lunedì 27 dicembre 2021

La giovane luna

 


La luna si librava, fanciulla insana,

fra le nebbie notturne, appena cinta

da un velo d'argento, come desta

da profondo sonno d'oriente

nelle cortine del suo letto di nubi.

Nell'oscuro ignoto tentava la fuga

e volgeva il volto pieno di stupore

alle colline illuminate di case.

Sposa abbandonata cercava riparo

nelle silenti selve, ove soltanto udiva

il lamento d'un rapace tra le insidie degli occhi.

Tenera incalzata dall'incubo fugge

fanciulla esangue e un'orma di pallore

lascia nell'aria, forma effimera

che seduce col suo alone nel bosco

fosco di cespi e di rubizze bacche

agitati dalla sua arcuata danza.

Così aleggiava lieve la luna

come su un solo piede curvando

il dorso, offrendo ai raggi l'ampio

fianco pregno di rugiade ebbre.

E l'ebbrezza dei sensi l'accompagnava,

mentre essa danzava languida nel cielo.

Un coro di luci intorno ai fianchi

suoi opimi, della carne carchi

nel ritorno dei mesi molli di brame.

Odalisca si confessava all'acque del lago

mèmore di vorticosi lacci, calda

del suo alone dorato come vellutato

frutto, calda di sorrisi e ricordi,

d'immemori istanti di vani impulsi,

come anelito di mari canuti.

E lei riviveva, alle acque stellate

specchiandosi, di promesse non tenute,

insidioso specchio dei desideri,

quali parole incomprese ma dette.

Così si librava per la volta del cielo

mèmore dell'umano errare, antica

giostra dei giorni, sognata chimera,

canto solitario nella notte brumosa,

incantesimo di perduti abbracci amati,

rimpianti ora nel pallido volto.

Pallida custode di segrete lussurie

nel cielo degli istinti effigie, idolo

dietro l'altare fra nebbie d'incensi

danzatrice dei sette veli al suono

ossesso dei crotali e flauti e lire,

mostri l'ampio fianco d'avorio

oscillante alla magia di melodiosa danza.

E poi ti incanti su un letto di nebbie,

una coltre bianca dove ti corichi

pigramente adagiata morbida e lucida

di rugiada notturna, la nera chioma

effusa sul dorso madido di splendore

ambrato, dolce miele stillante. “

Suonava così la voce del cantore,

amante della luna, fedele sempre

all'amata, nella profonda notte assiduo

visionario, in catene schiavo d'amore.

E lei ne gioiva, alta nell'alto,

coronata dell'alone vago di stelle;

s'aprivano i suoi occhi, grandi grani

d'agata, colmi di silente desiderio.






domenica 31 ottobre 2021

Orfeo ed Euridice

 


Così nell'ombra dell'Ade si profondava Orfeo

lento varcando il prato di asfodeli di sotto la volta

grondante dei salici, al lamentoso mormorare dell'acque

ancora lontane dello Stige. Il manto suo alla brezza

fluttuava presago di gemiti alle preghiere dei folti cipressi

ai lati della via pietrosa e bianca, un alveo di torrente,

dove spesso fluiva il plumbeo pianto dei mortali.

Lo chiamava il ricordo di Euridice che lo invocava nei tristi sogni,

lei la dolce amata, rapita dalla morte oscura

prima che fiorisse nei campi verdi della candida luce.

Ed oltre le innumeri schiere davanti al trono di Persefone,

l'aveva sorpresa, tremante, pallida, involta nel sudario.

La regina dei morti gli aveva concesso pur gelosa la donna,

perché alla casa terrena tornasse per pietà dello sposo.

Ed ora la teneva per mano, perché salisse con lui

alla luce del mondo, al canto degli alati e all'antica dimora,

dove l'aveva un tempo amato. La mano era fredda

come ghiaccio del Pelio e doveva forte serrarla

perché non sfuggisse. Ma ella si ritraeva temendo la vita

minacciosa del mondo e la violenza e l'insidia del tempo.

Scivolava la mano ghiacciata in quella di lui,

che la serrava disperando, con forza tremenda, benché la regina

gliel'avesse promessa con fede sicura al patto severo

che mai si volgesse bramoso a guardarla se non alla luce

del giorno divino che guida i mortali. Allora poteva,

ma prima gli pose il divieto, se no sarebbe tornata

nel buio dell'Ade. Ed egli obbediva all'arduo comando,

sentiva la mano leggera che quasi pareva sfuggire

sì come acqua chiusa da mano, pura alla fonte,

e ne sentiva allora un dolore cocente per lo svanire d'un dono.

Aveva temuto il fluire del tempo alla luce diurna

ed ora che dalle mani via fluisse la vita

sì come acqua chiusa da mano, pura alla fonte.

Lieve era la mano, piccola gracile e fredda

timorosa dell'aria quale alato nel nido ignaro

ancora del balzo. Oh, afferrarla, stringerla ancora poteva,

ma la sentiva appena, pur fra le dita nervose,

avvezze al tocco leggero a delicate corde di lira.

E pensava come a sogno lontano all'amata d'un tempo,

come in un sogno amata, alla vivida luce dell'alba.

Splendida giovinezza, la bruna chioma coronava le spalle,

il viso raggiante di gioia, inebriata dell'uomo fedele

e suo per sempre creduto; suo per sempre egli era.

L'amava più degli occhi suoi, della luce del sole,

dell'aria limpida e radiosa o le ridenti distese del mare

o dei fulgidi monti o nel crepuscolo le alte nubi di fuoco

o degli stormi alati o del canto solitario sui verdi rami.

