domenica 29 gennaio 2012

Scheda di lettura Camillo Boito




Camillo Boito       in   Narratori settentrionali dell’Ottocento  Torino, UTET, 1970


Un corpo (1870), pag. 663, ritratto della donna fatale :
“ Il suo volto ricordava la testa di quella cara Euterpe, che sta nel museo di Berlino : il naso non si staccava dalla fronte se non per una dolcissima sinuosità; gli occhi lunghi, rialzati un po’ verso il mezzo della faccia, parevano tracciati con l’arco di un compasso; le labbra ferme scendevano un tantino alle estremità, unendosi per due infossature quasi impercettibili alle narici; il mento disegnava con le guance la curva rovesciata di una perfetta parabola. L’Euterpe ha i capelli increspati, e s’indovina che sono biondi; quelli di Carlotta erano biondi e increspati, e componevano, per annodarsi dietro, come nella figura antica, due larghe trecce in giro alla fronte e sopra le orecchie. Nel viso di Carlotta non era peraltro niente di quella freddezza un po’ sdegnosa e solenne, ch’è quasi sempre il carattere de’ volti greci; anzi nella perfezione attica della forma portava i segni di una gaiezza facile, aperta, buona : e gli occhi azzurrini compievano il ritratto dell’anima ingenua.
Quanto al colore, lo splendor di Tiziano e la finezza del Van Dyck non sarebbero bastati. In quel candido si notavano de’ passaggi ammirabili quasi dall’azzurro al cinabro : sotto la pelle liscia, fresca, trasparente scorreva la vita fervida. ”
Tutto il racconto è improntato sul tema della bellezza fisica, dell’estetica e dell’arte, della vita intesa da un punto di vista rigorosamente materialista alla luce di convinzioni positivistiche.
Pag. 689 : altra descrizione “estetica“ : “ I capelli bruni staccavano sul largo guanciale contornando il viso pallidissimo, che il beato da Fiesole doveva avere disegnato sospirando : e, su quel disegno, Donatello le belle guance smunte e il bel mento e la fronte pura e le labbra sottili ed il naso appena aquilino aveva modellato certo in terso alabastro. “ La seguente espressione riecheggia una espressione di Flaubert in Salammbo ( 1862 ). L’autore francese nel presentare l’eroina cartaginese aveva scritto : “ Ses prunelles semblaient regarder tout au loin au-delà des espaces terrestres “ ( G. Flaubert, Salammbo, Paris, Gallimard, 1970, pag. 57 ) e Boito dice : “ Gli occhi, con uno sguardo dritto orizzontale, fissavano qualche cosa al di là del muro della sala, qualche cosa al di là forse della terra. “
Senso ( 1883 ) : presentazione della donna fatale ( la contessa Livia ). Dice la contessa Livia ( pag. 736 ) : “ Sono altera di sentirmi affatto diversa dalle altre donne; il mio sguardo non teme nessuno spettacolo; c’è nella mia debolezza una forza audace; somiglio alle Romane antiche, a quelle che giravano il pollice verso terra, a quelle di cui tocca il Parini in una ode … “
Pag. 739 : ritratto del dongiovanni Remigio : “ … un misto di Adone e di Alcide. Bianco e roseo, con i capelli biondi ricciuti, il mento privo di barba, le orecchie tanto minute che sembravano quelle di una fanciulla, gli occhi grandi e inquieti di colore celeste : in tutto il volto una espressione ora dolce, ora violenta, ma di una violenza o dolcezza mitigata dai segni di un’ironia continua, quasi crudele. “ A proposito della piccolezza delle orecchie vedi la vita di Byron di Maurois ( A. Maurois, Don Giovanni o la vita di Byron, Milano, Dall’Oglio, 1953 ) al cap. XIII, pag. 109, viaggio del poeta in Grecia. Il pascià di Giànina, Alì, signore dell’Albania, affermò di aver riconosciuto i nobili natali di Byron dalle sue orecchie piccole, dai capelli ricci e dalla bianchezza delle mani ( pag. 113 ).      

