I
Giunto
a quarantasei anni, aveva ormai raggiunto l’acme. Ed era nel pieno
della giovinezza e della creatività.
Sovente
gli appariva l’immagine d’una montagna assolata durante una gita
fatta subito dopo gli studi, molto tempo prima, e aveva la sensazione
che il tempo non fosse trascorso, ma fosse sempre quello presente.
E
quando osservava da casa sua il panorama tra i due promontori,
rivolto verso il mare, rivedeva i sogni passati come i ricami di un
ampio manto che coprisse la sua dea, la dea sorta dalle acque e dalla
brezza e dalla scorza degli alberi e dal cielo azzurro, dal sole e
dalla luna incantatrice.
Aveva,
negli anni della prima giovinezza, conosciuto il figlio d’un
pittore, un ragazzo ammirato dalle fanciulle per l’avvenenza del
portamento, un misto d’introversione e d’arditezza, sì che la
sua ritrosia attraeva, quasi un cavaliere misterioso le cui eclatanti
imprese sono velate da improvvise fughe in foreste impenetrabili.
E
aveva conosciuto un giovane artista, coetaneo di costui, ambedue
erano più giovani di alcuni anni, il quale frequentava l’Accademia
di Belle Arti ed era entusiasta della filosofia estetica. Egli aveva
nella fisionomia, nel contempo forte ed elegante, nella sicurezza e
nell’intelligenza dello sguardo, nell’energia che da lui
promanava, la sembianza di Leonardo in età novella.
E
la memoria lo attraeva nella corrente sinfonica di Bruckner, che lo
incantava più di altri, in un viaggio senza meta, in una dolce
ondata di malinconia, e alternandosi i momenti di abbandono al
vigore, alla forza maestosa che interpretava la lotta incessante,
universale, si smarriva in un labirinto, in un mondo irreale, ma
assai più autentico di quello in cui vivono le ombre sicure degli
uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni sublimi,
di vera vita. Quella vita che, pur fatta di passioni, non appartiene
alla volgare folla delle brame né alle deviazioni e agli smarrimenti
propri alle condizioni del corpo, ma, tramata di sogni e di desideri
luminosi come luci dell’alba o raggi di sole fulgente in un chiaro
giorno di giovinezza, ci seduce senza requie e ci sprona a inseguire
le sue irresistibili, incantevoli visioni.
Procedevano
allora, egli e i suoi amici, per un sentiero nella campagna, e
discorrevano d’argomenti seri o futili, a seconda dell’estro. I
due gli erano in realtà compagni in rari momenti e più per
curiosità che per ammirazione sincera. Ognuno infatti percorreva la
propria strada nella vita, senza badare troppo agli eventuali
incontri. Ma certo la curiosità non poteva che condurli, in quei
rari momenti, a cercare la sua presenza. Egli infatti pareva sancire
un misterioso patto e appariva quale un antico idolo peruviano, il
suo incarnato olivastro dava risalto agli occhi grandi ma spesso
socchiusi, infastiditi dalla luce. La bocca era sovente serrata in
un’espressione di disprezzo. La fronte era ampia e lucente e i
capelli neri la coronavano; le palpebre, quando non offese dai raggi
diurni, sotto i neri sopraccigli, si rilassavano e si aprivano,
lasciando scorgere il colore dell’iride, che non era nerastra, ma
chiara e fulva e macchiata di verde, con un alone cinereo.
Suggeriva
l’idea d’un Montezuma avvezzo a sacrificare vite sugli altari
delle piramidi, sacre a divinità sanguinarie. La rigidezza dello
sguardo sembrava tradire un profondo rimpianto e nostalgia per un
bene perduto o un amore inesplicabile. Nella statura mediocre, ma
protesa in atti nervosi per la tensione interna, era talora temibile,
sempre all’erta. Egli era circonfuso da un’aura di autorevolezza,
che stimolava a cercarne l’assenso o a contrapporgli un’azione
che in qualche modo potesse intaccarne l’orgoglio. Quel suo volto,
sia nel bene sia nel male, era un punto di riferimento cui ci si
volgeva con un moto spontaneo del cuore.
