I bagni di Cleopatra erano cinti da vasti giardini colmi di mimose, di limoni odorosi e di piante d’aloe, di pomari di Persia, la cui sensuale freschezza contrastava con l’aridità del circostante deserto; terrazze immense sostenevano giungle inestricabili e innalzavano al cielo piramidi di fiori su giganteschi ripiani di granito rosa. Vasi di marmo pentelico sbocciavano come grandi gigli ai bordi di ciascun ripiano e le piante che contenevano non sembravano altro che i loro pistilli. Alcune chimere vellicate dal cesello dei più abili scultori greci erano mollemente adagiate sul prato variopinto, quali svelte levriere candide su di un tappeto da salotto.
Quattro scalinate di porfido adducevano ad un ampio bacino. Attraverso la trasparenza dell’acqua diamantina si vedevano i gradini discendere sino al fondo ricoverto di sabbia d’oro. Scaturivano come esili ruscelli dalle mammelle di eburnee statue femminili getti d’acqua profumata, che nel bacino ricadeva in rugiada d’argento, le cui gocce picchiettavano lo specchio luminoso. Le rive erano folte d’ombre di salici e di amaranti ed in capaci tripodi traboccavano i datteri e i dolci fichi d’India, e qua e là canneti e papiri dal fusto flessuoso celavano musicanti, come organi misteriosi, diffondendo una musica soave.
Passeggiava ella tra rigogliosi cespi di rose ardenti d’un rosso vivo e sanguigno, quali calici di cristallo traboccanti d’un vino purpureo e generoso, e l’aroma s’effondeva per l’aria limpida inebriando del sapore della giovinezza.
In una aiuola campeggiava il narciso cantato dai poeti. Il fiore dai bianchi petali era coronato al centro d’una corona d’oro. Narra la leggenda che il bel pastore Narciso suscitò i sospiri di tutte le ninfe innamorate. Ma vanamente lo amarono, poi che i suoi occhi miravano oltre gli spazi terrestri.
E un meriggio d’estate, dopo una corsa nella caccia, quando la vampa del solleone bruciava l’arena e riluceva sui tamerischi ed ebriava del profumo del rosmarino, il bel Narciso giunse alla riva d’una fonte tranquilla.
Pari a uno specchio incorniciato di muschi e di giunchiglie il fonte scintillava nel silenzio del giorno generoso. Intorno ligustri e giacinti crescevano, pervasi di freschezza.
Come egli vide il volto riflesso, lucido di sudore dorato, coronato dal fulgore dell’astro all’apice della forza, e mirò gli occhi estatici d’una vita inesausta, quale l’ombra d’inviolate foreste in cui si smarrisce la luce nel labirinto degli alberi, dove cantano e volano di ramo in ramo alati dal piumaggio vario dei colori più seducenti che possono far sognare una mente d’artista, come vide i suoi occhi profondi quali gemme nere, il volto suo impietrì. E l’eterno rimpianto lo colse.
Appena si volse il volto di Cleopatra allo stelo solitario, e poi ch’ella ebbe saziato gli occhi della dovizia delle piante e dei fiori che pullulavano per le aiuole opulente, si diresse verso l’alta reggia sorgente in mezzo al parco, donde partivano i mille rivoli che irrigavano quel giardino di delizie.
L’ora del tramonto più che nelle precedenti metamorfosi del dio lasciava spazio agli estremi disegni della fantasia che già non fossero calati in archi e colonne e architravi e volte e torri a suscitare lo stupore dei più arditi sognatori, quale era appunto la meraviglia di quel palazzo superbo. Così le ombre e le luci circondavano d’un alone di mistero quegli edifici, sottraendo alla vista la capacità di coglierne la fine. Come da una coppa aurea si spargeva purpurea la piena radiosa inondando gli ultimi lembi del mondo. La fiumana sanguinea si confondeva con le ombre dilaganti in un violaceo manto misterioso che avvolgeva le colonne scanalate di marmo candido, le colonne a spirale di porfido, di granito, di malachite reggenti architravi scolpiti a ghirlande, a maschere tragiche e comiche, con figure d’animali favolosi seminascosti da una vegetazione fittizia. Immense cupole viola costellate di stelle argentee annunciavano la sera imminente, mentre già nereggiavano gli obelischi di granito.
Verso occidente agonizzava in un coro sommesso di luci il dardeggiante Apollo, fiottando ardenti gli estremi scintillii sovra le immagini levigate delle ninfe delle fontane, quali vivaci liocorni che ancora invitino al gioco fuggendo nel cupo dei boschi.
La regina si specchiava nell’acqua delle fontane, ove si compiaceva l’ora vespertina di intrecciare capricciosamente i suoi colori d’oro e di rame in ornamenti fugaci. Il viso, aureolato dal tramonto che si perdeva dietro di lei, le appariva nelle acque un’ombra lontana.
Innalzando l’onice delle sue unghie pure, coglievano le dita sottili l’oro morente del vespero, un’urna quasi, che comprendesse le ceneri d’una splendida e favolosa Fenice.
Nessun commento:
Posta un commento