi per la tensione interna, era talora temibile, sempre all’erta. Egli era circonfuso da un’aura di autorevolezza, che stimolava a cercarne l’assenso o a contrapporgli un’azione che in qualche modo potesse intaccarne l’orgoglio. Quel suo volto, sia nel bene sia nel male, era un punto di riferimento cui ci si volgeva con un moto spontaneo del cuore.
E così, parlando, i giovani si voltavano verso di lui, ma non ricevevano la risposta desiderata. Egli avvolgeva in digressioni o in preamboli il deciso rifiuto del pensiero altrui, lo calpestava anzi, sotto una maschera di falsa modestia, incolpandosi di scarso acume.
Perciò, alla fine della passeggiata pomeridiana, tra gli ulivi e tra i lauri e i canneti del vicino rivo a lato del percorso, lo salutarono congedandosi, ed egli si trovò solo.
E così da allora la vita scorse solitaria, per tutti gli anni della giovinezza. Ma non avvertiva la solitudine. La ricchezza della fantasia, gli orizzonti del mondo interiore non avevano confini, erano vasti quanto l’oceano.
Egli si recava spesso alla riva del mare, ove le onde irrompevano, e il vento, gelido nell’inverno, lo scuoteva sino alle ossa.
L’agone marino non aveva requie. Gli alitava contro il suo respiro sferzante, una lama di ghiaccio. La massa plumbea s’agitava, pesante, intorpidita dalla senescente stagione. Cavalloni s’avviluppavano in spire serpentine e si struggevano sulle rupi sibilando e aprendosi in un ventaglio di spume, subito risucchiate insieme ai ciottoli e alle sabbie.
Ma, nonostante anche per lui fosse prossimo il freddo e l’autunno della vita, riusciva a rinascere insieme al flusso impetuoso della primavera e ancora, chi sa però per quanto ancora, s’esaltava nell’ardore dell’estate.
Così egli pensava, nella propria solitudine, al suo corpo avido d’amore che s’immergesse nel vasto abbraccio del mare, per la carezza della madre marina, dell’amante marina, unito a lei come Peleo, a lei devoto come Achille. Sentiva che le membra del suo corpo s’aprivano come le scorze degli alberi eruttando resina nella primavera, e che era veramente un albero abbarbicato alla terra, era quell’albero che salutava sempre con lo sguardo, laggiù verso la montagna, durante le sue passeggiate abituali.
Non mai la potenza generatrice gli si era rivelata così forte, in tutta la sua terribilità, come in quell’anno. Era egli quasi in preda a un invasamento bacchico, a un’ebbrezza sensuale mai provata prima, come se lo stesso Diòniso, tornato sulla terra, avesse voluto scegliere per primo proprio lui tra i suoi misti.
E nell’ardore dell’estate, puntualmente ogni anno, si recava sulla spiaggia non lontano da casa sua e nell’ebbra freschezza del mattino s’immergeva nel mare e s’inoltrava fra le spume, che un tempo avevano cinto e carezzato le membra splendenti della dea sorta dalle acque. E poi, riposandosi sulla spiaggia, contemplava la distesa placida e luminosa delle onde che si avvicendavano quietamente, morbidamente sulla battigia, e allora ricordava la stessa scena ( quante volte vissuta ! ) di anni ormai remoti e coglieva l’eternità dell’attimo.
Gli si poneva allora innanzi un frammento di vita altrui, di quel Foscolo che amava tanto. Esso diceva : “ Io cerco il mio cuore ma non lo trovo più – Oh ! mia giovinezza ! “
Così aveva scritto un giorno il poeta dell’eterna bellezza. E lo stesso altrove aveva scritto :
“ O voluttà madre della natura
Bella Venere, …”
Quanto aveva invidiato il sentimento profondo di quell’uomo prodigioso ! Sentiva di non esserne all’altezza, di essere immensamente più basso e volgare, ahi, sentiva di non sentire, ma di essere tratto in ogni direzione, e perciò distratto, da ogni sensazione, da qualsivoglia lusinga dei sensi. La sua sensualità lo intimoriva, gli dispiaceva. Ne coglieva la colpa.
Eppure dentro di lui s’agitava non meno l’ardore della lotta, dell’agone, della gloria, e quando alzava lo sguardo verso la montagna, mentre camminava non lontano da casa sua, i suoi pensieri volavano subito verso solari olimpi o nebbiose cime solcate dalle folgori di Zeus e gli alberi si trasformavano in dimore di dei. E sognava allora, quando il mare era in tempesta e il vento devastava le colline e travolgeva le nuvole che s’inseguivano forsennate nel cielo, sognava il cupo canto delle fanciulle guerriere planare sui loro cavalli alati e inalzarsi come un inno sopra le onde vorticose.
Egli udiva la voce profonda della natura che lo chiamava dalle vette lontane, brillanti ancora di neve, dalla montagna sacra degli avi, donde l’inverno franavano a valle enormi massi travolgendo selve di pini. Laggiù, in un tempo remoto, colava sulle rocce il sangue dei tori, offerto al tonante dio dei monti.
Sognava allora la riva di un fiume. Intorno sotto i pioppi s’estendeva un mosaico di piante multicolori, la corrente spumeggiava tra i sassi e lanciava spruzzi e gocce d’acqua montana, le libellule svolazzavano sopra l’acqua sfiorandola e soffermandosi sulle foglie di menta. I fiori dei ranuncoli acquatici sorgendo a fior dell’elemento, laddove il fiume stazionava in ampie conche, apparivano quali minute sfere di cristallo, avvolti in bollicine d’aria, e accanto galleggiavano le lenticchie palustri. E quando il fiume s’allargava e si riposava in curve e dolci insenature sì da formare quasi un lago, la luce del sole vi si specchiava liberamente, e il riverbero delle acque, unendosi alla luminosità aerea, si versava sui fianchi arborati dei monti, più vivamente rilucendo nelle zone spoglie e rocciose, e così l’acque e le foreste parevano d’oro e gli abeti meravigliose vampe ardenti. E la terra assolata ammutoliva nel vasto silenzio di Pan.
