domenica 29 marzo 2020

Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana


Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza, 2012


P. 7. Furono frequenti nell'antichità gli scambi di idee tra mondo greco-romano e India. Apollonio di Tiana compì un viaggio in India a quanto riferisce Filostrato e Plotino accompagnò Gordiano III nella spedizione contro i Persiani, per il “desiderio di apprendere dalla viva voce dei maestri orientali le dottrine religiose e filosofiche dell'India e dell'Iran”.
P. 8, probabili influssi della medicina indiana sul Timeo di Platone e sul trattato Malattie delle donne di Ippocrate.
P. 19, “il vero, l'essere, è nella coscienza pura senza pensiero e quando quella coscienza comincia a pensare, è già sotto l'influsso dell'errore, diventa altra da sé, pensiero concreto, divenire, illusione.” Queste affermazioni, circa la mistica indiana, sono in accordo con quanto deduce Colli dal sistema di Schopenhauer a proposito del Dionisiaco e dell'Apollineo. L'interiorità, il Dionisiaco, l'essenza è prima del pensiero che comunque è sua espressione e quindi è altro e rientra nella sfera dell'Apollineo.
P. 22, singolare coincidenza dell'insegnamento delle varie scuole filosofiche indiane ( Jainismo, Nyaya, Sankhya ecc. ) con quello di Platone e del platonismo in genere : il mondo materiale non è quello reale, vero, ma è il regno della mutevolezza, dell'impermanenza, del dolore, del non essere. Il mondo vero, dell'Essere, è al di là.
P. 23, le idee appartengono al piano del mondo sensibile, la conoscenza razionale ci avvicina alla verità, ma rimane nel campo del molteplice, una è la Verità e non si coglie col pensiero. In questo anche vi è coincidenza con la visione di Colli, per cui il Dionisiaco, l'Essenza interiore non è esprimibile, né si può cogliere col pensiero, però le idee per Colli hanno un valore trascendente, come per Platone.
P. 24. Il principio è irrazionale : “La ragione serve solo a darci la consapevolezza che il razionale è falso e illusione : il reale è nel Brahman, nell'atman, nel purusa, nel jiva, intelligenza pura, ma così pura che questa intelligenza inerte, questo pensiero senza pensato e senza oggetto o rasenta la incoscienza o è lo specchio sul quale, senza modificare la sua natura, si riflettono le immagini che esso da se medesimo emana, in una illusoria obiettivazione.”
P. 29, caratteristica della filosofia indiana non è la conoscenza della realtà esteriore ma “l'ansia dell'uomo di conoscere se medesimo. … L'uomo è la misura di tutto, così come il macrantropo era stato l'origine di tutto : l'omologia fra uomo e universo sovrasta lo sviluppo del pensiero filosofico e teosofico dell'India. … E ciò appunto spiega il prevalere del carattere psicologico di molta parte della speculazione indiana.”
P. 33, a proposito delle Upanisad, si evidenzia il lungo percorso di riflessione che nel corso di molte generazioni portò alla tradizionale concezione dell'atman (anima) e del samsara (reincarnazione).
P. 40. Mahavira muore circa nel 477 a. C., Buddha nel 478 a. C., si noti la quasi contemporaneità con Pitagora (570-490 a. C.) e Platone (427-347 a. C.).
P. 40 e sg., il Jainismo è un pluralismo dualistico basato sulla contrapposizione tra le anime e la materia. Come per il platonismo si tratta di liberare l'anima dal vincolo corporeo che la permea e le impedisce la liberazione offuscandone l'intelligenza.
P. 52, Buddhismo. La differenza fondamentale con l'insegnamento delle Upanisad e del Jainismo è che per il Buddhismo non esiste un io permanente, un atman, un jiva, un purusa, la nostra personalità si riduce a un fluire perenne, eterno e vero è soltanto il Nirvana. Non esiste un io (atman o jiva) ma un principio cosciente (vijnana). I problemi del Buddhismo si incentrano sulle domande : che cos'è il soggetto ? Come si svolge l'operazione mentale ? Si tratta di interessi prevalentemente psicologici che denotano un atteggiamento critico e antimetafisico. Il problema essenziale è il superamento del dolore, cioè l'arresto del carma, di quella forza cioè che raduna intorno al vijnana aggregati di corporeità e sensazione per vite ulteriori in continue nascite e morti. L'individuo dunque è sostanzialmente un aggregato di elementi che fa capo ad un principio cosciente anche questo mutevole e in continuo divenire. C'è una certa somiglianza, per gli interessi di carattere psicologico ed etico e quindi pratici, con la corrente di pensiero ellenistica dell'epicureismo, il cui cosiddetto materialismo va certamente più avvicinato a queste preoccupazioni di carattere psicologico ed etico che non allo scientismo materialistico occidentale dell'Ottocento e in genere della nostra epoca.
