sabato 21 luglio 2012

Francesco Petrarca, Canzoniere, LII






Francesco Petrarca           Canzoniere



LII
 
Non al suo amante piú Diana piacque
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch' a me la pastorella alpestra e cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch' a l'aura il vago e biondo capel chiuda;

tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo,
tutto tremar d'un amoroso gielo.


Ugo Foscolo, Saggio sull’amore del Petrarca, VIII :
“ Alle illusioni di una passione pura seguitano i desiderii di un amore impaziente, che esce in parole ed in versi troppo chiari ond’essere citati, e che non sono comunemente osservati, perchè la tradizione ci reca a leggere il Petrarca con prevenzione che l’amore ne fosse platonico. Non venne ammesso in casa di Laura se non raramente, e solo parecchi anni dopo il primo loro incontro. «Io invecchio,» dic’egli, «ed ella invecchia. Comincio a perdere speranza, e pure il tempo sembrami passar lento, fino a che non ci verrà conceduto di stare insieme senza il timore di perderci:» — “



Metamorfosi







Allora affrontò la luce del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria di giochi femminili.
Più lontano gruppi di fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo cuore.
Continuò a camminare lungo la riva.
Un impulso insolito lo spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni, era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui, serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte, giovane e immortale.
E inerpicandosi per il sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini. Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia innitrendo.
La foresta si risvegliava. Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò. Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il volto?
Respirò profondamente. Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo, come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti, dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli uomini.
Potentemente e prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù, nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso, disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il cammino.
Più fitta era la vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della montagna.
E quando vi giunse, vide alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una ricchezza inattesa.
E il sole irradiava, splendido nella sua forza.
E a lui parve di trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita. Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del dio!
E guardò le nubi a occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
“ Ma tardo, al fine m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni, che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne anch’egli un puro elemento.

venerdì 20 luglio 2012

Gustave Flaubert, Salammbô





Gustave Flaubert      Salammbô      Paris, Gallimard, 1970

Pag. 46-47, “ Le festin “. Anche qui come ne Le roman de la momie di Teofilo Gautier abbondano le descrizioni di suppellettili, architetture, giardini. I colori e il gusto pittorico sono l’elemento predominante. Il colore che più risalta è il rosso. Su uno sfondo blu ( tipico del gusto romantico-decadente ) s’agita la porpora e la fiamma. Straordinaria somiglianza d’ambiente con i dipinti di Delacroix.
Pag. 55 : apparizione di Salammbô. Il suo aspetto è quello di una dea. Ella scende dall’alto del tempio circondata dai sacerdoti della dea Tanit. E’ una vestale consacrata alla dea della luna. Bisogna notare che anche la  Semiramide ( 1873 ) di Anton Giulio Barrili, scrittore savonese imitatore di Flaubert, è devota alla dea Militta, divinità lunare o astrale e comunque venerata in riti notturni. Salammbô è circondata da un alone magico e misterioso ( C’était la lune qui l’avait rendue si pâle, et quelque chose des Dieux l’enveloppait comme une vapeur subtile. Ses prunelles semblaient regarder tout au loin au-delà des espaces terrestres ). Infine il modello della donna fatale è abbastanza chiaro, anche Erodiade viene considerata da Flaubert una specie di dèmone e paragonata a Cibele. Infatti queste donne hanno le caratteristiche della mènade, della strega. Anche Semiramide appartiene alla cerchia di queste maliarde, ed infatti il suo fascino incantatore è accompagnato da una fama di perfidia e di delitto che la avvolgono in un velo di magico mistero.

