domenica 17 febbraio 2013

Fantasia





Oltre la piana si schiudeva lo strapiombo sulla mormorante estensione delle acque salmastre. E sull’onda canuta, presso gli scogli inondati dalla spuma, attendeva una navicella leggera e su di essa la dama bianca chiamava a sé Tommaso il cantore, per condurlo oltre l’orizzonte.
E la barca snella prese il largo al soffio favorevole del vento, scindendo la criniera delle onde, avanzando sul dorso livido e possente del mare.
Le nubi a poco a poco diradandosi in lontananza lasciavano scorgere una terra, ed erano esse grigie e cariche di pioggia e colorate di bianco e cineree e bluastre come le acque gelide dell’oceano boreale.
Ma in una danza forsennata s’infransero le correnti divise e fendute dai soffi burrascosi, e un vortice si schiuse in mezzo al buio abisso e la tenebra precipitò con tutto il cielo, ed interrotta nel lungo viaggio e nel sogno sola rimase la maga nell’ombra.
E nell’ombra Morgana volse gli occhi lucenti al nuovo ospite e s’appressò allo specchio magico, coperto da un velo nero, pronunciando formule arcane, e lo invitò ad essere partecipe del rito.
La fata discoverse lo specchio e apparve una pianura florida d’erbe e di pomarii e di boschetti odorosi e di fresche riviere.
All’orizzonte s’elevava un colle sul quale svettavano le guglie e i torrioni d’un gotico castello, che pareva una fantasia corallina, riverberando il fluido di porpora del crepuscolo, o un duomo ignoto, che d’improvviso si svelasse alla curiosità entusiasta di mercanti violatori dei confini dell’Asia, nell’abbagliamento del suo esotico splendore.
Querce dal tronco centenario diramavano la chioma rubra ai raggi, qual crine castano, quasi bracieri semispenti d’un sacrificio agli dei celesti.
Fra esse trottavano o flemmaticamente brucavano liocorni dalla criniera lanuta, dall’acuto corno d’avorio, dal collare aureo guarnito di campanelle che tinnivano ad ogni minima movenza. I loro occhi azzurri rivolgevano le pupille caprine, lucide di devozione, a donne bellissime che erano nel querceto, alcune giacenti sul prato, altre a passeggio e al cogliere fiori.
Un rivo ciarliero si tuffava nelle umbrate acque d’un laghetto limpido, ove intatte conchiglie spuntavano su dalle sabbie e scogli acuminati sporgevano le aguglie, intorno a cui il vello liquido tremolava, e alcuni verdeggiavano di ciuffi erbosi, fini come ciocche di capelli.
Presso il fonte si colmava le mani Eliana, in abito d’argento, e lentamente le apriva facendo cadere il puro elisire in frammenti fruscianti. Mirinda, adagiata sul praticello, beveva la rugiada dal calice dei fiori, accarezzando gli unicorni, i quali dondolando ritmicamente le code flabellavano i gelsomini e i giacinti.
Dietro il tronco d’una quercia la vaga Melusina sogguardava le squame, mutata la vecchia pelle in un camice cupreo che assorbiva il vermiglio fluttuare dell’aria, memore tuttavia dell’imminente metamorfosi, al venir della luna, nell’involucro lubrico.
Grasinda pettinava le fluide chiome bionde, prossima a flettersi in figura di cetra, e i filamenti le si attorcevano alle esili dita dei piedi rosei, chiudendosi in raggianti anelli minuti.
Oriana in un mortaio preparava misture d’erbe magiche, e pronunciava formule arcane, per propiziarsi gli spiriti erranti nel plenilunio.
Il fantasma di Ofelia trascorreva sulla superficie del fiume tra i canneti e le rame spezzate, in un praticello d’alighe fra fiori caduti dalle rive. La sua veste nuziale sfiorava il vello variopinto della corrente, enfiandosi intorno alle gambe quale nube o raggiera di medusa, le mani fuoruscivano dall’acque con le palme semichiuse, in atto di preghiera, la gola pallida risaltava vicino al mento riverso, la bocca di cinabro era lievemente aperta, mentre gli occhi erano fissi e lucevano quasi dell’oscurità della morte. La chioma, mobile nel liquido elemento, s’agitava d’una vita misteriosa, inanellandosi nei piccoli vortici e allungandosi nella corsa fluida.
