Sognava.
Fluttuava la luce sotto gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa, che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle montagne.
Una vegetazione rigogliosa si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive del grande fiume.
Su per l’acqua veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni, deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.
Tra la vegetazione dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso, carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava per sempre un dio antico.
Al centro di quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta, rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e nerastro.
Un trono imponente, di pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava, le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale, illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del loto.
Il volto brunito era impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano, allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude, la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca, nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava, innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé, sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del sangue.
Ed ella s’entusiasmava nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella danza interminabile.
E il sangue stillante dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un fiume veemente, verso il mare murmureo.
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