« Le palais s’éclaira d’un seul coup à sa plus haute terrasse, la porte du milieu s’ouvrit, et une femme, la fille d’Hamilcar elle-même, couverte de vêtements noirs, apparut sur le seuil. Elle descendit le premier escalier qui longeait obliquement le premier étage, puis le second, le troisième, et elle s’arrêta sur la dernière terrasse, au haut de l’escalier des galères. Immobile et la tête basse, elle regardait les soldats.
Derrière elle, de chaque côté, se tenaient deux longues théories d’hommes pâles, vêtus de robes blanches à franges rouges qui tombaient droit sur leurs pieds. Ils n’avaient pas de barbe, pas de cheveux, pas de sourcils. Dans leurs mains étincelantes d’anneaux ils portaient d’énormes lyres et chantaient tous, d’une voix aiguë, un hymne à la divinité de Carthage. C’étaient les prêtres eunuques du temple de Tanit, que Salammbô appelait souvent dans sa maison.
Enfin elle descendit l’escalier des galères. Les prêtres la suivirent. Elle s’avança dans l’avenue des cyprès, et elle marchait lentement entre les tables des capitaines, qui se reculaient un peu en la regardant passer.
Sa chevelure, poudrée d’un sable violet, et réunie en forme de tour selon la mode des vierges chananéennes, la faisait paraître plus grande. Des tresses de perles attachées à ses tempes descendaient jusqu’aux coins de sa bouche, rose comme une grenade entrouverte. Il y avait sur sa poitrine un assemblage de pierres lumineuses, imitant par leur bigarrure les écailles d’une murène. Ses bras, garnis de diamants, sortaient nus de sa tunique sans manches, étoilée de fleurs rouges sur un fond tout noir. Elle portait entre les chevilles une chaînette d’or pour régler sa marche, et son grand manteau de pourpre sombre, taillé dans une étoffe inconnue, traînait derrière elle, faisant à chacun de ses pas comme une large vague qui la suivait.
Les prêtres, de temps à autre, pinçaient sur leurs lyres des accords presque étouffés, et dans les intervalles de la musique, on entendait le petit bruit de la chaînette d’or avec le claquement régulier de ses sandales en papyrus.
Personne encore ne la connaissait. On savait seulement qu’elle vivait retirée dans des pratiques pieuses. Des soldats l’avaient aperçue la nuit, sur le haut de son palais, à genoux devant les étoiles, entre les tourbillons des cassolettes allumées. C’était la lune qui l’avait rendue si pâle, et quelque chose des Dieux l’enveloppait comme une vapeur subtile. Ses prunelles semblaient regarder tout au loin au-delà des espaces terrestres. Elle marchait en inclinant la tête, et tenait à sa main droite une petite lyre d’ébène.
( … )
Alors elle se mit à chanter les aventures de Melkarth, dieu des Sidoniens et père de sa famille.
Elle disait l’ascension des montagnes d’Ersiphonie, le voyage à Tartessus, et la guerre contre Masisabal pour venger la reine des serpents :
— « Il poursuivait dans la forêt le monstre femelle dont la queue ondulait sur les feuilles mortes comme un ruisseau d’argent ; et il arriva dans une prairie où des femmes, à croupe de dragon, se tenaient autour d’un grand feu, dressées sur la pointe de leur queue. La lune, couleur de sang, resplendissait dans un cercle pâle, et leurs langues écarlates, fendues comme des harpons de pêcheurs, s’allongeaient en se recourbant jusqu’au bord de la flamme. »
Puis Salammbô, sans s’arrêter, raconta comment Melkarth, après avoir vaincu Masisabal, mit à la proue du navire sa tête coupée. — « A chaque battement des flots, elle s’enfonçait sous l’écume ; mais le soleil l’embaumait, elle se fit plus dure que l’or ; cependant les yeux ne cessaient point de pleurer, et les larmes, continuellement, tombaient dans l’eau. »
Elle chantait tout cela dans un vieil idiome chananéen que n’entendaient pas les Barbares. Ils se demandaient ce qu’elle pouvait leur dire avec les gestes effrayants dont elle accompagnait son discours ; — et montés autour d’elle sur les tables, sur les lits, dans les rameaux des sycomores, la bouche ouverte et allongeant la tête, ils tâchaient de saisir ces vagues histoires qui se balançaient devant leur imagination, à travers l’obscurité des théogonies, comme des fantômes dans des nuages.
Seuls, les prêtres sans barbe comprenaient Salammbô. Leurs mains ridées, pendant sur les cordes des lyres, frémissaient, et de temps à autre en tiraient un accord lugubre : car plus faibles que des vieilles femmes ils tremblaient à la fois d’émotion mystique et de la peur que leur faisaient les hommes. Les Barbares ne s’en souciaient ; ils écoutaient toujours la vierge chanter. « 

Pag. 83 : la donna fatale non è una semplice mortale, ella è l’immagine di una dea, di una forza onnipotente della natura :
« Non ! » s’écria Mâtho. « Elle n’a rien d’une autre fille des hommes ! As-tu vu ses grands yeux sous ses grands sourcils, comme des soleils sous des arcs de triomphe ? Rappelle-toi : quand elle a paru, tous les flambeaux ont pâli. Entre les diamants de son collier, des places sur sa poitrine nue resplendissaient ; on sentait derrière elle comme l’odeur d’un temple, et quelque chose s’échappait de tout son être qui était plus suave que le vin et plus terrible que la mort. « 
Ella non è umana, ma è un dèmone : “ Il poursuivait dans la forêt le monstre femelle dont la queue ondulait sur les feuilles mortes comme un ruisseau d’argent “.