Sulle rive crescevano cedri giganteschi che protendevano le fronde sulle acque mormoranti e adombravano larghe foglie verdecupo di piante ignote dal fiore violaceo, profumato, schiuso come una coppa pronta a ricevere la pioggia del cielo, alte canne ondeggiavano alla brezza e nascondevano nidi di alati pescatori. Gigli variopinti, bianchi, rossi ornavano il prato, mentre dove la corrente cessava e si formavano piccoli porti d'acque quiete, le ninfee mostravano i fiori bianchi e gialli accanto alle larghe foglie natanti. Ma più innanzi il fiume precipitava per cascate aperte sull'abisso, e come sprigionanti scintille dal colpo del maglio, le spume si frangevano su rocce millenarie nell'urto incessante, fragoroso e possente, quindi il corso scendeva inesorabile per canali maggiori e minori, scavati nei macigni e qual fiume di lava incandescente si gettava a capofitto di rupe in rupe fino a gorgogliare alla base della montagna e a placarsi in un diverso e solenne cammino.
E nella selva fitta, oscura e cieca si mise dentro, in segreti meandri. Un'aria greve inumidiva i tronchi e si diffondeva l'odore della vegetazione putrescente, quasi il sudore della foresta, e i vapori si mescevano alla nebbia che s'estendeva sulla valle e che, ruotando su se stessa, veniva inghiottita da un'apertura inattesa della roccia muschiosa, e che, precipitando nel gorgo, si condensava sulle pareti petrose in gocce pesanti come un balsamo. La grotta echeggiava, a intervalli, di un mugolio rabbioso, un ruggito, proveniente dall'oscurità. Seguiva un rantolo sommesso, un respiro minaccioso, e l'immane belva usciva all'aperto in una luce opaca, sotto un cielo plumbeo, foriero di tempesta. Gli occhi fulvi e lucidi risaltavano nella penombra, colpiti dai raggi che penetravano fra le cime degli alberi, simili a bagliori di fiamma, la pupilla si dilatava nell'ira, e l'iride era un vortice di voluttà crudele. Il leone si posò innanzi, immenso, con le fauci aperte in un ruggito, pronto a dilaniare. Le zampe poggiavano sul suolo potenti, gli artigli protesi come uncini.
II
Mai come in quel periodo della sua vita egli era stato sorpreso e catturato dalla brama d'amore. Più volte si era immerso nei sogni dell'arte, ma ahimé sembravano non bastare.
La vita intorno a lui proseguiva il suo corso nell'indifferenza ed egli sentiva la propria solitudine e l'esclusione da un mondo cui non apparteneva.
Era dentro di lui una forza misteriosa che lo spingeva a procedere nell'oscurità, nel deserto dell'esistenza, senza una ragione, senza un qualsiasi fine, senza alcuna gioia. Sul suo volto si scorgevano i segni dell'inquietudine, come una febbre che accendeva i suoi occhi di un'acuta ansia. Il suo pensiero s'aggirava intorno alle macerie dei sogni e vorticava ossessivo, ingoiando nelle onde melmose gli estremi fiori dell'illusione.
E immagini grottesche lo assillavano talvolta, figure di disfacimento e di morte che si intrecciavano in una ridda ossessiva con delicate forme di bellezza. Il ricordo di rari incontri, di visi amati, di avventure amorose vagheggiate ma vissute tutte dentro di sé, di vite sognate, tornava continuamente alla memoria e lo tormentava. Spesso aveva la sensazione di avere smarrito la via, e di essere come una nave che ha perduto la rotta nel mezzo di una tempesta.
Lo tormentava il rimpianto di una vita irrimediabilmente trascorsa, e la fuga di giorni lontani, vissuti nell'attesa. Nell'attesa di cosa, o di chi ? Forse nell'attesa del momento in cui sarebbero stati rimpianti, quando la vecchiaia, anche se lontana, pure si avvicina a lenti passi e tutta la perduta giovinezza si circonda d'un benevolo alone di luce. Allora si rivela il destino beffardo e trasforma i desideri della giovinezza in occasioni mancate, cambiando semplicemente nella vita il punto di vista e la prospettiva, ma il resto, l'anelito e la brama, non muta.
E poiché siamo uomini, inevitabilmente soggetti alla tirannia delle speranze e delle illusioni, non rimane che arrenderci.
Tra le illusioni quella che più tormentava Mauro era senza dubbio la bellezza. La bellezza in quanto armonia e giusta proporzione, raffinatezza delle sensazioni, elevazione del gusto artistico e del sentimento. La bellezza delle linee, delle forme, dei colori e dei suoni ha il potere di riempire l'animo umano di dignità e di nobili aspirazioni, di trasformarlo in una persona sensitiva, attenta ai fenomeni che la circondano, attenta a se stessa e al proprio modo di essere, in un uomo proteso alla conoscenza e al miglioramento di sé.
E insieme a questa aspirazione cresceva in lui l'ideale dell'eroismo, della vita protesa a nobili azioni colme di gloria, in cui ogni istante della giornata fosse consacrato ad energici gesti. Lo aveva affascinato la fiera educazione di Giugurta, del giovane africano che tanto aveva amareggiato i Romani :
“ … equitare, iaculari, cursu cum aequalibus certare; et cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; … “
E distogliendo la pupilla dalla pagina illuminata, si era volto a sondare l'oscurità dell'animo e aveva con disappunto scorto il peso della propria ignavia e la tristezza dei tempi. In un secolo che sempre più pareva preludere ad una riviviscenza dell'antica bestia, egli s'avvedeva con mestizia della sua stessa desolazione. E, innanzi all'assoluta nullità della propria esistenza, pensava agli eroi defunti eppure immortali di un'umanità archetipica e irripetibile, che si stagliava all'orizzonte della storia quale una stirpe di giganti rispetto a un mondo di nani.
E ricordava vagamente il mito di Platone :
“ Una volta nata la discordia ciascun gruppo di razze divenne procacciator di guadagno, quello di ferro e di bronzo ad ammassare denaro e possesso di terra e di casa e d'oro e d'argento, mentre al contrario quello d'oro e d'argento, poi che non era povero ma ricco per natura, le anime alla virtù e all'antica costituzione traeva; … “
E così pensava agli eroi omerici la cui unica ragion d'essere è l'aspirazione alla gloria, la cui vita è tutta protesa al conseguimento di essa, per i quali sia la ricchezza che il potere non sono nulla se non si accompagnano alla gloria.
