Misandra




I


Sopra la montagna che sovrastava il paese, scorgevano il disco rosso del sole tramontare entro un trionfale incendio. Le lunghe lingue di fuoco si libravano sul mare azzurro cupo e le lontane linee dei promontorii francesi parevano immergersi lentamente nello specchio ceruleo, quasi dorsi di mostri marini a raggiungere le oscure profondità.
A oriente s’intravvedeva la luna pallida.
I pini sul dorso selvoso del monte Nero fremevano al venticello fresco. Il silenzio regnava nei cuori.
Loro, i compagni, forse pensavano al ritorno. Ma lui, lui non pensava. Aveva nell’animo un’immagine fissa, ossessionante fino al tormento.
E il suo sguardo perdendosi nella luce morente dell’occaso sanguigno e baluginante in guizzi ancora e accecanti saette, si socchiuse, come per mirare oltre.
E oltre vide Misandra.
I capelli aveva pari alle fiamme del tramonto, e gli occhi simili all’acque di sorgenti montane, profonde e verdi n’erano le pupille, siccome sui monti le fontane gelide scorrenti rilucono fra l’ombre degli alti abeti.
E lontano, verso il sole morente, pareva udire un lamento, un coro unanime di voci, e sembrava che un corteo lunghissimo s’immergesse laggiù, nel mare, insieme all’astro rovente. E li vedeva, laggiù, turbinare in una danza caotica, quasi al ritmo ossessivo d’una musica lugubre, inesorabile, inestinguibile. Ma essi s’estinguevano, e a poco, a poco, scomparivano entro l’arco di fuoco e di sangue.
E, mentre procedeva tra gli alberi, una musica soave ne faceva stormire le fronde profumate e lo trascinò verso una roccia in direzione del mare. Dall’alto vide, all’improvviso, l’immensa distesa che sembrava per magia cingere la montagna, come se il paese sul litorale fosse stato sommerso.
Dietro di lui lo stradone s’allargava e una sabbia rossastra riluceva ancora all’ultimo sole, ma se la cima era spoglia non così erano i lati della montagna. Donde erano saliti, l’ultima tappa alla volta della modesta vetta, qui era invece un’altissima selva di pini, tanto alti nell’abbraccio del monte per l’eccesso dell’ombra, e pareva un insondabile colonnato che reggesse una volta invisibile eppure non penetrata dai raggi.
E la selva s’allargava immensa, si moltiplicava su e giù per le colline oltre il monte Nero e oltre ancora, sovra le montagne. E la luce traspariva fra le fronde siccome tra le vetrate d’un tempio.
E il sentiero si perdeva senza meta, sotto all’altissima navata, di tra le colonne rugose e profumate del muschio che maculava il legno brunito, innalzantisi tronchi quasi fossero bronzei a sostenere il peso d’ardite volte.
E quasi una nebbia, una bruma oscura sulle pianure del Nord, essa selva si stendeva ovunque quale un’onda cupa, colma d’alghe verdi si plachi sovra il lido, e tutta empiva dell’abbraccio l’ineguale estensione delle terre, sì che pareva che innanzi al sole brulicasse un mare di fronde frementi.
E man mano che avanzava il suo passo, egli scorgeva nel verde smeraldo brillare le rosseggianti piccole sfere dei corbezzoli. Ne coglieva qualcuno che gli si scioglieva nella bocca, dolcemente.
E penetrava tra le fronde frementi che sapevano il respiro del mare. E poi, come appena uscito dal flutto che si richiudeva dietro di lui, il cammino continuava e continuavano i compagni a seguirlo. Non conoscevano essi la meta, ignari. E ben presto vollero tornare, poi che la notte annunciava la sera rapidamente.
Allora convenne a discendere. Ma, quando fu al bivio che conduceva al paese da un lato, dall’altro si perdeva nella campagna, disse loro l’addio e si volse incurante alla buia contrada.