Come Euridice, si perdeva nella notte donde non è ritorno. Ma, oltre la corrente dei sogni, errava alla sua cerca l’amante, ch’era ancora di lei quale fiore sbocciato sul medesimo stelo, così appena era lungi dal suo tenero bacio. E nel mormorio delle onde si smarrivano i sogni come le vite degli uomini, brevi in un fluttuare insidioso, quali petali caduti dalle siepi o dai roveti in riva ai corsi avidi, che preda sono dei mulinelli e ruotano semisommersi, splendidi ancora e colorati di primavera.
Il flusso spumeggiava sinuoso sovra le rive e s’intorbidava con maggior audacia di moto in moto, arcandosi in fiotti crestati, i quali si sdilinquivano in gocce dissolute nell’elemento, oscurato dalla fitta vegetazione, che immergeva le braccia fronzute nell’acque gelide.
Il turbinio della corrente ingrossava depredando ciottoli e sabbie e gemendo e gorgogliando garrulo s’incrociava in corsi avversi, s’accalcava, si sovrapponeva, si diramava allargandosi con forza senza incontrare resistenza, offrendo ai raggi il dorso scaglioso e dirompente.
Quale armata vittoriosa risonante di tube d’oro la fiumana veemente si rovesciava nel mare, dove una nave nera era in balia delle tempeste. Dall’alto d’una rupe, a picco sulle onde livide e scroscianti, egli mirava i gorghi che s’incupivano o s’incanutivano sin verso l’orizzonte. Il disco del sole dardeggiava, rosso come l’occhio d’un dio ferino. Ed egli tese la destra al dio celeste che l’attraversò della sua forza quale lume in alabastro, e protese la mano con le dita irradiate, come un secondo sole.
Dietro di sé avvertì la presenza d’un’ombra. Si volse e vide Euridice, che, osservandolo, s’apprestava a fuggire.
Subito lo trasse nell’intrico della foresta, un fantasma luminoso che si dileguava fra ramo e ramo. Egli la inseguì, e il desiderio moltiplicò la sua forza mirabilmente, quasi fosse stato un levriero avvezzo ad irrompere sfrenato per le balze selvagge.
Vedeva quel corpo femminile, lucente, radioso, trasvolare magicamente per il bosco, che si apriva innanzi a lei, ubbidendo, e s’impregnava in ogni fronda del profumo delle membra ignude, aspergendole di rugiada.
Anch’egli era nudo, e straordinariamente aveva la percezione del movimento dei suoi arti che si tendevano nello sforzo, dei fianchi e della schiena percorsi dai muscoli, del costato ansimante, del ventre lievemente segnato da vene e ombrato dalla peluria, della propria essenza maschile che si rivelava nella ruvidezza e irregolarità della superficie corporea, tutta guizzi e gonfiori di carne e di tendini, e ne accentuava la ferinità agli schizzi di fango sollevati dai piedi, e un odore salino e nel contempo dolciastro denunziava il suo passaggio.
Le melodie udite sono dolci, ma quelle non udite sono più dolci; così nel silenzio della foresta veniva affascinato da una sinfonia interiore che lo inebriava di visioni di paradisi e d’interminate estensioni di campi fioriti, e di selvosi mormorii e d’incantamenti d’acque e di riflessi, e delle rupi sibilanti ai venti alpestri e di valli solitarie.
E, nel chiarore sotto la frusciante rete silvestre che intesseva di lumi ed ombre il suolo erboso, intravvide una compagnia di abitatori solitarii dei boschi.
Essi giocavano tra i cespi d’erica e le canne ondeggianti presso il fiume. E nelle acque si specchiava Euridice. La chioma si fondeva con il lucente albore della corsa sonora della riviera.
Ella suscitava la sensazione estranea di dissolversi nel liquido radioso o di smarrirsi nel profumo delle mimose. Pareva un sole sopra le acque e le illuminava come aurora sulle onde marine.
Si udiva il gaudio degli alati aliare nella brezza e sostare sulle fronde.
Egli si coricò nell’erba umida, addormentandosi. Un diffuso tepore ispirava nella quiete il sogno velato di una musica dolcissima. Insperate promesse, fantasmi della fantasia fluitavano evanescenti.
Come il suo respiro ansava il roco murmure della marea.
I raggi dell’alba ondeggiavano sopra le onde e si riversavano sulle rive. L’astro ascendeva.
Illuminava lentamente la sua nudità, che era penetrata dal brivido nella frescura limpida del mattino.
Egli era solo innanzi al mare.

