giovedì 29 dicembre 2011

La papessa Giovanna




Leggeva dal romanzo di Eliodoro :
… Tanta armonia vagava nei cori e così a proposito la cadenza del passo alla musica insieme accordava il ritmo, che l’occhio disdegnava la vista, ma dall’udito era persuaso e i presenti s’accompagnavano alle vergini, che man mano avanzavano, siccome tratti dall’eco del canto, finché a tergo una compagnia di giovani cavalieri e il loro capitano, splendido, ad ogni concento dimostrò superiore lo spettacolo dei belli. Il calcolo a cinquanta annoverava gli efebi, poi li spartiva in venticinque per banda, scortanti lancieri del capofila ch’era sito nel mezzo; una babbuccia a ciascuno, intreccio di cuoio purpureo, sovra la caviglia era allacciata, poi una clamide bianca da una fibbia d’oro era unita al petto in basso verso i piedi circondata da una tinta cianea. La squadra dei cavalli era tutta di Tessaglia e di quelle contrade al modo fiero volgeva il guardo ( al morso infatti come a padrone si negavano imbrattandolo di saliva ed anche di copiosa bava, ma soggiacevano alla mente guidatrice del cavaliere ), e di falere e di frontali argentei e dorati adornata, quasi a certame questo gli efebi avessero compiuto. Ma costoro, o Cnemone, che pur cosiffatti erano, trascurò ed oltrepassò lo sguardo dei presenti e al capitano ( era lui, il mio tesoro, Teagene ) tutto quanto si volse, sì che avresti creduto che da folgore l’apparizione di prima tutta quanta fosse stata adombrata, tanto noi, una volta scorto, irraggiò, ed era cavaliere di certo ma armato da fante e un’asta di frassino di bronzeo acume brandiva, ma non portava l’elmo, anzi col nudo capo capeggiava il corteo, una porfirea clamide indosso, la quale inoltre l’oro ordiva intessendo in armi i Lapiti contro i Centauri, e la fibbia inghirlandava un’Atena d’ambra che quale scudo la testa della Gorgone reggeva a riparo. E arrecava una grazia alla visione anche di vento un soffio leggero, dolcemente infatti spirava, un poco la chioma per il collo arruffando e alzando della fronte le ciocche e i lembi della clamide facendo ondeggiare sovra il dorso e i fianchi del corsiero. Avresti davvero detto che il cavallo medesimo riconoscesse la gagliardia del padrone e sapesse che portava lui già bello il cavaliere bellissimo, così enfiava la giubba e in alto le orecchie e la testa levava e sovra gli occhi moveva altera la palpebra e superbo conduceva ed era condotto …
Interruppe la lettura e, alzatasi, si diresse al grande armario della sua biblioteca, l’armario ove erano riposti i libri rari, e ne trasse il De mulieribus claris. Iniziò a sfogliare il volumetto qua e là, con noncuranza, e poi, deposto il codicillo, la mente si perse in un vago fantasticare, senza costrutto.
Sotto un baldacchino di drappo amaranto, incorniciato di legno indorato, librato su alte colonne spiralate, su di un seggio regale era seduta ora una femmina, stranamente vestita di panni pontifici. Una tiara di triplice corona le sovrastava il capo, sostenuta da due novizi prestanti e giovini, dal volto gentile. Ella reggeva nella destra il pastorale che terminava in un’attorcitura floreale, le mani sfavillavano d’anelli. Uno stretto corpetto scarlatto e una tunica color ocra suggerivano le linee muliebri, ma queste erano un poco celate dall’ampio camice di seta marezzata che era aperto davanti ed anche rivelava due alti coturni pregiati, di cuoio laminato d’argento. La pianeta era deposta su di uno sgabello, ai suoi piedi. Intorno una gran folla di cardinali, imporporati, dal cappello rosso di larghe falde, con barbe brizzolate di plurime pieghe, parlavano tra loro, annuendo e rivolgendo sguardi soddisfatti e devoti alla somma autorità terrena.
Ella aveva raccolto e intrecciato i boccoli biondi, così evidenziando la morbidezza rosata del collo appena, alla radice della nuca, solcato da una fine peluria. E i giovini ai suoi lati acquistavano sempre maggior coscienza del proprio alto ufficio, compresi e rapiti in una venerazione che prometteva tutte le gioie del Paradiso.
Costei, col nome di Giovanni, era assurta al soglio papale accompagnata da una gran fama di sapienza, sicché, venuta dall’Anglia remota nell’Urbe a insegnare nelle arti del trivio, ebbe ragguardevoli auditori, ed in seguito per la singolare sua castità fu da ogni presule stimata un uomo di lodevole continenza.
Il suo vero nome non fu mai noto, ma alcuni affermarono, cosa strana davvero, che si chiamasse Gilberto e che fosse stata l’amante d’uno studente, quando era ancora in Inghilterra. E anche quando, fuggita di casa, divenne la concubina del chierico, fu in ogni modo creduta un amico di lui e perciò iniziata, grazie al travestimento maschile, agli studi sacri e profani, oltre che ai diletti di Venere. Alla morte dell’amasio, tuttavia, serbò tale pudicizia e astinenza da essere tenuta per certo di sesso opposto. E giunse, tanto è l’ingegno della donna, fino al più ambito dei troni. Non durò a lungo, però, quell’invidiabile onestà, poi che il potere, la gloria, la ricchezza, stimolano i desideri e le voglie assai più che una vita modesta e ritirata. Accadde perciò che il papa si trovò un prelato compiacente, e di buon grado, il quale, col dovuto rispetto, si adagiava accanto ogni notte e ne alleviava le ambasce.
Come la Gioconda o come Sosandra ella sorrideva d’un sorriso venerando e sfuggente, semisommersa nell’umbrata intimità dell’alcova, stesa sulle lenzuola e sovra i cuscini, con la schiena bianca volta al chiarore della lampada e l’ampio fianco destro, mentre copriva il seno e il ventre con un lembo della coltre, e la gamba sinistra poggiava, quasi incrociando, sulla destra.
Era ella forse in quei momenti la grande odalisca dell’Oriente, dalla carnagione pregna ed orezzante di tutti gli aromi e i balsami dei ginecei inviolabili, i cui segreti sono più preziosi di qualsiasi vita ?
Il corpo suo non prometteva la gioia sensuale soltanto, ché il senso maschile non avrebbe potuto godere appieno del contatto di quella beltà così appariscente e misteriosa, così maestosa e tenera. Come ogni capolavoro dell’ingegno umano od ogni meraviglia della natura, ella induceva alla contemplazione della sua forma piuttosto che a violare e a scomporre il fascino della spontanea espressione del viso e dell’atteggiarsi delle membra con un assalto avido e brutale.
L’ecclesiastico quindi restava a lungo, nonostante l’annosa astinenza, fermo, anzi impietrito, catturato dal brivido dell’ammirazione, timoroso, si sarebbe detto, come innanzi ad una reliquia dei luoghi santi, e, per la sensibilità propria delle persone colte, rapito in un gaudio che soddisfaceva ogni sogno errabondo dell’immaginazione.