Quando giunse al cancello della villa, l’immenso giardino era immerso in una luce rosata e tenue, una nube di vapori nunzii d’estasi oltremarine.
Quando suonò il campanello, gli fu aperto. Un vecchio giardiniere lo condusse sino alla grande porta di legno lucido.
Entrò.
L’atrio era in penombra. Un profumo di fiori lo pervadeva. Scorse vicino a una finestra, attraversata dalla luce crepuscolare, un gran vaso di ranuncoli e gerbere, di colore violaceo e blu e rosso vivo.
Nella sala, sopra il pianoforte dalla cassa verticale, c’erano altri vasi di ceramica, colmi di gerbere rosse e dei pennacchi di canna della Pampa.
E su tutti quei fiori aleggiava l’alone del tramonto. Così un’unica tinta di cielo vespertino s’era posata magicamente anche sugli arredi, sopra le tappezzerie, sui mobili, sui tappeti.
E i quadri parevano rinnovati da quella luce consueta in quell’ora, eppure insolita per i paesaggi ch’essi presentavano o per i volti che esigevano una luminosità diversa. Pure, tutte le immagini sembravano avide di quel lucore fuggitivo, quasi lo chiamassero a loro pur di non rimanere oscurate.
E per una finestra intravvide nel giardino le rose rosse rampicanti che si sostenevano al venticello intrecciate alla rete sopra il muretto di cinta, e da un lato tra le foglie notò i piccoli e lucidi frutti del susino, brunicci, quasi scarlatti.
Si voltò a un improvviso, lieve rumore. Non era nulla. Ma, mentre percorreva il corridoio, oscuro, verso la stanza che sapeva essere stata preparata per il suo arrivo, lo assalì l’onda dei ricordi, dei ricordi più lontani, quando amava d’un amore infantile quella bambina, un’occasione per rammentare il viso di colei che più non aveva veduto, e che ora gli offriva un’ospitalità silente e misteriosa, come appunto per ricordargli che altro non restava se non il ricordo.

Come fu sulla soglia della camera, aperse lentamente la porta di legno scuro. Lentamente s’immerse nell’ombra.
La stanza appariva smisurata, i mobili sembravano vaghe masse fluttuanti nel fondo.
Il soffitto biancastro era pervaso da una strana e tenue luminosità. Pareva la superficie d’un’acqua immota, illustrata dal chiarore delle stelle e dalla pallida regina della notte.
E quando si coricò nel letto, i raggi di luna s’insinuarono per le imposte chiuse. E il bianco lenzuolo lo avvolse come un’acqua chiara.






II









Sognava.
Era all’interno d’un antico tempio pagano. Le colonne candide, avvolte di fitta edera, s’alzavano a sostenere un architrave roso dai secoli. Rivolgendo lo sguardo in alto, poteva mirare le stelle attraverso un vago intrico di rovi, di edere, di erbacce, cresciuto sopra alcune colonne quasi una chioma arborea.
La luna illuminava al centro del tempio un grande bacino marmoreo, colmo d’acqua limpida.
Com’egli vi pose la vista, vide un volto a lui noto, ma prodigiosamente mutato.
Una donna appariva, bellissima, la cui fronte splendeva della luminosità pura, eburnea, della luna, e i cui capelli, d’un colore tra il castano e il fulvo, scendevano delicatamente sulle spalle. Gli occhi brillavano, ed erano grandi e profondi e in essi l’iride mutava a seconda dei raggi che la colpivano, poiché era costituita da tre colori : intorno alla pupilla una tinta bruna, scura, attorno a questa un alone giallastro macchiettato di verde, e l’ultimo alone era grigio. Il viso rifletteva i lievi raggi lunari e su di esso la morbida bocca risaltava, rossa e sensuale.
Ma, quando egli, dopo una pausa di sorpresa e di contemplazione, si rese conto del viso che aveva dinanzi, non poté non essere colto da un senso di sgomento.
Era infatti quella donna, pur nelle linee dell’ovale e nelle fattezze del naso e delle orecchie squisitamente femminili, era in modo straordinario simile, anzi identica, a lui stesso.
E quando levò il volto dallo strano incantamento, s’avvide che tra le colonne s’erano insediati, al pari d’improvvise e mostruose ragnatele, dei grandi specchi, appannati e inverditi come l’acqua degli stagni e incorniciati da legno dorato, splendido e radiante.
E poi lunghi rami di mandorlo, dai fiori candidi quale neve pura, spandevano la viva e fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi in essi creavano l’illusione d’una remota primavera sui campi e sui ruscelli di paesaggi lontani.