E così pensava anche alla grandezza della patria e all'assoluta fedeltà ad essa. “ O cittadini d'Atene, due qualità deve avere il buon cittadino, perseverare nella scelta per la città della dignità e del suo primato, e in ogni circostanza e azione nella lealtà. “ Così aveva scritto il grande oratore. E tutti gli uomini della Grecia avevano anche sempre fatto a gara per la grandezza della propria patria nei divini giochi di Olimpia e nelle altre feste degli eroi.
Né tralignava da quei grandi l'ultimo dei Greci, l'italiano Foscolo, il quale aveva detto ai giovani : “ O miei concittadini ! Quanto è scarsa la consolazione d'esser puro e illuminato senza preservare la nostra patria dagl'ignoranti e dai vili ! Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, ed assumerete il coraggio della concordia; né la fortuna né la calunnia potranno opprimervi mai, quando la coscienza del sapere e dell'onestà v'arma del desiderio della vera ed utile fama. “
Ma volgendo lo sguardo al proprio tempo Mauro osservava sgomento il trionfo dell'ingordigia e della stupidità e si chiedeva : “ La patria è la terra dei padri. Si, ma quali padri ? “ Poi che più non vedeva intorno a sé nulla che continuasse il passato, ma tutto mutato irrimediabilmente e senza speranza.
I discorsi degli oratori s'erano ormai trasformati in frasi fatte, semplici e brevi per non offendere lo scarso raziocinio del popolo, ormai impantanato nella mollezza e nelle comodità, preoccupato del proprio cagnolino come una vecchia zitella. Ormai aveva davanti agli occhi una massa di snervati Sibariti, schiavi dei piaceri più volgari e dei passatempi più insulsi, una vera massa di poltroni.
E la patria, la nazione, il popolo erano solo i nomi venerandi di un'età passata, parole vuote buone per riempire la bocca di qualche rètore annoiato o di ancora qualche filosofo invecchiato nelle biblioteche.
Il mondo era cambiato, era grande, unico, universale e magnifico. Era il mondo globale dei consumatori, la società ideale a cui per secoli avevano mirato le menti sublimi dei politici. Ormai era fatta, non si poteva più tornare indietro.
Risaltava su questo sfondo assai fosco la nobile semplicità e la quieta grandezza dell'arte antica e delle statue dei Greci, la cui scoperta entusiasmava ancora o perlomeno incuriosiva la folla dei selvaggi.
Questi avevano ancora in sé un barlume di umanità, né avevano del tutto dimenticato che esiste qualcos'altro oltre al brillare dell'oro, sì che ben si addiceva il detto del poeta :
“ Que la beauté du corps est un sublime don
Qui de toute infamie arrache le pardon. “
Era senza dubbio l'unico valore rimasto in tanta miseria morale e sebbene l'estetismo non fosse mai stato considerato prima un fondamento dell'etica, ora invece lo era, in quanto unico segno distintivo nei confronti della bestia.
Il regno della bellezza, il regno di Venere lo seduceva ormai, lo accomunava nella sorte a Tannhäuser, dividendo il suo animo fra tensioni opposte, fra inclinazioni spesso nemiche fra loro : l'eroismo e l'amore. Ma ormai l'amore era divenuto una sorta di eroismo, in tanta volgarità e mancanza di sentimento, sì che poteva ben abbandonarsi all'abbraccio delle sirene nel loro richiamo : “ Qui alle beate – Piagge approdate. “
Spesso lo confondeva proprio il sogno musicale, ed egli s'immaginava immerso nell'atmosfera dell' Hörselberg, nella vasta grotta rischiarata da una luce fantastica.
Egli osservava spesso, in fotografia, la Venere del Tiziano, detta dell'Amorino. Quell'opulenza carnale lo traeva in un vortice di desiderio profano, lo ammaliava, ma lo empiva anche d'una malinconia profonda per la consapevolezza d'un mondo perduto di verde gaiezza, per una sensualità ancora vergine di aberrazioni dell'istinto. E naturalmente pensava anche a Misandra, la cui bellezza indubbiamente più spirituale sembrava un ammonimento a non godere troppo dei piaceri della vita senza tuttavia negarne l'incantesimo, che anzi veniva aumentato dal suo fascino, come Calipso sapeva irretire i naufraghi.
Ma da molto tempo non ne aveva sentito più nulla. Ora però gli giungeva notizia della sua presenza non molto lontano, nel convento sulla montagna. Evidentemente era sfuggita all'incendio e si era salvata all'insaputa di tutti.
III
Avvolto in una nebbia azzurra il convento giaceva nella valle. Il vento fresco del mattino recava da lontano i canti dei frati. Il sole sorgeva tra le montagne, brillava tra gli alberi e le gocce della rugiada cadevano dai rami sui nugoli di ali cristalline degli insetti che si destavano al calore del giorno. Gli uccelli svolazzavano per il bosco cinguettando. L'abetaia in quel luogo era fitta e solo qua e là s'apriva, rotta da alte rupi.
Salì a fatica su un'alta roccia e si pose a guardare.
Rinchiuso fra due montagne nere, aride, circondate in tutta la loro altezza da orribili precipizi e da abissi profondi, sulle cui vette le nuvole erravano lentamente fra pochi alberi funebri dove sembravano sospese sui loro sterili rami, il monastero s'allungava nero e rigido come una bara.
Laggiù l'attendeva. Era tornata, dopo tanto tempo. Come già in un tempo lontano, ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a lei potesse meglio ricordare. Scese dunque dalla rupe e s'avviò per il sentiero attraverso la selva ombrosa qua e là avvolta ancora dalle nubi dell'umida notte, che si diradavano, s'allungavano, si disperdevano lentamente verso le alte montagne.
La mole massiccia e oscura del convento si stagliava alta nel cielo. Quattro grandi torri s'ergevano ai quattro angoli dell'edificio e un imponente archivolto sormontava un enorme portone di legno cosparso di borchie di ferro.
