Entro la foresta, la cui vegetazione s’ergeva ai lati quale
muro d’ombra, senza lasciare adito a lume, trascorreva un cocchio dalle ruote
piene, di bronzo, che tuonava sotto e sopra la terra. Innanzi recava l’effigie
di lucente metallo d’un mostruoso felino dalle fauci spalancate, e intorno era
tutto istoriato di squame e di rotelle.
Sul cocchio un uomo tenebroso e feroce reggeva fra le mani
una fanciulla esanime, dalla veste fluente e candida ricamata d’un ordito
aureo. La chioma color del rame, scendendo per le vesti e sui bordi della biga
risaltava anche da lontano quasi fosse fiamma.
E il suolo sotto il rimbombo del carro tremava e s’elevavano
turbini di polvere e sabbie e ciottoli e rami divelti, similmente ad onde
squarciate dagli urli dei venti e dalla carena delle navi veloci, e le cime
degli alberi incombevano a nascondere il rapimento alla vista del cielo.
E in un tumulto assordante si precipitava il cocchio nella
corsa, fin che la terra cedette e una voragine si dilatò come un’enorme ferita,
inghiottendo nella tenebra il carro.
E allora s’udì non il tuono del cielo, ma un tuono orribile
di migliaia di voci esultanti siccome il muggito d’un terremoto, e una musica
lugubre e agghiacciante d’instrumenti derivati da membra umane e l’urlo
d’inauditi e mai veduti tormenti.
E una piana infuocata pullulante di crateri fumanti era
invasa da una nebbia sulfurea, che le lingue di fiamma lambivano e dissolvevano
a intermittenza, ora in un luogo ora in un altro, quali fulmini in un cielo
coperto di nubi nere, e pareva un’enorme fucina, dove non si forgiassero le
armi d’Efesto, sibbene si stravolgessero percotendo ed ustionando le vite degli
uomini.
Oltre il campo di fuoco la tenebra dominava incontrastata. E
sopra non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della luna, ma
uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro indiscernibile senza fondo.
E il piede dell’incauto viandante, il quale già troppi
segreti aveva violato, colpì distrattamente un oggetto sul suolo, che si mise a
rotolare per qualche tratto.
Il bagliore provocato dalle fiamme del campo dei crateri
riversava una penombra sazia di vapori di brace e di carni consunte, sì che nel
vago lume verdastro poté scorgere, incredulo e sorpreso ma subito sgomento, un
teschio eburneo e luccicante che roteava arrestandosi un istante per poi
ricominciare.
In verità seguiva un percorso scandito dai battiti del tempo
intorno a fosse quadrate e oscure quali pozzi di sentina, donde esalavano
miasmi ammorbanti. A migliaia le buche putride costellavano la terra buia e ne
escivano lunghi vermi bianchi che strisciavano e saltellavano a scatti.
E parevano avidi di nuovi cadaveri e accorrevano in massa,
una torma biancastra, lucida e tremolante, verso un gruppo di donne
scarmigliate e danzanti attorno a un capro bruno, dalle ritorte corna rosse.
Queste magiche baccanti rovesciavano sopra i vermi,
traendolo da un colossale paiolo bollente, un unguento fetido. E in poco tempo
avveniva la metamorfosi.
E larve di uomini e donne salivano dalla terra, spronate dal
tirso delle maghe, che, volando sopra loro, le abbagliavano con giochi di vetri
colorati. E una torma illimitata saliva dalla terra, di vite future, infanti
che presto avrebbero udito la voce della madre.
Procedevano quali onde spinte da Libeccio, accalcandosi le
une sulle altre, urtandosi coi gomiti minuti, scalciando irritate da ogni lato.
Una fretta imperiosa le assillava, le costringeva, anche se piccole e deboli,
ad essere spietate con le compagne.
E un miraggio di architetture bizzarre ergentisi a capriccio
innanzi al disco del sole crepuscolare quali nuvole innalzantisi al cielo, come
guglie illustrate dai raggi violacei e talora violenti quasi scatti d’ira
tormentosa dell’astro divino morente, come un sogno di castelli ascendenti ai
cieli incantati delle fiabe, si smarriva nelle profondità dello spazio,
misterioso oceano senza rive.
E innanzi all’astro, che si dipartiva da questa vita,
un’altissima torre, una montagna inaccessibile, incombeva a precipizio
nell’insondata voragine dell’oscurità, ma pareva attraversata nei suoi giri
vorticosi da bagliori più rapidi del pensiero.
Occhi, occhi di miriadi di teste mozze la pervadevano
scintillanti, riflettendo l’ultima luce, e s’aprivano e si chiudevano
ininterrottamente, su, su, fino a smarrire il volto nell’abisso senza vista.
E gli embrioni di vite future si allontanavano nella vasta
pianura fra i vapori delle nebbie, simili a stormi di neri alati sotto una
distesa di nuvole bianche qua e là trapassate da luminosi fasci, che dilagando
si confondono nel mare.
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