A Lucia di Lammermoor




Orrida è questa notte,
come il mio destino,
dei casi un incomprensibile
nel baratro getto
di dadi,
e in alto una marea
di brame
contro lo scosceso scoglio, contro
la rupe invalicabile,
aspra amara,
sazia di vite spezzate.
S’erge l’alta torre
nella tempesta
cinta di fulmini,
solitaria nella landa desolata
ricolma di paludi,
qual vita
pullulante d’insidia.
La tenebra m’ammanta
del duplice terrore
del nulla
e d’una ridda di demoni.
Il fato
mi fu nemico e m’illuse,
ahi,
col peggior degli inganni, con il sogno
d’essere amato.
Non fu così, Lucia,
mio breve raggio di sole,
mia fonte
di gioia.
Tu mi guardasti
per un istante
un giorno lontano,
ma fu per sempre.
Presso l’antico fonte
tu sedevi e i capelli
fluivano con la corrente
al vento gaio e sinuoso
ed io a te una trama tessevo
d’oro e di gemme intorno
nel sogno, quale nei campi assolati
splendono le messi e ondeggiano
come vasto mare, e sorgeva
il sorriso e s’effondeva con l’ale azzurra
dell’aria. Di canti un arazzo
ondava nell’aria nella vampa
del meriggio d’oro, come i tuoi capelli
al vento si libravano fresco
spirante tra le selve.
Ombroso soffio il corpo tuo
fluitava dell’acque limpide
nel decorso e si fondeva nel cielo
dei frizzi colmo delle rondini, tu
dovunque eri, o dea, radiosa
effigie d’immortale bellezza cinta
d’un ampio manto di fiori.
Nella radura dell’ondeggiante foresta
al vento, ai raggi
del meriggio montano, tu sorridevi
per richiamarmi al tuo ricordo
un giorno, agli ineffabili istanti
che soltanto si svelano
nella memoria.
Poi che la vita umana
inavvertita scorre e il solo suo rimpianto
viva la rende e presente e quasi eterna.
Ma non è che un soffio breve
sulla gora del tempo e la rimuove
in un’onda che lieve espira
per una sponda ignota e poi si perde.
E tu non fosti per me
che il sogno d’un perduto paradiso,
una terra senza approdo.
Un’ignota terra lontana svanisce
all’orizzonte ora nel tramonto,
miraggio di promesse, vagheggiato
sogno nell’ombra dell’oblìo.
Viviamo solo per quel sogno
e sino all’ultimo
non vogliamo destarci
alla voce
della morte.

sabato 28 gennaio 2012

Scheda di lettura Federico De Roberto





Federico De Roberto     L’Illusione ( 1891 )      Milano, Mondadori, 1993


Pag. 45 : concezione misogina dell’animo della donna : “ Le fanciulle leggiadre, fossero nate sul trono o nelle capanne, facevano degli uomini quel che volevano; e invano essi tentavano sottrarsi al loro potere. “  La frase giustifica anche pienamente il mito ottocentesco della donna fatale, fredda mangiatrice di uomini.
Pag. 73 : interessante pagina sulle letture di Teresa : Dumas, Sue, Hugo e altri minori. Si noti l’analogia del personaggio con M.me Bovary. Pag. 75 : Balzac e Walter Scott ( come la Bovary ! ).
De Roberto è abile psicologo nel delineare i futili motivi che spingono al matrimonio Teresa : l’amore per il lusso, la bella vita, l’adulazione e l’invidia delle amiche. Ma il marito Duffredi ben presto la disingannerà rivelandole di non amarla e di averla sposata per le instancabili pressioni del nonno di lei. Teresa sotto la spinta dei pregiudizi sociali si adatta alla triste situazione, continuando a sognare l’amore romantico. La situazione sentimentale dei romanzi d’appendice viene rovesciata e messa in caricatura.
Teresa appare come una Justine virtuosa e tormentata dal destino, o una Lucia idealista, ma in realtà è poco convinta dei vantaggi della fedeltà.
Pag. 198 : si rivela pienamente l’animo superficiale di Teresa nel considerare l’adulterio un “ secreto compenso alla monotonia della vita “ e i doveri matrimoniali come legami di facciata “ salvando le apparenze, come aveva letto che facevano nelle grandi famiglie aristocratiche, a Parigi, a Londra. “
Pag. 239 : Teresa rivela la propria natura superficiale e civettuola : “ Io sono una di quelle donne fatali a cui è impossibile resistere ! … “ così esclama dopo aver avuto un incontro segreto con l’amante Arconti, addolorato enormemente per la prossima partenza di lei da Roma in Sicilia, in seguito ad un telegramma che annuncia la grave malattia dello zio del marito.
Pag. 332 : Teresa è ormai in preda a sogni da mitomane, ritiene di essere una donna fatale e di esercitare il suo impero sull’uomo, anche senza amarlo : “ Non amava più quell’uomo; ma voleva una prova dell’impero che aveva esercitato, che doveva ancora esercitare su lui … “