 


giovedì 14 febbraio 2013

Walhalla






Entrano gli dei nel Walhalla !
S’aprono i cieli e le acque,
turbina il mare,
entrano gli dei nel Walhalla
tra il canto vorticoso dei venti
nel rombo della tempesta,
nell’ansimo della foresta.
Entrano gli dei nel Walhalla
dell’Oceano lungirisonante
fra le onde, fra le luminose
figlie marine, fra le iridescenti
meduse ove scaturiscono
i tesori della terra chiusi
in coralli.

Dell’avvenire cieca è la conoscenza,
dopo la procella giunge il gaudio
ai mortali, ma sempre gli dei
esultano nell’attimo di gioia !
Sopra la spuma del mare
e fra la nube nell’alto cielo
e fra i gabbiani sui raggi di sole
sempre sorridono gli dei !
Tu vedi all’alba espandersi
il loro sorriso presago di vite future,
essi che hanno vissuto sanno
che ritorneranno a vivere.
No, morte non è un castigo,
né legge inesorabile, dietro
attende vita e vita inestinguibile.
Cantano ora gli dei,
cantano la gioia suprema
intorno al trono scintillante
dello splendente Padre.

Come tutto è inevitabilmente
triste nel suo transito,
e il nulla della vita
ci assale assai prima
del suo trascorrere,
fine d’ogni cosa,
fine d’ogni male
ma anche d’ogni bene.
Eppure una voce c’incalza
e un pungolo amato ci sprona
e dice in ogni istante :
“ Non è così. “
Se il nulla fosse eterno
la vita sarebbe un nulla
innanzi ad esso
e nulla sarebbe l’infinito
e nulla noi.
Ma una voce mi sprona,
una debole voce e dice :
“ Non è così. “
Intorno a me la vita trionfa,
gli dei esultano nell’alto
e il mare è scintillante
e le nubi s’alternano nel cielo.
La morte è di passaggio
e i morti non sono più qui,
ma non nel nulla,
perché il nulla
non esiste.
Tu vedi
fluttuare l’oro sulle onde
del fiume ed odi cantare
le vergini delle acque
correnti sovra le spume virenti.
Tu senti echeggiare
il fragore dell’Oceano
e vedi il turbine ascendere
al cielo accecante,
entrano gli dei nel Walhalla
e si muovono le montagne
e si scuotono le rocce,
entrano gli dei nel Walhalla
e la terra spossata partorisce
e il cielo ricomincia
e il cosmo ritorna
alla sua origine.

martedì 12 febbraio 2013

Giovanni Pascoli, Fanum Apollinis






Putre senescebat deserto in litore fanum.
Semirutae stabant hedera cingente columnae,
muscus humi triglyphos circum lateresque linebat,
iamque ipsum limen tenues effuderat herbas,
et rubus implerat multa propagine lucum.
Aeditumus morti servabat proximus aedem
iam collabentem, veteres vetus ipse ruinas.
At cellae in medio, taciti velut immemor aevi,
arboris haerebat trunco modo puber Apollo.
Iamdudum priscis aberant sua numina templis,
templaque corruerant : terra caeloque repulsi
daemones errabant, ventis et nubibus acti :
deseruere Lares vicos et compita : passim
deflebant fontes summisso murmure nymphas.
Unus in occulto fani iuvenalis Apollo
stabat agens aliud, subrepentique lacertae
insidiabatur. Suspendit dextra sagittam :
ipse silet : sese iamiamque lacerta deo dat.



