III
Avvolto
in una nebbia azzurra il convento giaceva nella valle. Il vento
fresco del mattino recava da lontano i canti dei frati. Il sole
sorgeva tra le montagne, brillava tra gli alberi e le gocce della
rugiada cadevano dai rami sui nugoli di ali cristalline degli insetti
che si destavano al calore del giorno. Gli uccelli svolazzavano per
il bosco cinguettando. L'abetaia in quel luogo era fitta e solo qua e
là s'apriva, rotta da alte rupi.
Salì
a fatica su un'alta roccia e si pose a guardare.
Rinchiuso
fra due montagne nere, aride, circondate in tutta la loro altezza da
orribili precipizi e da abissi profondi, sulle cui vette le nuvole
erravano lentamente fra pochi alberi funebri dove sembravano sospese
sui loro sterili rami, il monastero s'allungava nero e rigido come
una bara.
Laggiù
l'attendeva. Era tornata, dopo tanto tempo. Come già in un tempo
lontano, ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a
lei potesse meglio ricordare. Scese dunque dalla rupe e s'avviò per
il sentiero attraverso la selva ombrosa qua e là avvolta ancora
dalle nubi dell'umida notte, che si diradavano, s'allungavano, si
disperdevano lentamente verso le alte montagne.
La
mole massiccia e oscura del convento si stagliava alta nel cielo.
Quattro grandi torri s'ergevano ai quattro angoli dell'edificio e un
imponente archivolto sormontava un enorme portone di legno cosparso
di borchie di ferro.
Mauro
percosse col batacchio una di queste più volte e aspettò. Venne ad
aprire un monaco, tutto coperto dal cappuccio, e come un'ombra,
scivolando lungo i corridoi, lo introdusse in un'ampia sala dove gli
fece il gesto di attendere.
Dopo
circa un quarto d'ora la porta in fondo alla sala cigolò, s'aperse
completamente, e lasciò scorgere una figura di donna. Costei
s'avvicinò, quindi entrando nell'alone di luce di un'ampia finestra,
mostrò il suo aspetto.
Era
lei, proprio lei, Misandra. Così la rivide dopo molto tempo. Ma era
sempre lei, più bella di allora, e la sua lunga chioma si distendeva
sulle morbide spalle senza un capello bianco. Il suo sguardo si
volgeva pieno di malìa verso Mauro, ma rimaneva stranamente freddo e
distaccato. Il ricco abito bianco le copriva per metà il seno e le
spalle, le ampie maniche a sbuffo le lasciavano libere le braccia.
Era sempre più bella e affascinante. Sul braccio reggeva un lungo
scialle nero, che usava evidentemente per coprirsi dinanzi ai monaci.
Era così bianca che il candore che la copriva si fondeva con il
pallore della sua carne, sotto il tenue raggio dell'aurora.
Avviluppata in quel fine tessuto che rivelava ogni forma del suo
giovane corpo, si sarebbe detta più il ritratto marmoreo d'un'antica
dea, che una donna viva. Ma, morta o viva, statua o donna, ombra o
corpo, la sua bellezza era sempre la medesima, solo il verde bagliore
del suo sguardo era lievemente smorzato, e la sua bocca livida. Si
fermò, poi disse con voce a un tempo chiara e vellutata :
“ Mi
sono fatta attendere molto. Ma sono dovuta venire da molto lontano,
da un luogo donde difficilmente si torna. “
Così
gli offerse le mani che Mauro baciò infinite volte, mentre ella lo
guardava con un sorriso indecifrabile.
Allora
ella estendeva le sue radici fino ai più profondi recessi della sua
anima. Egli si alimentava delle speranze e assorbiva il liquore
infuocato del calice delle passioni. E la vita, imperiosa e
implacabile, gli comandava d'inseguire le chimere del sogno e i
fantasmi del desiderio, a costo della disillusione e del dolore che
si presentavano sempre come la certa e inevitabile conseguenza.
Un
vivido raggio la illuminava ed ella risplendeva, quasi la luce da lei
emanasse invece d'esser riflessa, e pareva il sogno d'un pittore
inebriato di dolcezza. I suoi folti capelli bruni si distendevano
morbidamente sulle spalle in boccoli spontanei dai riflessi violacei.
Il suo petto si scopriva lievemente, candido e rosato, il giorno vi
si posava beato e vario come il raggio in un'acqua chiara.
Dopo
un ultimo sguardo intriso di rimpianti, Mauro si congedò da lei e si
recò in una delle celle riservate agli ospiti del monastero.