P. 58, molto interessante è la posizione filosofica di Nagarjuna che getta le basi dottrinali del Grande Veicolo. Dopo aver demolito ogni convinzione e aver negato ogni validità al pensiero e al pensato arriva alla conclusione che oltre il velo delle apparenze c'è l'inqualificato ed inqualificabile vuoto, l'identità assoluta, che non è né soggetto né oggetto, né essere né non essere, al di là di tutte le categorie logiche.
P. 60, le affermazioni della scuola seguente dei Vijnanavadin (o Yogacara) sono quelle che devono forse avere affascinato Schopenhauer. L'identità assoluta non è il vuoto ma il pensiero cosmico, il Principio, l'Assoluto, esso si obiettiva nella coscienza dalla quale poi si evolvono le serie individuali, “catene di pensieri che reciprocamente condizionandosi si svolgono in apparenza di realtà obiettiva e di personalità illusorie”. L'identità assoluta è dunque coscienza, soggettività assoluta, il pensiero non è relativo come per Nagarjuna ma creativo, però l'oggettivazione è di per sé irreale, perché reale è solo la soggettività assoluta.
P. 64, le scuole materialiste sono varie, la principale caratteristica è l'interesse mondano-politico e la tendenza al cavillo sofistico e alla negazione del dogmatismo come della religione in genere. Il carma non esiste, bene e male sono illusioni, tutto è regolato dal destino, cioè dalla natura delle cose, alla morte del corpo gli elementi che lo compongono tornano alla loro sede, l'intelligenza si dissolve alla scomparsa del soffio vitale.
P. 67, Jayasri, il rappresentante più caratteristico dello scetticismo indiano. Non si può dimostrare nulla, di nessuna cosa vi può essere certezza logica. Nega la validità di ogni mezzo di conoscenza, anche della percezione.
P. 73, la dottrina Sankhya prevede la dualità di essenze eterne infinite o anime (purusa) e di una natura naturante (prakrti) anch'essa eterna, non è postulata l'esistenza di Dio, evidentemente perché si tratta di una pluralità di essenze divine infinite, dotate di tutti gli attributi della perfezione. Queste essenze perfette vengono catturate dalla prakrti, cioè la materia si unisce all'intelligenza e ciò spiega tutto il reale, l'universo infinito. Lo Yoga differisce dal Sankhya nel particolare che postula l'esistenza di Dio, per il resto non c'è sostanziale differenza. Esso è caratterizzato inoltre da una disciplina psicofisica di antichissima origine.
Riguardo al Sankhya è interessante che l'unione tra purusa e prakrti avvenga attraverso la psiche o buddhi e che l'essere derivatone (jiva) sia avviluppato da un corpo sottile (lingasarira) che precede quello materiale. Quest'ultima circostanza ricorda il ka egizio o secondo corpo o doppio, di cui gli antichi Egizi ed anche gli Etruschi avevano gran cura ( pratiche imbalsamatorie, sepoltura accurata entro sarcofaghi in tombe destinate a sfidare i millennii ).
P. 77, altro aspetto curioso è il carattere ciclico del processo creativo che prevede un periodo di creazione e uno di riassorbimento per iniziare di nuovo un altro ciclo che viene predisposto dalla qualità delle esperienze collettive passate e per gli individui dal fardello del loro carma. Questo dei periodi ciclici si trova anche in Platone (Timeo) ma un po' dappertutto nelle antiche mitologie ( cfr. Il mulino di Amleto di de Santillana-von Dechend ).
P. 83, altra analogia con la cultura greca, il Vaisesika, corrente di pensiero filosofico, propone una teoria atomica che indaga la natura degli atomi. Ecco dunque che non solo i Greci con Democrito ed Epicuro precedettero la scienza moderna, ma anche i filosofi dell'India.