Ma qui l'uno all'altra come ombre erano fugaci,

l'uno per l'altra un'ombra, intangibile forma arcana

come chi vede ombre sul muro teme l'oscura

insidia, l'oscuro alitare che ci coglie sul collo in un bacio

mortale. E una forza tremenda lo strinse a volgere il capo

verso l'amata, l'angoscia che lei potesse sfuggire

via per sempre, per sempre nel buio fosse perduta.

E lei allora quale vano fantasma si spense

nel nero nulla e nulla rimase a lui nella mano.






venerdì 20 agosto 2021

Al sogno

 


Sul ciglio del sentiero ad aspettarmi

riposavi coricata nell'erba, immersa

in un sogno di fate.

Ma non era più l'aurora, non era

più il tramonto. Era un tempo

senza tempo, ormai. Era il crepuscolo

di ogni felicità, di ogni speranza.

Giacevi nella tua bellezza, sorridendo.

Ora dov'è il sorriso ? Un'incerta

luce nella memoria a me ne reca

un'ombra. E il fantasma del desiderio

piange l'antica visione, perduta.






domenica 1 agosto 2021

Pigmalione

 

Sognai un amore lontano

nel vano ricordo di giorni perduti,

oltre le soglie degli istanti

vissuti nell'ardore effimero della speranza.

Sostanza del desiderio eri tu,

mia bella, dietro il velo

delle parole scolpite nell'etere.

Tu ora che fai ? Forse mi pensi

con indulgenza o forse con sufficienza,

chiusa nella torre d'avorio.

Porre il primo passo è difficile

in una terra incognita, vagano

insidiosi felini.

Come una ninfa sul confine

della selva, trascorre tra luci

ed ombre nella fosca pineta

la tua forma di seducente musica,

o forma della donna, fonte dell'arte,

tu sola causa del mio anelito !

Non altro sei tu che l'essenza del sogno,

non altro. La tua comune esistenza

non mi tocca, non è nulla per me.

Sei bellissima ai miei occhi

ed io ti creo. Il resto non mi riguarda

e non m'importa. Il tuo cianciare continuo

m'infastidisce. Ma eccoti ferma, rimani,

ecco, così. La tua bellezza

è la bellezza del mondo.

L'inclita voce dei cantori ti celebra

e la mia fantasia ti foggia

e t'insinua il brivido della vita.

Vita, sei tu il terribile segreto ?

Sei tu l'istante che esalta e risuona

nell'eternità ? La mia mano

si poserà su di te, t'infonderà

l'armonia dell'amore. Ti renderà

feconda di gioie ineffabili,

madre di sensi sublimi.

Che aspetti ? Vieni a me

e sorgi da questa oscurità che t'avvolge

e risplendi della luce che ti dono !

Io colgo

la tua anima ! E il tuo corpo

è il giardino dei miei pensieri,

che si schiudono ai desideri alati.

Come aurora s'adagia sul mare,

così il raggio traspare fra le tue membra

diafane, lucide quale avorio.

Ti ho plasmato, tremando.

E tu eserciterai il fascino

sopra la vita dei mortali

come incendio notturno o stella

brillante nel baratro dei cieli,

il tuo occhio, un abisso, insondabile !

Ma ora ti nascondi nel palpito

della tua ombra e non ti sveli

al mio sguardo che ti cerca

invano. Mi sfuggi e solo

il desiderio mi resta; tu m'appari

nella bellezza della statua, muta.






giovedì 15 luglio 2021

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi

 




René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Milano, Adelphi, 2009



P. 11, l'epoca moderna è una “mostruosità”, essa corrisponde al periodo della tradizione indù detto Kali Yuga, periodo estremo del ciclo storico.

P. 12, “la tendenza a ridurre ogni cosa al solo punto di vista quantitativo” è affermata anche in Osservazioni sulla produzione dei numeri e in Osservazioni sulla notazione matematica raccolte ora ne Il demiurgo (1976), Milano, Adelphi, 2007. La concezione dei cicli cosmici è molto antica e dal punto di vista filosofico è stata resa esplicita da Platone nel Fedro, nel Timeo e nel Crizia. Tale concezione si può far risalire ad Esiodo ed è quindi schiettamente greca anche se nell'opera di Guénon non mancano i riferimenti alla tradizione induista.

P. 25, errore del materialismo scientifico moderno : esso scambia per realtà il risultato delle percezioni dei sensi umani, considerando “materia” ciò che non lo è. La trattazione di Guénon ha lo scopo in definitiva di mostrare la vanità della scienza umana che ha perduto di vista l'antica saggezza della tradizione divina.

P. 32, nella considerazione della manifestazione dell'universo o kosmos, Guénon si avvicina all'interpretazione di Anassagora da parte di Nietzsche. Il cosmo trae origine dal caos, cioè il manifestato è originato dal non manifestato o non definibile o non rappresentabile, indeterminato, non misurabile : la materia prima.

P. 38, contraddizioni di Cartesio. Affermare che i corpi appartengono solo alla dimensione dell'estensione, cioè sono res extensa, significa negarne il valore proprio dato dalla qualità. Ma è evidente che è proprio la qualità a caratterizzare i corpi. Dunque la teoria cartesiana è errata.

P. 41, la natura qualitativa dello spazio viene dimostrata con l'impossibilità di una sua riduzione alla pura estensione, data la presenza di una discriminante : la direzione. Affermando poi che lo spazio è coestensivo ed è una delle condizioni del mondo, trova conferma nella fisica moderna laddove l'idea di uno spazio continuo sparisce, per dare luogo, come dice Guénon, a quella di spazio coestensivo al mondo (cfr. Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Milano, Adelphi, 2014, p. 51).