 Un tempio in rovina invecchiava su una spiaggia deserta. Le colonne mezzo diroccate erano tenute in piedi dall'abbraccio dell'edera e per terra il muschio ricopriva i triglifi e le pietre del pavimento. Anche l'ingresso era stato invaso da sottili erbe e i rovi avevano riempito il bosco sacro di fitte ramificazioni. A custodire il tempio cadente c'era un guardiano ormai prossimo alla morte, vecchio tra vecchie rovine. Ma in mezzo alla cella, come indifferente al silenzioso scorrere del tempo, stava appoggiato al tronco di un albero un Apollo appena adolescente. Da tempo ormai gli dei avevano lasciato i loro antichi templi e i templi erano crollati: scacciati dalla terra e dal cielo vagavano come demoni, spinti dal vento e dalle nuvole. I Larii avevano abbandonato borghi e crocicchi; qua e là le fonti con un mormorio sommesso piangevano le Ninfe. Solo quell'Apollo giovinetto restava in piedi nella parte più segreta del tempio, intento a tutt'altro: spiava una lucertola che si arrampicava lentamente su per il tronco. Con la destra il Dio tiene sollevata una freccia; trattiene il fiato: la lucertola è ormai sotto tiro.
( traduzione di Nora Calzolaio )


lunedì 11 febbraio 2013

La rimembranza






( Marcel Proust,  Dalla parte di Swann )

Je trouve très raisonnable la croyance celtique que les âmes de ceux que nous avons perdus sont captives dans quelque être inférieur, dans une bête, un végétal, une chose inanimée, perdues en effet pour nous jusqu'au jour, qui pour beaucoup ne vient jamais, où nous nous trouvons passer près de l'arbre, entrer en possession de l'objet qui est leur prison. Alors elles tressaillent, nous appellent, et sitôt que nous les avons reconnues, l'enchantement est brisé. Délivrées par nous, elles ont vaincu la mort et reviennent vivre avec nous.
Il en est ainsi de notre passé. C'est peine perdue que nous cherchions à l'évoquer, tous les efforts de notre intelligence sont inutiles. Il est caché hors de son domaine et de sa portée, en quelque objet matériel (en la sensation que nous donnerait cet objet matériel), que nous ne soupçonnons pas. Cet objet, il dépend du hasard que nous le rencontrions avant de mourir, ou que nous ne le rencontrions pas.
Il y avait déjà bien des années que, de Combray, tout ce qui n'était pas le théâtre et la drame de mon coucher n'existait plus pour moi, quand un jour d'hiver, comme je rentrais à la maison, ma mère, voyant que j'avais froid, me proposa de me faire prendre, contre mon habitude, un peu de thé. Je refusai d'abord et, je ne sais pourquoi, me ravisai. Elle envoya chercher un de ces gâteaux courts et dodus appelés Petites Madeleines qui semblent avoir été moulés dans la valve rainurée d'une coquille de Saint-Jacques. Et bientôt, machinalement, accablé par la morne journée et la perspective d'un triste lendemain, je portai à mes lèvres une cuillerée du thé où j'avais laissé s'amollir un morceau de madeleine. Mais à l'instant même où la gorgée mêlée des miettes du gâteau toucha mon palais, je tressaillis, attentif à ce qui se passait d'extraordinaire en moi. Un plaisir délicieux m'avait envahi, isolé, sans la notion de sa cause. Il m'avait aussitôt rendu les vicissitudes de la vie indifférentes, ses désastres inoffensifs, sa brièveté illusoire, de la même façon qu'opère l'amour, en me remplissant d'une essence précieuse : ou plutôt cette essence n'était pas en moi, elle était moi. J'avais cessé de me sentir médiocre, contingent, mortel. D'où avait pu me venir cette puissante joie ? Je sentais qu'elle était liée au goût du thé et du gâteau, mais qu'elle le dépassait infiniment, ne devait pas être de même nature. D'où venait-elle ? Que signifiait-elle ? Où l'appréhender ? Je bois une seconde gorgée où je ne trouve rien de plus que dans la première, une troisième qui m'apporte un peu moins que la seconde. Il est temps que je m'arrête, la vertu du breuvage semble diminuer. Il est clair que la vérité que je cherche n'est pas en lui, mais en moi. Il l'y a éveillée, mais ne la connaît pas, et ne peut que répéter indéfiniment, avec de moins en moins de force, ce même témoignage que je ne sais pas interpréter et que je veux au moins pouvoir lui redemander et retrouver intact à ma disposition, tout à l'heure, pour un éclaircissement décisif. Je pose la tasse et me tourne vers mon esprit. C'est à lui de trouver la vérité. Mais comment ? Grave incertitude, toutes les fois que l'esprit se sent dépassé par lui-même ; quand lui, le chercheur, est tout ensemble le pays obscur où il doit chercher et où tout son bagage ne lui sera de rien. Chercher ? pas seulement : créer. Il est en face de quelque chose qui n'est pas encore et que seul il peut réaliser, puis faire entrer dans sa lumière.



