Stendhal La chartreuse de Parme (1839) Paris, Garnier, 1922
Stile scarno, conciso e nervoso simile a quello di Machiavelli. Tutto energia, spirito d’avventura, intriso di passione e inebriato di giovinezza.
Fabrizio dopo il duello con Giletti chiede alla “mamacia” uno specchio per vedere se il colpo ricevuto in volto lo abbia sfigurato ( cap. XI, pag. 192 ).
Fabrizio è un vero dandy, anche in prigione mantiene un atteggiamento di nonchalence e si fa circondare di oggetti lussuosi oltre a procurarsi del buon vino ( cap. XVIII, pag. 319).
Il personaggio di Clelia ricorda per un aspetto la Lucia de I promessi sposi, come questa anch’ella fa un voto alla Madonna, precisamente quello di sposare il marchese Crescenzi e di vivere lontana da Fabrizio. Ella è il simbolo della donna “angelicata”. La donna fatale del romanzo è infatti la duchessa Sanseverina, la zia di Fabrizio, innamorata di quest’ultimo ( che, in realtà, non è il suo vero nipote ).
A proposito del voto fatto da Clelia di non vedere mai alla luce Fabrizio, si noti l’analogia col mito di Orfeo ed Euridice (pag. 515) : “ J’ai fait voeu à la Madone, comme tu sais, de ne jamais te voir; c’est pourquoi je te reçois dans cette obscurité profonde. Je veux bien que tu saches que, si jamais tu me forçais à te regarder en plein jour, tout serait fini entre nous. “ … “ Mon cher ange, je ne precherai plus devant qui que ce soit; je n’ai preché que dans l’espoir qu’un jour je te verrais. – Ne parle pas ainsi, songe qu’il ne m’est pas permis, à moi, de te voir. “ ( cap. XXVIII ).
La bellezza byroniana del personaggio Fabrizio viene ancora ricordata in una pagina di Curzio Malaparte ( La pelle 1949 ), precisamente nel ritratto dell’efebo Jeanlouis ( pag. 92, ed. Mondadori, 1991 ) : “ Era, quella di Jeanlouis, la romantica bellezza virile che piaceva a Stendhal, la bellezza di Fabrizio del Dongo. Aveva la testa di Antinoo, scolpita in un marmo del color dell’avorio, e il lungo corpo efebico delle statue alessandrine, e mani brevi e bianche, l’occhio fiero e dolce, dal nero sguardo lucente, le labbra rosse, e il sorriso vile, quel sorriso che Winckelmann pone come un estremo limite di rancore e di rammarico al suo puro ideale della bellezza greca. “
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