Scheda Baudelaire




Ch. Baudelaire              Poesie e prose                Milano, Mondadori, 1977



Paradisi artificiali – Un mangiatore d’oppio ( riassunto dell’opera di Thomas De Quincey )

Dalle  “ Torture dell’oppio “ ( cap. IV ) :

“ Strane e mostruose architetture si drizzavano nel suo cervello, simili alle mutevoli costruzioni che l’occhio del poeta scorge nelle nuvole colorate dal sole al tramonto. Presto, a quei sogni di terrazze, di torri, di fortificazioni ascendenti verso altezze sconosciute, perdute nelle immense profondità, successero i laghi, le vaste distese d’acqua. … l’Asia stessa, l’Asia antica, solenne, mostruosa, complicata come i suoi templi e le sue religioni; dove tutto, dagli aspetti più ordinari della vita, sino ai classici, ai grandiosi ricordi che comporta, è fatto per confondere e stupire la mente dell’europeo. Non era soltanto la Cina, artificiosa, bizzarra, vecchiotta, prodigiosa come un racconto di fate, che opprimeva il suo cervello. La sua immagine chiamava naturalmente quella vicina dell’India, così misteriosa e inquietante per uno spirito occidentale; poi la Cina e l’India componevano rapidamente con l’Egitto una triade minacciosa, un incubo complesso, dalle svariate angosce. ” … “ Fuggivo la collera di Brahma per tutte le foreste dell’Asia; Visnù mi odiava; Siva mi tendeva un tranello. All’improvviso, piombavo tra Iside e Osiride; avevo fatto qualcosa, udivo dire, commesso un delitto che faceva fremere l’ibis e il coccodrillo. Per migliaia di anni giacevo sepolto nella bara di pietra, con le mummie, le sfingi, nelle strette celle delle piramidi eterne. Mi baciavano i coccodrilli dal bacio canceroso e io rimanevo disteso tra la folla delle cose inesprimibili e vischiose, tra i fanghi e i canneti del Nilo. “
Vedi Th. De Quincey  Confessioni di un oppiomane, Milano, Garzanti, 1987, da “ Suspiria de profundis “, “ La figlia del Libano “ : Emblema della donna fatale, ella è una cortigiana di stupefacente bellezza.

domenica 22 gennaio 2012

Les fleurs





Des avalanches d'or du vieil azur, au jour
Premier et de la neige éternelle des astres
Jadis tu détachas les grands calices pour
La terre jeune encore et vierge de désastres,

Le glaïeul fauve, avec les cygnes au col fin,
Et ce divin laurier des âmes exilées
Vermeil comme le pur orteil du séraphin
Que rougit la pudeur des aurores foulées,

L'hyacinthe, le myrte à l'adorable éclair
Et, pareille à la chair de la femme, la rose
Cruelle, Hérodiade en fleur du jardin clair,
Celle qu'un sang farouche et radieux arrose !

Et tu fis la blancheur sanglotante des lys
Qui roulant sur des mers de soupirs qu'elle effleure
A travers l'encens bleu des horizons pâlis
Monte rêveusement vers la lune qui pleure !

Hosannah sur le cistre et dans les encensoirs,
Notre Dame, hosannah du jardin de nos limbes !
Et finisse l'écho par les célestes soirs,
Extase des regards, scintillement des nimbes !

Ô Mère qui créas en ton sein juste et fort,
Calices balançant la future fiole,
De grandes fleurs avec la balsamique Mort
Pour le poète las que la vie étiole.


