domenica 26 maggio 2013

Giovanni Pascoli, Myricae






Anniversario


Sono più di trent’anni e, di queste ore,
mamma, tu con dolor m’hai partorito;
ed il mio nuovo piccolo vagito
t’addolorava più del tuo dolore.

Poi tra il dolore sempre ed il timore,
o dolce madre, m’hai di te nutrito:
e quando fui del corpo tuo vestito,
quand’ebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore,

allor sei morta; e son vent’anni: un giorno!
e già gli occhi materni io penso a vuoto;
e il caro viso già mi si scolora;

mamma, e più non ti so. Ma nel soggiorno
freddo de’ morti, nel tuo sogno immoto,
tu m’accarezzi i riccioli d’allora.

31 di dicembre 1889.

domenica 19 maggio 2013

Macrobio, Commento al sogno di Scipione






Definizione di società civile :

illa autem definitione quid pressius potest esse, quid cautius de nomine ciuitatum? “ quam concilia “ inquit “ coetusque hominum iure sociati, quae ciuitates appellantur “. nam et seruilis quondam et gladitoria manus “ concilia hominum et coetus “ fuerunt sed non “ iure sociati “. illa autem sola iusta est multitudo, cuius uniuersitas in legum consentit obsequium.

domenica 5 maggio 2013

Nietzsche, Genealogia della morale






23.
Sull'origine del «Dio santo» basti questo, una volta per sempre. - Che
la concezione degli dèi "in sé" non debba necessariamente condurre a
questo deterioramento della fantasia, della cui visualizzazione non
abbiamo potuto, per un attimo fare a meno, che esistano maniere più
"nobili" di servirsi dell'invenzione fantastica degli dèi, che per
questa autocrocifissione e questo autolesionismo dell'uomo, in cui gli
ultimi millenni dell'Europa sono stati maestri - tutto ciò lo si può
ancora, per fortuna, desumere da ogni sguardo rivolto agli "dèi
greci", questi specchiati riflessi di uomini aristocratici e signori
di sé, nei quali la "bestia" che è nell'uomo si sentiva divinizzata e
"non" dilaniava se stessa, "non" infuriava contro se stessa! Questi
Greci si sono serviti per lunghissimo tempo dei loro dèi, proprio per
allontanare da sé la «cattiva coscienza», per potersi rallegrare della
loro libertà spirituale: dunque in una accezione opposta all'uso che
il cristianesimo ha fatto del suo Dio. In ciò essi si spinsero "molto
lontano", queste splendide e leonine teste di fanciulli; e addirittura
una autorità come quella dello Zeus omerico ogni tanto fa loro capire
che si comportano troppo superficialmente. «Strano!» - disse una volta
- si trattava del caso di Egisto, di un caso "molto" grave. -
Strano, come i mortali continuino a
lamentarsi degli dèi!
"Solo da noi verrebbe il male", così pensano;
ma essi stessi
per mancanza di senno, anche contro
il destino, si creano la sventura.
Qui si vede e si sente al tempo stesso che questo spettatore e giudice
olimpico è ben lontano dall'essere ostile e dal pensare male di loro:
«Che "stolti" sono!» egli pensa dei misfatti dei mortali - e
«stoltezza», «mancanza di senno», un po' di «alterazione mentale»
anche i Greci dell'età più vigorosa e audace se le sono "concesse" per
spiegarsi la cagione di molti mali e di accadimenti funesti -
stoltezza "non" peccato! capite?... Ma anche questa «alterazione
mentale» era un problema - già, come è mai possibile? «da dove può
essere arrivata a menti come le "nostre", di uomini quali noi siamo,
di nobile nascita, felici, ben costrutti, socialmente elevati,
aristocratici, virtuosi?». Questo si è chiesto per secoli il nobile
greco di fronte a orrori e nefandezze che non riusciva a comprendere,
e di cui si fosse macchiato qualcuno dei suoi simili. «Certo un dio lo
avrà accecato», finiva per dirsi, scuotendo la testa... Questa
scappatoia è "tipica" dei Greci... Così allora gli dèi servivano a
giustificare, fino a un certo punto, l'uomo anche nel male, essi
servivano come cause del male - allora non assumevano su se stessi la
pena, ma, cosa molto più "nobile", la colpa...
24.