Mauro percosse col batacchio una di queste più volte e aspettò. Venne ad aprire un monaco, tutto coperto dal cappuccio, e come un'ombra, scivolando lungo i corridoi, lo introdusse in un'ampia sala dove gli fece il gesto di attendere.
Dopo circa un quarto d'ora la porta in fondo alla sala cigolò, s'aperse completamente, e lasciò scorgere una figura di donna. Costei s'avvicinò, quindi entrando nell'alone di luce di un'ampia finestra, mostrò il suo aspetto.
Era lei, proprio lei, Misandra. Così la rivide dopo molto tempo. Ma era sempre lei, più bella di allora, e la sua lunga chioma si distendeva sulle morbide spalle senza un capello bianco. Il suo sguardo si volgeva pieno di malìa verso Mauro, ma rimaneva stranamente freddo e distaccato. Il ricco abito bianco le copriva per metà il seno e le spalle, le ampie maniche a sbuffo le lasciavano libere le braccia. Era sempre più bella e affascinante. Sul braccio reggeva un lungo scialle nero, che usava evidentemente per coprirsi dinanzi ai monaci. Era così bianca che il candore che la copriva si fondeva con il pallore della sua carne, sotto il tenue raggio dell'aurora. Avviluppata in quel fine tessuto che rivelava ogni forma del suo giovane corpo, si sarebbe detta più il ritratto marmoreo d'un'antica dea, che una donna viva. Ma, morta o viva, statua o donna, ombra o corpo, la sua bellezza era sempre la medesima, solo il verde bagliore del suo sguardo era lievemente smorzato, e la sua bocca livida. Si fermò, poi disse con voce a un tempo chiara e vellutata :
“ Mi sono fatta attendere molto. Ma sono dovuta venire da molto lontano, da un luogo donde difficilmente si torna. “
Così gli offerse le mani che Mauro baciò infinite volte, mentre ella lo guardava con un sorriso indecifrabile.
Allora ella estendeva le sue radici fino ai più profondi recessi della sua anima. Egli si alimentava delle speranze e assorbiva il liquore infuocato del calice delle passioni. E la vita, imperiosa e implacabile, gli comandava d'inseguire le chimere del sogno e i fantasmi del desiderio, a costo della disillusione e del dolore che si presentavano sempre come la certa e inevitabile conseguenza.
Un vivido raggio la illuminava ed ella risplendeva, quasi la luce da lei emanasse invece d'esser riflessa, e pareva il sogno d'un pittore inebriato di dolcezza. I suoi folti capelli bruni si distendevano morbidamente sulle spalle in boccoli spontanei dai riflessi violacei. Il suo petto si scopriva lievemente, candido e rosato, il giorno vi si posava beato e vario come il raggio in un'acqua chiara.
Dopo un ultimo sguardo intriso di rimpianti, Mauro si congedò da lei e si recò in una delle celle riservate agli ospiti del monastero.
IV
Era la notte profonda. La luna, alta e assisa nel suo regno misterioso, assisteva col suo virgineo pallore, indifferente, reggendo nella mano lo scettro della vita e della morte, posto presso l'anca candida e il ventre donde hanno origine le creature destinate a popolare la terra, immagini fugaci come i sogni per i quali vivono e muoiono.
Mauro dormiva profondamente e la sua anima vagava nel sonno.
Un'arena infuocata come le sabbie del deserto turbinava in un alito soffocante, d'un fetore di putredine, e sopra un'isola rocciosa, al centro d'una palude, s'ergeva un altissimo duomo avvolto in una nube cinerea donde baluginavano bagliori di fiamma.
Un rospo, uscito dalla fanghiglia, lo caricò sulla vasta schiena scivolosa, i suoi occhi, immensi globi giallastri, apparivano a fior della melma come fanali, annunciando la visita alla sentinella bifronte, in attesa sulla torre più alta.
Le tenebre d'una navata silente lo celarono fra le ombre, nei vapori d'incenso che veleggiavano e si dileguavano. Un'irradiazione smeraldina e a tratti lucida come la pelle del ramarro si ramificava fra i colonnati erti quali tronchi di vasta selva e sopra ciclopici macigni si slanciava nell'aria fra ali di nebbia un trono. E immobile sopra il trono stava un vecchio dalla lunga barba. Intorno lunghe coorti di figure nere salmodiavano, mentre si levavano nuvole d'incenso.
Gli occhi del vecchio erano rossi come il sangue delle vittime degli antichi sacrifici, come il cerchio purpureo del sole nel tramonto.
Al fondo dell'abside si elevava fra i turiboli fumanti una scala petrosa roteando come una vertigine. Un canto s'udiva planare, come un volo di gabbiani, dall'alto. Una luce intensa penetrava ora per le vetrate del rosone e si smarriva oltre un forame nella rotta volta.
Ove si perdeva la luce ? Dannata a vagare nella tenebra, un giorno essa aveva sfiorato la guglia d'un duomo gigantesco, donde si poteva mirare la vastità del mondo.
Oh, il mondo ! Abitato da insetti incapaci di volare, scarabei proni a incrementare l'ammasso dei propri escrementi !
Dove fluiva il vasto fiume d'oro ? Aveva avvolto le vette delle montagne, rapito dalle gocce della pioggia per le fessure delle rocce erose dalle tempeste, fino alle caverne, dove muggisce il respiro della terra.
La donna si era rifugiata, risvegliando le torme dei pipistrelli frenetici, bianca di luce, nella caverna. Ella illuminava le pareti e le stalattiti col suo candore e gli angoli bui, ridesti a una luce sulfurea. S'adagiò nuda fra le rocce scanalate, levigate e quasi trasparenti. Un alone caldo, come il riverbero del focolare, l'attorniava, emanato dalle pareti ove fluttuavano le onde riflesse del ruscello.
Il corpo di lei palpitava alla carezza delle correnti che s'insinuavano e volteggiavano su e giù per le spaccature della pietra, il suo anelito si smarriva, tiepido, sotto l'ampia volta umida. La sua pelle era lucida e liscia come ambra rosea, appena si scorgeva la tenue sfumatura di qualche sottile vena verde.
