lunedì 18 luglio 2011

Cleopatra III

La luna con giochi d’ombra e di luce trasformava le mura, le arcate e le colonne gigantesche del palazzo, che risaltavano nella notte di un blu caldo e chiaro. Le onde del fiume ridevano, argentate dall’astro. Una brezza leggera commuoveva appena il canneto e carezzava i calici del loto. Le imbarcazioni ondeggiavano lentamente presso i pontili e gemevano sommessi i flutti del Nilo.
La regina, seduta su un ampio scanno, fra morbidi cuscini, solo coverta da un diadema e da un cinto tempestato di gioielli, che le fermava un velo leggero sulle anche, volgeva la vista al fiume, sospirando di insoddisfazione e di desiderio.
Oltre le acque confuse da un vapore azzurro si levavano i cumuli sabbiosi del deserto, ondeggiante sotto la luna come un mare bianco.
Nelle oasi giacevano i leoni, e sulle alture della valle dei re i corvi gracchiavano, recando brani di preda al nido. I loro voli neri calavano nelle tenebre, messaggeri di misteriosi riti.
Il suo sogno era prossimo. Aveva bevuto alla presenza di Antonio una coppa d’aceto in cui aveva dissolto la perla che le adornava l’orecchio. Il fasto del banchetto aveva superato gli sperperi e la dissolutezza di Baldassarre, ed ella aveva danzato nell’esaltazione dei profumi arabici, nell’odore salino e dolce della sua pelle fresca di sudore e palpitante e infuocata come un vino della Colchide.
La penombra della sala era stata illuminata dal fulgore della sua danza irresistibile. Sovra i satrapi e gli scribi e i proconsoli aveva imperato la nudità splendida del suo corpo, cui anelava la concupiscenza gravida di tutte le brame e le ossessioni e le dilanianti angosce delle quali si serve la lussuria ad asservire la miseria dei mortali. Percorsa da un manto di seta nera che le volteggiava attorno come ali di nebbie innanzi alla luna, ella aveva trionfato sulle mitre, sulle corone d’alloro, sui turbanti, sulla superbia dei sacerdoti, sull’astuzia dei mercanti, sull’intelligenza dei filosofi, sulla virtù dei guerrieri.
Ed ora all’aria aperta, in un chiarore virginale, torme di passeri saltellavano e svolazzavano a lei intorno, sovra il balcone le cui colonne quali cedri bruni si diramavano in una fronda fantastica di sculture di divinità silvane.
Una fusione delicata, diafana, d’ombra viola ed azzurra il vespero le pingeva sull’epidermide delle palpebre, negli occhi s’illuminava l’iride lionata degli angeli notturni.
Al chiarore lunare, nella landa solitaria estesa come un oceano, si disegnava la sagoma nera degli alberi in un alone giallastro, evanescente. Si protendevano i rami cinerei nell’ansito greve, nel silenzio che li mordeva gelido.
Dalle fattorie remote, disperse nei campi lungo il corso del fiume, alcuni cani, rotte le catene, in preda al furore, rasparono in corsa i seminati, divelti dalla foga degli artigli.
Si adunavano ululando verso le montagne, gigantesche ombre, elevando il muso, gonfiando il collo terribile, effondendo dalle nari rosse l’umido fiato.
Ed ella immaginò di trascorrere nella notte tra loro, quasi dispersa viatrice, una candida figura in un coro di demoni.
Una candida figura in un coro di demoni era ella, indifesa e smarrita nel labirinto, ove di latrati si dilania la solitudine.
Ah, i polmoni bruciano, le tempie battono, la notte precipita negli occhi come un sole.
La luna purpurea ritagliava ombre entro la sua lucentezza per i canneti agitati, cadendo nell’acqua del Nilo come un serpente dalle scaglie vitree.
Ella vide la sua immagine riflessa dallo specchio mormorante.
Il suo corpo, quasi una statua d’ambra, si disegnava pallido a fior d’acqua. I boccioli dei seni contrastavano con il loro smalto rubeo, lievi ombre si prolungavano per il costato. I fianchi liberati del velo si arcuavano e si armonizzavano alla coppa muscolosa del ventre, lucido sotto la fiammella nera dell’ombelico. Una lieve peluria adombrava la vagina fra le forti gambe tornite e sottili verso la caviglia.
I capelli parevano due flutti, due vortici di luce lunare, e si confondevano entro il mistero notturno. Le nari si dilatavano talvolta sovra le labbra mobili e spesse, dove si soffermavano i desideri, e la gola morbida e bianca era un’offerta alle giovani bocche ardenti.
Gli occhi erano profondi e impenetrabili e nel contempo scintillanti e vivaci, cangianti a seconda dello sguardo e dei raggi quale cristallo, ora del colore della savana selvaggia, ora della palude insondabile, ora del verde delle foreste sature di piogge, ora glauchi come l’onda del mare invernale, e incantavano della malia furtiva delle sirene.
Dietro di lei s’innalzavano i gioghi delle montagne, donde provenivano a intervalli bagliori di fiamma. Quasi l’esaltazione resinosa delle foreste di cedri e del lontano confine degli Etiopi le affluiva nel respiro sovra le tarde acque del fiume.
Era forse anch’ella chiamata al banchetto degli dei nella terra degli uomini felici e longevi, per essere onorata quale sacerdotessa di sconosciuti riti ?
Volse il volto verso la siepe che si propagava tra le onde per avvincere i giunchi flessibili, la siepe di rose rosse fragranti di rugiada, i cui petali olezzavano del sentore dei talami sognati, sparsi di essenze arabiche fra tendaggi intessuti di enigmi.
Nubi si addensavano intorno alla luna ignea, portali immensi e fragili sovra contrade che non temono il tempo, e parevano schiudere orizzonti ove i mondi fluttuano in un mare arroventato e crespo donde sgorga incandescente il disco del sole.
Cogliendo la luce da quel celeste spiraglio, il suo viso era appena illuminato, la grande penombra empiva la volta dello spazio come una camera chiusa e buia.
Sull’orlo di baratri nella terra arida dove incombevano le palme, ai confini delle lande sterili, un cavallo eburneo scoteva l’ampia criniera luminosa.
Nitriva innanzi all’abisso, dal quale salivano due luci fulve, maligne.
Un lento ansito roco s’inerpicava su per le rocce, una lunga ombra flessuosa rampava per il dirupato pendio. Un gigantesco leone dalla giuba rovente aperse in un ruggito il rosso morso.
Veniva su dal baratro, cinto della tenebra, i suoi occhi erano incubi in oscuri antri ignoti. I suoi occhi erano quali i cerchi delle febbri che imprigionano in malefiche ossessioni.
Esso balzò sopra il cavallo bianco. Il suo artiglio gli lacerò il dorso candido, e un fiotto di sangue ramificandosi brillò acre e denso per il vello madido di sudore e lucente come marmo.
Si riscosse la bestia possente in un impeto di terrore, i globi degli occhi parvero gemere d’un dolore infinito.
S’innalzò il grido sovra il cielo, quale imprecazione d’un demente senza speranza, che nutra del suo odio tutto l’universo, e l’animale s’inarcò fulmineo, svincolandosi dalla branca uncinata.
Furente per la ferita, aspirò per le froge la vampa amara del deserto e si sentiva invaso entro il cuore da una sofferenza bruciante. La vita si sperdeva quasi tempesta sul mare sterile.
Percosse il suo zoccolo il suolo sollevando nugoli di sabbie, il furore colmò lo spazio echeggiante d’un travolgente galoppo. Pulsarono le ombre del ritmo della corsa come delle pulsazioni d’un cuore teso sino allo spasimo.