P. 94, rigido formalismo e ritualismo della Mimamsa, le parole del Veda sono la verità indiscutibile, valore assoluto del sacrificio per ottenere la liberazione ( c'è una certa somiglianza con il rigore ritualistico ebraico ).
P. 106, la concezione di Sankara espressa nella dottrina Vedanta è assai simile a quella di Parmenide di parecchi secoli anteriore : l'essere è, il non essere non è; in questo caso l'essere è l'Atman, il non essere è l'esistente cioè Maya, l'illusione. L'Atman è l'Io universale, la sola realtà, tutto il resto, cioè il divenire è illusorio. Gli individui non sono che il riflesso dell'Io unico, il Brahman, cui conduce la liberazione, cioè la consapevolezza della verità e l'esperienza della suprema realtà, l'identificazione con il Brahman. Come si vede sono le stesse idee espresse da Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione, tolta la differenza costituita dal concetto di Voluntas-Noluntas, perché qui l'Io assoluto è assai vicino all'Essere di Parmenide. D'altra parte è pur vero che Schopenhauer aveva presente nella composizione della sua opera maggiore la filosofia Vedanta, come si può vedere al paragrafo 68 del libro IV de Il mondo come volontà e rappresentazione ( Laterza, vol. II, p. 508 ).
P. 109, con Ramanuja e Bhaskara si afferma una sorta di panteismo. L'opera di Ramanuja fu molto studiata e commentata. Le innumerevoli teorie del Vedanta, con i suoi maestri che spesso si contraddicono fra loro, vengono esposte con chiarezza e minuzia. In sintesi si oscilla fra il panteismo e una visione di Dio e del mondo di tipo cristiano, Dio causa efficiente del mondo, anime differenti da Dio ma eterne (non semplicemente immortali) ed inferiori per perfezione all'Essere Supremo. Se la visione invece è panteista, Dio è identificato con il mondo, che è sua manifestazione, anche se non integrale in quanto l'Essere Supremo non manifesta che il proprio essere e non la propria beatitudine e intelligenza.
P. 116, le scuole scivaite basano la loro dottrina sugli Agama e non sui Veda. Pare che questa corrente religiosa sia la più antica dell'India, precedente l'invasione ariana. Il più noto rappresentante è Abhinavagupta, ma altri ne sono gli insigni maestri. La dottrina è caratterizzata da un sostanziale panteismo per cui il mondo è identico a Dio. Egli si rivela in una sorta di risveglio nella manifestazione fenomenica per poi ritirarsi in una specie di sonno alla fine dei tempi. La liberazione è conseguenza della conoscenza (gnosi).
P. 123. Già all'inizio della presentazione dei problemi oggetto della meditazione indiana si può notare che questa filosofia ha un'impostazione decisamente idealistica e razionalistica oltre che psicologica, il problema fondamentale è quello dell'io e del rapporto tra l'anima e il mondo esterno. L'anima come in Platone è prigioniera del corpo e sorge come per Cartesio il dubbio se la nostra conoscenza corrisponda effettivamente ai dati fenomenici.
Notare che non mancano i materialisti (Carvaka) secondo i quali la realtà e l'uomo non sono che una pura combinazione di elementi naturali. Che cosa manca a questa filosofia per essere completata da quella occidentale ?
P. 131, per il Buddhismo del Piccolo Veicolo l'essere delle cose coincide con il loro essere conosciute, una posizione non diversa direi da quella di Berkeley, “esse est percipi”.
Le teorie quanto più varie delle diverse scuole sull'errore sono la dimostrazione dell'indagine a tutto campo degli Indiani, il loro non fermarsi di fronte a nulla e soprattutto il loro rifiuto di una scienza basata unicamente sull'esperienza o sull'esperimento, come per l'Occidente. La loro indagine è essenzialmente logica e il dato di fatto non ha mai un valore assoluto, ma sempre relativo, perché non è la vera realtà.