Concludo con tre interrogativi, come si vede bene. «Ma qui si sta
istituendo o si sta smantellando un ideale?» mi si potrebbe
chiedere... Ma voi vi siete mai sufficientemente chiesti quanto è
costata cara sulla terra l'istituzione di "ogni" ideale? Quanta realtà
dovette perciò essere calunniata e misconosciuta, quanta menzogna
santificata, quante coscienze turbate, quanta «divinità» sacrificata
ogni volta? Perché un santuario venga innalzato, un "santuario deve
essere abbattuto": questa è la legge: - mostratemi in quali casi non ha trovato il suo adempimento!... Noi uomini moderni, siamo gli eredi
di una vivisezione della coscienza e di una crudeltà contro gli
animali esercitata su noi stessi, vecchie di millenni: e in ciò
abbiamo la nostra più lunga pratica, forse la nostra vocazione
artistica, in ogni caso la nostra raffinatezza e la depravazione del
gusto. L'uomo ha guardato troppo a lungo le sue tendenze naturali con
«occhio cattivo», cosicché queste hanno finito per legarsi
strettamente alla «cattiva coscienza». Sarebbe mai possibile, "in sé",
un tentativo opposto - ma chi ne avrebbe la forza? -, e cioè il
tentativo di unire strettamente alla cattiva coscienza le tendenze
"innaturali", tutte quelle aspirazioni alla trascendenza, contrarie al
senso, all'istinto, alla natura, all'animalità, in breve tutti gli
ideali che sono esistiti sino a oggi, ideali che sono tutti ostili
alla vita, ideali che denigrano il mondo. A chi rivolgersi oggi con
"tali" speranze e "tali" esigenze?... Proprio gli uomini "buoni"
sarebbero contro di noi; e poi, ovviamente, i pigri, i riconciliati, i
vanitosi, i sognatori, gli stanchi... Che cosa offende più
profondamente, che cosa divide più decisamente che il far notare un
po' della severità e della grandezza con cui trattiamo noi stessi? E
d'altro canto - quanta comprensione e quanto affetto il mondo ci
dimostra, non appena ci comportiamo come tutto il resto del mondo e
allo stesso modo ci «lasciamo andare»!... Per quello scopo ci vorrebbe
una specie di spiriti "diversa" da quelli che sono "verosimili"
proprio in questa epoca: spiriti resi più forti da guerre e vittorie,
per i quali le conquiste, le avventure, i pericoli, il dolore sono
diventati addirittura un bisogno; per tutto ciò ci vorrebbe
l'abitudine all'aria tagliente delle montagne, a lunghe camminate
invernali, al ghiaccio, ai monti in ogni senso, ci vorrebbe, per
esprimerci in guisa rozza e sommaria, proprio questa "grande
salute"!... E oggi questa grande salute è ancora mai possibile? Ma
prima o poi, in un'età più forte di questo presente marcio e dubbioso
di sé, dovrà pure giungere fino a noi l'uomo "del riscatto", l'uomo
del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, sempre di nuovo
sospinto dall'urgere della sua forza via da ogni isolamento, da ogni
trascendenza, l'uomo la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se
fosse una fuga "dalla" realtà - mentre è soltanto il suo sprofondare,
il suo seppellirsi, il suo affondare "nella" realtà, per poter
estrarre e portare con sé un giorno, tornato nuovamente alla luce, la
"redenzione" di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che
l'ideale, quale esso è stato finora, le ha gettato addosso. Quest'uomo
del futuro, che ci redimerà non solo dall'ideale quale è stato sino ad
oggi, ma anche da quello che "da esso dovette nascere", dalla grande
nausea, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco del
mezzodì e della grande decisione, che libererà di nuovo l'uomo, che
restituirà alla terra la sua meta e all'uomo la sua speranza, questo
anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla -
"dovrà venire un giorno"...

( Saggio II, “Colpa”, “cattiva coscienza” e simili )


G. Leopardi, Zibaldone, parag. 424


Il cristianesimo come frutto tardo dell’albero vetusto dell’umanità, satura di ragione e quindi, come pensa Nietzsche, profondamente malata :