( Giacomo Leopardi, Zibaldone, 515-516 )


Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. un racconto, una descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l’idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione) di quell’età tien sempre all’infinito: e ci pasce e ci riempie l’anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all’infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo [515]qual fosse la strada che prendeva l’immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all’idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei luoghi, spettacoli, incontri, ec. nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.
E osservate che anche i sogni piacevoli nell’età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell’età prima spessissimo.
(16. Gen. 1821.)

sabato 9 febbraio 2013

Aurora





La Volontà era il fremito del tuono e il baluginare dei fulmini. La minaccia, che scaturisce dalle profondità del cielo e dalle viscere della terra, planava come un rapace nero nel vento freddo sopra le valli, e a lui sembrava d’esserne annientato e che folgorato si disperdesse crepitando in cenere accesa. Lo sguardo pallido dell’uomo si volgeva al cielo. Nella notte il suo capo si sollevava appena dalla terra, in alto il lampeggiare d’una parola terribile segnava forse la condanna senza appello. “ Se sono tuo figlio, perché mi hai consegnato alla disperazione ? ”
Un’informe testa di toro s’alzava dalla bruma fangosa sotto il bagliore sinistro, mentre il sole scardinava i cancelli dell’oceano e fugava imperioso le schiere impaurite delle tenebre. E pur se l’aurora annunciava la fine del temporale notturno e la vita degli uomini si ridestava alle cure consuete, egli pensava all’esistenza volgare e alla propria morte, inevitabile. E pensava di essere già morto. Ora, che differenza avrebbe fatto ? Non siamo forse tutti già morti ? Il nostro languido soffrire e traballar sognante attraverso le quattro età della vita, invasi da immagini triviali, segna un percorso ben strano che non conduce da nessuna parte, infine ci dileguiamo come foglie secche, e la polvere il vento trascina via. Gli uomini somigliano davvero a orologi che caricati procedono senza sapere perché e nel moto circolare ripetono costantemente le stesse ore, giorno dopo giorno, e pare che avanzino sempre nel nostro futuro, mentre irrimediabilmente tornano sempre al punto di partenza.
La vita scorreva, oh quanto desiderava che passasse, che tutto finisse ! La vita ha questa legge inesorabile, scorre, scorre all’infinito. Trascorriamo allora, lasciamoci trasportare dalla corrente. Dovunque andremo saremo al punto di partenza e, probabilmente, morendo saremo sul punto di nascere.
Come dunque la vita imponeva la sua eterna condanna, egli si levò, si vestì e uscì nel giardino, umido e rosato, e respirò l’aria fresca del nuovo giorno.
E mentre si voltava verso la porta, scorse sui gradini del colonnato che reggeva l’ampia terrazza superiore, una bambola, i cui lustrini splendevano e i crini biondi parevano invitare a gara i vividi raggi a celebrare una festa.
Incuriosito s’avvicinò e con sorpresa notò che aveva il vestitino insanguinato, che certo non poteva essere altro quella gran macchia porporina, dai grumi scuri, il cui odore non era di vernice.
Ma, preso da un timore superstizioso e quasi reverenziale, non prese l’oggetto in mano, anzi se ne allontanò subito.
Rientrando, mentre camminava lungo un corridoio, vide all’improvviso, sopra l’entrata d’una stanza mai visitata, un quadro dalla cornice imbrunita dal tempo, il cui soggetto rappresentava un tramonto estivo sopra una valle amena. Tra gli alberi i raggi del giorno morente giocavano i loro ultimi giochi con le fronde esili ma di color bronzeo, le montagne rivelavano le cime argentee, parendo emergere da un mare d’ombra.
Nella valle scorreva un ruscello sulle cui rive due fanciulle scherzavano fra loro amabilmente, i loro visetti ridenti raccoglievano tutta l’armonia d’un pomeriggio quieto e sereno. Poco lontano da loro, ma non visto, dietro una grande quercia stava un pastore e rivolgeva a loro lo sguardo, pieno di curiosità, il suo volto tradiva una strana espressione, che dapprima si sarebbe potuta interpretare come un sorriso di compiacimento, ma, facendo più attenzione, vi si poteva cogliere una sfumatura di concupiscenza.
Turbato, si diresse verso la sua stanza, per prepararsi a una passeggiata nell’aria ancora fresca del mattino.
Quando uscì, l’accolse la luce inebriante del giorno ed egli s’incamminò senza una meta precisa verso la montagna che sovrastava il paese.