E tuttavia l’istinto cieco e virile ebbe sin dalla prima notte, dopo un lasso di tempo che parve un’eternità, il sopravvento necessario e, del resto, voluto, sì che la bella dama ricevette ripetutamente il caldo ospite, per la cui consistenza ebbe motivo più volte di compiacersi, lievemente sorridendo. E trascorsero quindi numerose notti, nelle quali il saggio prete poté ben pensare di aver recuperato il tempo perduto durante la giovanile insensatezza.
Ma anche un papa non può sottrarsi alle leggi di natura, e, a forza di corroboranti applicazioni, ebbe il suo frutto. O meraviglia delle umane vicende, o forza invincibile delle passioni ! Ella ingrossava, ma l’abito talare era fatto apposta e la nascondeva bene sotto i paramenti. Né se n’avvedevano i cardinali, che non erano smilzi, né il popolo che stava troppo a distanza. E la gravidanza procedendo, sventura volle che ella avesse fatto male i suoi conti e che non sapesse che s’avviava oramai al parto.
E sognava pure e progettava imprese favolose pari a quelle di Semiramide, regina di Babilonia.
Quante volte aveva vagheggiato un palazzo simile a quello della divina guerriera ! Sovra un basamento di sessanta stadii incominciava la scalinata dei leoni di granito che sorreggevano colonne dal capitello in figura di palma, le quali colonne procedevano sempre più su fino ad un secondo ripiano di quaranta stadii arrossato di draghi di giada vomitanti fiamme, il quale limitava un torrione di trenta stadii con bassorilievi di tori alati e di grifi di giaietto, che conteneva una montagna di costruzioni accumulate l’una sopra l’altra e fregiate di colonnati e d’architravi e di arcate e di terrazze colme di arbusti, di fiori e di alberi, tutte folgoranti di mille lampade, che illuminavano migliaia e migliaia di corridoi e di sale e di segrete, e poi sempre più su scale di marmo che adducevano a giardini pensili e a padiglioni e a velarii fra boschetti ameni, tra il canto di uccelli variopinti e la musica soave dei musici e il dolce rumoreggiare di ruscelli.
E poi un esercito di schiavi e di servi, di paggi e di maggiordomi, e il gran coppiere e il capo degli eunuchi, il logoteta e il comandante dei pretoriani e il custode dei guatteri, il maestro delle cerimonie, il nomofilace e il nomoteta, il gran camerlengo, il gran camerotto, il protonotario e il protospatario e il protomedico, una fiumana innumerabile di cortigiani e gialdonieri, pronti a prosternarsi ai piedi della sovrana.
Il trono di Semiramide era uno scanno d’oro innervato di rabescature gemmee, sovrastato da un’aquila di smeraldo e sovrapposto ad un tappeto afghano color giallo cromo. Attorno ossequiavano i flabelliferi, oscillando flessuosi flabelli di occhiute penne caudali di pavone, e i musici sonatori di flauto e di sistri, e le suonatrici d’arpa dalle fragili dita, e i trombettieri e i suonatori di cornamusa e di timpano, i citaristi e i clarinettisti, i clavicembalisti e i clavicordisti. Una folla di ministri e di uffiziali digradava verso l’ultimo gradino del basamento piramidale, con loro era tutto il personale della casa, dalle vivandiere alle dame di compagnia. Al vertice sfolgorava sul trono Semiramide.
Ella indossava una corazza aurea al centro della quale, tra i seni, era una testa di medusa che saettava bagliori da lontano. Sul capo, dalla doviziosa chioma corvina, era un elmo dal folto cimiero sanguineo, ed ella reggeva nella destra lo scettro fulgido di rubini e nella sinistra il fior di loto. Il viso rimaneva in ombra, e quasi sottratto alla curiosità dei profani, sì che innanzi alla sua maestà invano il principe di Persia, venuto a recarle omaggio dopo un viaggio periglioso, tentava il gaudimento della bellezza.
Ma dopo che fu degnamente omaggiata ed ebbe i doni rarissimi del principe che si prosternò umilmente prima dell’ultimo grado della vertiginosa scalea, allora ella lo ricevette in separata sede con tutti gli onori di cui può essere capace una gran dama di mondo.
Tra il canto degli alati sovra gli aranci e i melagrani e le tamerici, essi si disposero su divani di taffettà e su eleganti cuscini di velluto cremisi; allato erano esili caraffe di cristallo che ospitavano un vino violetto e speziato, e vassoi di dolciumi e fruttiere e catini d’argento empiti d’acqua di rose. Il padiglione era vieppiù ravvivato da rami di rose rosse, e la regina ne aveva colto una e la sfoggiava tra i seni, ancora gocciante di rugiada.
Semiramide indossava una tunica lieve, di seta, ricamata di segni che rappresentavano un roseto stilizzato, le spalle candidissime erano scoverte e su di queste i riccioli capricciosi contrastavano come la notte al cospetto dell’alba.
La rosa, tesoro di primavera, troneggiando su quelle mobili sponde mostrava davvero d’essere il fiore di Venere, ed esprimeva un sentimento d’amore, di gioia, ed una sensazione di freschezza, di profumo, di luce e di grazia. Pregiata essa è più della beltà, da che possiede, come Afrodite, la grazia più bella ancora della bellezza. Veramente senza la rosa svanisce l’incanto delle Cariti, e Venere stessa se n’adorna nella stagione cara agli amori. Essa tinge le dita dell’Aurora, così dicono i poeti, e l’incarnato incantevole delle ninfe deve a lei lo splendore, ché s’abbellano con i petali odorosi, tanto che pare il suo sentore fragranza di dolce grembo.
L’irresistibile aroma della regina dei fiori ammaliava il principe, ch’era inebriato già della regina delle donne, e quasi n’era stordito, quanto dall’eccessivo desiderio, sì che, tra i fumi del vino, egli giacque con la chioma insertata di zàgare sul camice che racchiudeva il di lei chiomato germoglio.
E cantavano le ancelle in un boschetto vicino i versi divini del divin poeta Izzouddin El
Mouqeddessi e coppie di tortore e di colombe si libravano di ramo in ramo, alle note malinconiche.
Egli dormiva come Endimione vagheggiato da Diana, e appariva sospirare chi sa quali danze nell’ètere, mentre gli anelli della capigliatura gli ombravano leggiadramente il collo, impallidito al lume della sorgente luna.
Sognava la papessa Giovanna e il tempo se ne fuggiva coi sogni, rovina degli uomini.
Un giorno, mentre in processione incedeva dal Gianicolo al Laterano, le vennero le doglie e, senza l’aiuto di alcun’ostetrica, partorì un figlio nel mezzo dei cardinali e della folla.
Il popolo vagiva di stupore e già volavano i motti osceni, quando i porporati, fatto quadrato, si disposero come uno squadrone di valenti soldati armati d’alabarde, o una cornuta mandra di buoi colle terga solidali e la fronte franca, e in questo modo sottrassero l’evento agli occhi del mondo ed evitarono lo scandalo, mentre il segretario e fiduciario pontificio dalle versatili risorse teneva con ambe le braccia alta la mitra, per dare l’impressione che nulla fosse accaduto. Intanto gli svizzeri erano piombati sulla puerpera e avevano provveduto a espellerla dal regno insieme al neonato.
E così ella ritornò nell’umida Anglia, dove, sotto mentito nome, divenne abbadessa di un convento molto famoso ove s’indottrinò a fondo nelle arti del trivio. 