Pag. 98, 99, 100, 101 :  Salammbô prega. La sacerdotessa si rivolge alla luna, alla divinità astrale di cui ella è l’immagine sulla terra : Tanit. Anche Semiramide è l’immagine di una dea : Militta. Il primo incontro tra Ara e Semiramide avviene proprio nel tempio di Militta. E non a caso Tanit viene chiamata da Salammbô col nome di Militta oltre a quello di Astarte, Derceto ecc. E questo perché Tanit come Militta rappresentano la medesima divinità, cioè la dea dell’amore. Ma questa dea non è la Venere graziosa d’una sdolcinata Arcadia, ella è la dea dell’amore e della morte. Ella è la dea della natura come la Venere di Lucrezio, la grande genitrice, colei che presiede alla generazione e alla corruzione. Terribile è la sua potenza, ella è anche madre dei mostri, dei fantasmi spaventosi, dei sogni menzogneri. I suoi occhi divorano le pietre degli edifici, e le scimmie sono malate ogni volta che rinasce. Eppure la gran madre è dolce, luminosa, immacolata, ausiliatrice, serena, purificatrice, quasi paragonabile alla figura della Vergine Madre cristiana. Ma questo è soltanto uno dei suoi due aspetti. L’altro è quello di una padrona crudele ed impassibile che condanna gli uomini alla morte e al dolore. Ed ecco che la dea dell’amore si trasforma nella dea della crudeltà e dell’istinto selvaggio : Cibele.
Pag. 102. Il misticismo sensuale.  Salammbô snerva i suoi sensi fino a provocare una sorta di brama, di cupida ansia mistica. Si tratta di un orgasmo che trova il suo sfogo naturale nell’estasi. Originato dai sensi il desiderio si placa in una fantastica visione panica : “ Oh ! je voudrais me perdre dans la brume des nuits, dans le flot des fontaines, dans la sève des arbres, sortir de mon corps, n’être qu’un souffle, qu’un rayon, et glisser, monter jusqu’à toi, ô Mère ! 
Pag. 103. Salammbô è quasi l’incarnazione di Tanit : “ Une influence était descendue de la lune sur la vierge ; quand l’astre allait en diminuant, Salammbô s’affaiblissait. Languissante toute la journée, elle se ranimait le soir. Pendant une éclipse, elle avait manqué mourir. “
Salammbô è un’isterica : “ Mais la Rabbet jalouse se vengeait de cette virginité soustraite à ses sacrifices, et elle tourmentait Salammbô d’obsessions d’autant plus fortes qu’elles étaient vagues, épandues dans cette croyance et avivées par elle.
Pag. 104. Ritratto di Schahabarim, maestro di Salammbô :
Salammbô se détourna. Elle avait reconnu le bruit des clochettes d’or que Schahabarim portait au bas de son vêtement.
Il monta les escaliers : puis, dès le seuil de la terrasse, il s’arrêta en croisant les bras.
Ses yeux enfoncés brillaient comme les lampes d’un sépulcre ; son long corps maigre flottait dans sa robe de lin, alourdie par les grelots qui s’alternaient sur ses talons avec des pommes d’émeraude. Il avait les membres débiles, le crâne oblique, le menton pointu ; sa peau semblait froide à toucher, et sa face jaune, que des rides profondes labouraient, comme contractée dans un désir, dans un chagrin éternel.
C’était le grand prêtre de Tanit, celui qui avait élevé Salammbô.
Ecco il severo asceta. Il suo aspetto non è attraente, ma il mistero che da lui promana ci riempie di curiosità. I riti misterici e le credenze magiche, le molteplici teologie e teogonie hanno fatto di quest’uomo un essere estraneo alle cose della terra. Schahabarim non è un uomo, egli è al di là dell’uomo, è un essere disumano.

Pag. 105-106. La teogonia esposta da Schahabarim. Confrontarla con quella esposta nella Semiramide ( 1873 ) di Anton Giulio Barrili, l’imitatore italiano, al cap. III.

«  Schahabarim, levant un bras dans l’air, commença :
— « Avant les Dieux, les ténèbres étaient seules, et un souffle flottait, lourd et indistinct comme la conscience d’un homme dans un rêve. Il se contracta, créant le Désir et la Nue, et du Désir et de la Nue sortit la Matière primitive. C’était une eau bourbeuse, noire, glacée, profonde. Elle enfermait des monstres insensibles, parties incohérentes des formes à naître et qui sont peintes sur la paroi des sanctuaires. »
« Puis la Matière se condensa. Elle devint un œuf. Il se rompit. Une moitié forma la terre, l’autre le firmament. Le soleil, la lune, les vents, les nuages parurent ; et, au fracas de la foudre, les animaux intelligents s’éveillèrent. Alors Eschmoûn se déroula dans la sphère étoilée ; Khamon rayonna dans le soleil ; Melkarth, avec ses bras, le poussa derrière Gadès ; les Kabyrim descendirent sous les volcans, et Rabbetna, telle qu’une nourrice, se pencha sur le monde, versant sa lumière comme un lait et sa nuit comme un manteau. »

Semiramide, cap. VII :
“ Nel principio, tutto era tenebre ed acqua, per entro a cui si movevano confusi gli elementi di ogni cosa che è. Forme strane di viventi erano allora; mostri con due facce e quattro ali, o con due teste e corna e pie' di caprone, o di cervo, centauri, sirene, tori dall'aspetto umano e cani che finivano in coda di pesce, insieme con molte altre specie di rettili e serpenti di smisurata lun­ghezza. In questa confusione di tutte cose, re­gnava silenziosa la gran madre Omoròca, detta anche Talatta, nel sacro idioma dei Gasdim.
"E allora comparve Bel, il dio della luce e dell'aria. Venne egli con le sue innumerevoli schiere di Baalim, e d'un colpo della sua spada fiammeg­giante, divise Omoròca in due parti. Così furono il cielo e la terra.
"Ora avvenne che quell'immondo brulicame di mostri non potè sostenere la gran luce del Dio, e giacquero spenti. E Bel ferì il suo collo, e ne piovvero rivi di sangue. I Baalim, seguendo l'e­sempio, vi mescolarono il loro e ne nacquero gli uomini, per tal guisa ragionevoli e partecipi del­l'intelletto divino. “

Pag. 107. Brama di dominio, volontà di potenza del superuomo : parallelo tra Schahabarim, Zerduste in Semiramide, Arbace ne Gli ultimi giorni di Pompei ( 1835 ) di Bulwer-Lytton.