Il suo corpo eburneo risaltava sul fondo indiscernibile talvolta con rigidezza ieratica, i suoi occhi a tratti s'illuminavano d'ebbrezza, due fiamme verdi.
Si udiva il rombo del mare che muggiva come il toro che un tempo rapì Europa sul dorso fremente, mentre la luna dardeggiava con le sue lunghe corna di demonio.
La grotta fu invasa da un flutto di lume rossastro che disvelò le pareti in una viva carne, un nitrito dilaniò l'aria intorbidata. Un grande cavallo rosso, quasi uscito da un lago di sangue, irruppe fra le rocce, inarcando il forte collo su cui ardevano i crini. I suoi occhi sprigionavano una tensione febbrile nell'iride cangiante tra bagliori indefinibili. Pareva la minaccia d'uno spirito solitario, escluso dalla vita degli altri, che vaga selvaggio e vendicativo nei meandri dei boschi iperborei o nei deserti fenduti dalla vampa implacabile d'un sole ostile.
Disparve la visione, il sogno s'interruppe e Mauro si risvegliò nella luce rosata della nuova alba.
V
Presto bussò alla porta un monaco che si mise a disposizione di Mauro per l'intera giornata.
Era alto, quasi nascosto dal cappuccio, solo s'intravedeva la punta d'un grosso naso aquilino nell'ombra del volto.
Dapprima visitarono l'immensa biblioteca, i cui scaffali invadevano le pareti sino al soffitto.
Verso l'alto un'ampia vetrata, investita dai raggi del sole, illuminava l'ambiente.
Il monaco informava Mauro sui più preziosi manoscritti che poteva consultare, e la sua voce si perdeva nei meandri della sala, fra i mobili carichi di libri polverosi. I volumi massicci ornati di rilegature dorate attiravano lo sguardo, ma nel contempo lasciavano Mauro confuso, stupefatto, smarrito in una crescente vertigine. L'uomo parlava, sibilava, assordava, il suo eloquio pareva una corrente vorticosa che fluisse incessante per la stanza immensa.
Si diressero verso il giardino.
Al centro di esso un'antica fontana di marmo, segnata dal tempo, lasciava scaturire il suo mormorio quasi una melodia misteriosa, come l'echeggiare d'un canto lontano, come un ricordo improvviso e struggente.
Intorno al bacino sorgevano diverse piante, proprie dei luoghi umidi, dalle foglie gigantesche. C'era un cespuglio che reggeva una profusione di fiori porporini chiari come gemme, altrove un altro cingeva nel suo seno piccoli fiori azzurri.
Molti vasi qua e là mostravano la loro antica presenza, venati talvolta dall'impeto delle radici, e spesso ornati di rilievi, di intrecci di serpenti mitologici, di volti di Meduse.
Pergolati coperti di edera facevano una piacevole ombra e tutto il suolo intorno alle aiuole e il passaggio era disseminato di pietruzze bianche e rosate che scricchiolavano sotto i piedi.
Il monaco era scomparso. Mauro si ritrovò solo nel giardino. E allora scorse Misandra.
Camminava lentamente, con un'andatura stranamente un po' rigida, e accarezzava con la lunga veste i fiori che spuntavano dalle aiuole. La sua chioma ondeggiava al venticello e si posava sulle morbide spalle e sulla nuca lucente e bianca. Sembrava l'immagine irraggiungibile d'una dea, l'icona inviolabile della bellezza, plasmata dalla mano d'un mago. I suoi occhi, dal colore cangiante a seconda della luce, si fissarono su Mauro. Ella lo guardò a lungo, quindi sorrise velatamente. Poi si dileguò dietro un alto e frondoso albero, che cresceva presso il muro del giardino.
La mente di Mauro aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma non tanto da non scorgere dietro l'albero, una volta avvicinatosi, una porta nel muro, circondata dall'edera. Si accorse che era stata appena accostata, quindi l'aperse e si ritrovò all'inizio d'una tortuosa discesa nel buio.
A tastoni e dopo molti gradini giunse in una grotta.
Una forma candida di donna si stagliava sotto la volta ombrata e giaceva in un divano. Ai lati un alto recinto di rame modellato in intrecci floreali offriva l'appiglio ad uccelli dal piumaggio variopinto, a psittaci crestati, a fagiani regali. Ai suoi piedi due grifoni sommessi aleggiavano. E come Mauro si avvicinò, la vide coricata sopra stoffe di raso ricamato in trame d'oro, e la sua nudità era solo velata dalle ciocche della chioma violacea, della quale egli coglieva il sentore raro e selvaggio. Il suo corpo era mutevole ambra che ora riluceva di luce marmorea, ora era irradiato d'un colore fulvo, ora quasi si dissolveva in un'aura di glauco vapore. Così gli appariva, avvolta dai giochi di luce nella penombra, ed intorno nelle nicchie della grotta erano deposti disordinatamente rotoli di magiche scritture, opera di qualche saturnio archimago, che insegnavano le arti sublimi della felicità. In alambicchi e fiale e in coppe dorate era il liquore dell'eterna giovinezza, l'elisir tanto ambito. In volumi polverosi era racchiusa tutta la scienza d'Amore, e segreti terribili erano celati in formule arcane. Di fronte a lei v'era un grande specchio, ricoperto da un drappo rosso.
Così nell'ombra, dove ondeggiavano fluide luci d'estati ormai fioche nella memoria quali lumi siderei, ella appariva splendida, la dea della luna vestita d'argento, nel fulvo fiume del tramonto. Pareva specchiarsi come Diana sul mare quando sporgeva il viso sovra la fonte, in una cavità nel suolo della grotta, tinta da rocce smeraldine. E nel verde splendore della conca profonda giaceva incantata. Vedeva mondi inaccessibili e le costellazioni perdute nei sogni, e trascorreva le notti mutevole come cangianti languori di luna.
Misandra levò dallo specchio il rosso manto e apparve una pianura florida di pomarii, di boschetti odorosi e di ombrose riviere. Fra questi trottavano o brucavano l'erba liocorni dalla criniera lanuta, dall'acuto corno d'avorio, dal collare d'oro guarnito di campanelle che tinnivano ad ogni minima movenza. I loro occhi azzurri rivolgevano le pupille caprine, lucide di devozione, a donne bellissime che erano in un querceto, alcune giacenti sul prato, altre a passeggio e a cogliere fiori.