IV
Era
la notte profonda. La luna, alta e assisa nel suo regno misterioso,
assisteva col suo virgineo pallore, indifferente, reggendo nella mano
lo scettro della vita e della morte, posto presso l'anca candida e il
ventre donde hanno origine le creature destinate a popolare la terra,
immagini fugaci come i sogni per i quali vivono e muoiono.
Mauro
dormiva profondamente e la sua anima vagava nel sonno.
Un'arena
infuocata come le sabbie del deserto turbinava in un alito
soffocante, d'un fetore di putredine, e sopra un'isola rocciosa, al
centro d'una palude, s'ergeva un altissimo duomo avvolto in una nube
cinerea donde baluginavano bagliori di fiamma.
Un
rospo, uscito dalla fanghiglia, lo caricò sulla vasta schiena
scivolosa, i suoi occhi, immensi globi giallastri, apparivano a fior
della melma come fanali, annunciando la visita alla sentinella
bifronte, in attesa sulla torre più alta.
Le
tenebre d'una navata silente lo celarono fra le ombre, nei vapori
d'incenso che veleggiavano e si dileguavano. Un'irradiazione
smeraldina e a tratti lucida come la pelle del ramarro si ramificava
fra i colonnati erti quali tronchi di vasta selva e sopra ciclopici
macigni si slanciava nell'aria fra ali di nebbia un trono. E immobile
sopra il trono stava un vecchio dalla lunga barba. Intorno lunghe
coorti di figure nere salmodiavano, mentre si levavano nuvole
d'incenso.
Gli
occhi del vecchio erano rossi come il sangue delle vittime degli
antichi sacrifici, come il cerchio purpureo del sole nel tramonto.
Al
fondo dell'abside si elevava fra i turiboli fumanti una scala petrosa
roteando come una vertigine. Un canto s'udiva planare, come un volo
di gabbiani, dall'alto. Una luce intensa penetrava ora per le vetrate
del rosone e si smarriva oltre un forame nella rotta volta.
Ove
si perdeva la luce ? Dannata a vagare nella tenebra, un giorno essa
aveva sfiorato la guglia d'un duomo gigantesco, donde si poteva
mirare la vastità del mondo.
Oh,
il mondo ! Abitato da insetti incapaci di volare, scarabei proni a
incrementare l'ammasso dei propri escrementi !
Dove
fluiva il vasto fiume d'oro ? Aveva avvolto le vette delle montagne,
rapito dalle gocce della pioggia per le fessure delle rocce erose
dalle tempeste, fino alle caverne, dove muggisce il respiro della
terra.
La
donna si era rifugiata, risvegliando le torme dei pipistrelli
frenetici, bianca di luce, nella caverna. Ella illuminava le pareti e
le stalattiti col suo candore e gli angoli bui, ridesti a una luce
sulfurea. S'adagiò nuda fra le rocce scanalate, levigate e quasi
trasparenti. Un alone caldo, come il riverbero del focolare,
l'attorniava, emanato dalle pareti ove fluttuavano le onde riflesse
del ruscello.
Il
corpo di lei palpitava alla carezza delle correnti che s'insinuavano
e volteggiavano su e giù per le spaccature della pietra, il suo
anelito si smarriva, tiepido, sotto l'ampia volta umida. La sua pelle
era lucida e liscia come ambra rosea, appena si scorgeva la tenue
sfumatura di qualche sottile vena verde.
Il
suo corpo eburneo risaltava sul fondo indiscernibile talvolta con
rigidezza ieratica, i suoi occhi a tratti s'illuminavano d'ebbrezza,
due fiamme verdi.
Si
udiva il rombo del mare che muggiva come il toro che un tempo rapì
Europa sul dorso fremente, mentre la luna dardeggiava con le sue
lunghe corna di demonio.
La
grotta fu invasa da un flutto di lume rossastro che disvelò le
pareti in una viva carne, un nitrito dilaniò l'aria intorbidata. Un
grande cavallo rosso, quasi uscito da un lago di sangue, irruppe fra
le rocce, inarcando il forte collo su cui ardevano i crini. I suoi
occhi sprigionavano una tensione febbrile nell'iride cangiante tra
bagliori indefinibili. Pareva la minaccia d'uno spirito solitario,
escluso dalla vita degli altri, che vaga selvaggio e vendicativo nei
meandri dei boschi iperborei o nei deserti fenduti dalla vampa
implacabile d'un sole ostile.
Disparve
la visione, il sogno s'interruppe e Mauro si risvegliò nella luce
rosata della nuova alba.
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