Stéphane Mallarmé


http://youtu.be/YP9Z4pgnOCE

L'incubo

Fussli, l'incubo





















Les ténèbres
   
    Dans les caveaux d'insondable tristesse
    Où le destin m'a déjà relégué ;
    Où jamais n'entre un rayon rose et gai ;
    Où seul, avec la nuit, maussade hôtesse,
   
    Je suis comme un peintre qu'un Dieu moqueur
    Condamne à peindre, hélas ! Sur les ténèbres ;
    Où, cuisinier aux appétits funèbres,
    Je fais bouillir et je mange mon cœur,
   
    Par instants brille, et s'allonge, et s'étale
    Un spectre fait de grâce et de splendeur.
   
À sa rêveuse allure orientale,
   
    Quand il atteint sa totale grandeur,
    Je reconnais ma belle visiteuse :
    C'est elle ! Noire et pourtant lumineuse.

Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, n. 38, 1



E però leva sù: vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s'accascia.

Dante, Inferno, XXIV, 51-53


http://youtu.be/reULiVFHy6M

sabato 21 gennaio 2012

Scheda di lettura Joris-Karl Huysmans




Joris Karl Huysmans      A rebours (1884)          Paris, Garnier-Flammarion, 1978


Grandissima è la preoccupazione di des Esseintes per l’arredamento. La sua è una vera e propria filosofia dell’arredamento. Questo interesse proprio del dandy ( un gusto anche propenso all’esotico come in Gautier ) è portato, naturalmente, a privilegiare ciò che è fuori del comune.
Nel terzo capitolo, parlando della letteratura latina, intesse un elogio soprattutto degli scrittori della “decadenza” quali Petronio e Apuleio. P. 86-87 : elogio del Satyricon di Petronio, “roman réaliste“.
Apprezza poi particolarmente lo stile esuberante e bizzarro di Apuleio ( Metamorfosi ). Anche Apuleio offre qualche tratto realistico, ad esempio la morte dei tre fratelli nel libro IX, cap. 37-38. Per il resto il romanzo di Apuleio ha molti punti di contatto con il romanzo ellenistico, che non si può certo definire realistico.
Capitolo V : Salomé. Salomé, come la Salammbo di Flaubert, viene considerata il simbolo vivente, l’incarnazione di una divinità femminile dai due aspetti contraddittori di bontà e di malvagità. Ella è l’incarnazione d’una dea orientale della fecondità, di Cibele, della Grande Madre, nel contempo buona e crudele ( è la Madre terrificante di Jung, Simboli della trasformazione, Bollati-Boringhieri, pag. 183-184 ). E in Salomé è destino che la forza d’una oscura volontà abbia il sopravvento :
 “ Ce type de la Salomé si hantant pour les artistes et pour les poètes, obsédait, depuis des années, Des Esseintes. Combien de fois avait-il lu dans la vieille bible de Pierre Variquet, traduite par les docteurs en théologie de l'université de Louvain, l'évangile de saint Mathieu qui raconte en de naïves et brèves phrases, la décollation du précurseur; combien de fois avait-il rêvé, entre ces lignes:
«Au jour du festin de la nativité d'Hérode, la fille d'Hérodias dansa au milieu et plut à Hérode.
«Dont lui promit, avec serment, de lui donner tout ce qu'elle lui demanderait.
«Elle donc, induite par sa mère, dit: donne moi, en un plat, la tête de Jean Baptiste.
«Et le roi fut marri, mais à cause du serment et de ceux qui étaient assis à table avec lui, il commanda qu'elle lui fût baillée.
«Et envoya décapiter Jean, en la prison.
«Et fut la tête d'icelui apportée dans un plat et donnée à la fille et elle la présenta à sa mère.» (évangile de saint Mathieu dans la bible de Pierre Variquet).
Mais ni saint Mathieu, ni saint Marc, ni saint Luc, ni les autres évangélistes ne s'étendaient sur les charmes délirants, sur les actives dépravations de la danseuse. Elle demeurait effacée, se perdait, mystérieuse et pâmée, dans le brouillard lointain des siècles, insaisissable pour les esprits précis et terre à terre, accessible seulement aux cervelles ébranlées, aiguisées, comme rendues visionnaires par la névrose; rebelle aux peintres de la chair, à Rubens qui la déguisa en une bouchère des Flandres, incompréhensible pour tous les écrivains qui n'ont jamais pu rendre l'inquiétante exaltation de la danseuse, la grandeur raffinée de l'assassine.
Dans l'oeuvre de Gustave Moreau, conçue en dehors de toutes les données du testament, des Esseintes voyait enfin réalisée cette Salomé, surhumaine et étrange qu'il avait rêvée.