P. 43-48, a proposito del tempo Guénon ne sostiene la legge ciclica e la sua dimensione qualitativa. Ogni diversa epoca accoglie diversi tipi di civiltà, procedendo verso il basso. L'attuale civiltà appartiene all'età del Kali Yuga ed è il grado più basso del ciclo cosmico.

P. 51, altra caratteristica dell'età del Kali Yuga, cioè dell'età attuale, è la massificazione e la riduzione di ogni valore alla quantità. L'individuo è sempre più privo di qualità proprie ma sempre più isolato, separato, come un atomo tra gli atomi.

A proposito del potere della vera conoscenza (poesia) vedi il Canto delle donne al poeta di Rainer Maria Rilke, che così termina nell'ultima terzina :


L'infinito con noi passa e si perde

Sii tu la bocca che ce lo fa udire,

tu sii : tu che di noi dici l'essenza.


P. 56, affermazioni importanti sulla nostra fase ciclica “industriale” che mira all'aspetto quantitativo della realtà materiale e umana e al predominio della macchina, simbolo del trionfo della quantità sulla qualità. Esiste però una correlazione tra ordine cosmico e ordine naturale e quindi l'era attuale è in un certo senso già predisposta dal ciclo cosmico (p. 57).

P. 62-63, il trionfo della tecnologia celebra la fine dell'arte e del mestiere vero, quello artigianale. La civiltà moderna industriale e tecnologica non rappresenta un progresso, ma una profonda decadenza. Gli uomini moderni schiavi delle macchine tendono a una piatta uniformità e a comportarsi come automi.

P. 68, la fine del mondo attuale sarà realizzata dalla tendenza “egualitaria” verso una uniformità generalizzata di tutta l'umanità e la sua sostanziale riduzione a massa servile a disposizione delle macchine. Allora si verificherà la fine dell'umanità, cui però seguirà l'inizio di una nuova umanità.

P. 89, contro la cultura di massa, la massificazione della vita sociale e la scienza moderna, razionale e massificante. La democrazia e i regimi totalitari ne sono un'espressione sintomatica.

P. 113, “relazione esistente fra certe fasi critiche della storia dell'umanità e certi cataclismi che si producono in determinati periodi astronomici”, corrispondenza ciclica fra l'ordine umano e l'ordine cosmico.

P. 117, “intervento manifesto di elementi sovrasensibili nello stesso mondo sensibile”. Il mondo moderno lo impedisce costantemente con il suo materialismo e la sua tecnica, ma in realtà non c'è limite tra i diversi gradi della realtà e tra i mondi diversi.

P. 130, si fa riferimento alla fine del ciclo precedente il nostro Kali Yuga e precisamente al grande cataclisma detto del “diluvio universale” e che si riferisce alla fine di Atlantide. La storia del mondo conosciuta attualmente non risale oltre l'inizio dell'era nostra cioè del Kali Yuga.

P. 140, alla fine del ciclo, simbolicamente rappresentato dal passaggio dalla sfera al cubo, vi sarà un rinnovamento e l'apparizione di una nuova umanità.

P. 144, spiegazione del mito di Caino e Abele, popoli sedentari dediti all'agricoltura contro popoli nomadi, simbologia implicita riferentesi al principio di compressione (il tempo) contro il principio di espansione (spazio) : i popoli sedentari fagocitano i popoli nomadi.

P. 182, le influenze sottili o materia psichica si affiancano ai fenomeni naturali e costituiscono la realtà non avvertita dai sensi esterni, in questo si veda anche Raja Yoga di Ramacharaka.

P. 263, a proposito della Controtradizione e del rovesciamento dei valori è interessante il riferimento alla parodia del Sacro Impero, che all'epoca presente è costituito dall'istituzione dell'impero bancario europeo. Nella nota a piè di pagina si parla di raddrizzamento dopo il rovesciamento dei poli e per questo è bene riferirsi all'opera di de Santillana.

P. 266, l'Anticristo è la Controtradizione o il contro Sé, deve avere quel carattere meccanico che è tipico del mondo moderno. Viene da pensare ai robot e ai computers, non sono forse essi i risultati ultimi dello sviluppo dell'intelligenza artificiale ?






giovedì 1 luglio 2021

F. W. Nietzsche, La filosofia nell'età tragica dei Greci

 



F. W. Nietzsche, La filosofia nell'età tragica dei Greci (1873) in Opere 1870/1881, Roma, Newton Compton, 1993



La prefazione è di tono positivistico dal momento che le varie figure di filosofi vengono analizzate in quanto storicamente determinate, “allo stesso modo con cui si può giudicare il terreno dai frutti di un determinato luogo” (p. 203). Ma subito dopo l'intonazione storicistica e scientifica viene superata dall'intento di riconoscere il grande uomo, l'uomo superiore, l'unico autentico valore della storia e della vita umana.

P. 207, da Talete a Socrate il tipo del filosofo greco appare monocorde e monolitico, è il pensatore che attua nella sua vita il proprio pensiero, è un'unità di pensiero e di azione. P. 208, al contrario a partire da Platone in poi il filosofo è un carattere ibrido, pluricorde, in conflitto con la circostante cultura o ambiente. Platone in particolare è un po' Eraclito, un po' Pitagora e un po' Socrate. Inoltre i filosofi a partire da Platone sono fondatori di sette che hanno sempre contestato la cultura e la civiltà ellenica.

P. 210, ecco che a proposito di Talete siamo di fronte a una affermazione fondamentale per lo studio di Colli e che costituisce senza dubbio la base del suo pensiero. Infatti quando Nietzsche espone la tesi di Talete dell'acqua origine di tutte le cose scrive :


... fu un articolo di fede metafisico che ha la sua origine in una intuizione mistica e che incontriamo in tutte le filosofie … la proposizione “tutto è uno”.