lunedì 26 dicembre 2011

Scheda di lettura Stendhal

Stendhal                La chartreuse de Parme   (1839)              Paris, Garnier, 1922



Stile scarno, conciso e nervoso simile a quello di Machiavelli. Tutto energia, spirito d’avventura, intriso di passione e inebriato di giovinezza.
Fabrizio dopo il duello con Giletti chiede alla “mamacia” uno specchio per vedere se il colpo ricevuto in volto lo abbia sfigurato ( cap. XI, pag. 192 ).
Fabrizio è un vero dandy, anche in prigione mantiene un atteggiamento di nonchalence e si fa circondare di oggetti lussuosi oltre a procurarsi del buon vino ( cap. XVIII, pag. 319).
Il personaggio di Clelia ricorda per un aspetto la Lucia de I promessi sposi, come questa anch’ella fa un voto alla Madonna, precisamente quello di sposare il marchese Crescenzi e di vivere lontana da Fabrizio. Ella è il simbolo della donna “angelicata”. La donna fatale del romanzo è infatti la duchessa Sanseverina, la zia di Fabrizio, innamorata di quest’ultimo ( che, in realtà, non è il suo vero nipote ).
A proposito del voto fatto da Clelia di non vedere mai alla luce Fabrizio, si noti l’analogia col mito di Orfeo ed Euridice (pag. 515) : “ J’ai fait voeu à la Madone, comme tu sais, de ne jamais te voir; c’est pourquoi je te reçois dans cette obscurité profonde. Je veux bien que tu saches que, si jamais tu me forçais à te regarder en plein jour, tout serait fini entre nous. “ … “ Mon cher ange, je ne precherai plus devant qui que ce soit; je n’ai preché que dans l’espoir qu’un jour je te verrais. – Ne parle pas ainsi, songe qu’il ne m’est pas permis, à moi, de te voir. “ ( cap. XXVIII ).
La bellezza byroniana del personaggio Fabrizio viene ancora ricordata in una pagina di Curzio Malaparte ( La pelle 1949 ), precisamente nel ritratto dell’efebo Jeanlouis ( pag. 92, ed. Mondadori, 1991 ) : “ Era, quella di Jeanlouis, la romantica bellezza virile che piaceva a Stendhal, la bellezza di Fabrizio del Dongo. Aveva la testa di Antinoo, scolpita in un marmo del color dell’avorio, e il lungo corpo efebico delle statue alessandrine, e mani brevi e bianche, l’occhio fiero e dolce, dal nero sguardo lucente, le labbra rosse, e il sorriso vile, quel sorriso che Winckelmann pone come un estremo limite di rancore e di rammarico al suo puro ideale della bellezza greca. “  

domenica 25 dicembre 2011

Scheda di lettura Byron

Byron    Manfred   (1817)              Milano, Mursia, 1994
a cura di Stefano Gori


Act I, p. 191 e segg. Qui si nota lo stesso stato d’animo della Bronte, lo stesso stupore dell’anima di fronte al mistero dell’amore e della morte, lo stesso anelito alla definitiva liberazione. Manfred ha detto prima (v. 144) : “ Oblivion, self-oblivion ! “
Atto II, pag. 80, morale del superuomo : “ Patience and patience ! Hence – that word was made - For brutes of burthen, not for birds of prey; “ (anche se da parte del cacciatore tale trasporto viene biasimato come indice di umore malsano ).
Atto II, pag. 92 : si noti la somiglianza con certi atteggiamenti di Heathcliff ( Cime tempestose ) : “ I have gnash’d – My teeth in darkness till returning morn, - Then cursed myself till sunset; ” ( ho digrignato i denti nell’oscurità fino al ritorno del mattino, poi mi sono maledetto fino al tramonto; ).
Atto II ( pag. 108 segg.) Manfred evoca Astarte, l’anima della donna amata. A pag. 110 lo sfogo di Manfred sembra ripreso dai lamenti per la morte di Catherine del tenebroso Heathcliff. Vi sono indubbie somiglianze tra questi personaggi così come con Parsifal e Kundry nell’opera di Wagner. Kundry può essere avvicinata ad Astarte e Parsifal per la sua follia a Manfred e per l’aspetto fisico ( è bruno, è un orientale ) a Heathcliff.

Scheda di lettura Emily Bronte

Emily Bronte      Cime tempestose  (1847)            Roma, Newton, 1993



Sia Heathcliff che Catherine sono personaggi di stampo byroniano. Il loro incontro clandestino e l’improvvisa morte di lei, incinta della figlia di Edgar Linton, rivela l’assolutezza di un amore folle, parossistico. Ma (pag. 135) nonostante ciò, l’autrice non sembra affatto compiacersene, perché con l’espressione “ la benedetta liberazione di Catherine “, e con quanto sopra, mostra al contrario di considerare un nulla le passioni e di anelare a una vera e propria liberazione buddhistica, a un autentico Nirvana.
Pag. 143 : Heathcliff ha, oltre le caratteristiche dell’eroe byroniano, anche quelle del vampiro ( vedi Dracula di Bram Stoker ) : “… i suoi denti aguzzi, da cannibale, scoperti dal gelo e dall’ira, splendevano nell’oscurità.”