Ricordava, forse, ma lontano, nell’aria azzurrina, pervasa di una luce stanca, tra cupoverdi colline di pini e castagni, le casupole di pietra sparse sui crinali, umide di pioggia autunnale, e in fondo il manto del mare argenteo. Un sogno appariva e si dileguava costantemente. Un desiderio profondo, una nostalgia di svanire, di fluire per tutti i ruscelli sino alla vasta piana d’acque canore, come un uccello di fiume, come un ampio chiaro gabbiano volteggiante sui flutti canuti. Avesse potuto assimigliarsi, unirsi a quel sogno! Eppure un giorno lo avrebbe atteso con gioia l’ansia dell’aurora, e il nuovo sole sarebbe asceso nel cielo fervido di nubi rosseggianti, tra il coro dell’onde e lo spiro infinito dei venti.
Come nell’ascesa dei raggi dell’alba, il sogno lo trasportava lassù, sui monti, in verdi valli ove la luce vibrava chiara sulle correnti e sopra il risuono costante dell’acque dalle alte rupi. Nel vasto respiro dei boschi e il vociare spensierato degli uccelli, scorgeva da lontano le casupole sparse dei mandriani e ignote figure lente, avviantesi su per il pendio, forse rivelando tra l’ombra delle fronde e gli spazi assolati un eco fluido di chiome.
Sentiva salire dalla terra l’essenza profumata della rugiada, su dall’erba verde, dai ciottoli umidi, dall’intrico dei rovi.
Il vagito delle greggi sulle pendici delle giogaie e il prolungato sufolare dei pastori ondeggiava nell’aria e si sperdeva rapito dalla brezza. Sopra di lui respiravano i pioppi, e scorgeva i sassi brillanti tra il mormorio del ruscello, e il canto degli alati accoglieva gioioso la luce del mattino.
Le nuvole si disperdevano in opposte schiere, ancora grigie e pure variamente intinte in un chiarore roseo, e si aprivano nella vastità del cielo sconfinato, come un ventaglio il cui semicerchio non trovasse mai il suo angolo piatto. S’allontanavano nell’infinito, mentre il sole sorgeva in mezzo ad esse quale un dio nel trionfo della sua nascita fra cortei di minori spiriti.
Ed egli ascendeva per il sentiero, contemplando il risveglio della Vita universale.
Essa si ridestava dopo il sonno, nelle membra rinascendo, rinnovando le fibre come una pianta permeata di linfa fresca, che genera foglie nuove e abbraccia coi rami i raggi vitali. La Vita intorno a lui nasceva, dopo la morte del giorno, in un altro giorno colmo di nascite e di morti, pullulante di esseri la cui esistenza era scandita sul ritmo di quella Vita più grande, misteriosa e onnipotente.
Aveva la sensazione di percepire un brusio in ogni cespuglio e un cinguettio in ogni albero, e rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre assolate in un sibilo minaccioso. E questi stridii e lavorii sommessi e canti e voci e fragori si accordavano e si mescevano in un rombo simile a tuono, che echeggiava sotto la volta del cielo quasi nella cavea d’un immenso teatro, perdendosi nello spazio, smarrendosi come il vociare indecifrabile d’un folle, sino a polverizzarsi nell’infinito silenzio.
E in sogno fu ai piedi delle montagne bianche, sopra le quali volitavano fragili veli di nebbia, dalle quali era riflesso il bagliore solare. E guardò, mentre il vento inchinava gli alti abeti.