«  Elle tomba sur les genoux, mettant ses deux doigts contre ses oreilles en signe de repentir ; et elle sanglotait, écrasée par la parole du prêtre, pleine à la fois de colère contre lui, de terreur et d’humiliation. Schahabarim, debout, restait plus insensible que les pierres de la terrasse. Il la regardait de haut en bas frémissante à ses pieds, il éprouvait une sorte de joie en la voyant souffrir pour sa divinité … «

Pag. 110 : il magico, il meraviglioso e il misterioso è suggerito non solo dai personaggi d’eccezione come Schahabarim, ma dalle stesse architetture. L’elemento architettonico ha infatti la funzione di introdurre il lettore in un mondo di sogno e di “ souvenirs de patries oubliées “. Il castello fatato è infatti lo scenario indispensabile ad ogni favola che si rispetti.

« La colline de l’Acropole, au centre de Byrsa, disparaissait sous un désordre de monuments. C’étaient des temples à colonnes torses avec des chapiteaux de bronze et des chaînes de métal, des cônes en pierres sèches à bandes d’azur, des coupoles de cuivre, des architraves de marbre, des contreforts babyloniens, des obélisques posant sur leur pointe comme des flambeaux renversés. Les péristyles atteignaient aux frontons ; les volutes se déroulaient entre les colonnades ; des murailles de granit supportaient des cloisons de tuile ; tout cela montait l’un sur l’autre en se cachant à demi, d’une façon merveilleuse et incompréhensible. On y sentait la succession des âges et comme des souvenirs de patries oubliées. « 

Pag. 140. La cella proibita del tempio di Tanit. Ambiente magico e surreale. Confronta con il capitolo di Semiramide “ La porta di bronzo “ ove sono presentati prodigi analoghi e il capitolo relativo alla dimora del mago Arbace ( Ultimi giorni di Pompei ) e al saggio di arte illusionistica.
Pag. 207-208. Altro ritratto di Salammbô. Costante è il rapporto che lega S. alla dea Tanit. S. viene presentata come un’invasa dalla dea, poiché ella è ossessionata dall’idea di essere una sorta di riflesso dello splendore della dea lunare.
Pag. 244 : “ La bataille du Macar “. Vedi il cap. XVII di Semiramide. Anche qui precisa descrizione della disposizione tattica dell’armata, dei vari corpi combattenti, proprio come se ci trovassimo di fronte allo scritto di qualche autore antico, vedi ad esempio l’Anabasi ( libro I, cap. VIII ) di Senofonte. Barrili afferma esplicitamente nella presentazione dell’opera di avere letto a scopo informativo gli autori antichi e tra essi particolarmente Senofonte oltre a Curzio Rufo e Ammiano Marcellino.
Pag. 249. Episodio degli elefanti. Vedi Semiramide a pag. 226-227, confrontare i due episodi per porre in rilievo le evidenti analogie.
Pag. 257. Prostituzione sacra. Vedi anche Semiramide a pag. 26, cap. II. Nel romanzo di Barrili è evidente che la notizia della prostituzione sacra a Babilonia è stata tratta dal I libro delle Storie di Erodoto, precisamente al parag. 199. Il Barrili inoltre riporta la frase con la quale, dice Erodoto, l’uomo sceglieva la donna : “ invoco per te la dea Militta “.
Cap. X, pag. 277 : il serpente. Gli accenni alla mitologia sono meno abbondanti nella Salammbô che in Semiramide ( cap. IX, pag. 110 ). Inoltre a pag. 82, cap. VII di Semiramide viene esposta la teogonia babilonese e la storia del diluvio universale. Mentre Flaubert accenna di sfuggita alle mitologie antiche, Barrili si compiace di riferirne abbondantemente. Questi racconti hanno nella Semiramide la stessa funzione dei racconti nel racconto che troviamo nelle Mille e una notte. Essi ci introducono in un mondo sempre più fantastico man mano che dalla narrazione principale si passa a quella secondaria e così via, quasi una scatola nella scatola. Le antiche teogonie, proprio perché favole meravigliose, non assolvono a un compito di mera informazione erudita, ma vengono presentate nel loro aspetto squisitamente artistico. L’antica religione privata del suo significato etico viene adoperata con intento esclusivamente estetico, cioè come favola bella.
Pag. 280. Altre notizie riguardanti Schahabarim. Per il suo interesse a tutti i culti Flaubert deve forse avere avuto presente Apuleio ( Apologia, cap. 55 ) che afferma di essere stato iniziato in Grecia a quasi tutti i riti sacri oltre ad essere adoratore di Esculapio, cioè di Eschmoûn. Comunque per Schahabarim è bene tener presente le figure dei gimnosofisti e dei teurghi che troviamo ne La tentation de Saint Antoine.
Pag. 282. In tutti questi sapienti, sacerdoti o maghi, oltre all’elemento comune della loro personalità straordinaria è presente quello dell’infelicità dovuta all’amore non corrisposto. Sia Zerduste che Arbace e Schahabarim amano senza alcuna possibilità di essere amati, Zerduste perché ignorato dalla regina, Arbace perché aborrito dalla sua pupilla Ione, Schahabarim perché la sua dignità e la sua particolare condizione rendono assurdo qualsiasi desiderio umano. Ci troviamo di fronte a personaggi che colpiscono la nostra fantasia innanzi tutto per la loro singolarità che li pone in una dimensione disumana. La loro infelicità è un marchio di eterna condanna, la loro ribellione a questo atroce destino tanto più è vana quanto più ammirevole. Nella nostra immaginazione non si può fare a meno di accostare questi superuomini al ribelle per eccellenza e cioè a Satana, a cui come tanti Faust essi hanno dato l’anima.
Pag. 282 : per quanto riguarda le credenze religiose e filosofiche dei maghi si tengano presenti gli scritti dell’Ermetismo, di Giamblico, di Porfirio.