Scheda di lettura W. Scott

Walter Scott               Ivanhoe   (1819)            Milano, BUR, 1952
trad. di Ugo Dèttore



Vol. I, pag. 20 : nell’introduzione lo Scott mostra scrupoli morali, come quello di non fare apparire la virtù necessariamente ricompensata sulla terra, che lo avvicinano al Manzoni ( concetto di Provvidenza ).
P. 27 : cita Horace Walpole.
P. 31 : attenzione alla fedeltà storica : “ il carattere e il costume dell’epoca devono restare inviolati … “
P. 210 ( cap. XVII ) : tecnica dell’interruzione di un’avventura per narrare quella di altri personaggi, tipica dell’Ariosto, cui infatti accenna l’autore. La stessa tecnica è usata da Manzoni nel cap. XI ( pag. 193 del commento di B. Travi, ed. Mondadori, vedi nota 43 ), laddove viene citato l’aneddoto del “caro fanciullo”.
Vol. II, pag. 277, cap. XXIV : nel castello di Front de Boeuf, Rebecca viene rinchiusa nella torre dove incontra la vecchia megera Urfrida. Notare la somiglianza di questo personaggio con la vecchia del castello dell’Innominato ne I promessi sposi.
Pag. 418 : ritratto del Gran Maestro dei Templari, Luca di Beaumanoir. La sua figura ricorda quella di fra Cristoforo. Ha una lunga barba bianca, occhi scintillanti d’energia e un volto da asceta.
Cap. XXXVII : affinità ideale tra il processo inquisitorio a Rebecca e la Storia della colonna infame del Manzoni.
P. 468, cap. XXXIX : Brian de Bois Guilbert è personaggio decisamente romantico, è insomma l’emblema del ribelle alla religione, alla morale, a qualsiasi ostacolo si opponga alla sua volontà, è un personaggio byroniano destinato all’infelicità e alla morte per essere stato respinto dall’amata Rebecca, sua vittima all’inizio ma alla fine la dea sul cui altare verrà sacrificato, un po’ come anni dopo farà Flaubert del suo Matho offerto in olocausto a Salammbo. Dice Brian a Rebecca : “ Tu ed io siamo solo i ciechi strumenti di qualche irresistibile fatalità che ci incalza, come due bei vascelli spinti dalla tempesta che cozzano l’uno contro l’altro e così periscono.”  Ricorda il Manfred di Byron di fronte ad Astarte.
Cap. XLII : nella farsa-funerale del castello di Coningsburgh primeggia il personaggio di Athelstane che è decisamente comico e “statico” come il personaggio di don Abbondio ne I promessi sposi. Da questo punto di vista e non solo Manzoni si mostra un discepolo di Walter Scott.

sabato 24 dicembre 2011

Scheda di lettura Horace Walpole

Horace Walpole      The Castle of Otranto  (1764)       Milano, Mondadori, 2002




Nella prefazione si ricorre all’espediente del manoscritto ritrovato ( in lingua italiana ) esattamente come ne I promessi sposi.
P. 16 :  Preface to the Second Edition : si cita Voltaire per la sua ingiusta critica a Shakespeare. Vedi anche I promessi sposi dove la medesima critica è citata “en passant”, cap. VII : “… un barbaro che non era privo di ingegno…” si dice a proposito del poeta inglese riportando l’espressione “barbaro” usata da Voltaire, ma in senso velatamente polemico, dato che Manzoni era un ammiratore di Shakespeare, come tutti i romantici.
P. 64 : il principe Manfred è personaggio da accostare all’Innominato de I promessi sposi. La sua malvagità vela la sua naturale magnanimità : “ Manfred was not one of those savage tyrants who wanton in cruelty unprovoked. The circumstances of his fortune had given an asperity to his temper, which was naturally humane; and his virtues were always ready to operate, when his passion did not obscure his reason. “
P. 100 : il comportamento e l’apostrofe di fra Girolamo (Jerome) diretta a Manfred,  ha una certa somiglianza con quello di fra Cristoforo nei confronti di don Rodrigo (cap. VI). Fra Jerome dice alla fine : “ Hearken to him who speaks through my organs “, “ Ascoltate colui che vi parla per mezzo mio “, e  fra Cristoforo : “ … quel Dio … mandando un suo ministro … a pregar per una innocente … “. Tutto il tenore del discorso è abbastanza simile.
P. 104-106 : il discorso di friar Jerome continua : “ I am but the worthless instrument “ sembra ricalcata da “ … mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro …”  oppure : “ Even I, a poor and despised friar, am able to protect her from thy violence. “  può essere accostata a : “ Lucia è sicura da voi : ve lo dico io povero frate; …”.       

Scheda di lettura Walter Scott

Walter Scott    La sposa di Lammermoor  (1820)       Milano, Rizzoli, 1951
trad. di Oriana Previtali


P. 22  “ come i vasi di ferro e di terra della vecchia fiaba “ :  richiama subito l’espressione manzoniana nel I cap. de I promessi sposi.
P. 31 : dichiarazioni sul romanzo fatte tramite il personaggio di Dick Tinto, pittore, relative all’importanza della descrizione.
P. 71 : descrizione dello sconosciuto che salva Lucia e il padre dalla carica di un toro selvaggio. Vestito di nero, il volto pallido, la triste bellezza del personaggio richiama immediatamente il byronic hero. Byron è contemporaneo dell’autore.
P. 75 :  Lucia, salvata dal giovane Ravenswood, pensa continuamente a lui, a causa della solitudine che la circonda, non avendo occasione di distrarsi. Le osservazioni psicologiche dell’autore non sono per nulla inferiori a quelle di Manzoni, dov’è la gran novità della “ realtà del cuore umano “ ?
P. 127 : descrizione accurata dell’avanzare della tempesta intorno alla torre di Wolf ’s Crag : gioco di luci ed ombre il cui realismo ebbe molto probabilmente influsso sulla prosa di Manzoni.
P. 171 : allocuzione al lettore, come ne I promessi sposi. Come si vede Manzoni non è originale in questo.
NB : Lucia Ashton è bionda. E’ infatti logico che il nome Lucia si addica più a una fanciulla bionda che ad una bruna (lux). Le sue qualità morali sono peraltro quelle dell’innocenza e della purezza, non è perciò diversa, sotto questo aspetto, da Lucia Mondella.
P. 224 : uso della coordinazione, senza subordinate, per imitare il modo di esprimersi di un bambino ( Harry, fratello di Lucia ). Ricorda il discorso del barocciaio ne I promessi sposi, che accompagna Agnese e Lucia dalla monaca di Monza.
Qua e là trapelano sprazzi di umorismo veramente di buon gusto, come nel dialogo tra Bucklaw e Craigengelt alla fine del cap. XXI. In questo lo Scott si mostra più abile di Manzoni, il cui umorismo appare più velato, anche se efficace, le trovate dell’inglese seguono senza il minimo intoppo, argute e naturali come divertenti scene di teatro.
P. 282 : annotazione di carattere psicologico-moralistico, non diversa da tante manzoniane. Anche in questo Scott è più originale del Manzoni ( “ Cervantes osserva, con molta perspicacia …” ecc. ).
P. 343 : lo Scott cita il nome del capitan Fracassa. Evidentemente il romanzo di Gautier (1863) attinge a qualche precedente o leggenda.
P. 345 : è evidente che il modello di Ravenswood è fornito da Lord Byron : lineamenti bruni, consunti dal dolore e segnati da una febbre interiore, espressione fiera e feroce, una testa simile a quella di un busto di marmo.
Pagg. seguenti : un motivo topico del romanticismo è l’amore autentico contrapposto al matrimonio per interesse.

domenica 11 dicembre 2011

Un volo

Così mi parve un bel mattino il sole
d’oro sull’onde vivide di cielo,
così mi parve un’onda di parole
dolci, un sogno lieve, un bianco velo.