Al mattino spalancò con un ampio gesto rituale le persiane della finestra, e il sole lo abbagliò.
Sebbene non fosse tardi, la campagna era inondata dalla luce, e le piante del giardino e i prati e le colline in lontananza brillavano, ancora velati dalla rugiada.
Gli uccelli cantavano, erano rondini e passerotti che avevano nidificato sul tetto della casa e frequentavano i rami degli alberi a frotte, rapidi, intrecciando i loro voli vivaci nell’ebbrezza del giorno nuovo.
Mauro respirò profondamente l’aria pura e fresca. Si vestì in fretta per uscire e cogliere l’ora fuggitiva.
Probabilmente Misandra lo attendeva nel bosco, dove si recava sempre a passeggiare. E forse egli avrebbe anche incontrato il marito di lei, il conte Oberto. Del resto, per molti ettari non si potevano incontrare altre persone, a parte l’esigua servitù.
Mauro si trovava nel piccolo regno di sua cugina.

















III











Misandra abitava fuori dal paese, nella villa antica.
L’unica figlia del defunto zio era un’attrattiva senza paragone, quando si mostrava per le vie del paese, anche se ciò accadeva assai di rado. Era bellissima.
Sposata al conte Oberto Aloisio d’Ormengo s’era ritirata nella campagna, per una sorta di riserbo, o secondo i maligni, di alterigia nobiliare, in realtà perché il conte Aloisio aveva dilapidato buona parte delle sue sostanze e con quel che rimaneva s’era ritirato in volontario esilio nei possedimenti aviti, che non erano stati perduti al gioco come tutto il resto del patrimonio.
E mentre pensava lungo il cammino, Mauro osservava intorno.
La foresta s’estendeva fitta e profondissima.
Solo la torre a cupola della vecchia villa emergeva rilucendo d’un verde smeraldo. Un mondo davvero incantato le sorgeva intorno; le piante erano cresciute dapprima educate nelle loro aiuole e nei loro vivai e trattenute alcune e legate a paletti e sempre opportunamente sfrondate, e gli arbusti e gli alberi da frutto potati nella giusta stagione, dipoi, col trascorrere del tempo, erano state a poco a poco trascurate se non abbandonate completamente, sicché, con l’assottigliarsi del patrimonio famigliare, avevano per così dire ripreso l’antico stato di natura e, affrancate, erano tornate libere e selvagge.
Esse parevano veramente quei pensieri e quelle fantasie che, repressi e circoscritti e ostacolati in ogni modo durante la veglia, prendono irresistibile vigore nel sonno e, crescendo smisuratamente, invadono l’immaginazione superando ogni argine, quasi un fiume in piena nutrito dalle piogge abbondanti sulle montagne.
E, colmato dalle piogge e nutrito da una piccola fontana sormontata da un simulacro di delfino corroso dal tempo, faceva scintillare le sue fievoli onde un laghetto, dalle acque verdastre, circondato da lauri e da pini, sul quale il vento sibilava provenendo dal mare e tentava di conferirgli il suo stesso odore salino ch’effondeva nell’aria.