Cleopatra giaceva nella sala fra manti d’oro che l’avvolgevano tutta circondandole il capo, come un’aureola. Solo i lunghi capelli ora erano quali flutti su sabbie aurate, sfumati di linee violacee. I suoi occhi posavano immobili su punti remoti e indistinguibili dello spazio celeste, essi riflettevano quasi il respiro di astri sconosciuti.
Ella usciva fra le colonne avvolta nelle onde della veste costellata di scintillazioni, quale il mare nella notte serena, quando risplende dei fuochi delle feste e brulica d’una vita interiore non mai prima svelata, così ella si affidava alla profondità del cielo e lo osservava, come una sirena che guardi su dall’insondata altezza dell’oceano.
Dall’interno della stanza s’udiva la voce del cantore arabo, accompagnata dalla cetra :
“ Il tempo della mia durata è come una visita che io faccio agli uomini,
e chi spera di possedermi a lungo è in errore.
Dovunque sboccia il mio fiore
le mie radici sono bagnate dalla fonte dell’amarezza,
e una corona di spine avvolge il mio stelo.
I loro aghi mi trafiggono
e sprizzano sangue
sui miei petali e li imporporano.
Il mio profumo inebria chi lo respira,
ma
chi mi coglie
soffre la mia condanna,
poi che nessuno
può sottrarsi al tormento
e al dolore.” 
      

Nessun commento:

Posta un commento