Pag. 289 : l’unione col serpente. Vedi la somiglianza della danza di Salammbô con quella di Salomé ( pag. 178 di Hérodias ).

« La lune se leva ; alors la cithare et la flûte, toutes les deux à la fois, se mirent à jouer.
Salammbô défit ses pendants d’oreilles, son collier, ses bracelets, sa longue simarre blanche ; elle dénoua le bandeau de ses cheveux, et pendant quelques minutes elle les secoua sur ses épaules, doucement, pour se rafraîchir en les éparpillant. La musique au-dehors continuait ; c’étaient trois notes, toujours les mêmes, précipitées, furieuses ; les cordes grinçaient, la flûte ronflait ; Taanach marquait la cadence en frappant dans ses mains ; Salammbô, avec un balancement de tout son corps, psalmodiait des prières, et ses vêtements, les uns après les autres, tombaient autour d’elle.
La lourde tapisserie trembla, et par-dessus la corde qui la supportait, la tête du python apparut. Il descendit lentement, comme une goutte d’eau qui coule le long d’un mur, rampa entre les étoffes épandues, puis, la queue collée contre le sol, il se leva tout droit ; et ses yeux, plus brillants que des escarboucles, se dardaient sur Salammbô.
L’horreur du froid ou une pudeur, peut-être, la fit d’abord hésiter. Mais elle se rappela les ordres de Schahabarim, elle s’avança ; le python se rabattit et lui posant sur la nuque le milieu de son corps, il laissait pendre sa tête et sa queue, comme un collier rompu dont les deux bouts traînent jusqu’à terre. Salammbô l’entoura autour de ses flancs, sous ses bras, entre ses genoux ; puis le prenant à la mâchoire, elle approcha cette petite gueule triangulaire jusqu’au bord de ses dents, et, en fermant à demi les yeux, elle se renversait sous les rayons de la lune. La blanche lumière semblait l’envelopper d’un brouillard d’argent, la forme de ses pas humides brillait sur les dalles, des étoiles palpitaient dans la profondeur de l’eau ; il serrait contre elle ses noirs anneaux tigrés de plaques d’or. Salammbô haletait sous ce poids trop lourd, ses reins pliaient, elle se sentait mourir ; et du bout de sa queue il lui battait la cuisse tout doucement ; puis la musique se taisant, il retomba. « 

Pag. 309-310. Il sogno d’un’impossibile felicità per i due amanti. Anche questo è un topos che si ripete in Semiramide ( pag. 327 ).
Cap. XV : sacrificio di Mâtho. Il motivo del dilaniamento è tipico del rito dionisiaco, e infatti ispira anche un racconto di Walter Pater ( ed. Adelphi ) nei Ritratti immaginari ( 1887 ). In “ Denys l’Auxerrois “ è evidente il mito di Orfeo dilaniato dalle Baccanti : “ Fu come se la vista del sangue rapisse gli spettatori con una sorta di folle furore, e d’un tratto rivelasse loro la verità “. La scena richiama quella della morte di Mâtho. Notare che l’amico di Denys è il monaco Hermes : “ Il monaco Hermes andò fantasticamente rimuginando quella tarda idea della poesia pagana, d’un Dio del Vino che era stato nell’inferno. “  Questa divinità “ … era come un essere duplice, di due nature, difficili o impossibili a metter d’accordo “ ( ricorda la concezione apollineo-dionisiaca di Nietzsche ).


domenica 15 luglio 2012

Gustave Flaubert, Hérodias






Gustave Flaubert     Hérodias     Paris, Garnier-Flammarion, 1965
                                 ( 1877 )

Pag. 177. Erodiade appare in tutta la sua dignità di regina, è paragonata a Cibele e sembra rappresentare una forza perversa e demoniaca della natura.