Elle n'était plus seulement la baladine qui arrache à un vieillard, par une torsion corrompue de ses reins, un cri de désir et de rut; qui rompt l'énergie, fond la volonté d'un roi, par des remous de seins, des secousses de ventre, des frissons de cuisse; elle devenait, en quelque sorte, la déité symbolique de l'indestructible luxure, la déesse de l'immortelle hystérie, la beauté maudite, élue entre toutes par la catalepsie qui lui raidit les chairs et lui durcit les muscles; la bête monstrueuse, indifférente, irresponsable, insensible, empoisonnant, de même que l'Hélène antique, tout ce qui l'approche, tout ce qui la voit, tout ce qu'elle touche.
Ainsi comprise, elle appartenait aux théogonies de l'extrême orient; elle ne relevait plus des traditions bibliques, ne pouvait même plus être assimilée à la vivante image de Babylone, à la royale prostituée de l'apocalypse, accoutrée, comme elle, de joyaux et de pourpre, fardée comme elle; car celle-là n'était pas jetée par une puissance fatidique, par une force suprême, dans les attirantes abjections de la débauche. 
Le peintre semblait d'ailleurs avoir voulu affirmer sa volonté de rester hors des siècles, de ne point préciser d'origine, de pays, d'époque, en mettant sa Salomé au milieu de cet extraordinaire palais, d'un style confus et grandiose, en la vêtant de somptueuses et chimériques robes, en la mitrant d'un incertain diadème en forme de tour phénicienne tel qu'en porte la Salammbô, en lui plaçant enfin dans la main le sceptre d'Isis, la fleur sacrée de l'égypte et de l'Inde, le grand lotus. “
Il palazzo d’Erode è dipinto secondo la concezione architettonica favolosa che caratterizza il gusto degli artisti dell’epoca. Basti ricordare la Cartagine fantastica di Flaubert, la casa sconfinata e ciclopica di Arbace nell’opera di Bulwer-Lytton ( Gli ultimi giorni di Pompei ), i palazzi inimmaginabili dell’Egitto faraonico di Gautier, e, nel caso di un autore italiano come A. G. Barrili la reggia della regina di Babilonia in Semiramide ( 1873 ).
Cap. VIII : il sogno di des Esseintes, il tema dell’incubo : “ Alors, son sang ne fit qu'un tour et il resta cloué, par l'horreur, sur place. Cette figure ambiguë, sans sexe, était verte et elle ouvrait dans des paupières violettes, des yeux d'un bleu clair et froid, terribles; des boutons entouraient sa bouche; des bras extraordinairement maigres, des bras de squelette, nus jusqu'aux coudes, sortaient de manches en haillons, tremblaient de fièvre, et les cuisses décharnées grelottaient dans des bottes à chaudron, trop larges.
L'affreux regard s'attachait à Des Esseintes, le pénétrait, le glaçait jusqu'aux moelles; plus affolée encore, la femme bouledogue se serra contre lui et hurla à la mort, la tête renversée sur son cou roide. “

domenica 15 gennaio 2012

Immagini







Sognava.
Fluttuava la luce sotto gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa, che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle montagne.
Una vegetazione rigogliosa si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive del grande fiume.
Su per l’acqua veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni, deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.




Tra la vegetazione dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso, carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava per sempre un dio antico.
Al centro di quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta, rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e nerastro.
Un trono imponente, di pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava, le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale, illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del loto.
Il volto brunito era impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano, allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude, la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca, nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava, innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé, sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del sangue.
Ed ella s’entusiasmava nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella danza interminabile.
E il sangue stillante dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un fiume veemente, verso il mare murmureo.




Luna perduta






Luna perduta, isola remota,
come le chiome tue le dune
del deserto allo specchio degli occhi
notturni fugge il raggio dello spirito,
corsiero fremido.