E
così, parlando, i giovani si voltavano verso di lui, ma non
ricevevano la risposta desiderata. Egli avvolgeva in digressioni o in
preamboli il deciso rifiuto del pensiero altrui, lo calpestava anzi,
sotto una maschera di falsa modestia, incolpandosi di scarso acume.
Perciò,
alla fine della passeggiata pomeridiana, tra gli ulivi e tra i lauri
e i canneti del vicino rivo a lato del percorso, lo salutarono
congedandosi, ed egli si trovò solo.
E
così da allora la vita scorse solitaria, per tutti gli anni della
giovinezza. Ma non avvertiva la solitudine. La ricchezza della
fantasia, gli orizzonti del mondo interiore non avevano confini,
erano vasti quanto l’oceano.
Egli
si recava spesso alla riva del mare, ove le onde irrompevano, e il
vento, gelido nell’inverno, lo scuoteva sino alle ossa.
L’agone
marino non aveva requie. Gli alitava contro il suo respiro sferzante,
una lama di ghiaccio. La massa plumbea s’agitava, pesante,
intorpidita dalla senescente stagione. Cavalloni s’avviluppavano in
spire serpentine e si struggevano sulle rupi sibilando e aprendosi in
un ventaglio di spume, subito risucchiate insieme ai ciottoli e alle
sabbie.
Ma,
nonostante anche per lui fosse prossimo il freddo e l’autunno della
vita, riusciva a rinascere insieme al flusso impetuoso della
primavera e ancora, chi sa però per quanto ancora, s’esaltava
nell’ardore dell’estate.
Così
egli pensava, nella propria solitudine, al suo corpo avido d’amore
che s’immergesse nel vasto abbraccio del mare, per la carezza della
madre marina, dell’amante marina, unito a lei come Peleo, a lei
devoto come Achille. Sentiva che le membra del suo corpo s’aprivano
come le scorze degli alberi eruttando resina nella primavera, e che
era veramente un albero abbarbicato alla terra, era quell’albero
che salutava sempre con lo sguardo, laggiù verso la montagna,
durante le sue passeggiate abituali.
Non
mai la potenza generatrice gli si era rivelata così forte, in tutta
la sua terribilità, come in quell’anno. Era egli quasi in preda a
un invasamento bacchico, a un’ebbrezza sensuale mai provata prima,
come se lo stesso Diòniso, tornato sulla terra, avesse voluto
scegliere per primo proprio lui tra i suoi misti.
E
nell’ardore dell’estate, puntualmente ogni anno, si recava sulla
spiaggia non lontano da casa sua e nell’ebbra freschezza del
mattino s’immergeva nel mare e s’inoltrava fra le spume, che un
tempo avevano cinto e carezzato le membra splendenti della dea sorta
dalle acque. E poi, riposandosi sulla spiaggia, contemplava la
distesa placida e luminosa delle onde che si avvicendavano
quietamente, morbidamente sulla battigia, e allora ricordava la
stessa scena ( quante volte vissuta ! ) di anni ormai remoti e
coglieva l’eternità dell’attimo.
Gli
si poneva allora innanzi un frammento di vita altrui, di quel Foscolo
che amava tanto. Esso diceva : “ Io cerco il mio cuore ma non lo
trovo più – Oh ! mia giovinezza ! “
Così
aveva scritto un giorno il poeta dell’eterna bellezza. E lo stesso
altrove aveva scritto :
“ O
voluttà madre della natura
Bella
Venere, …”
Quanto
aveva invidiato il sentimento profondo di quell’uomo prodigioso !
Sentiva di non esserne all’altezza, di essere immensamente più
basso e volgare, ahi, sentiva di non sentire, ma di essere tratto in
ogni direzione, e perciò distratto, da ogni sensazione, da
qualsivoglia lusinga dei sensi. La sua sensualità lo intimoriva, gli
dispiaceva. Ne coglieva la colpa.