Cèrilo dall’ala alba, un vapore
come mi cinse e mi rapì fugace
ombra di dei, ma l’attimo tenace
mi fu per sempre un’alba di splendore.

E m’apparve illimitata, infinita
gioia, un mare di scintille, un coro
d’echi incantati, un sogno di sirene.

Ascese l’astro sovra le terrene
plaghe, a un inno silente il lavoro
riprese, lontano in un’altra vita.




sabato 26 novembre 2011

Occhio del dio

Della ginestra nell’aureo soffio
respiri, o fauno. Il caldo vento
esulta dell’estate. Il cielo, il mare
dardeggia d’oro Apollo. E la rossa
rosa adùla l’aura e asseta.
O dèmone, all’azzurro eterno
sorridi, tu o anima soave.
Te scaturì il vasto ventre verde
della gran madre, al flauto e al rombo
dei coribanti.
Acqua tra canti, radiosa danza
delle fanciulle, e tu sorridi,
o fauno, e tu sorridi all’ombra
verde fra gli odorati rami.
E gioca lo spiro lieto alle sacre fronde
all’inno degli alati e fresca aura
sfiora le membra :
“ Beato colui che il canto soave
sa dei fiori ciprigni, e l’onda
sonora del mare.
Beato chi ai venti un puro sognare
proclama e all’aureo sole si monda,
vela alta di nave.
Io amo chi al suono esulta forte
del flauto frigio e all’alba sorge
corsiero flavo.
Io amo chi presso l’ombroso avo
dorme al suono di Pane, illusa
la cieca sorte.”
Il cuore che caramente ama alate voci
volve, gorgo e tomba d’ogni oblìo,
ma te, sorgente di radioso impeto,
occhio del dio tra nubi occiduo,
o canto d’oro, sposo delle messi
marine, possa un giorno anch’io
te celebrare come antico aedo
al suono del selvoso soffio
tra cespi di viridanti chiome.    



domenica 13 novembre 2011

Orfeo

Come alla montagna esonda il respiro
del mare, tale anela il desiderio
mio di stringere la tua mano,
quali lo sguardo scorse sul sentiero
più lungi fianco a fianco, beati,
due amanti, nudi il dorso, e belli,
di crocea luce aspersi; potessi
la tua mano lambire almeno !
Sei apparsa sull’albero di vita
frutto proibito, o forma immortale
ora fugace, o divino incanto !
Euridice, il mio mondo s’immerse
negli occhi tuoi, in baratri di luce.
E ancora nera sull’acqua avviso
la barca del traghettatore e come
un papilionide sulla pietra
fermo attendo la morte. Ma non mai
da te potrà deviarmi. Se ci vieta
la dura legge di Ade e di Persefone
invida, il tuo sorriso m’è dato
ora per sempre. O dolci giacigli
d’armonia ed estatici abbandoni,
gioie di giaietto, voi neri fari
più fondi della notte e abbaglianti
più del meriggio, dolcissimo riso
chiaro più dei limpidi mattini,
non mai senza me di Stige le negre
onde varcherete. Oh ! Quella vita
giovanile fosse in un lungo sogno
e mia non fuggissi al mio volto
sino al raggio d’un’eterna aurora !
Poi che mi beai, quando il sole limpido
d’estate era nel cielo, in obliati
campi di luce e libero volò
il mio vero cuore dalla patria
via nei climi sereni con esseri
dalla mente effusi. Dammi la mano
ora, Euridice, ultimo addio
prima che ci estirpino laide arpie
dal gracchio amaro. Ma dei mortali
breve è il soggiorno e certo lunga
l’infera sosta, né sarai poi molto
in attesa. Ecco, l’estremo bacio
ormai rompe l’incanto ed un tetro
velo ed inesorabile s’intesse
fra noi. Ma pure è dell’uomo mortale
infinito l’amore, o abisso!


lunedì 7 novembre 2011

Ad Aretusa

Tu, fonte Aretusa,
solitaria, malinconica fonte,
cinta d’asfalto e di polvere,
ospiti ancora cigni e nutri
molli papiri ondeggianti
nella lieve brezza.
Oltre il tuo breve cerchio
s’apre la baia e lungi
forse scorgo il Maniace.
In fretta ti vedo, o ninfa,
o desolata reliquia
degli dei.


sabato 5 novembre 2011

Scheda di lettura Ugo Foscolo

Ugo Foscolo        Saggio d’un gazzettino del bel mondo      Firenze, Le Monnier, 1850
                     Opere edite e postume di Ugo Foscolo, Prose letterarie, vol. 4



Lettera di presentazione ( Avvertenza ). Pag. 7. Cfr. queste dichiarazioni con l’anticlericalismo di Stendhal ( Le rouge et le noir ) : “ Car les biographes italiens, ou étaient pretres, ou les craignaient; et ils ont rarement écrit avec philosophie, n’ayant jamais observé l’influence réciproque de la littérature et des moeurs; - enfin ils n’avaient aucune connaissance du monde. “
P. 28-29-30 : acuta condanna del Romanticismo, inteso soprattutto come vano fantasticare nei romanzi, la cui voga e diffusione ritiene perniciosa per la gioventù, che bisognerebbe educare a letture più costruttive.
P. 32-33 : probabile tirata contro M.me de Stael autrice di Corinne ou l’Italie. Ella avrebbe confuso in Santa Croce il monumento a Leonardo Bruni Aretino con quello presunto di Pietro Aretino e fattovi sopra le sue moralistiche considerazioni.
V, pag. 54 : strali lanciati contro il Casti, l’autore delle Novelle galanti e degli Animali parlanti, molto apprezzato in Inghilterra, come testimonia lo stesso Byron, con grande disappunto di Foscolo.
In questo gazzettino l’autore brilla per piacevolissimo umorismo. Stupisce il fatto che a quest’opera non venga dato il giusto rilievo.
P. 81-82 : interessante nota sulla sportività degli Inglesi che d’estate vanno in villeggiatura in campagna o ai bagni di mare. P. 82 : non solo gli Inglesi andavano al mare, ma facevano anche escursioni in montagna ( Svizzera ).
P. 88 : interessantissima pagina sul temperamento dei popoli, l’inglese “piuttosto iniquo che ingiusto”, il ginevrino ipocrita, il francese linguacciuto e ignorante, l’austriaco pieno di sospetto.
P. 92 : la sentenza s’addice ai nostri tempi : “ Parmi che nel sommo della barbarie o della civiltà dei popoli la facoltà di pensare sia inattiva. “
P. 93 idem : “… quando la filosofia è fatta decrepita, le sue teorie di politica perfettibilità riducono i popoli a impazzare, e a non poter altro che ciarlare e servire. “   Sarebbe interessante sapere a chi appartengono i versi inglesi riportati nella medesima pagina.
P. 96 : frammenti. Pagina assai interessante sul confronto tra il costume inglese e quello italiano ( il saluto fatto con la mano, all’inglese, e il baciamano, all’italiana ) tenuto nei confronti delle signore. Bella l’allusione al prete sudicio che frequenta le case nobili italiane con le varie funzioni riportate.
P. 99 : interessantissima pagina sul dandysmo. A proposito della visita ad un amico in veste da camera ricamata di pappagalli, Foscolo scrive : “… i dandys non sono ridicoli, anzi la sola definizione del loro nome è cosa serissima; e, volendo trovarla, m’è toccato andare sino alle tradizioni omeriche de’ tempi Iliaci. “
P. 104 : cita l’episodio della colonna infame a Milano a proposito di uno scritto di Addison. Segno che l’episodio aveva una qualche notorietà, se lo stesso Addison nel 1700 aveva ricopiato l’iscrizione della colonna e si era interessato al fatto ( anche Bayle, dice Foscolo, aveva considerato quell’avvenimento ).
P. 105 Decimo frammento : F. qui parla de Le Grazie, il poemetto incompiuto. Interessante è l’affermazione che grazie alla contemplazione della Bellezza ( che è unita alla virtù ) l’uomo si eleva sino al “ Creatore di ogni Bellezza “. Evidentemente F. non era ateo. Qui mostra di essere piuttosto platonico.    