Ma il detto effetto delle antiche religioni non poteva durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire, quanto durasse quella tal misura e profondità d’ignoranza che permettesse di credere veramente [424]e stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano fondate. Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando l’ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma perciò appunto più rozze, non potevano più esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava richiamare quelle illusioni. Ma come, se restavano e non potevano più allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano padroni dell’uomo? (qui osservate gl’inutili sforzi di Cicerone nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non più come verità, perchè tali non erano più credute; e com’egli non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi dell’immortalità dell’anima, e del premio delle buone azioni nell’altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual religione, e v. gli altri pensieri). Bisognava dunque richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa ragione e sapere. Dico col mezzo, perchè non c’era altro modo di richiamarle, se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione e il sapere già stabilito. Ma come quella stessa ragione e sapere che le avevano distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi introdurle di nuovo nell’anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa. (come conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere). Non c’era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero l’aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini. In somma bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione, che quelle credenze ch’ella aveva ripudiate, erano vere. Ecco dunque arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole [426](cioè rivelata, perchè senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere quello che, umanamente parlando, è veramente falso?) o almeno perfettamente conforme a quella tal misura della ragione e sapere di quei tali tempi. Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l’eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso o dubbio senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l’uomo nell’inazione, nell’indifferenza, nell’egoismo (e quindi nella malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l’eroismo, l’amor patrio, l’amore scambievole ec. erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami sociali, e anche individuali, cioè dell’uomo con se stesso e con la vita: quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si sviluppano naturalmente nell’uomo ridotto in società, (quali sono quasi tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte:[427]quel momento a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o Pirroniana. (V. Diog. Laerz. l.9. Luciano passim, e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non però divulgato, anzi bambino).
Con ciò si potrà spiegare perchè il Cristianesimo fosse rivelato in quel tempo, e non prima nè dopo: e per la pienezza de’ tempi famosa nel Vecchio Testamento si potrà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in cui la ragione e il sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti, aveano incominciato una devastazione, e una rivoluzione micidiale nell’uomo, e una mortificazione generale dei popoli colti e degl’individui. In maniera che quello era il punto in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande rivelazione del vero relativo all’uomo diveniva precisamente, e per la prima volta necessaria.
E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione. Ma appunto perchè la medicina era composta di ragione, e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò [428]quel rimedio era bensì l’unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore al male. Giacchè questo era necessariamente più naturale, e quindi più conducente alla felicità di quaggiù. E infatti la vita, sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacchè il Cristianesimo non aveva insegnato all’uomo che la vita è ragionevole, e ch’egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar questa ad un’altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa vita: e che questa sarebbe necessariamente infelice.


Si noti qui la concezione della natura dell’uomo, assai simile a quella che ha Nietzsche :


La natura in quanto natura assoluta e primitiva non ci ha dato idea di altri doveri che verso noi stessi, ed ha limitato le norme del giusto ai rapporti che l’animale ha con se stesso. Già verso gli animali d’altra specie non è dubbio che la natura non ha dettato nessuna regola di onestà e di rettitudine, perchè l’uomo non prova nessuna ripugnanza nel far male agli altri animali anche senza suo vantaggio e per mero diletto, come a uccidere una formica ec. E gli altri animali si pascono bene spesso di animali di altra specie. Ma eziandio nella propria specie, l’uomo assolutamente primitivo, non sente ingenitamente nessuna colpa a far male a’ suoi simili per suo vantaggio, come non la sentono gli altri animali, che maltrattano, combattono, e alle volte anche si cibano dei loro simili, ed anche (sento dire) dei propri figli. In quanto però alla figliuolanza è certo che la natura ha dettato alcune leggi, o siano di semplice amore e inclinazione libera, o sieno anche sentimenti di dovere; ma non perpetui; solo fino a un certo tempo, come vediamo negli animali, [250]che dopo alcun tempo è verisimile che non riconoscano affatto i propri figli, massime quegli animali che ogni anno ne producono più d’uno. E così avverrebbe all’uomo se il figlio arrivato all’età di provvedersi da se, si separasse dai genitori, e questi l’uno dall’altro, come fanno gli animali. Giacchè la necessità del concubitu prohibere vago, non prova nulla in favore della società, perchè anche gli uccelli si fabbricano il talamo espressamente e convivono con legge di matrimonio finchè bisogna all’educazione sufficiente dei prodotti di quel tal matrimonio, e nulla più; e non per questo hanno società. Nè la detta necessità, riguardo all’uomo, si estende più oltre di questo naturalmente, ma artifizialmente, e a posteriori, cioè posta la società, la quale necessita la perpetuità de’ matrimoni, e la distinzione delle famiglie e delle possidenze.
(19. settembre 1820.)