Colli a proposito dei Presocratici parla proprio di “intuizione mistica”, traendo l'espressione verosimilmente da quest'opera di Nietzsche. Ma Nietzsche va anche più in là, perché fonda l'impulso filosofico sullo stesso impulso o ispirazione dei poeti poiché asserisce che


è un'ignota e non logica potenza, la fantasia, a sollevare il suo piede.


E poco più oltre :


in particolar modo possente è la forza della fantasia nel fulmineo afferrare e illuminare le analogie …


E' chiaro che qui il procedimento del pensiero è lo stesso dell'associazionismo d'immagini caratteristico della mente creatrice, tra poeta, profeta e filosofo non c'è differenza sostanziale.

P. 212, Talete esprime razionalmente la propria intuizione, altrimenti inesprimibile. La considerazione della razionalità come strumento è presente anche nel discorso di Colli su Platone ( vedi Filosofi sovrumani, Adelphi, p. 143 e sg.). E' evidente che Colli ha tratto i fondamenti della sua filosofia proprio da quest'opera di Nietzsche, che egli a ragione considera suo maestro. In effetti questa, a mio parere, è l'opera più importante del filosofo tedesco, la più densa di conseguenze dal punto di vista teorico e filologico. Opera che è stata ereditata da Colli che ne ha saputo continuare il suo naturale sviluppo. Le altre opere di Nietzsche sembrano un continuo rincorrere qualcosa che fugge e si disperdono in migliaia di rivoli. Questa così breve è però la più ricca di senso e di genio.

P. 216, l'analisi del pensiero di Eraclito è di una chiarezza e profondità straordinarie espressa in uno stile epico. Colli avvicina Eraclito a Nietzsche e forse perché soltanto Nietzsche ha veramente compreso la filosofia del pensatore di Efeso. L'ha capita a fondo e in un certo senso l'ha fatta propria.

P. 221, gli Stoici hanno grossolanamente interpretato Eraclito e lo hanno sfruttato per la loro teoria della palingenesi del fuoco cosmico. Ma il loro ottimismo, che fa dell'uomo un essere privilegiato dalla ragione, non ha nulla a che vedere con la filosofia di Eraclito, per cui l'uomo in quanto tale è una delle tante creazioni del dio fanciullo, il Fuoco che plasma il mondo. Essendo una creazione momentanea del dio, l'uomo non è in grado di autodeterminarsi, non è libero, ma sottoposto alla giustizia, cioè al destino, alla dura necessità, che comunque per il dio fanciullo è solo gioco.

P. 224, in questa contrapposizione di Parmenide di essente e non essente, di positivo e negativo, di maschile e femminile si può trovare un'analogia con il Taoismo cinese tra Yang e Yin (cfr. Aldo Tagliaferri, Il taoismo, Roma, Newton e Compton, 1996).

P. 226, nella interpretazione di Parmenide sicuramente Colli qui è debitore nei confronti di Nietzsche che sottolinea non solo l'aspetto mistico e intuitivo del pensiero del filosofo di Elea, ma anche quello logico-deduttivo. In queste pagine lo stile di Nietzsche brilla per forza espressiva e incisività, egli mostra di essere il primo e forse l'unico ad avere veramente compreso la filosofia presocratica.

Il giudizio su Parmenide è tutto sommato negativo, a motivo della sua radicale condanna del divenire e del mondo fisico, in particolare gli viene imputata quella fatale separazione tra anima e corpo che costituirà una delle principali maledizioni della civiltà occidentale.

P. 228, nei suoi riferimenti alla filosofia di Aristotele prima, quando afferma che secondo il filosofo greco l'esistenza non è intrinseca all'essenza, e poi nella falsa etimologia di “esse” inteso nel significato di respirare, Nietzsche mostra le proprie carenze. Non è un profondo conoscitore della filosofia e non è neppure accurato nella ricerca etimologica, anzi direi che è piuttosto superficiale. Ma in lui conta soprattutto la capacità di intuire l'importanza del messaggio dei Presocratici e le sue caratteristiche fondamentali, anche se poi non si perde nelle dimostrazioni più miopi o addirittura confonde i particolari.

P. 236, ecco qui compare la curiosa contraddizione dello “spirito” di Nietzsche, cioè il passaggio dalla valutazione “dionisiaca”, per dirla con Colli, del messaggio dei Presocratici ad una valutazione di carattere schiettamente positivistico (quale appare del resto anche in un altro suo scritto cioè nel Servizio divino dei Greci). Parlando di Anassagora considera il nus come un equivoco fondato sul fatto di aver sostituito un prodotto del cervello materiale, la mente o rappresentazione mentale, al suo fattore cioè il cervello stesso. E' singolare il fatto che Nietzsche oscilli tra una visione delle cose di tipo romantico-spiritualista ed una prettamente materialistica, facendo spesso una strana commistione di entrambe. Il suo grande discepolo Colli ha senza dubbio colto del pensatore tedesco l'aspetto più originale, quello dionisiaco, e gli ha dato valore e sviluppo filosofico coerente, mentre il Nietzsche pare sempre sfuggire a se stesso.

P. 239, magistrale l'interpretazione della filosofia di Anassagora. Soprattutto la tesi anassagorea del moto circolare originario che avrebbe dato inizio alla formazione dell'universo è estremamente interessante e si può forse aggiungere all'interpretazione della dottrina antica fatta dal de Santillana ne Il mulino di Amleto, anche se, naturalmente, qui si parla di vortice costitutivo del mondo e non di precessione degli equinozi e di moto rotatorio e di rivoluzione della terra. Ma è la concezione del movimento ciclico ad essere pregna di conseguenze. A questo proposito confronta Diogene Laerzio, libro II, 9 con Il mulino di Amleto, p. 169 (ed. Adelphi).