P. 159-160, la lunga discussione sui mezzi di conoscenza e sulla percezione, oltre ad aprire le porte all'indagine psicologica avvicinano la speculazione indiana a quella occidentale dagli empiristi a Kant. Anche qui si pone la domanda : donde i giudizi e le idee, donde l'universale ? Posta la sensazione, da dove traggono origine i mezzi che abbiamo per elaborarla e trasformarla in conoscenza valida per tutti ?
E' esposta poi la dottrina delle varie scuole di pensiero sull'argomento e si tratta di una descrizione decisamente complessa che rivela la straordinaria conoscenza di Tucci, oltre, naturalmente, la curiosa abilità dialettica e sottigliezza logica degli Indiani.
P. 213-214, nella forma più alta della speculazione filosofica il pensiero indiano circa l'Essere Supremo si avvicina moltissimo alla concezione neoplatonica di Plotino . “... identità dell'Uno, sostrato indefinibile di tutto ciò che è, realtà suprema senza forma e senza nome oltre il fluire delle forme e dei nomi.”
La sterminata moltitudine degli dei inoltre è riconducibile alla tradizione religiosa popolare che a ogni forza della natura attribuiva una potenza divina, e questo spiega il fatto che gli dei siano un contraddittorio miscuglio di bene e di male, appunto perché si tratta di semplici forze della natura.
P. 220-221, il Krsna-Vasudeva della Bhagavadgita ha molta somiglianza con il Cristo della religione cristiana soprattutto nella corrente protestante, data l'importanza attribuita all'efficacia salvifica della grazia divina. L'anima salvata dalla grazia divina si congiunge nella beatitudine eterna al Dio Supremo.
P. 222, processo di emanazione del divino nelle creature, come la luce che è più forte o debole a seconda della distanza dal fuoco, concezione identica nel neoplatonismo ellenistico. Sorprende la somiglianza di questo pensiero con quello di Platone e di Plotino.
P. 233. Una particolarità della mentalità indiana è che anche i negatori di Dio (Buddhisti ecc.) non negano però l'esistenza dell'anima e la trascendenza. Non si tratta di atei e materialisti radicali come nell'Occidente, ma di negatori che da noi sarebbero considerati come dei mezzi credenti. Anche la concezione dell'Io oscilla tra l'anima eterna individuale e un'illusoria e momentanea coscienza dell'istante che poggia su una sostanza universale, ma ciò che interessa è che anche il materialismo non nega l'Essere, la Sostanza.
P. 299, le argomentazioni estremamente sottili delle varie scuole vertono sostanzialmente sul problema se la realtà esista o sia un sogno, dilemma, com'è noto, affrontato da Descartes con il Discorso sul metodo, qui la dimostrazione non è meno persuasiva e stringente da parte dei Vaisesika-Naiyayika contro gli idealisti buddhisti che riducevano tutto a illusione. Dire infatti che tutto è illusione è come dire che tutto è reale, se non c'è una pietra di paragone che segni un discrimine tra l'illusorio e il reale, ma allora non c'è neanche distinzione tra falso e vero, tra bene e male.
P. 306, nella discussione tra l'esistenza o meno della realtà empirica le scuole Yogacara ricorrono all'argomento dell'evidenza della percezione per dimostrare che la realtà ha una sua esistenza anche se relativa e non assoluta. Quello di evidenza è un altro concetto che si ritrova nella filosofia di Descartes.
P. 312, la teoria atomica, simile a quella di Democrito ed Epicuro, è presente in buona parte delle filosofie indiane (Buddhismo, Jainismo, Vaisesika).
P. 315, si noti la curiosa coincidenza nell'immagine del raggio di sole in cui volteggiano infiniti corpuscoli, per dimostrare l'esistenza degli atomi da parte della dottrina Vaisesika, con la stessa immagine presente nel De rerum natura dell'epicureo Lucrezio :
cum solis lumina cumque
inserti fundunt radii per opaca domorum :
multa minuta modis multis per inane videbis
corpora misceri radiorum lumine in ipso,
et velut aeterno certamine proelia […]
conicere ut possis ex hoc, primordia rerum
quale sit in magno iactari semper inani, …
(II, 114-122)
P. 327, a proposito della legge di causalità si cita un verso della Bhagavadgita : “nulla esiste che non sia già esistente e ciò che è esistente non può diventare non esistente”.