“ Les panneaux de la tribune d’or se déployèrent tout à coup ; et à la splendeur des cierges, entre ses esclaves et des festons d’anémone, Hérodias apparut, — coiffée d’une mitre assyrienne qu’une mentonnière attachait à son front ; ses cheveux en spirales s’épandaient sur un péplos d’écarlate, fendu dans la longueur des manches. Deux monstres en pierre, pareils à ceux du trésor des Atrides, se caressant contre la porte, elle ressemblait à Cybèle accotée de ses lions ; et du haut de la balustrade qui dominait Antipas, avec une patère à la main, elle cria :
— Longue vie à César ! “

Pag. 178. Salomé. Qui veramente la donna fatale si trasforma in dèmone ( da notare il cenno alla favola di Psiche ). Viene paragonata a una mènade, a una sacerdotessa di riti oscuri e crudeli, il suo fascino è violento, selvaggio, ella rende bestiali gli uomini, eccita anche gli animi meno impulsivi, come  la madre è una forza della natura a cui non si può resistere, è un’ammaliante strega.  

“ Mais il arriva du fond de la salle un bourdonnement de surprise et d’admiration. Une jeune fille venait d’entrer.
Sous un voile bleuâtre lui cachant la poitrine et la tête, on distinguait les arcs de ses yeux, les calcédoines de ses oreilles, la blancheur de sa peau. Un carré de soie gorge-pigeon, en couvrant les épaules, tenait aux reins par une ceinture d’orfèvrerie. Ses caleçons noirs étaient semés de mandragores, et d’une manière indolente elle faisait claquer de petites pantoufles en duvet de colibri.
Sur le haut de l’estrade, elle retira son voile. C’était Hérodias, comme autrefois dans sa jeunesse. Puis, elle se mit à danser.
Ses pieds passaient l’un devant l’autre, au rythme de la flûte et d’une paire de crotales. Ses bras arrondis appelaient quelqu’un, qui s’enfuyait toujours. Elle le poursuivait, plus légère qu’un papillon, comme une Psyché curieuse, comme une âme vagabonde, et semblait prête à s’envoler.
Les sons funèbres de la gingras remplacèrent les crotales. L’accablement avait suivi l’espoir. Ses attitudes exprimaient des soupirs, et toute sa personne une telle langueur qu’on ne savait pas si elle pleurait un dieu, ou se mourait dans sa caresse. Les paupières entre-closes, elle se tordait la taille, balançait son ventre avec des ondulations de houle, faisait trembler ses deux seins, et son visage demeurait immobile, et ses pieds n’arrêtaient pas.
Vitellius la compara à Mnester, le pantomime. Aulus vomissait encore. Le Tétrarque se perdait dans un rêve, et ne songeait plus à Hérodias. Il crut la voir près des Sadducéens. La vision s’éloigna. Ce n’était pas une vision. Elle avait fait instruire, loin de Machærous, Salomé sa fille, que le Tétrarque aimerait ; et l’idée était bonne. Elle en était sûre, maintenant !
Puis ce fut l’emportement de l’amour qui veut être assouvi. Elle dansa comme les prêtresses des Indes, comme les Nubiennes des cataractes, comme les bacchantes de Lydie. Elle se renversait de tous les côtés, pareille à une fleur que la tempête agite. Les brillants de ses oreilles sautaient, l’étoffe de son dos chatoyait ; de ses bras, de ses pieds, de ses vêtements jaillissaient d’invisibles étincelles qui enflammaient les hommes. Une harpe chanta ; la multitude y répondit par des acclamations. Sans fléchir ses genoux en écartant les jambes, elle se courba si bien que son menton frôlait le plancher ; et les nomades habitués à l’abstinence, les soldats de Rome experts en débauches, les avares publicains, les vieux prêtres aigris par les disputes, tous, dilatant leurs narines, palpitaient de convoitise.

Si veda anche la Salomé di Oscar Wilde, ispirata all’opera di Flaubert, con i preziosi disegni di Aubrey Beardsley, e in musica l’opera omonima di Richard Strauss, ispirata alla tragedia di Oscar Wilde.

http://youtu.be/zAwTnceCq_8

http://youtu.be/A1Sc6SA-bdk

Richard Strauss, Salomé

http://youtu.be/34FFDppvIf8

Charles Baudelaire, Les fleurs du mal






Charles Baudelaire    Les fleurs du mal   Milano, Garzanti, 1983
                                          ( 1861 )


La donna fatale, vedi pag. 36, “  L’idéal “ :

Ce ne seront jamais ces beautés de vignettes,
Produits avariés, nés d’un siècle vaurien,
Ces pieds à brodequins, ces doigts à castagnettes,
Qui sauront satisfaire un cœur comme le mien.

Je laisse à Gavarni, poëte des chloroses,
Son troupeau gazouillant de beautés d’hôpital,
Car je ne puis trouver parmi ces pâles roses
Une fleur qui ressemble à mon rouge idéal.

Ce qu’il faut à ce cœur profond comme un abîme,
C’est vous, Lady Macbeth, âme puissante au crime,
Rêve d’Eschyle éclos au climat des autans ;

Ou bien toi, grande Nuit, fille de Michel-Ange,
Qui tors paisiblement dans une pose étrange
Tes appas façonnés aux bouches des Titans !