Intorno la fitta boscaglia lasciava filtrare i fasci luminosi, dove svolazzavano le tortore grigiastre. Le lunghe e tenaci piante rampicanti intessevano vaste trame tra gli alti rami delle querce, stendendo ampie tele verdi incompiute fra i legni contorti, che fungevano da naturali telai. E il manto smeraldino si confondeva qua e là in ombre senza fondo o si lacerava in squarci di luce abbagliante. Talvolta un silenzio assoluto e l’assenza di vento lasciava sospesa nell’immobilità quella visione d’acque limpide e di lussureggianti intrecci floreali, quasi si fosse innanzi ad un quadro dipinto da un pittore ammaliato, ma poi, quando il silente incantesimo si rompeva o per l’improvvisa irruzione d’un colombo agitato o per gli sbuffi capricciosi dell’aria frizzante, allora il movimento inaspettato animava improvvisamente le piante e gli elementi, come se si destassero degli spiriti potenti dal pacifico sonno dei secoli.
Talvolta una radura s’apriva, investita dai raggi del sole che s’innalzava trionfante, e da quel luogo era possibile volgere lo sguardo alle montagne intorno, dove i pini erano più radi e lasciavano libera la nuda roccia che pareva in alcuni punti riflettere il giorno fulgido.
E più lontano ancora più alte erano le montagne e una vegetazione ignota le possedeva, bruna e impenetrabile.
E se si procedeva nella foresta, allora s’udiva anche il mormorìo sommesso d’un ruscello che scorreva tra i sassi e poi fluiva in un rivo quasi sepolto dai giunchi sulle sponde, ma dove s’allargava e stazionava in insenature, formava specchi d’acqua profonda sulla quale le ninfee navigavano dai fiori bianchi, sorreggendo qualche rana sonnolenta e sfidata dal volo d’una rapida libellula.
Così discendendo a valle il rivo alimentava qua e là degli stagni nel terreno irregolare, nutrendo un folto canneto e malve e trifoglio.
Si sentiva cantare in un intrico di castagni e di querce abbracciati da liane robuste. Era un trillo argentino di merlo o una gazzarra di passeri o di storni pasciuti dove il folto delle foglie si confondeva con l’erba alta, ma in alto appariva il falco nel giro ampio delle grandi ruote : planava immobile e maestoso.
C’era un vecchio mulino ad acqua nascosto dalla vegetazione. Le erbacce e i rovi avevano formato un alto recinto attorno ad esso, ma la sua fabbrica tozza appariva ugualmente, anche se rivestita d’uno spesso strato di rampicanti.
Le pale lignee erano in parte consunte dal tempo e divorate dai vermi e dall’umidità. L’acqua che cadeva nel bacino di pietra sembrava aver fretta di lasciare quel luogo desolato, come avesse orrore dei muschi e delle erbe tra i quali doveva correre e che avevano riempito quel rudere senza gloria.
Il canale era ostruito dal fango e dai detriti trasportati dall’acqua, sì che il rivo s’allargava in nere pozzanghere dove s’agitavano girini e larve di zanzara.
Un sentore d’umor fracido aleggiava sotto i rami contorti d’un fico gigantesco, i cui frutti caduti imputridivano gonfi nel liquame.
E oltre la siepe di pittòsporo selvatico il suolo declinava seguendo la fuga del fiumiciattolo.