P. 334, a proposito del concetto di causa si riferiscono le varie tesi delle scuole, fra cui quella buddhista. Secondo i buddhisti “l'universo è un fluire indefinito nel quale ogni momento condiziona il successivo”, ma si tratta appunto di un momento per cui la causa è già scomparsa quando sorge l'effetto. La concezione del fluire continuo del tutto, come è noto, appartiene anche al nostro Eraclito.
P. 337, si specifica il carattere essenziale della speculazione indiana, “essa costituisce l'impalcatura logica di una soteriologia”, la filosofia ha come scopo una giustificazione logica di idee proprie della religione, come il samsara.
P. 338, contrariamente alla filosofia occidentale (aristotelica) non si risale mai ad una causa prima produttrice del samsara (il divenire), solo alcune scuole lo attribuivano alla volontà divina.
P. 341, nella considerazione degli universali, la posizione Nyaya-Vaisesika si avvicina moltissimo alla dottrina di Platone : “la generalità è immutabile come idea archetipo esistente ante rem.”
P. 362-364, la critica di Nagarjuna al concetto di spazio e di tempo è basata sulla logica ma anche, prevalentemente, su giochi di parole, o meglio su una logica tutta formale ma di poca sostanza. Il paradosso greco di Zenone su Achille e la tartaruga sembra più ingegnoso.
P. 368, a proposito del carma si nota come la divisione in predestinati alla salvezza o alla dannazione della trasmigrazione eterna sia dovuta in parte a influssi dello gnosticismo ellenistico.
P. 371, la gnosi indiana stabilisce il primato della conoscenza sulla morale che agisce solo nel modo samsarico e non può superarlo, mentre la conoscenza lo travalica. Si pone così il fondamentale dualismo di errore e conoscenza che appartiene anche alla filosofia platonica.
P. 377. Somiglianza del Bodhisattva con la figura di Cristo. Egli assume su di sé i peccati degli altri nel supremo sacrificio di sé che si chiama parinamana, “trasferenza del carma”.
P. 381-382, continue analogie col Platonismo, in particolare il motivo della gnosi come unica via per la liberazione dal samsara. La Bhagavadgita riecheggia inoltre “gli stessi motivi che, nella Cina, la scuola taoista aveva formulato nella sua famosa legge del wei-wu-wei, agire come se non si agisse, senza cioè che le passioni ne siano il riposto movente.”
NB, l'assenza di passione, la non partecipazione all'azione ricorda l'apatìa dello stoicismo, vedi Seneca e Marco Aurelio, quest'ultimo soprattutto.
P. 395 e sg. Circa l'essenza e il valore della parola le teorie sono varie e diversissime tra loro. La più interessante è quella dell'apoha cioè dell'esclusione, formulata dai Buddhisti secondo i quali essendo impossibile cogliere la realtà del punto-istante, la parola non può riferirsi alla realtà vera ma essere soltanto una costruzione mentale la cui fondatezza consiste nel dire quello che non è e negare la sua identità con tutto il resto. Questa è la teoria più interessante, assunta anche da Dinnaga. Le altre teorie riportate nelle loro molteplici variazioni denotano una propensione alla speculazione intellettuale molto accentuata e spesso cervellotica.
P. 412-413. L'estetica indiana raggiunge la sua formulazione compiuta con Bhatta Nayaka e poi con Abhinavagupta. Il godimento estetico, fine a se stesso, è considerato una catarsi (vedi il nostro Aristotele) e come una completa identificazione del soggetto (lo spettatore o il lettore) con l'oggetto, che separato da qualunque determinazione spazio-temporale, che non sia fittizia, è perciò universale. L'esperienza estetica segna dunque una momentanea interruzione del samsara e provoca una sorta di beatitudine “che è uno dei caratteri della coscienza cosmica ipostatizzata in Siva”. Questa identificazione del contemplante nel contemplato ricorda un'analoga concezione de Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer (libro III, p. 38).
P. 419, la teoria dello dhvani, cioè delle qualità essenziali dell'opera poetica è estremamente interessante, soprattutto in questo che : “l'opera d'arte più espressiva è quella che contiene maggiore capacità di misteriose risonanze, che scava più profondamente nel'animo e dice molte più cose che le parole apparentemente non dimostrino.” L'opera principale sull'argomento è quella di Anandavardhana, Dhvanyaloka.

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