venerdì 4 novembre 2011

Scheda di lettura A. Verrecchia

Anacleto Verrecchia              La catastrofe di Nietzsche a Torino             Milano, Boringhieri, 2003




Pag. 97 : episodio dell’abbraccio al cavallo, in Delitto e castigo di Dostoevskij è descritta la medesima scena ( parte I, cap. V ). L’autore russo era uno degli scrittori preferiti da Nietzsche negli ultimi tempi. Vedi Delitto e castigo a pag. 205 ( ed. Newton-Compton), è evidente, come del resto sottolinea Verrecchia, l’affinità tra il temperamento di Dostoevskij e quello di Nietzsche o meglio tra Raskòlnikov e Nietzsche, se così si può dire.
Vedi la nota a pag. 168 n. 56 de La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz ( ed. Sansoni ), dove sia Dostoevskij che Nietzsche sono definiti sadici. In effetti il termine è appropriato se inteso soprattutto nel senso di sovvertitore della morale o antimorale, il maestro in questa materia è sicuramente De Sade.
P. 730, I vol. opere di Nietzsche, ed. Newton-Compton, Umano, troppo umano, Aforisma 95, “Amore”. Si parla di “sessualità sublimata”. In molte intuizioni Nietzsche anticipa Freud. Si potrebbe quasi stabilire una sorta di triade generativa : Dostoevskij, Nietzsche, Freud.
Anche i biglietti della “follia” sembrano rivelare l’influsso della lettura di Delitto e castigo del Dostoevskij. Laddove Nietzsche scrive a Strindberg firmandosi “Il Crocefisso” parrebbe inconsciamente rammentare il passo del II cap. del romanzo in cui Marmelàdov esclama : “ Crocefiggermi bisogna, inchiodarmi sulla croce, non compiangermi ! Crocefiggilo, giudice, crocefiggilo, e, dopo averlo crocefisso, compiangi quest’uomo ! E allora io stesso verrò da te per esser posto in croce, poiché non sono assetato di letizia, bensì di dolore e di lacrime ! …” ( P. 34 )
P. 288 : Nietzsche si firma in una sua lettera anche Fromentin. Nella Volontà di potenza si leggono osservazioni in margine alla lettura di numerosi scrittori francesi ( ad es. Renan ). Fromentin forse viene ricordato per Un été dans le Sahara nel pensiero 49 de La volontà di potenza o altrove. Fromentin descrive il tipo del dandy arabo ( “dandismo patrizio” a proposito dei “capi delle potenti tribù”, vedi pag. 47 di Dandies, Baudelaire e amici di Roger Kempf, 1977, ed. Bompiani ).
Edipo re, quarto stasimo, 1186 e seg.  Edipo è un povero diavolo, preso a paradigma della generale condizione degli esseri umani. Si noti il verbo greco apoclìnai corrispondente al tramonto, Untergang, di Zarathustra. Inoltre dàimona, sorte, significa principalmente dio, potenza, volere divino. E’ impressionante notare come Nietzsche abbia potuto interpretare la propria fine alla luce di questi versi. Immagino che ci sia un nesso tra questa strofe e le concezioni dell’ultimo Nietzsche. Egli che si fa dio, realizza in un certo senso il proprio destino. Insomma diventa pazzo ma avverte di essere preda del male.
Nonostante si sostenga che D’Annunzio sia stato un interprete “superficiale” del Nietzsche ( come se ce ne potesse essere uno “profondo” ! ) mi sembra che il poeta abbia colto il succo della sua antifilosofia nei versi de “L’otre” in Alcyone, 265 :
“ Tutto ritorna, e la saggezza è vana.
La saggezza non val legno ficulno
né zàccaro caprino. Io voglio, alunno
di Libero, finir di fine insana. “
In effetti soltanto un poeta può intendere il pensatore tedesco, il cui unico difetto fu quello di aver scritto troppa prosa polemica, mentre avrebbe dovuto comporre più versi o prose di romanzi.
Per quanto concerne l’opera di un poeta si prendano in considerazione queste affermazioni di Hume : “ If refined sense and exalted sense be not so useful as common sense, their rarity, their novelty, and the nobleness of their objects make some compensation, and render them the admiration of mankind : As gold, though less serviceable than iron, acquires, from its scarcity, a value, which is much superior. “ ( pag. 116, Ricerca sui principi della morale, VI, part I. ) Chi pensa che tutti i grandi uomini della Storia siano stati sani, si sbaglia di grosso, e chi giudica secondo il metro del senso comune deve ammettere che la propria prospettiva va dal basso verso l’alto. 

martedì 1 novembre 2011

Scheda di lettura Paolo Bellezza

Scheda di lettura

Paolo Bellezza                    Curiosità manzoniane                      Milano, Vallardi, s. d.                                                                                                                                                                                                                                                  (presumibilmente primi del  ‘ 900)


Svista del Manzoni al cap. XXIV, figliuolanza del sarto, dice che si trattava di  due bambinette e un fanciullo , al cap. XXIX : una bambina e due ragazzi .
P. 24 Manzoni lettore di E. Gibbon ( ne aveva postillato l’opera ).
P. 25 Amnesie piuttosto gravi del Manzoni che non ricordava più molti versi dell’Adelchi e alcuni personaggi minori dei suoi Promessi sposi ( evidentemente non amava le proprie opere) . Inoltre la dedica a Marzo 1821 riporta gravi errori nella data e nei fatti.