Ora era nella pineta presso al mare.
Sotto ad un alto pino stavano due ragazze. Erano seminude e non s’erano accorte della sua presenza. La brezza marina enfiava loro delicatamente le chiome e sollevava un poco le vesti deposte ai piedi.
Erano molto simili tra loro, parevano riflettersi l’una nell’altra. Erano bionde, e le membra avevano d’un incarnato roseo, che, quando era illustrato dai raggi tralucenti fra le fronde lievemente mosse, risplendeva.
Così chiaro era il loro incarnato quale hanno le rose pallide non ancora trascorse e al culmine della loro pienezza.
Veramente pareva realizzarsi il sogno dei suoi sensi, un’illusione sfuggiva agli occhi profondi, quale sorgiva cilestre, della più casta, mentre l’altra sorrideva d’un caldo anelito, come un ansito del giorno estivo che forse si soffermava sperando fra i suoi capelli.
Preso da quella visione, siccome fosse in deliquio, non udiva neppure il mormorio del mare.
Nel boschetto irrigato dagli accordi delle onde sonore e regolari si disperdeva e si smarriva il venticello carico d’umidi vapori, e al largo la vasta distesa non si muoveva, assonnata, rifrangendo la luce perpendicolarmente sfrecciante al cielo.
E nell’ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell’ombra e nel silenzio s’udiva un dolente sospiro, un impercettibile, un sussurrato richiamo.
Dov’era il suo anelito ? Oltre le montagne, oltre i mari ?
Là nel trionfo del sole, là intorno alle vette superbe delle montagne il suo cuore aveva sfidato distese infinite di nubi, s’erano inebriati i suoi occhi della vertigine degli abissi.
Aveva cantato il suo cuore un canto di potenza e di gioia, mentre ascendeva di roccia in roccia, e udiva il gracchiare dei corvi echeggiare e il volo rapido scomparire nella luce, fra le nuvole.
Tutte le vette intorno, e tutti i boschi allora vibravano perdutamente nell’immensa ebbrezza.
Ma un gemito, un sospiro pareva salire dalla valle.
E, preso dal ricordo, volle riposare un momento all’ombra degli alberi.
Trascorreva il primo pomeriggio.
L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.”
Rammentò il dolce rapimento che lo aveva colto alla lettura della Vita Nova e il dono che aveva diligentemente preparato per un amico, confidente dei suoi sogni, il Libro di Coloro che temono.
E insieme a quel breve scritto era fuggita anche la sua adolescenza. Ma la rimembranza di essa era cresciuta tanto da colmare la sua vita che rimaneva, siccome la stanca celebrazione ad opera d’un popolo vecchio della straordinaria storia degli avi.
E così ricordava il dolce amore dell’adolescenza, il dolce amore sognato.
E la memoria anche gli donava per pochi istanti i giorni del passato, quando durante l’estate, da fanciullo, saliva per un sentiero nel bosco fino a un cascinale abbandonato.
Il giorno splendeva d’una luce intensa.
Gli alberi erano avvolti da un alone dorato.
I ruderi delle cascine erano seminascosti dai rovi e dalle gaggìe.
E da quel sito solitario in alto sulla collina, si scorgeva un panorama di colli e balze prealpine, coverti da un unico manto selvoso, d’un verde lucido.
E poi rammentava la villetta che sovrastava la casa colonica, coi due ippocastani dal lato sinistro e il giardino e il frutteto, e il grande prato davanti.
Dopo il giardino c’erano in un boschetto tre alti cedri del libano che ondeggiavano maestosamente nei giorni di vento. E c’era una nera quercia frondosa che affondava le nodose radici nel lieve pendìo come braccia forti. E poi v’era qualche abete e poi ancora una china erbosa che terminava in un torrentello.
Quanti sogni viaggiando avevano un poco sostato in quel luogo, e, come i cavalli d’una vecchia diligenza, s’erano abbeverati alla stazione, e, riposatisi, di nuovo avevano ripreso la loro corsa per dileguarsi all’orizzonte.
Quelle colline peraltro erano già ricche di memorie. Uno scrittore che aveva abitato in una casa non lontana, passando in carrozza o a cavallo aveva ricevuto sicuramente l’ispirazione dal fascino del paesaggio, dall’atmosfera sognante o forse dalle bellezze locali. Ma c’erano altre memorie, meno feconde di volumi, certo, pure assai più vive e tenaci, e vaste per ogni vita per lui che ricordava.
E ricordava ogni evento in un alone di giorno luminoso, ogni giorno del suo passato immerso in una pura bellezza, in un quadro radioso di colori e di spazi sconfinati, quasi che, avendo appena terminato la lettura del più bello dei romanzi, ora ne ripercorresse le vicende, facendo rivivere i personaggi e le emozioni e le peripezie, nella rimembranza.
E così rammentava la vasta distesa delle montagne, e l’altezza dei picchi rocciosi, immersi tra le nubi. E la coltre delle nebbie che s’adagiava sui fianchi del monte distaccava, come in un sogno, un mondo insperato di dei dal mondo, oscuro nella valle, degli uomini. Lassù, per certo, un altro sole, più grande e più benevolo, illustrava della sua gioia, del suo gaudio immenso, le vette e le rupi ardite e le rendeva partecipi d’una vita celeste ed immortale.
Non avrebbe voluto tornare indietro.
Lassù lo attendeva la visione del mondo.
Lassù gli si sarebbe mostrata la verità in tutta la sua grandezza.
Pure, doveva tornare. Certo a quell’ora Misandra lo aspettava.
La selva appariva d’un verde cupo, qua e là tra le nebbie vaganti come spettri che, più spesse a valle, si diradavano, s’allungavano, si frastagliavano man mano che, innalzandosi, volitavano verso le alte montagne.
Ed egli s’inoltrò per un sentiero, tra i castagni ombrosi, nell’umido silenzio del sottobosco.