La luce dell’alba corre sui tuoi incerti
passi sulle sabbie e non perdona
la mente che sconfina oltre i palpiti
marini, in siti
solitari.

Specchio dell’anima infranto
dalle braccia del sole,
lago trafitto dal vagito dell’alba,
al partorire
delle acque.

Gocce saline sprizzano dalla rabbia
scrosciante incontro alle rocce dove
può solo chi vola e sa, errante
gabbiano, esperto compagno
dell’instancabile.

Oltre le ultime barriere dell’oceano,
cercatore nell’oscuro ignoto
caccia le note prede per paura.
Ha lasciato la luce per la porta
irata delle nubi.

Ed è approdato in isole lontane,
ove non echeggia canto di alati,
e scuote le ombre il vento della follia
e il fremito dell’uragano.                 

A Flora





O Cibele ! Io ammiro l’occhio
tuo, riflesso di bronzei oceani,
manto d’autunno, bella fiera
della terra. Antro muscoso, stilla
d’ombre vellute, chioma di corimbi;
silente annunci all’occidua attesa
dei coribanti il prossimo trionfo;
te ebbro dei misti il coro onora.

Folli i cureti, i cabiri folli
scrollano invasi il flutto della testa,
galli irti a piaghe arcuano gli artigli :
“ Oh, storna tu da me, storna da me
col sacrificio il sangue del dolore,
che aver pace nel mite sonno possa. “

Dormire tra l’erba clora vorrei,
e quando vellica il candido e serico
maculato vello giocoso il vento
al cucciolo vivace allora al seno
tuo anelo, o Flora, e al suono
delle messi canore. Acque croscianti
e fresche, inebriante liquore
della terra ! Oh, rive felici, qui
da sfrenate gare di fauni sempre
liete; vieni rosea Primavera !

domenica 8 gennaio 2012

Scheda Giacomo Leopardi




Dallo Zibaldone



“ Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l’impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il [492]curarsi delle cose poste fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria, l’inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose che noi dovevamo     sapere,  ed       ancora     che      possiamo            sapere,        sono veramente
emprosqen hmwn kai para podas, e finalmente la sommità, l’ultimo grado del sapere, consiste in conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra’ piedi, l’avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci stavano tra’ piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità. Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri [493]scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline inventate, quante istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec. per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l’ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l’ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi, quello ch’esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz’avvedercene, e senza pensare o credere di sapere. Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch’eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza, [494]separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali. Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s’è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch’ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla. “
(12. Gen. 1821.)


 

“ Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza; la ragione è nemica della natura; la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto piú difficilmente sarà grande, quanto piú sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi; e nelle arti e nella poesia forse nessuno, se non sono dominati dalle illusioni. Questo viene che quelle cose che noi chiamiamo grandi, per esempio un’impresa, d’ordinario sono fuori dell’ordine, e consistono in un certo disordine; ora questo disordine è condannato dalla ragione. Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione. Lo straordinario ci par grande: se sia poi piú grande dell’ordinario astrattamente parlando, non lo so; forse anche qualche volta sarà piú piccolo assai in riga astratta, e quest’uomo strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un altro ordinario ed oscuro si troverà minore; nondimeno, perché è straordinario, si chiama grande; anche la piccolezza quando è straordinaria, si crede e si chiama grandezza. Tutto questo la ragione non lo comporta; e noi siamo nel secolo della ragione (non per altro se non perché il mondo piú vecchio ha piú sperienza e freddezza); e pochi ora possono essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle arti. Anche chi è veramente grande sa pesare adesso e conoscere la sua grandezza, sa sviscerare a sangue freddo il suo carattere, esaminare il merito delle sue azioni, pronosticare sopra di se, scrivere minutamente colle piú argute e profonde riflessioni la sua vita: nemici grandissimi, ostacoli terribili alla grandezza; che anche l’illusioni ora si conoscono chiarissimamente esser tali, e si fomentano con una certa compiacenza di se stesse, sapendo però benissimo quello che sono. Ora come è possibile che sieno durevoli e forti quanto basta, essendo cosí scoperte? e che muovano a grandi cose? e senza le illusioni qual grandezza ci può essere o sperarsi? (Un esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo come richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze; essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne avrà nessun vantaggio e forse anche danno perché soffrirà piú tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette dalla parte della natura). La natura dunque è quella che spinge i grandi uomini alle grandi azioni, ma la ragione li ritira: e però la ragione è nemica della natura; e la natura è grande, e la ragione è piccola. Altra prova che la ragione è spesso nemica della natura, si cava dall’utilità, cosí per la salute come per tutto il resto, della fatica a cui la natura ripugna e cosí dalla ripugnanza della natura a cento altre cose o necessarie o utilissime e però consigliate dalla ragione, e per lo contrario dall’inclinazione della natura a moltissime altre o dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate dalla ragione: e la natura spesso tende con questi appetiti a danneggiare e a distrugger se stessa. “