P. 241, trattando di Anassagora, Nietzsche pronuncia un giudizio piuttosto lusinghiero su Euripide, in quanto portavoce del filosofo di Clazomene, segno evidente che l'atteggiamento polemico assunto nella Nascita della tragedia nei confronti del grande tragediografo era meramente funzionale alla sua tesi di fondo dell'origine e dell'essenza dionisiaca e irrazionale della tragedia greca.

Ibidem : per il gusto estetico col quale tratteggia la maestosa figura di Pericle Nietzsche si avvicina molto a Walter Pater.

P. 242-243, la filosofia di Anassagora presuppone un nus arbitrario e quindi mosso dall'irrazionalità. Quindi alla base del razionale e ordinato cosmos vi sarebbe l'irrazionale caos, il cui movimento iniziale fu dovuto a un atto spontaneo e quindi irrazionale, arbitrario, libero del supposto nus. Questa visione anassagorea della vita coincide con la concezione di Nietzsche di un mondo agitato da una voluntas assolutamente libera e irrazionale, secondo l'insegnamento di Schopenhauer.







venerdì 25 giugno 2021

Sergio Castellino, L' Apocalisse di Giovanni alla luce dell'insegnamento di René Guénon




Sergio Castellino, L'Apocalisse di Giovanni alla luce dell'insegnamento di René Guénon, Sanremo, Lo Studiolo, 2019



Per la comprensione dell'opera è fondamentale Il mulino di Amleto di de Santillana-von Dechend, e per farla breve citerò questo passo :


Oggi, la Precessione (degli Equinozi) è un fatto assodato, immune da ogni influenza del continuum spazio-temporale. E' solo una noiosa complicazione che non ha ormai più alcuna attinenza alle nostre vicende. Una volta, invece, era l'unico maestoso moto secolare che i nostri antenati potevano tenere presente quando ricercavano un vasto cielo che interessasse l'intera umanità. D'altra parte i nostri antenati erano astronomi e astrologi. Essi credevano che lo slittamento del sole lungo il punto equinoziale incidesse sulla struttura del cosmo e determinasse una successione di età del mondo poste sotto segni zodiacali diversi. Avevano trovato un grande piolo a cui appendere le loro riflessioni sul tempo cosmico, il quale recava tutte le cose nell'ordine prescritto dal fato. Oggi, quell'ordine è venuto meno, così come è venuta meno la stessa idea di cosmo. Esiste solo la storia, felicemente definita come “una cosa, e poi un'altra, e poi un'altra ...” (1)


A queste affermazioni si può accostare la concezione ciclica della storia universale esposta da Guénon nelle sue opere e particolarmente ne Il regno della quantità e i segni dei tempi. La concezione ciclica si oppone a quella lineare dei moderni, e postula un'origine e una fine che si rinnovano nei vari cicli cosmici. Tale concezione è di origine greca e risale a Platone che però riferisce essere stata esposta a Solone, recatosi in Egitto, da un sacerdote di Sais. Essa concerne il mito di Atlantide, cioè quello di una civiltà antecedente alla nostra era di semplici mortali, una civiltà estremamente evoluta sarebbe stata all'origine dunque della presente umanità. Non una concezione storica lineare, dall'epoca degli uomini primitivi a quella dell'uomo urbanizzato, ma ciclica, nella quale la fine coincide con l'inizio.

Questa stessa concezione è presente nel pensiero degli Stoici. Si leggano le Naturales quaestiones di Seneca, III, 28, dove afferma (2) :


Eadem qua conflagratio futura est. Utrumque fit cum deo visum est ordiri meliora, vetera finiri. (Per lo stesso motivo per cui vi sarà la conflagrazione universale. Entrambi gli eventi accadranno quando a Dio piacerà che inizi un mondo migliore, cessi l'antico.)


Seneca ci parla proprio della precessione degli equinozi e afferma che il caldeo Beroso aveva fissato addirittura la data per la conflagrazione universale e quella per il diluvio, e che tutto sarebbe dipeso dalla posizione delle stelle. E nel III, 30, 8 si trova questa espressione significativa (quando sarà distrutto tutto il mondo) :


dabiturque terris homo inscius scelerum et melioribus auspiciis natus. (Alla terra toccheranno uomini incapaci di nefandezze e nati sotto migliori auspici.)


Il che significa riconoscere l'importanza della precessione degli equinozi e il fatto che i segni zodiacali siano perciò diversamente disposti in un nuovo cielo.

E tra i letterati visionarii, che anticiparono la dottrina palesata da Guénon, è interessante citare Gérard de Nerval, che in Aurélia (1854) così scrive a proposito del diluvio universale :


La costellazione di Orione aprì in cielo le cateratte delle acque; la terra, troppo gravata dai ghiacci dell'opposto polo, fece un mezzo giro sopra se stessa, e i mari, sormontando le rive, rifluirono sugli altipiani dell'Africa e dell'Asia; l'inondazione penetrò nelle sabbie, invase le tombe e le piramidi, e per quaranta giorni un'arca misteriosa vagò sui mari, portando la speranza di una nuova creazione. (3)


E a p. 46 si accenna alla precessione degli equinozi con l'espressione “il serpente che avvolge la terra” alludendo all'asse terrestre.