Eppure
dentro di lui s’agitava non meno l’ardore della lotta,
dell’agone, della gloria, e quando alzava lo sguardo verso la
montagna, mentre camminava non lontano da casa sua, i suoi pensieri
volavano subito verso solari olimpi o nebbiose cime solcate dalle
folgori di Zeus e gli alberi si trasformavano in dimore di dei. E
sognava allora, quando il mare era in tempesta e il vento devastava
le colline e travolgeva le nuvole che s’inseguivano forsennate nel
cielo, sognava il cupo canto delle fanciulle guerriere planare sui
loro cavalli alati e inalzarsi come un inno sopra le onde vorticose.
Egli
udiva la voce profonda della natura che lo chiamava dalle vette
lontane, brillanti ancora di neve, dalla montagna sacra degli avi,
donde l’inverno franavano a valle enormi massi travolgendo selve di
pini. Laggiù, in un tempo remoto, colava sulle rocce il sangue dei
tori, offerto al tonante dio dei monti.
Sognava
allora la riva di un fiume. Intorno sotto i pioppi s’estendeva un
mosaico di piante multicolori, la corrente spumeggiava tra i sassi e
lanciava spruzzi e gocce d’acqua montana, le libellule svolazzavano
sopra l’acqua sfiorandola e soffermandosi sulle foglie di menta. I
fiori dei ranuncoli acquatici sorgendo a fior dell’elemento,
laddove il fiume stazionava in ampie conche, apparivano quali minute
sfere di cristallo, avvolti in bollicine d’aria, e accanto
galleggiavano le lenticchie palustri. E quando il fiume s’allargava
e si riposava in curve e dolci insenature sì da formare quasi un
lago, la luce del sole vi si specchiava liberamente, e il riverbero
delle acque, unendosi alla luminosità aerea, si versava sui fianchi
arborati dei monti, più vivamente rilucendo nelle zone spoglie e
rocciose, e così l’acque e le foreste parevano d’oro e gli abeti
meravigliose vampe ardenti. E la terra assolata ammutoliva nel vasto
silenzio di Pan.
Sulle
rive crescevano cedri giganteschi che protendevano le fronde sulle
acque mormoranti e adombravano larghe foglie verdecupo di piante
ignote dal fiore violaceo, profumato, schiuso come una coppa pronta a
ricevere la pioggia del cielo, alte canne ondeggiavano alla brezza e
nascondevano nidi di alati pescatori. Gigli variopinti, bianchi,
rossi ornavano il prato, mentre dove la corrente cessava e si
formavano piccoli porti d'acque quiete, le ninfee mostravano i fiori
bianchi e gialli accanto alle larghe foglie natanti. Ma più innanzi
il fiume precipitava per cascate aperte sull'abisso, e come
sprigionanti scintille dal colpo del maglio, le spume si frangevano
su rocce millenarie nell'urto incessante, fragoroso e possente,
quindi il corso scendeva inesorabile per canali maggiori e minori,
scavati nei macigni e qual fiume di lava incandescente si gettava a
capofitto di rupe in rupe fino a gorgogliare alla base della montagna
e a placarsi in un diverso e solenne cammino.
E
nella selva fitta, oscura e cieca si mise dentro, in segreti meandri.
Un'aria greve inumidiva i tronchi e si diffondeva l'odore della
vegetazione putrescente, quasi il sudore della foresta, e i vapori si
mescevano alla nebbia che s'estendeva sulla valle e che, ruotando su
se stessa, veniva inghiottita da un'apertura inattesa della roccia
muschiosa, e che, precipitando nel gorgo, si condensava sulle pareti
petrose in gocce pesanti come un balsamo. La grotta echeggiava, a
intervalli, di un mugolio rabbioso, un ruggito, proveniente
dall'oscurità. Seguiva un rantolo sommesso, un respiro minaccioso, e
l'immane belva usciva all'aperto in una luce opaca, sotto un cielo
plumbeo, foriero di tempesta. Gli occhi fulvi e lucidi risaltavano
nella penombra, colpiti dai raggi che penetravano fra le cime degli
alberi, simili a bagliori di fiamma, la pupilla si dilatava nell'ira,
e l'iride era un vortice di voluttà crudele. Il leone si posò
innanzi, immenso, con le fauci aperte in un ruggito, pronto a
dilaniare. Le zampe poggiavano sul suolo potenti, gli artigli protesi
come uncini.
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