Quest’ultima riflessione si trova all’inizio dello Zibaldone, mentre la prima un po’ più avanti, ma, come si può notare,  Leopardi non ha cambiato idea. Infatti tra l’una e l’altra riflessione troviamo concordanza di pensieri e di meditazioni :
n. 22 : la mancanza di illusioni ( ideali ) genera la barbarie, i popoli troppo razionali e quindi disillusi sono avviati alla barbarie.
n. 64 : “ Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana “, vedi Vico, Scienza nuova, riguardo alla concezione della mentalità dei primi uomini, pari a fanciulli ( cfr. per l’eroismo il libro II, 8 ).
n. 104 dice : “ … essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia “. Sicuramente Leopardi è l’antitesi di Hegel.
n. 105 : il cristianesimo come principale propagatore della consapevolezza circa la certa infelicità umana e perciò suo influsso negativo sull’animo.
n. 114 : sono di grande interesse le considerazioni sulla civiltà che dipende da “ un temperamento della natura con la ragione “ e più sotto “ la barbarie  non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura “. Interessantissimo è poi il concetto di “ultrafilosofia” che sembra preludere alle concezioni nicciane.
n. 132 : considerazioni assai interessanti sul Medio Evo e la religione cristiana ( “ il vizio prese il carattere di metafisica “ ) : “ Aggiungete che la religione pagana come più naturale che ragionevole, avrebbe servito a conservar qualche poco di natura in quella barbarie “. Se noi consideriamo che Leopardi riteneva superiore la natura alla ragione se ne deduce che riteneva la religione pagana superiore alla cristiana, in quanto basata sulla natura, mentre la cristiana sulla ragione.
n. 350 : dice che la filosofia ( morte delle illusioni ) “ cominciò la sua triste devastazione in Germania, patria del pensiero “ … “ Scoperta di tutte le verità più dannose, … abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari … “  Leopardi è quindi d’accordo col Nietzsche nel condannare la ragione quando questa rende l’uomo un essere privo di forza vitale.

A proposito della vanità della ricerca umana si tenga presente anche un autore letto e imitato dal Leopardi, cioè Luciano di Samosata ( scrittore ammirato anche da Walter Pater e utilizzato per il suo Mario l’epicureo, 1885 ), che nell’Ermotimo scrive :


[79] λλ μν οδ κενό πω κατανενόηκας, ομαι, ς μν ρετ ν ργοις δήπου στίν, οον ν τ δίκαια πράττειν κα σοφ κα νδρεα, μες δτ δ μες ταν επω, τος κρους τν φιλοσοφούντων φημίφέντες τατα ζητεν κα ποιεν ημάτια δύστηνα μελεττε κα συλλογισμος κα πορίας κα τ πλεστον το βίου π τούτοις διατρίβετε, κα ς ν κρατ ν ατος, καλλίνικος μν δοκε: φ ν, ομαι, κα τν διδάσκαλον τουτον θαυμάζετε, γέροντα νδρα, τι τος προσομιλοντας ς πορίαν καθίστησι κα οδεν ς χρ ρέσθαι κα σοφίσασθαι κα πανουργσαι κα ς φυκτα μβαλεν, κα τν καρπν τεχνς φέντεςοτος δ ν περ τ ργαπερ τν φλοιν σχολεσθε τ φύλλα καταχέοντες λλήλων ν τας μιλίαις. γρ λλα στν πράττετε, ρμότιμε, πάντες ωθεν ες σπέραν;