La spiegazione più completa di questa tradizione mitica ed esoterica è naturalmente di de Santillana e della von Dechend, nell'opera Sirio (Adelphi, 2020), costituita da due lunghi articoli del primo e della seconda. Soprattutto il secondo Il concetto di simmetria nelle culture arcaiche, della von Dechend si rivela estremamente interessante per la lucida chiarificazione del significato astronomico dei miti. Tutto verte sulla precessione degli equinozi e sullo svolgimento ciclico del tempo, quello che già Guénon aveva abbondantemente esposto nella sua opera. Il linguaggio dei miti rimanda a quello matematico e la base della concezione poggia sulla dottrina tramandata dai Pitagorici, della quale il portavoce più importante ed esauriente fu Platone nel suo Timeo.

Il commento offerto da alcuni estratti degli scritti di Guénon all'Apocalisse di Giovanni ci offre un punto di vista che anticipa gli studi di de Santillana e della von Dechend e per molti aspetti si presenta più completo. Il motivo di fondo è sempre la precessione degli equinozi e l'alternarsi dei cicli cosmici, ma Guénon si avvicina a tratti alla concezione neoplatonica e a Plotino e sembra suggerire una via di salvezza individuale. La vera Apocalisse è la trasformazione dell'Io che giunge alla consapevolezza della sua essenza. Il corredo di riferimenti alla mitologia indiana, persiana o ellenica non è fine a se stesso e se questi elementi sono accostati alla tradizione ebraica non si tratta di pura erudizione, dietro tutto questo Guénon sembra suggerirci che in realtà la via non è fuori della nostra portata, né solo determinata dai decreti del fato.

La scelta accuratissima di questi riferimenti all'Apocalisse, operata da Castellino è sicuramente da raccomandare a un lettore che non sia totalmente digiuno di filosofia platonica e di esoterismo e che non sia preda del dèmone della modernità.



  1. de Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto, Milano, Adelphi, 2007, p. 94.

  2. Seneca, Ricerche sulla natura, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 2003.

  3. G. de Nerval, Aurélia, Milano, Moretti e Vitali Editori, 2016, p. 45.







domenica 20 giugno 2021

A C.

 

Mi sembravi tu sulla spiaggia,

ma tu non c'eri.

Fino a quando questa solitudine ?

Ho desiderato l'amore

per tutta la vita e solo delusioni

ho ricevuto amare.

Amore è un dio beffardo e cieco

e spreca i dardi

nel vento rabido delle moltitudini.

domenica 4 aprile 2021

Giorgio Colli, Filosofi sovrumani

 



Giorgio Colli, Filosofi sovrumani, Milano, Adelphi, 2009



Prima parte



P. 26, cfr. Dodds, I Greci e l'irrazionale (p. 261), a proposito dell'atteggiamento irrazionalistico dei filosofi e dell'irrazionalismo della religiosità greca.

P. 28, l'interpretazione di Colli è chiaramente di derivazione nietzscheana e quindi da Schopenhauer. Vedi p. 121 di Dodds, dove questa interpretazione è avallata da considerazioni di altra natura, cioè psicologiche.

P. 29, antitesi tra unità e molteplicità, base della filosofia di Anassimandro.

P. 30 misticismo dei Presocratici inteso a superare tutto ciò che è umano (posizione anche di Nietzsche !).

P. 31, le affermazioni di Colli sono estremamente interessanti, vedi Dodds. Egli dice che i sentimenti sublimi e ineffabili dei mistici nella loro espressione rivolta all'umanità hanno dato origine alla scienza e alla razionalità. Afferma cioè il primato del subconscio sulla consapevolezza razionale, poiché questa trae origine e alimento da quello.

P. 32, oscurità dei mistici moderni (Bruno, Nietzsche) perché intesi a voler esprimere direttamente le loro intuizioni, senza mediarle “politicamente” ossia oggettivarle in uno stile chiaro e comprensibile e quindi razionale. La razionalità come risultato dell'intento politico, quindi.

P. 34, importanza di Anassimandro, come il primo dei mistici inteso secondo il modello offerto da Schopenhauer.

P. 38, Nietzsche-Eraclito, la verità conquistata nella solitudine.

P. 39, coincidenza tra l'interiorità dell'uomo e il mondo esterno. L'anima è l'arché.

P. 42, affermazione da collegare a Dodds : la dottrina politica di Platone nella Repubblica ha le sue radici nel misticismo greco (qui rappresentato da Eraclito). Vedi in Dodds l'esperienza degli sciamani e la dottrina sciamanica della trasmigrazione delle anime. Vedi cap. VII de I Greci e l'irrazionale.

P. 46-47, accostamento tra Eraclito e Nietzsche, tra il dio e il superuomo. Non riescono a superare la suprema antitesi, individualità assoluta e molteplicità del reale.

P. 55, Parmenide è interpretato in chiave nietzscheana.

P. 62, Parmenide. Conoscenza intuitiva della verità (illuminazione). E' evidente l'influsso di Nietzsche.

P. 64, la verità è intuita dall'anima o noos. La conoscenza pura è superiore a quella razionale. NB : Dodds non prende in considerazione la filosofia e la figura di Parmenide, considerandolo evidentemente solo un logico. Ma la profondità di Colli è innegabile, egli è di molto superiore a Dodds, il quale non va al di là della psicologia.

P. 70, il vero noein è quello soprarazionale. La logica è subordinata, non è la manifestazione diretta dell'Essere, come per Hegel.

P. 72. Empedocle. Impulso politico. Consapevolezza della propria divinità e che gli uomini si classificano in “mediocri” e “divini”.

P.73, Empedocle discepolo di Parmenide. Empedocle vuole realizzare una società democratica ispirata all'amore che possa aiutare gli uomini ad esprimere il meglio di sé ossia il divino.