IV






Misandra se ne stava sotto un vasto pino. Il venticello proveniente dal mare ne faceva stormire le fronde. I raggi trapelavano fra i rami, che rilucevano nel mezzogiorno.
Come già in un tempo lontano ella lo aveva atteso sotto quelle foglie tremule in autunno, così ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a lei potesse meglio ricordare. Ricordare quegli anni trascorsi quasi in un eterno oblio. Rammentava il canto dolce, ora fievole ora intenso, librarsi in invisibili volute dalla sua pura bocca. E al suono d’una chitarra si disperdevano le note e la voce nella campagna, alla sera, quando soltanto un lembo di luce purpurea aleggiava stanco sopra l’orizzonte del mare. “ O dove sei, incanto di gioventù, sorriso perduto per sempre ? “ diceva egli a se stesso.
E ora a lui si volgeva, benevola, e lo guardava sorridendo : “ Sono contenta. Finalmente sei venuto, dopo tanto tempo. Io ti ho sempre atteso, con ansia in certi momenti, ma in fondo al mio cuore non dubitavo di te, non potevo dubitare. “ Così diceva, e lo fissava nel volto, intensamente. Era pallida, ed avvolta nella luminosità del meriggio pareva emanare una luce propria. I lunghi capelli le discendevano sulle spalle, fulvi come i raggi dei tramonti, e gli occhi le splendevano, vivi e strani, indefinibili, poi che ne variava il colore a seconda dell’ombra o del chiarore, sì che andavano, dalla pupilla all’estremo arco dell’iride, dal giallo oro al verde luminoso, al grigio azzurro proprio dell’onde del mare.
Egli alzò allora lo sguardo verso di lei. Ed ella, silenziosa, intensamente fissò i suoi occhi. Ed egli scorse gli occhi di lei, brillanti e invasi di dolce indulgenza.
E subito abbassò il volto, preso da vergogna. In verità non riusciva a sostenere la vista di lei. Un fiotto veemente di passione gli aveva rivelato in un brivido che ella era della sua medesima natura, della sua medesima sostanza, e ch’essi respiravano nel desiderio l’aura della medesima armonia.
Ma erano fuggiti gli anni lontani, erano per sempre fuggiti. Ed egli ricordava le speranze della sua giovinezza, quando inerpicandosi per le pendici delle montagne saliva sino alla vetta di roccia in roccia e sognava una vita splendida e possente. Ma la vita si rivelava troppo breve e troppo vana.
E così, dopo ch’egli se n’era andato dal suo paese per tentare la fortuna nell’esercito, ella s’era unita in matrimonio con il conte Oberto.
Il conte era peraltro un buon amico di Mauro. Avevano trascorso gran parte della giovinezza insieme e avevano insieme corteggiato le ragazze negli anni dell’esuberante libertinaggio.
E in quegli stessi anni, ahimé, egli era innamorato di Misandra. Ma la povertà non gli aveva permesso di chiedere la sua mano. Così era partito, in cerca di avventure, e per dimenticare.
Ma non aveva dimenticato. Ed ora era dinanzi alla donna che aveva amato, che amava. Quale altro sacrificio doveva chiedere al suo cuore ?
Ella si allontanò, chiamata da un servitore per alcune faccende alla villa. Cortesemente si congedò dicendogli che presto si sarebbero rivisti e che nel frattempo egli poteva approfittare della bella giornata di sole per camminare ancora nel bosco o lungo la spiaggia dove la pineta estendeva i suoi rami ondosi.
Obbedì.
La passeggiata era in effetti gradevole e il sole del pomeriggio inondando la vegetazione ne schiudeva il sentore acre e possente di resine e liberava il profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo anfratto da cui la vista si perdeva sul golfo splendente, si sedette sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore del tabacco si fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini che sorgevano in lui disordinatamente.
Una distesa verde d’alberi, di cespugli e di macchia mediterranea si prolungava sino al mare, distinta dal flutto cilestre da un breve serpeggiare di sabbia.
Il fumo s’alzava nell’aria, si smarriva come i suoi sogni, svaniva nel puro cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di fanciulle. Il sito era silente e colmo d’un torpore lussureggiante. Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco confondere negli esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili che cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli lenti.
E ricordava quella bellissima immagine che Foscolo ricreò nelle Grazie, traendola da Omero, e gli parve che un infinito sciame d’api divine e luminose s’estendesse sul mare azzurro e calmo come gli occhi d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche che a lui apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde, spumeggianti sulla battigia, e udiva il murmure delle acque ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel sonoro fluttuare, ripetuto innumerevoli volte, quasi una musica d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni come le voci vaghe di interminabili cori di anime un tempo viventi, che celebravano e rimpiangevano la breve esistenza ?