Disposizione d’animo dell’esotista vedi pag. 42-43, “ Parfum exotique “ :

Quand, les deux yeux fermés, en un soir chaud d’automne,
Je respire l’odeur de ton sein chaleureux,
Je vois se dérouler des rivages heureux
Qu’éblouissent les feux d’un soleil monotone ;

Une île paresseuse où la nature donne
Des arbres singuliers et des fruits savoureux ;
Des hommes dont le corps est mince et vigoureux,
Et des femmes dont l’œil par sa franchise étonne.

Guidé par ton odeur vers de charmants climats,
Je vois un port rempli de voiles et de mâts
Encor tout fatigués par la vague marine,

Pendant que le parfum des verts tamariniers,
Qui circule dans l’air et m’enfle la narine,
Se mêle dans mon âme au chant des mariniers.

Pag. 48-50 ( “ Sed non satiata “ ) :

Bizarre déité, brune comme les nuits,
Au parfum mélangé de musc et de havane,
Œuvre de quelque obi, le Faust de la savane,
Sorcière au flanc d’ébène, enfant des noirs minuits,

Je préfère au constance, à l’opium, au nuits,
L’élixir de ta bouche où l’amour se pavane ;
Quand vers toi mes désirs partent en caravane,
Tes yeux sont la citerne où boivent mes ennuis.

Par ces deux grands yeux noirs, soupiraux de ton âme,
Ô démon sans pitié ! verse-moi moins de flamme ;
Je ne suis pas le Styx pour t’embrasser neuf fois,

Hélas ! et je ne puis, Mégère libertine,
Pour briser ton courage et te mettre aux abois,
Dans l’enfer de ton lit devenir Proserpine !

Avec ses vêtements ondoyants et nacrés,
Même quand elle marche on croirait qu’elle danse,
Comme ces longs serpents que les jongleurs sacrés
Au bout de leurs bâtons agitent en cadence.

Comme le sable morne et l’azur des déserts,
Insensibles tous deux à l’humaine souffrance,
Comme les longs réseaux de la houle des mers,
Elle se développe avec indifférence.

Ses yeux polis sont faits de minéraux charmants,
Et dans cette nature étrange et symbolique
Où l’ange inviolé se mêle au sphinx antique,

Où tout n’est qu’or, acier, lumière et diamants,
Resplendit à jamais, comme un astre inutile,
La froide majesté de la femme stérile.

La deità bruna circondata da un alone di pallide luci e di profumi orientali viene paragonata a un serpente. Chi non riconoscerebbe in questo ritratto Salammbô ? La donna orientale, bella e crudele, fredda e sterile, non è soltanto un’ossessione di Flaubert, essa appare non meno ossessionante nella poesia di Baudelaire e nella “ Erodiade “ di Mallarmé. E’ il simbolo della vita vista con gli occhi estatici e atterriti del pagano. Svanita e ripudiata ogni giustificazione ultraterrena dell’esistenza, la natura si palesa ora agli occhi di chi ancora riflette come una mostruosa divinità caotica e crudele. Fu il marchese De Sade ad affermare il principio che legge precipua dell’esistenza è la violazione stessa della legge e la rottura d’ogni ordine, il male, il caos, la violenza, l’istinto, la libidine, la crudeltà costituiscono la “ vera ” natura dell’uomo e d’ogni essere vivente. Come il Dioniso di Nietzsche è il dio del caos e dell’ebbrezza nell’annullamento del principium individuationis nel caos, come il piacere e la serenità che Dioniso elargisce agli uomini si debbono pagare col sacrificio del sangue ( Dioniso carnivoro, Dionysos Omestès ), così anche a questa donna gli unici sacrifici tributabili sono quelli cruenti perché ella è ( vedi n. 25 ) “ machine aveugle et sourde, en cruautés féconde “. Infatti il nome vero di questa deità, che come Dioniso è circondata di tigri e pantere, è stato rivelato proprio da Flaubert che della Salammbô ha fatto il poema celebratore di Cibele.
Per la ferinità della donna vedi pag. 62, “ Le chat “, dove la donna assume la fisionomia di una belva.

 LE CHAT

Viens, mon beau chat, sur mon cœur amoureux ;
Retiens les griffes de ta patte,
Et laisse-moi plonger dans tes beaux yeux,
Mêlés de métal et d’agate.

Lorsque mes doigts caressent à loisir
Ta tête et ton dos élastique,
Et que ma main s’enivre du plaisir
De palper ton corps électrique,

Je vois ma femme en esprit. Son regard,
Comme le tien, aimable bête,
Profond et froid, coupe et fend comme un dard,
Et, des pieds jusques à la tête,
Un air subtil, un dangereux parfum,
Nagent autour de son corps brun.