P. 77, il noema per Empedocle è il pensiero prerazionale, intuitivo.

P. 78, la conoscenza per Empedocle come per Parmenide è innanzi tutto mistica, prerazionale.

P. 79, Empedocle primo artista veramente dionisiaco. Sbaglia Nietzsche quando afferma che la visione dionisiaca del mondo fu espressa compiutamente dalla tragedia greca. I tragici non furono veri filosofi, ma filosofo-poeta dionisiaco nel vero senso del termine fu Empedocle.

P. 83, amore eroico per la conoscenza, per la verità, beatitudine raggiunta nella contemplazione dell'Essere (di Parmenide).

P. 86, la tensione eroica si placa nella contemplazione dell'Essere perfetto, rappresentato dallo Sfairos. I rimandi a Goethe e soprattutto alla musica di Beethoven, caratterizzata dalla tensione eroica e dall'appagamento nell'estasi, sono veramente geniali. Ma, d'altra parte, questi rimandi svelano anche l'ottica donde Colli guarda dentro l'essere umano, trovandovi l'Essere. Essa è quella romantica che troviamo ad esempio ne I miserabili di Hugo :


Chose sombre que cet infini que tout homme porte en soi et auquel il mesure avec désespoir les volontés de son cerveau et les actions de sa vie ! (Livre VII, chap. III)


Ed è anche quella di Leopardi quale appare nel suo Infinito.



Seconda parte


La formazione giovanile di Platone



P. 93, sin dall'introduzione Colli, affermando che la politica di Platone fu l'espressione della sua interiorità mistica, concorda, anche senza saperlo con Dodds. Infatti Dodds afferma :


Platone in effetti operò nella tradizione del razionalismo greco un fecondo innesto delle idee magico-religiose che hanno remota origine nella civiltà sciamanistica settentrionale. (I Greci e l'irrazionale, Milano, BUR, 2017, p. 261)


E l'asserzione citata è quanto dire che alla base della filosofia di Platone o meglio al suo interno è operante l'illuminazione dionisiaca che ha spinto l'uomo a manifestarla sotto forme apollinee e perciò razionali e “normative”.

P. 95, ecco che Colli ribadisce l'origine religiosa e mistica della filosofia : “... la filosofia … nasce direttamente dal fenomeno dionisiaco.” Socrate soltanto tra i filosofi non ebbe in sé come preponderante la spinta dionisiaca all'espressione, ma al contrario fu dominato dallo spirito apollineo e in lui l'elemento dionisiaco fu secondario. Però nella ricerca della definizione universale e della virtù in generale anch'egli fu invaso dalla forza dionisiaca. Egli tuttavia rappresenta l'atteggiamento greco tradizionale governato dal senso del limite e della misura.

P. 97, mentre nei Presocratici il dionisiaco è l'essenza stessa della loro personalità, in Socrate l'impulso dionisiaco, il suo dèmone, ha una funzione negativa, di freno, di razionalizzazione delle passioni addirittura, e questo perché si innesta sopra un'essenza socratica apollinea, in un uomo che omericamente non travalica mai i limiti della propria umana natura.

P. 101-102, predominante interesse politico in Socrate durante la sua vita, egli è quanto mai lontano dall'interiorità dionisiaca. Soltanto in punto di morte questa interiorità si rivela e si attua nella tragica fine.

P. 104-105, natura dionisiaca di Platone, dopo la morte di Socrate la sua difesa della memoria del filosofo si attua nell'isolamento e si matura nella solitudine dionisiaca per esprimersi rinnovata e appunto arricchita dall'illuminazione interiore.

P. 106, primo scritto veramente dionisiaco di Platone è il Fedone, nel quale l'interiorità del filosofo non si pone come ricerca del limite e della propria posizione tra gli uomini come per Socrate, ma come anelito all'infinito, come espansione cosmica della coscienza.

P. 107, nel cammino dell'anima verso la solitudine essa conosce sempre più se stessa come in sé ed universale, essa è divina e ha in sé i germi di tutte le cose, le idee in quanto realtà ultime e vere.

P. 109, concezione della perfetta unità dell'anima nel Fedone, secondo l'insegnamento di Parmenide (vedi anche il Samkya indiano).

P. 110, la conoscenza nel Fedone è cogliere il divino nell'estasi dionisiaca dell'anima liberata dalla sensibilità e dalla materia.

P. 112, questo è molto interessante : “La saggezza è quindi un moto affettivo dell'anima, una sua passione trasumanata.” Chi veramente vive la rivelazione dionisiaca dei misteri diventa filosofo in quanto il suo animo si eleva e si protende verso il divino, ama la verità con tutto lo slancio del suo spirito. Nell'espressione : “...la trasformazione filosofica di questo misticismo da parte dell'uomo superiore, cioè la vera visione dionisiaca della vita” si nota come Colli intenda il messaggio di Nietzsche. Questo messaggio non è diverso, come a una lettura superficiale del filosofo tedesco si potrebbe intendere, da quello di Platone, perché entrambi sono animati dalla loro interiorità verso la realtà profonda del dionisiaco, ossia verso la verità dell'Essere.

P. 114. L'interpretazione seguente della filosofia di Platone è di estrema importanza e interesse :


L'anima, quando giunge ad essere autè kath'hautén e intuisce se stessa come essenza, tende ad espandersi nell'universale, perché quell'essenza che essa ha scoperto in sé è qualcosa che non ha limiti, è infinita, è in fondo la stessa cosa dell'essere di Parmenide, cioè “continua”. Tutto ciò che essa sinora aveva visto come oggetto, come esterno, diventa un'unica ousìa, un'unica “essenza”, la stessa che sta in noi : “l'essenza universale ...che è nostra”, ossia l'essere oggettivo, il brahman, si rivela ora uno con l'essere soggettivo, l'atman e viene in quest'ultimo ritrovato. E poco oltre riafferma espressamente questa coincidenza : “la nostra anima prima della nostra nascita e l'essenza sono uguali”.