Un rivo ciarliero si tuffava nelle acque d'un laghetto limpido, ove intatte conchiglie spuntavano dalle sabbie e sporgevano punte di scoglio come minuscoli isolotti intorno a cui tremolava l'onda scintillante, che giocava a sollevare i lunghi filamenti di alghe, fini come capelli.
Presso il fonte si colmava le mani la fata Eliana, in abito d'argento, e le apriva lentamente facendo cadere una luminosa cascatella frusciante. Mirinda, adagiata sul praticello, beveva la rugiada dal calice dei fiori, accarezzando gli unicorni, i quali dondolando ritmicamente le code flabellavano i gelsomini e i giacinti. Dietro il tronco d'una quercia la vaga Melusina si guardava le squame, mutata la pelle in un involucro cupreo che assorbiva il vermiglio fluttuare dell'aria, conscia ormai della sua metamorfosi, al venir della luna, nel vello lubrico. Grasinda pettinava le fluenti chiome bionde, prossima a flettersi in figura di cetra, e i filamenti le si attorcevano alle esili dita dei piedi rosei, chiudendosi in raggianti anelli minuti. Oriana in un mortaio preparava misture d'erbe magiche, e pronunciava formule arcane, per propiziarsi gli spiriti erranti nel plenilunio.
Con un sorriso malizioso Misandra ricoperse lo specchio e ogni visione scomparve. Quindi prese per mano Mauro e lo condusse per corridoi appena illuminati a un'alta porta di bronzo. La toccò appena con le dita che questa s'aperse e lasciò scorgere un'immensa pianura di fiamme. Oltre il campo di fuoco la tenebra dominava incontrastata. E sopra non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro indiscernibile senza fondo. Il bagliore provocato dalle fiamme riversava una penombra sazia di vapori di brace e nel vago lume verdastro Mauro poté scorgere, sorpreso e sgomento, un teschio eburneo e luccicante che roteava arrestandosi un istante per poi ricominciare. Seguiva un percorso scandito dai battiti del tempo intorno a fosse quadrate e scure quali pozzi di sentina, donde esalavano miasmi ammorbanti. A migliaia le buche putride costellavano la terra buia e ne uscivano lunghi vermi bianchi che strisciavano e saltellavano a scatti. E parevano avidi di nuovi cadaveri e accorrevano in massa, una torma biancastra, lucida e tremolante, verso un gruppo di donne scarmigliate, danzanti attorno a un capro bruno, dalle ritorte corna rosse. Le magiche baccanti rovesciavano sopra i vermi, traendolo da un colossale paiolo bollente, un unguento fetido. E in poco tempo avveniva la metamorfosi. Il verme si dissolveva e larve di uomini e donne salivano dalla terra, spronate dal tirso delle maghe, che, volando sopra loro, le abbagliavano con giochi di vetri colorati. E una torma illimitata saliva dalla terra, di vite future, di infanti che presto avrebbero udito la voce della madre. Procedevano quali onde spinte da Libeccio, accalcandosi le une sulle altre, urtandosi con i piccoli gomiti, scalciando irritate da ogni lato. Una fretta imperiosa le assillava, le spingeva, anche se gracili e deboli, alla prossima carriera della vita.
Un miraggio di architetture bizzarre ergentisi a capriccio dinanzi a un sole crepuscolare, come nuvole inalzantisi al cielo, come guglie illustrate dai raggi violacei e talora violenti quasi scatti d'ira dell'astro restio a scomparire oltre l'orizzonte, come un sogno di castelli nei cieli incantati delle fiabe, si smarriva nelle profondità dello spazio, misterioso oceano senza rive.
Davanti all'astro, che si dipartiva da questa vita, un'altissima torre incombeva a precipizio sull'insondata voragine dell'oscurità e pareva attraversata nelle sue volute vorticose da bagliori più rapidi del pensiero.
Occhi di miriadi di teste mozze la pervadevano scintillanti, riflettendo l'ultima luce, e s'aprivano e si chiudevano ininterrottamente, su, su, fino a perdersi nelle altezze irraggiungibili.
E gli embrioni di vite future si allontanavano nella vasta pianura fra i vapori delle nebbie, simili a stormi di neri alati sotto una distesa di nuvole bianche qua e là trapassate da fasci luminosi, che aprendosi si confondevano nel mare.
La porta di bronzo si chiuse. Mauro volse intorno lo sguardo e si vide in un'ampia caverna, illuminata da torce fumanti. La cavità era umida e nel suo vasto giro cinta di nicchie, il soffitto concavo era occupato da una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio, alcuni pipistrelli s'agitavano da una parete all'altra.
Un lieve lamento all'improvviso catturò la sua attenzione. Veniva da una delle nicchie. Egli s'avvicinò e notò che al di là della stretta apertura s'apriva un'ampia stanza. Una luce fioca ed argentea permeava del suo pallore l'ambiente. Sul pavimento sconnesso era cresciuto uno strato di muschio e attorno si scorgevano figure d'affresco, nonostante la muffa, sirene volteggianti fra le onde, mentre una mano ignota cercava di afferrarne le chiome fluitanti e rilucenti di raggi d'oro. Ma da una parete un lupo gigantesco con le fauci aperte e gli occhi di fuoco sembrava pronto a balzare sulla preda e a farne scempio.
Nel centro della sala sopra un lungo tavolo nero era legata una povera fanciulla che gemeva pietosamente. Un raggio di luna, che filtrava da un pertugio in alto rischiarava come luce fioca negli abissi marini una bionda capigliatura arruffata intorno a una fronte imperlata di sudore e un viso bellissimo ma stravolto dall'angoscia, gli occhi azzurri, come il cielo limpido sulle alte montagne, fissavano pieni di terrore qualcosa di invisibile su di lei.
Dov'era Misandra ? Egli ora la cercava, contagiato da un'ansia inesprimibile. Ma la donna era scomparsa. E mentre si voltava intorno, ecco che una belva nera dagli occhi di fiamma balzò sulla vittima legata e le si attaccò al collo con le zanne sibilando.