sabato 14 luglio 2012

Shahrazad

Un canto sulle pianure solitario
senza tempo tinte d’Occidente,
questo cielo eterno e nubi sopra noi
nei vortici del vento, l’immagine sono
silente, immortale di te, e il ricordo
e la speranza e l’essenza della vita.
Un canto solitario sulla procellosa
sinfonia del mare infecondo, insanguinato
fluido, e voci, sussurri di sirene,
filtri di maghe, echi luminosi,
ed improvvise estasi, figlie splendide
del Sole, a me furono la potenza
d’Amore. Un’onda chiara e mèmore
vibrò sull’arpa, appena increspando
la magnifica visione, un sogno fosti
allora nel Battistero tutto d’oro
quali acque pervase dal mordace meriggio.
Fiori di giovane alba nella città
del fiore e mano nella mano, silenti
selve e volti scorti in lieve spiro
odoroso nei giunchi ove il ruscello
i cieli attira, profondo sino al cuore,
occhi riflessi in occhi, anima
nell’anima. Tu mi cercasti,
anche se non volevi, ma senza voce
l’ombra cadde, come una dea
silvana pose il dito sulle sue labbra.
E su di noi spumeggiante di nubi
nel glauco cielo inneggiava il canto
di vergini guerriere in brame folli
d’eroi, mentre tu ti volgevi un istante
e tornavi abbandonata a cercarmi.
Allora ti rividi, insperata,
sotto la volta di candide nubi,
mentre ti volgevi sul lido marino,
coi crini crespi sulla nuca radiosa,
nell’ignoto orizzonte perduta,
immersa nell’eburneo splendore.
Ah, allora davvero ti conobbi,
seppi nell’istante chi eri, o forma
divina, o bellezza immortale !


venerdì 13 luglio 2012

Walter Pater, The Renaissance






Walter Pater    Il Rinascimento   ( The Renaissance, 1873 )

( Sandro Botticelli )
But he is far enough from accepting the conventional orthodoxy of Dante
which, referring all human action to the simple formula of purgatory,
heaven and hell, leaves an insoluble element of prose in the depths of
Dante's poetry. One picture of his, with the portrait of the donor,
Matteo Palmieri, below, had the credit or discredit of attracting some
shadow of ecclesiastical censure. This Matteo Palmieri--two dim figures
move under that name in contemporary history--was the reputed author of
a poem, still unedited, La Citta Divina, which represented the human
race as an incarnation of those angels who, in the revolt of Lucifer,
were neither for Jehovah nor for His enemies, a fantasy of that earlier
Alexandrian philosophy about which the Florentine intellect in that
century was so curious. Botticelli's picture may have been only one of
those familiar compositions in which religious reverie has recorded its
impressions of the various forms of beatified existence--Glorias, as
they were called, like that in which Giotto painted the portrait of
Dante; but somehow it was suspected of embodying in a picture the
wayward dream of Palmieri, and the chapel where it hung was closed.
Artists so entire as Botticelli are usually careless about philosophical
theories, even when the philosopher is a Florentine of the fifteenth
century, and his work a poem in terza rima. But Botticelli, who wrote a
commentary on Dante, and became the disciple of Savonarola, may well
have let such theories come and go across him. True or false, the story
interprets much of the peculiar sentiment with which he infuses his
profane and sacred persons, comely, and in a certain sense like angels,
but with a sense of displacement or loss about them--the wistfulness of
exiles, conscious of a passion and energy greater than any known issue
of them explains, which runs through all his varied work with a
sentiment of ineffable melancholy.

Traduzione di Aldo De Rinaldis, 1925 ( Napoli, R. Ricciardi ) :

Ma egli ( Sandro Botticelli ) è a bastanza lontano dall’accettare la convenzionale ortodossia di Dante, la quale, riferendo tutte le azioni umane alla semplice formula del purgatorio del paradiso e dell’inferno, lascia un insolubile elemento di prosa nelle profondità della poesia dantesca. Una sua pittura con sul davanti il ritratto del donatore Matteo Palmieri si ebbe il merito, o il demerito, di attrarre qualche ombra della censura ecclesiastica. Questo Matteo Palmieri ( due distinte persone portano tal nome nella storia del tempo ) era il reputato autore di un poema rimasto inedito, La Città Divina, che rappresentava la razza umana come incarnazione di quegli angeli che, nella rivolta di Lucifero, non furono né per Geova né per il suo nemico : una fantasia di quell’antica filosofia alessandrina della quale era così curiosa la mentalità fiorentina di quel secolo. Il quadro di Botticelli non era forse che una delle consuete composizioni, nelle quali lo spirito religioso registrava le sue impressioni dell’esistenza paradisiaca – una Gloria, come si diceva, simile a quella ove Giotto dipinse il ritratto di Dante; ma, ad ogni modo, fu sospettato di dar espressione pittorica all’illecito sogno del Palmieri, e la cappella ov’era stato collocato fu chiusa. Artisti così completi come Botticelli sono di solito incuranti di teorie filosofiche, anche se il filosofo sia un fiorentino del Quattrocento e la sua opera un poema in terza rima : ma Botticelli, che scrisse un comentario di Dante e divenne discepolo di Savonarola, poté ben essersi lasciato penetrare da teorie siffatte. Vera o falsa, la storia interpreta molto del particolar sentimento ond’egli informò le sue persone sacre e profane, concepite con grazia e, in qualche modo, alla maniera d’angeli, ma con un senso di abbandono e di vuoto nel loro animo – tristezza d’esuli – conscie di una passione e di una energia più grande di ogni loro consueta manifestazione, la quale corre, traverso tutta la varia opera botticelliana, con un sentimento d’ineffabile malinconìa.