 Una sera, - narra lo stesso biografo ( il Fabris ) m’accadde di citargli due o tre versi del coro : Dagli atri muscosi, ecc.; mi disse che non ricordava punto quei versi. Un’altra sera una signora, che aveva recitato stupendamente a Napoli la parte d’Ermengarda, gli diede il proprio ritratto, con sotto scritti alcuni versi di questo personaggio : i famigliari gli dissero ch’eran suoi; egli sostenne risolutamente di non averli mai sentiti, finché dovette cedere all’evidenza quando io gli additai il luogo preciso della tragedia dove si trovano. (…) Quanto ai Promessi Sposi, suo figlio Pietro era solito dire di conoscerli meglio del padre; e difatti quattro o cinque volte mi avvenne di citare a quest’ultimo qualche personaggio secondario del romanzo, del quale egli mi assicurò che non aveva più memoria alcuna. E pensare che, tra comporlo e correggerlo, c’era stato sopra quasi vent’anni !
(…) Finalmente due errori di fatto ricorrono nella dedica che egli premise all’inno Marzo 1821 : “ Alla illustre memoria di Teodoro Koerner – Poeta e soldato dell’Indipendenza Germanica – morto sul campo di Lipsia – il giorno XVIII d’ottobre – MDCCCXIII – nome  caro a tutti i Popoli – che combattono per difendere o per conquistare una patria “. Il Koerner non morì il 18 ottobre, ma il 26 agosto del 1813; e non cadde a Lipsia, ma alla battaglia di Cadebush.

P. 27 Informazioni sulla memoria prodigiosa del Manzoni relativamente alle sue letture e studi, fondamentalmente italiani, latini, francesi. Conosceva imperfettamente il tedesco.

“ Non solo egli sapeva a mente quanto vi è di egregio nella poesia italiana, latina e francese, ma, come l’ho udito definire dal Tommaseo, era un mare di versi non solo belli, ma anche mediocri “. E soggiunge alcuni esempi davvero sbalorditivi. Aveva a memoria tutto Virgilio e Orazio, e una volta passò in rassegna odi, satire ed epistole di questo, rilevandone le incoerenze, le inesattezze, ecc., “ con una precisione di citazioni come lo avesse sotto gli occhi ”. E sapeva a mente “ tutto il dizionario delle piante stampato per la Toscana da Ottaviano Targioni-Tozzetti “, nonché molte strofe del Guglielmo Tell dello Schiller ( ed è noto ch’egli conosceva solo imperfettamente il tedesco ), “ i più bei brani dei prosatori francesi di Luigi XIV “ e “ citava a memoria passi di Bossuet , di Massillon e principalmente di Bourdaloue “. Aveva – dice lo Stampa – una memoria straordinaria che conservò fino agli ultimi anni di sua vita. A ottantacinque anni, discorrendosi una sera dell’Alfieri, recitò a memoria duecento versi di Virgilio e i versi corrispondenti d’una traduzione, non molto nota, dell’Alfieri “. Che più ? solo qualche mese prima di morire, si ricordava di certa proposta fattagli dal Foscolo circa una parola da sostituirsi nel sonetto a Francesco Lomonaco, composto nel 1802.
  
P. 34-35 Le considerazioni manzoniane sull’amore rivelano l’impostazione rigorosamente moralistica del romanzo. Per Manzoni è chiaro che l’arte deve avere un intento morale ed educativo.

L’amore è necessario a questo mondo : ma ve n’ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore, secondo le sue forze, può diffondere un po’ più negli animi : come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di sé stesso : oh di questi non v’ha mai eccesso : e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ nelle cose di questo mondo; ma dell’amore, come vi diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l’andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso, che se un bel giorno, per un prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta : tanto son certo che me ne pentirei.

P.36 Si nota come la passione di don Rodrigo  per Lucia sia molto più giustificata e comprensibile ne Gli sposi promessi che ne I promessi sposi .
P. 54 La famosa disfida fatta dal cavaliere spagnolo al cav. milanese e le percosse date al messo di cui si parla al cap. V de I promessi sposi è tutta ricavata da un’opera di Francesco Birago, Consigli cavallereschi . Il Birago nel suo ragionamento seguente al caso esposto dà ragione al conte Attilio.
P. 106-107 Il romanzo fu molto osteggiato negli ambienti clericali e nei seminari, perché considerato anticlericale e di tendenza protestante.
P. 201 A proposito del lungo silenzio di Manzoni, cita un poeta arabo ( da Ch. Huart, Littérature arabe , Paris, 1903 ).
P. 207 Nevrosi ( d’ansia ) del Manzoni : “ Pensava a lungo prima di scrivere un biglietto; scritto, lo rileggeva più volte, e inviatolo alla porta, lo faceva talora ritirare nel dubbio che gli fosse sfuggito qualche errore. “ (da R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei ).

Sono le  “esitazioni” e la “mancanza di risolutezza” di cui si lagna egli stesso cogli amici. E si chiama un uomo “che balbetta con la mente”, “impacciato nel cervello”, dalla “povera testa” afflitta da “travagli di mente”. E’ quel ch’egli dice “l’agitarsi nel dubbio” …

P. 209 cfr. con P. S. le ragioni del cuore e del sentimento (segnato).

… le ragioni del sentimento sono per me la cosa più astrusa, più incerta, più imbrogliata del mondo …

P. 211 : v. segnato : nevrosi della perfezione.

Mi disse il Manzoni l’altro dì, che delle sue cose egli l’ebbe a copiare diciassette volte.

P. 225 Dice che Manzoni ebbe una zia suora ( sorella del padre) cui si sarebbe ispirato per la figura della monaca di Monza.

Il monastero donde provenivano i dolci da lui gustati, fu certo quello a cui apparteneva una sua zia, Teresa, detta la zietta, che, a quanto riferisce il Fabris, gli servì poi, in parte almeno, come tipo della signora di Monza. Più fortunata di Gertrude, in seguito alla soppressione ordinata dall’imperatore Giuseppe II, potè uscire dal convento, dove, dice lo Stoppani “ l’avevano condotta, e lei si era lasciata condurre”. E ne uscì di gran voglia. “ Io per me – diceva – sono del parere di Giuseppe II : Aria ! aria ! “ soggiungeva, trinciando nell’aria di gran cerchi colla mano destra, quasi avesse voluto farsi largo, e sgombrarsi d’attorno quel non so che, da cui aveva avuto impedito per tant’anni il respiro. Doveva essere un tipo curioso. Lo Stampa ci dice che, “ vedendo qualche lavoro fino o piccolo, esclamava con una certa vocetta : gran Todeschi de Londra per fà quei robb così minutissimament “.

P. 238 Manzoni non riusciva ad uscire di casa se non accompagnato. Aveva la mania ( condivisibile ! ) di fare lunghe passeggiate e di correre.
P. 239 Eccessiva precisione : “ bisognava spendervi due minuti ( nella corsa ) … e se per caso si fosse affrettato il passo, il M. coll’orologio alla mano aspettava prima di voltare che fossero passati.” Bilancia a Brusuglio sulla quale M. usava pesare quotidianamente secondo le ore gli abiti che portava.