Terrorizzato e sconvolto dall'orrore, Mauro uscì precipitosamente dall'avello e nel buio cercò spasmodicamente la scala che sola gli consentiva l'uscita.
Fortunatamente i suoi piedi urtarono nel primo scalino, ed egli iniziò la salita verso la libertà, più velocemente che poté. Quando ormai aveva quasi raggiunto la porta d'ingresso, resa visibile dai raggi del giorno che entravano per la fessura del battente, sentì dietro di sé l'anelito pesante e ardente del mostro, e folle di paura si slanciò fuori con un balzo, quindi chiuse la porta spingendo con forza. Questa rimase come sigillata anche senza saliscendi e Mauro traendo un sospiro di sollievo si trovò di nuovo nel giardino del convento.
VI
Un'ala del monastero era impenetrabile, e solo un massiccio portone sembrava poter concedere l'accesso a chi ne avesse avuto la chiave. Tuttavia al di là dell'alto muro di cinta sormontato da affilate punte di metallo, si udivano talvolta delle strane voci, che certo non davano l'impressione di essere né maschili né tanto meno di monaci.
Una sera Mauro passeggiava nel giardino e osservava malinconico il tramonto fra le montagne che imporporava della sua luce morente le pendici boscose, le valli e i dirupi, quando scorse improvvisamente una figura leggera di donna quasi volare nella sua corsa furtiva verso il portone dell'ala misteriosa.
Con il solo tocco della mano la donna aperse il portone ed entrò. Mauro, notando che questo non si chiudeva ma restava spalancato, entrò pure lui.
Si ritrovò in un altro giardino colmo di piante d'ogni tipo e di fiori che impregnavano l'aria del loro profumo. Qua e là fra i lauri v'erano cespi di rose, ma al centro troneggiava un'immensa agave il cui scapo s'inalzava con le sue corone d'oro a cogliere i raggi purpurei.
Vicino all'agave colpì la sua attenzione un lucore roseo e Mauro notò che si trattava di una lapide di marmo illustrata dagli ultimi raggi del giorno.
Si avvicinò e lesse :
“ Qui giace Misandra d'Ormengo
figlia di Diana, morta nell'incendio
dell'anno millenovecentonovantaquattro.
Requiescat in pace “.
Rimase alquanto turbato. Dunque Misandra non era più. E allora colei che gli era apparsa chi era ?
Un rumore proveniente dall'interno del chiostro lo sottrasse ai suoi dubbi ed egli si diresse verso quel luogo. Cominciava a distinguere un lamento di voci femminili che si perdeva nel buio dei corridoi e risuonava sotto l'ampia volta, un lamento variato da voci diversamente intonate ma tutte sorte a suscitare la pietà dal profondo dell'animo.
La stanza da cui giungeva quel misto di gemiti e pianti era in fondo all'edificio, Mauro vi si diresse guidato dall'udito.
Giunto sulla soglia vide una scalea smarrirsi in un complesso di archi rampanti, di logge e colonnati, per i quali una folla di fanciulle discorreva suonando su magici strumenti incantate armonie.
Non dunque gemiti e lamenti ma suoni misteriosi e magiche melodie lo avevano attratto, o così gli pareva, poi che aveva superato quella soglia.
Giovani donne bionde dalle vesti purpuree trapunte di fili d'argento lanciavano tra loro una sfera dorata che ruotava leggera nell'aria, una fanciulla si allontanava tra le colonne come in una foresta, la veste si sollevava lievemente sopra i piedi rosei, che sfioravano il suolo. E pareva anche che la circondasse il profumo di tutti i fiori. Altre suonando arpe e liuti indossavano un candido peplo e avevano le chiome intrecciate e coronate di lauro e un nastro di seta stringeva loro la veste sotto il seno. Ed una di esse, la più splendente, dal viso ambrato, dall'iride del colore dei capelli castanei e fulvi come fili di rame, dal formoso aspetto, gentilmente gli si appressò, reggendo nella sinistra uno scettro d'oro. E trasse Mauro sino al lembi estremi della foresta di colonne e d'archi, umidi di nebbia e di vapori mossi dal venticello.
Sulle onde d'un lago sorgeva un castello, intessuto delle esalazioni e delle nebule che veleggiavano sopra la ferma distesa. Era un miraggio di vortici e correnti che erige la forza dell'estate, come un labirinto di sogni sullo specchio dormente delle paludi.
Si sentì una mano sulla spalla, voltandosi vide Misandra che gli sorrideva affabilmente. Quindi lo condusse tra le colonne sino ad un cerchio formato da grandi vasi dai quali esalava un fumo acre e inebriante e intorno stavano sette giovani donne dall'aspetto avvenente e tutte al di qua dei trent'anni.
La più giovane doveva avere circa sedici anni, era alta, formosa, con i biondi capelli sciolti morbidamente sulle spalle e gli occhi azzurri e splendenti.
La seconda sui vent'anni era minuta e graziosa, dagli occhi piccoli e maliziosi e una corta chioma nera.
La terza era molto carina, ma aveva un viso sfrontato avvezzo a ridere sguaiatamente.
La quarta, bionda e forse appena trentenne, aveva forme molto pronunciate, un dorso imponente e larghi fianchi.
La quinta, dal viso ovale e triste, era pallida e magra e sembrava propensa alla malinconia.
La sesta era bruna e olivastra, con folti capelli ricciuti, un corpo atletico e nobile e uno sguardo penetrante.
La settima era una rossa, dall'espressione sarcastica, dalla pelle bianca come latte, l'attitudine sciolta e propria al movimento.
Erano dunque queste le vere abitanti del luogo e quanto aveva prima veduto altro non era se non il prodotto di quel vapore ingannevole. Mauro però non sapeva spiegarsi perché stessero in quel luogo, né il motivo di quella magica seduzione.
Esse attorniavano Misandra con sguardi languidi da innamorate e parevano da molto tempo unite in una comunità di sentimenti e in uno scambio di complici sensazioni, e sembravano aver bevuto reciprocamente le lacrime di notti solitarie e i rimpianti di vergini infeconde. Avvinte da un'oscura brama d'amore, stavano ai suoi piedi, schiave dei suoi voleri.