P. 116, antipoliticità del Fedone, che è sicuramente l'opera più dionisiaca di Platone, il mondo delle idee non vi compare ancora, poiché esso comporta anche l'apporto dell'oggettivazione apollinea che si manifesta nella tendenza al pluralismo e all'affermazione delle individualità.

P. 117, la visione del mondo del Fedone è assai diversa da quella cristiana, non è una mortificazione della carne ma un superamento dell'umano sentito come insufficiente, che “tende ad una forma di vita superiore”.

P. 120, l'insopportabile strazio del Fedone dovuto alla lotta contro la natura umana per liberarsene e poter raggiungere la vera essenza, ma ciò è attuabile solo con la morte, trova una requie consolatoria nel Fedro dove veicolo per l'anima verso l'Essere si presenta l'amore. Esso è un limite all'aspirazione infinita ma è pur sempre un simbolo di un mondo superiore.

P. 121, Colli spiega in maniera mirabile in che cosa consista l'amore platonico (che è poi anche quello di Dante per Beatrice) :


L'immagine che egli ama è in certo modo un'espressione, una realizzazione della verità suprema, un simbolo reale di ciò che è perfetto, e il conoscitore attraverso di essa intuisce che anche la sua aspirazione dionisiaca può avere un termine, può raggiungere cioè il contenuto della verità e placarsi in una pace interiore definitiva, …


P. 124, esaltazione della follia nel Fedro. L'amore come realizzazione e limite dell'infinito slancio dionisiaco. Importanza data alla follia dai Greci secondo Nietzsche.

P. 125, l'amore dionisiaco, attraverso gli occhi si contempla l'anima dell'amato. Questa di Colli è una vera e propria teoria dell'amore, che sembra riecheggiare le teorie degli stilnovisti medievali, anch'essi peraltro imbevuti di platonismo.

P. 130. Carattere poetico e poco rigoroso del Fedro. In esso sono tutte le esperienze mistiche di Platone anche in contraddizione tra loro. Viene ribadito che l'Essenza suprema (il brahman indiano) è della stessa sostanza dell'anima, e questa è parte di lei . Non so fino a che punto Colli fosse nella conoscenza della filosofia e religione indù, ma sembra supporre una qualche derivazione di Platone da essa per via indiretta, cosa che se è ammissibile per la religione indiana non lo è per quanto riguarda la filosofia dell'India, che, come asserisce Tucci, è in realtà derivata da quella greca e quindi da Platone.

P. 136, nel Simposio si manifesta l'intento educativo di Platone e perciò anche quello politico ed è quindi la sua opera più sistematica, quella cioè dove si rivela il suo sistema filosofico reso tale appunto dall'intento politico-educativo. E' superato il momento puramente mistico, in cui molto era ancora taciuto perché indicibile. Qui il filosofo sovrumano scende sulla terra alla pari con gli altri uomini e cerca di educarli alla convivenza secondo quanto gli è stato rivelato dall'estasi dionisiaca.

P. 138, attraverso l'arte e la bellezza si compie questa azione educativa basata sulla razionalità e la socialità perché nel Simposio “il punto di gravità si sposta dal dionisiaco all'apollineo.” (p. 139)

P. 140, valore mistico del messaggio di Platone. Le idee comportano l'attributo della trascendenza e dell'intuizione mistica che però si sottraggono alla possibilità di essere strumenti di educazione. Platone per sorreggere il proprio sapere è costretto a ricorrere al discorso razionale, alla dimostrazione logica, ma con ciò impoverisce il contenuto della dottrina originaria. La teoria delle idee, discesa sul piano della razionalità è facilmente attaccabile, mentre non lo sarebbe se la si intuisse nel suo valore trascendente. Analogamente come è costretto ad abbracciare la razionalità è costretto anche ad abbracciare la politicità e con ciò a fuggire la solitudine alla quale peraltro è spiritualmente portato. Ma egli è l'illuminato che per poter comunicare agli uomini il suo insegnamento è obbligato ad abbassarsi sul piano della comprensione umana e così l'intento educativo-politico prende il sopravvento sul lato mistico.

P. 143-144, per Platone la razionalità non è fine a se stessa ma è semplicemente un puro strumento educativo-politico. La conoscenza vera la si coglie nel momento mistico ed è riservata a pochi e comunque non è comunicabile tale qual è.

P. 145-146, data l'impossibilità di comunicare l'intuizione mistica dell'Essere, Platone vi rinuncia, come per Kant il noumeno non può essere oggetto di conoscenza. Così l'ultimo Platone si volge tutto alla razionalità e alle scienze terrene, come poi Aristotele. Giovanni Reale, nella sua Per una nuova interpretazione di Platone, ha preso proprio in considerazione l'ultimo Platone, quello dopotutto meno autentico.

P. 148-149. Il vero Platone è il mistico che riappare nella Lettera VII, dove l'idea viene presentata nella sua essenza come individualità assolutamente indipendente, da cogliersi in una intuizione prerazionale. La razionalità non è fine a se stessa, ma è un semplice strumento per comunicare agli uomini una verità altrimenti incomunicabile, ma della quale in ogni caso si può dare solo un'immagine sfocata e poco nitida, poiché essa può essere colta nella sua forza solo nell'illuminazione interiore.