“ Colà ( a Brusuglio ) egli impiegava i venticinque minuti prima del pranzo – ci informa il Bonghi – a percorrere dieci volte, cinque nell’andare, cinque nel tornare, un viale d’un trecento passi. E bisognava spendervi due minuti e mezzo per l’appunto nell’andata e altrettanti nel ritorno;  e se per caso si fosse affrettato il passo, il Manzoni coll’orologio alla mano aspettava prima di voltare che fossero passati “. Si conserva ancora a Brusuglio, a quanto afferma lo stesso Bonghi, una bilancia sulla quale il grand’uomo usava pesare gli abiti che portava, “ poiché era minutissimo nel volerli più o meno grevi o leggeri, secondo la temperatura non del giorno solo, ma dell’ora, sicché si vestiva e spogliava più volte “.

P. 240 Come D’Annunzio anche M. soleva leggere ( a lungo !) quando era al gabinetto (w. c.). Vedi le altre manìe : fare il fuoco al caminetto, fumare, giocare.

…il Manzoni adoperava tanto “rustiche pipe di gesso”, quanto “più fine pipe turche”. (…) più tardi lasciò la pipa per le sigarette; poche, tre o quattro al giorno.

Patologia manzoniana , pag. 260 e seg. : serrato improvvisamente tra la folla insieme alla moglie a una festa a Parigi per il matrimonio di Napoleone I, viene preso dalle vertigini. Soffriva forse di una lieve forma di epilessia ? Generalmente si parla di agorafobia. Grande somiglianza di carattere col nonno, Cesare Beccaria, uomo pigro e ipocondriaco.

Abbiamo già ricordato che non poteva uscire di casa da solo. Il Cantù crede che ciò fosse l’effetto dello sgomento avuto da lui un giorno a Parigi, allorché, durante una festa data da Napoleone ai Campi Elisi, smarrì nella calca la moglie, e temette che le fosse avvenuta disgrazia. Comunque, il fatto è sicuro. Scrivendo al Fauriel, donna Giulia lo dice “incapace di fare un sol passo da solo fuori di casa”. Altrettanto sappiamo dall’Enrichetta e dallo Stampa, il quale aggiunge che doveva uscire accompagnato “anche a breve distanza”. Il Manzoni stesso conferma implicitamente la cosa in quella lettera al Fauriel in cui dice che sua madre e sua moglie non uscivano mai quando erano a Milano, “si ce n’est pour des affaires, ou par complaisance pour moi, quand j’avais une véritable nécessité de faire du mouvement”.

sabato 15 ottobre 2011

Cicero, "De divinatione", I, 125-126

Quocirca primum mihi videtur, ut Posidonius facit, a deo, de quo satis dictum est, deinde a fato, deinde a natura vis omnis divinandi ratioque repetenda. Fieri igitur omnia fato ratio cogit fateri. Fatum autem id appello, quod Graeci e)imarme)nhn , id est ordinem seriemque causarum, cum causae causa nexa rem ex se gignat. Ea est ex omni aeternitate fluens veritas sempiterna. Quod cum ita sit, nihil est factum quod non futurum fuerit, eodemque modo nihil est futurum cuius non causas id ipsum efficientes natura contineat. 126 Ex quo intellegitur ut fatum sit non id quod superstitiose, sed id quod physice dicitur, causa aeterna rerum, cur et ea, quae praeterierunt, facta sint et, quae instant, fiant et, quae sequuntur, futura sint. Ita fit ut et observatione notari possit quae res quamque causam plerumque consequatur, etiamsi non semper (nam id quidem adfirmare difficile est), easdemque causas veri simile est rerum futurarum cerni ab iis qui aut per furorem eas aut in quiete videant.

sabato 1 ottobre 2011

Vaghi sogni

Vaghi sogni, fantasmi
di giovinezza erranti
sovra acque vibranti d’oro,
fulgidi riflessi di soli perduti,
amati istanti,
gioie intravedute tra i palpiti
d’ignote primavere,
come lieti giungete
alle soglie della mia vita
orbata, ora che il volto
si volge indietro e guarda.
Oh, vento di giovinezza,
soffia ancora su me, ch’io corra
nel tuo abbraccio
verso immaginate mete
d’orizzonti di gloria,
e al sorriso d’una dolce
vergine anelante nel tuo
respiro !       



domenica 18 settembre 2011

Visione

Lungo il sentiero fra aspre montagne
mi elevai verso il cielo
amato da nubi,
nella mia giovinezza gioioso
e furente di speranze lontane.
Ah, la freschezza dei venti planava
su di me come un manto
di vita possente intessuto.
Avuto m’ebbi dal Fato
la visione radiosa e sublime
oltre le vette ed oltre gli orizzonti
ed oltre i ponti più arditi
a mondi remoti.
Travolto ne fui e trafitto
da nostalgia immensa,
e triste tornai nel volto
muto ed immoto.



Marcia funebre di Sigfrido

Rosso corsiero ebbro, nari e le fauci
aperte all’ultimo soffio, esali.
Il fuoco nell’ombra anela, lacero
manto di notte. Tuona, ascolta,
tuona.
           O abisso, nel gorgo innalzi
l’ultimo soffio marino, folgora
l’aere torbido, cupo di corno
ansimo echeggia; tu muovi oltre
la montagna.
                      Occhio vitreo scintilla;
ecco, io vedo sopra mille lame,
vedo Sigfrido.
                        A che turbine ululi ?
“ Un nitrito, odo un nitrito lontano.”
Coraggio innanzi alla morte !        


http://youtu.be/L8wHteSOwW4

sabato 3 settembre 2011

Vanitas

“… I folli
scrutano oltre,
spregiano ciò che hanno,
e le loro speranze senza termine
danno la caccia al vuoto.”

Pindaro






Vago ricordo del passato, tristi
speranze nel vano sogno nutrite,
orbato amante d’amato inganno,
ora ti scorgo appena, indietro,
e come tra nebbia o le lacrime
m’appari velato. Oh, il fiato
sul vetro dello specchio si dirada,
che ingenuo mi ritrasse e di brama
puro, o cara anima. Ora, invece,
lurido sono di delusione
e per cupida rabbia, come sabbia
nella clessidra scorre e si perde
la vita. Chi sei tu ormai ? Che sono
le vaghe immagini d’un tempo ? Forse
un sogno, una realtà ? E se nato
fossi or ora, lo stesso non sarebbe ?
Ahimé, la speranza, il desiderio
innanzi mi traggono, né le rughe
sembra che scorgano ed i bianchi
capelli che loro incontro avanzano
come a battaglia. Ah, anche in punto
di morte spererò tuttavia,
per quale sorte ?