Intanto una di esse, la rossa voluttuosa e maligna, prese un libro rilegato in marocchino, dai fregi dorati, e cominciò a leggere ad alta voce.
E, come ebbe letto, s'abbracciarono fra loro le fanciulle e sognarono le lontane distese del mare attorno a un'isola cinta d'echi amorosi e di languidi piaceri, e contemplarono il loro corpo virgineo, che ormai vellicava il pallore lunare, come candido marmo.
Chi di loro quella notte sarebbe stata offerta a Misandra ? A chi sarebbe toccato l'onore di versare il proprio sangue ?
Misandra attendeva presso la più giovane con occhi ardenti, come un forte animale che sorveglia la sua preda, dopo averla segnata con gli artigli. Superba ella aspirava voluttuosamente il profumo del suo trionfo che sarebbe stato versato come vino ardente, e si protendeva verso di lei quasi a cogliere il dolce dono.
VII
Il giorno dopo egli ricordava vagamente, o meglio era quasi convinto di avere sognato. Era diretto verso la foresta non lontana dal convento, tratto da un sentimento di malinconia e da un bisogno di solitudine.
Procedendo di buon passo si trovò ben presto in un vallone in mezzo alle rocce dove scorreva un ruscello le cui piccole onde spumeggiando esprimevano mormorii gioiosi.
Era un luogo selvaggio chiuso tra due ali di rupi e di scoscendimenti rocciosi, il cui minaccioso aspetto veniva mitigato da una profusione di cespugli d'un verde intenso e variamente coronati di fiori. Una moltitudine di sassifraghe spuntava dalle rocce e contribuiva così a donare alla valle un abito di rosea gaiezza.
Ma, mentre i raggi del sole giocavano tra la vegetazione illuminando le pareti calcaree e grigiastre, in mezzo alla valle sopra un'eminenza rocciosa sorse come un'ombra una strana figura.
Immobile, rigida, volgeva lo sguardo verso la corrente spumosa, scintillante di luce, e il venticello le agitava e sollevava un poco la lunga veste nera.
Avvicinatosi, Mauro vide la donna bellissima, la cui fronte splendeva di una luminosità pura, eburnea, come di cera, e i capelli, di colore bruno, scendevano morbidi sulle spalle, gli occhi brillavano, grandi e profondi e in essi l'iride mutava a seconda dei raggi che la colpivano, intessuta di tre colori, una tinta scura verso il centro, un alone castano chiaro e quindi un cerchio grigio. Egli, affascinato, osservava quel viso così puro nelle sue linee, nelle fattezze, così femminile nell'ovale della forma, e restava stupito per la strana somiglianza che aveva con il suo volto, che, sebbene più rude, pure ne manteneva l'impronta.
La bocca di lei era lievemente intesa a un sorriso, che non era di amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. I suoi occhi erano profondi, ma freddi come la calma dei mari settentrionali, pervasi dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto segreto dell'amore.
Era dunque Misandra, colei che ora vedeva con sorpresa, ma in un atteggiamento inconsueto, in tale immobilità !
La donna mosse lievemente il capo, o così gli parve, e lo fissò gelidamente.
E allora come in un sogno egli scorse dietro di lei una prospettiva illimitata di piane e di riviere serpeggianti e di rupi solitarie e di ponti sovra precipizi e di selve nere sfiorate dalla pallida luna, e l'occhio vi si perdeva e la fantasia volava come Astolfo sul carro dell'Evangelista. E il sogno lo rapiva in un oblio senza confini, e il tempo e lo spazio si diradarono quali nebbie fugate dai venti, e il grande specchio della memoria lo inghiottì come un vasto oceano.
Restò qualche minuto incantato e silenzioso. Poi si avvide che la donna non mutava atteggiamento né gli rivolgeva la parola. Piano, piano si mosse e con movimento rigido e meccanico iniziò a dirigersi verso il folto della vegetazione, dove ben presto Mauro seguendola scorse in una parete di roccia l'ampia entrata d'una caverna.
L'interno era illuminato da torce e una lunga galleria pareva condurre sino alle viscere della terra. Ma a un certo punto egli perse di vista la sua momentanea guida e continuò a percorrere il corridoio, finché giunse a una porta che introduceva direttamente nel cortile del monastero.
Senza essere notato, Mauro tornò nella cella che gli era stata assegnata, e qui cominciò a riflettere sullo strano incontro.
VIII
Già un'altra volta si era innamorato di Misandra. Ma era vero amore ? O non era piuttosto un desiderio vago e vano d'innamorarsi, unicamente dovuto alla noia ? Egli sapeva di essere avvinto dalle immagini, di essere mutevole come la luna o come le onde del mare. Aveva mai amato veramente una donna ? La risposta sincera l'aveva nel cuore, ed era no. Ed ora di fronte a quella strana icona, il suo cuore era rimasto stupito ed estatico. Aveva visto attraverso di lei in un baluginare di luci, uno squarcio sull'infinito ch'era in lui stesso. Si era meravigliato, perché in realtà non si conosceva.
L'amore era stato per lui soltanto come lo specchio per le allodole, frantumi di specchio insidiosi e tormentosi, talvolta una vera tortura, ma sempre e solo specchi. Non era mai riuscito ad andare al di là della superficie. E del resto, che cosa c'era al di là della superficie ? Proprio niente. Tardi, e certo ormai disincantato, si rendeva conto che l'essenza dell'amore è la semplice riproduzione degli individui, cercare qualcos'altro è appunto mera illusione. Ormai accoglieva con una sorta di rancore la lusinga delle donne, che, strano a dirsi, pur col passare degli anni si faceva più insistente. Questa illusione era davvero un crudele e inutile tormento. Eppure non poteva sottrarsi ad esso, non poteva fare a meno di torturarsi. Era davvero una triste situazione la sua, triste e senza uscita.
Misandra sorgeva ancora dinanzi ai suoi occhi come l'ideale dell'adolescenza, l'unica età della vita nella quale si ama veramente, d'un amore puro, assoluto, incantato, l'amore che basta sognare per essere felici.
Egli s'avviava a diventare un sacerdote di Venere e delle Muse.
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