Scorse un villaggio alpino.
Il sole sorgeva dalle montagne, che piano piano si rivestivano di verde. Un flauto suonava nel villaggio, che si destava al nuovo giorno e alle rinnovate fatiche. I buoi, trainando un carro dalle ruote piene, si dirigevano pungolati ai campi e ai meleti; ai confini dei terreni incombevano smisurati i monti rocciosi, d’una tonalità grigiorossastra.
Il fiume scorreva limpido, nascendo dai vicini ghiacciai, e si tuffava da strapiombi entro i quali muggiva formando a volte piccoli laghi in cui l’acqua verde azzurra, gelida, non lasciava gli sguardi penetrare sino al fondo. Le sue correnti mormoravano tra gli abeti presso una casa fondata sulla rupe, una casa di pietra e legno, dal tetto aguzzo e dalle minute finestre lavorate e dipinte.
Da una di queste s’affacciava un giovane che respirava l’aria frizzante e sognava ancora allo scorgere filamenti di nubi rosate nel cielo cristallino, che si dissolvevano in vortici aerei.
Mentre così era rapito nelle fantasticherie e in un ozio beato, udì un canto dall’altra riva del fiume, tra i fusti degli abeti dalla soffice fronda, e vide una fanciulla che trascorreva quale vera immagine di sogno.
Era una ragazza di umile aspetto, che reggeva un canestro di fiori e di erbe, ed era bionda. E come s’accorse d’essere osservata, si volse e gli sorrise un poco. Allora il giovane non si mosse fino a che non l’ebbe veduta scomparire nel folto della foresta.
Gli alati cinguettavano tra lo stormire dell’alto fogliame dei larici, e il giovane uscì dalla casa nella luce novella.
L’acqua scorreva tra gli scogli spumosa e garrula in ripetuti giri, ed egli passò il ponticello di tronchi e subito fu sulla sponda opposta. Camminava senza una meta, attratto dalla vita della selva dove filtravano flussi di luce più o meno intensi e s’alternavano a zone d’ombra, come in un tempio.
E prese il sentiero della montagna. Gli pareva udire una voce muliebre cantare a distanza, e gli sembrava che la voce vibrasse entro i tronchi e i rami, per tutta la boscaglia echeggiando. E pensava fosse la voce delle foglie cadute, che calpestava, e la voce delle foglie oscillanti sulle branche, e delle trame arboree che s’incupolavano sopra di lui. Proseguiva il cammino insieme al sole, e ascendeva di pietra in pietra in ventosi canaloni fra le ardue rupi, per cui sibilavano i soffi delle alture.
Man mano ch’egli s’avvicinava al mondo degli dei lo catturava un’inquietudine, un senso angoscioso d’incompiutezza, quasi che la solarità del mattino non fosse abbastanza vivida sì da avvolgerlo in un turbine di luce e trasumanarlo. Quale ansia lo spronava così da presso come una minacciosa necessità ? Quali sogni avevano sconvolto la sua mente ? Gli sembrava davvero che la memoria fosse un baratro da cui  risalivano insieme alle correnti aeree le ombre del passato e i fantasmi della fantasia.
Allora ebbe paura di se stesso. Si sentì stranamente simile a un dio.
Un corvo lo guidò nel volo sonoro ad una fonte riparata dai pini. Una fonte che balbava tra pietruzze canute dell’età di millennii.
Bevve nel cavo della mano. E poi che si fu accucciato sotto un pino generoso, il sonno gli chiuse le palpebre.