Dunque anche per Leopardi l’uomo per natura non è diverso dagli altri animali, solo che è stato corrotto dalla ragione ed è perciò diventato un animale malato, come ritiene appunto Nietzsche :

 14.
Quanto più la condizione malata nell'uomo è normale - e non possiamo
mettere in discussione la normalità di questo fatto - tanto più si
dovrebbero stimare i rari casi di forza spirituale e fisica, i "casi
fortunati" dell'essere umano, tanto più rigidamente si dovrebbero
proteggere i ben riusciti dall'atmosfera più appestata, da quella dei
malati. Ma lo facciamo?... I malati sono per i sani il maggior
pericolo; la rovina per i forti "non" viene dai più forti, ma dai più
deboli. Lo sappiamo?... Parlando in generale, non è assolutamente il
timore dell'uomo ciò di cui ci si dovrebbe augurare una diminuzione:
questo timore costringe infatti i forti a essere forti, e a secondo i
casi, terribili - esso tiene "in piedi" il tipo umano ben riuscito.
Ciò che si deve temere, ciò che agisce più fatalmente di ogni altra
fatalità, non sarebbe il grande timore, ma la grande "nausea" di
fronte all'uomo; come anche la grande "compassione" per l'uomo. Posto
che esse un giorno si accoppiassero, immediatamente e inevitabilmente
farebbe il suo ingresso nel mondo qualcosa di particolarmente
sinistro, l'«ultima volontà» dell'uomo, la sua volontà del nulla, il
nichilismo. E infatti a tale eventualità molto è preparato. Chi non
possiede un naso solo per fiutare, ma possiede anche occhi e orecchie,
avverte oggi quasi dovunque per avventura si trovi a passare, qualcosa
come un'atmosfera di manicomio e di lazzaretto - parlo, come è chiaro,
delle regioni culturali dell'uomo, di ogni specie d'«Europa» che nel
futuro sorgerà sulla terra. I "cagionevoli" sono il gran pericolo
dell'uomo: "non" i cattivi, "non" gli «animali da preda». Quelli che
sin dall'inizio sono stati colpiti dalla sventura, i prostrati, i
distrutti - essi "i più deboli", sono quelli che più degli altri
minano la vita tra gli uomini, che avvelenano e problematizzano, nella maniera più pericolosa, la nostra fede nella vita, nell'uomo, in noi
stessi. Dove si potrebbe mai sfuggire a quello sguardo velato che
lascia addosso una profonda tristezza, a quello sguardo volto
all'indietro di chi è storpio da sempre, sguardo che tradisce come un
uomo simile parli con se stesso - a quello sguardo che è un sospiro!
«Potessi essere un altro qualsiasi!» così sospira questo sguardo: «Ma
non c'è speranza. Io sono quello che sono: come potrei liberarmi di me
stesso? Eppure - "ne ho a sazietà di me!"». Su questo terreno di
autodisprezzo, vera e propria palude, cresce ogni erbaccia, ogni
pianta velenosa, e tutto è così piccolo, così nascosto, così falso e
così dolciastro. Qui brulicano i vermi dei sentimenti di vendetta e di
rancore; qui l'aria maleodora di cose nascoste e inconfessabili; qui
si tesse senza interruzione la rete della congiura più perfida - la
congiura di chi soffre contro chi è ben formato e vittorioso, qui
l'aspetto del vittorioso viene "odiato". E quante menzogne per non
ammettere che questo odio è odio! Che profluvio di grandi parole e di
grandi gesti, che arte dell'«onesta» calunnia! Questi falliti: quale
nobile eloquenza fluisce dalla loro labbra! Quale zuccherosa,
gelatinosa, umile devozione galleggia nei loro occhi! Ma in realtà che
cosa vogliono? Per lo meno rappresentare la giustizia, l'amore, la
saggezza, la superiorità, tale è l'ambizione di questi «infimi», di
questi malati! E come rende abili questa ambizione! Si ammiri
particolarmente l'abilità da falsari con cui imitano i tratti della
virtù, anche il tintinnio, il tintinnio d'oro della virtù. Hanno preso
in affitto, completamente per sé, la virtù, questi deboli, incurabili
e malati, su ciò non è possibile alcun dubbio: «Noi soli siamo i
buoni, i giusti - così dicono - noi soli siamo gli "homines bonae
voluntatis"». Si aggirano tra noi come rimproveri in carne e ossa,
come ammonimenti rivolti a noi, come se salute, belle fattezze, forza,
orgoglio e senso di potenza fossero già in sé cose peccaminose, che
dovranno essere un giorno espiate, amaramente espiate: oh come sono
pronti, in fondo, a far spiare, come sono assetati dal desiderio di
farsi "carnefici". Tra loro sono numerosissimi gli individui avidi di
vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola
«giustizia» come saliva velenosa, sempre con una smorfia sulla bocca,
sempre pronti a sputare su tutto quello che non ha uno sguardo
insoddisfatto e va per la sua strada di buon animo. Tra loro non manca
nemmeno quella razza assolutamente ripugnante di vanitosi, aborti
mendaci, che non tendono ad altro che a passare per «anime belle» e a
mettere in piazza, avvolta in versi e altri pannolini, la loro
stroppia sensualità come «purezza di cuore»: la razza degli onanisti
morali e di coloro che si «autosoddisfano». La volontà dei malati di
rappresentare una forma "qualsiasi" di superiorità, il loro istinto
per le scappatoie che conducono a una tirannia sui sani - a che cosa
non arriva questa volontà di potenza, tipica proprio dei più deboli! E
in particolare la donna malata: nessuno la supera nella raffinatezza
del dominare, dell'opprimere, del tiranneggiare. La donna malata,
infatti, non risparmia niente di vivo, niente di morto, riesuma le
cose più profondamente sepolte (i Bogo dicono: «la donna è una iena»).
Basta guardare la vita segreta di ogni famiglia, di ogni corporazione,
di ogni comunità: dovunque la lotta dei malati contro i sani - lotta
muta, per lo più fatta di piccole polveri tossiche, di punture d'aghi,
di atteggiamenti d'ipocrita e astuta sopportazione, e a tratti anche
di quel farisaico modo di fare del malato che recita più volentieri di
ogni altra cosa la «nobile indignazione», con un gestire "rumoroso".
Sino alle sacre stanze della scienza vorrebbe farsi udire il latrato
rauco della indignazione dei cani malati, la mendacia velenosa e la
rabbia di tali «nobili» farisei (ricordo ancora ai lettori che hanno
orecchie, quell'apostolo berlinese della vendetta, Eugen Dühring, che
nella Germania odierna utilizza nel modo più indecente e disgustoso il
tam-tam della morale: Dühring, il primo spaccone della morale che oggi
ci sia, persino tra i suoi simili, gli antisemiti). Questi sono tutti
uomini del "ressentiment", questi esseri fisiologicamente infelici e tarati, tutto un terrestre reame tremante di vendetta sotterranea,
inesauribile, insaziabile nei suoi sfoghi violenti contro i felici,
come nelle mascherate della vendetta, nei pretesti di vendetta: quando
arriverebbero mai al loro ultimo, più raffinato, più sublime trionfo
di vendetta? Senz'ombra di dubbio nel momento in cui riuscissero a far
"slittare nella coscienza" dei felici la loro miseria, anzi tutta la
generale miseria: così che questi cominciassero, un bel giorno, a
vergognarsi della loro felicità e a dirsi l'un l'altro: «che vergogna
essere felici! "esiste troppa miseria!"»... Ma non potrebbe darsi
equivoco più grande e fatale di quello che si avrebbe se mai i felici,
i ben riusciti, i forti di corpo e di anima, cominciassero così a
dubitare del loro "diritto alla felicità". Basta con questo «mondo
alla rovescia»! Basta con questo vergognoso rammollimento del
sentimento! Che i malati non facciano ammalare i sani - e questo
sarebbe un simile rammollimento -, dovrebbe essere la prospettiva
massima sulla terra - ma per ciò e prima di ogni altra cosa è
necessario che i sani restino "separati" dai malati, protetti
addirittura dalla vista dei malati, che non vengano scambiati con i
malati. O sarebbe forse loro compito quello di fare gli infermieri o i
medici?... Ma essi non potrebbero disconoscere e rinnegare il "loro"
compito in modo peggiore - quello che è superiore non deve degradarsi
a strumento di ciò che è inferiore, il "pathos" della distanza "deve"
tenere separati, per l'eternità, anche i compiti! Il loro diritto di
esistere, il privilegio della campana dal suono puro su quella
stonata, incrinata, è, in verità, mille volte maggiore: essi solo sono
i "garanti" del futuro, essi soli sono "vincolati" in ordine al futuro
dell'umanità. Ciò che "essi" possono, ciò che "essi" devono, non
dovrebbe essere concesso ai malati: ma affinché essi possano quello
che "essi" soltanto devono, come potrebbero mai essere liberi di fare
i medici, i consolatori, i «salvatori» di chi è malato?... E quindi
aria buona! Aria buona! E teniamoci lontani da tutti i manicomi e i
lazzaretti della cultura! E quindi buona compagnia, compagnia nostra!
Oppure, se proprio deve essere, solitudine! Ma alla larga, in ogni
modo, dai vapori mefitici della putredine interna e dal rosicchio
nascosto dei malati!... Per poterci difendere ancora almeno un poco,
amici, dai due peggiori flagelli che possono colpire proprio noi -
dalla "grande nausea per l'uomo"! dalla "grande compassione per
l'uomo"! ...

( Saggio III, “ Che significato hanno gli ideali ascetici ? “ )