E pensava alla propria esistenza, agli anni irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava solo un incerto ricordo, ai volti incontrati di gente fuggevole e a qualche gentile volto di fanciulla, che aveva amato segretamente in brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria meravigliosa vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle fanciulle non avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli invece aveva assaporato con lentezza la beltà senza paragone dei corpi e delle anime inconsapevoli. E così, innanzi agli stupendi paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e davanti alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi dello spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri dell’amore in quei limiti stessi che lo facevano desiderare. Infatti egli non poteva amare se non quello di cui sentiva profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio, avido di bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi volti di donne brutte che parevano essere più dei due terzi della popolazione femminile. E veramente la bruttezza, la volgarità, la scipitezza appaiono nella donna con fortissima evidenza, ma la bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre rapito, quando appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura. Allora i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio come si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile prospettiva su monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente l’antipatica realtà, fredda e vuota, e si consolava e sognava i mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava illusioni oltre le illusioni, in una infinita distesa di forme e di colori, un oceano sconfinato di fronte al quale il suo occhio interiore restava fisso in preda allo stupore e allo sgomento, poi che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere nella sua anima.
Se chiudeva gli occhi spesso si trovava nel buio dello spazio fra gli astri ed innumerevoli nubi di luminoso pulviscolo stellare, e con incredibile velocità trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella sospensione del tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i secoli, e le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza, misteriosa e irriconoscibile, quasi un flutto inarcantesi in un attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e invisibile prima del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo, nel vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla propria vita trascorsa e ormai dissolta, presente di quando in quando nel ricordo, ma raramente come nitida immagine anzi più spesso vaga e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la gioia di attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una freschezza, di una dolcezza e di un senso di vastità così forte e di magnanimità, che il suo spirito si sentiva sollevato all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei mondi che appaiono sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella solitudine.
E quegli istanti di felice rimembranza gli consegnavano, pur nella loro brevità, la giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume torbido della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà quale mano, e che talvolta torni in superficie nelle soste della corsa impetuosa, e improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi senza seguito erano sorti in lui dalla fuggevole rimembranza, dalla rimembranza fuggevole d’immagini deliziose quali quelle scaturite dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e Isminia, così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché, nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono flebile che si smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco nascosto. Laggiù si celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e selvaggio. Le tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava il suo occhio, luminoso come un faro.


E avanzava sul sentiero sassoso, in mezzo ai pini fruscianti.
Il tramonto arrossava i loro tronchi, che avevano l’aspetto di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare immenso, il cielo era invaso da strisce di nuvole fosche che navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare dell’onde e gli parve che i monti intorno echeggiassero a quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al mare murmureo, udì un improvviso fruscìo fra i pini e i ciuffi di ginestra selvatica. Si volse incuriosito e intravide fra i rami e le foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo e della luna nascente furono incantati e carpiti da occhi che nell’ombra lo guardarono quasi gemme, rilucendo d’una luce indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi marini e il fulgore degli astri.
E si allontanò nel silenzio.

Ma allora le tenebre estendendosi sul mare iniziarono a costituirsi in una coltre fitta e impenetrabile, mentre il sole soltanto emergendo dalla linea dell’orizzonte occidentale apparve fissarlo quasi un occhio sbarrato, immenso.
Era ella quel biancore, quella luce che svaniva a poco a poco su per il promontorio, nel folto del bosco ?
Anche un tempo s’era abbandonata a una fuga, leggera, sulla spiaggia, in un tramonto ormai vago nella memoria. E poi s’era rifugiata fra alte piante, nella pineta e nella macchia, e poi ancora sotto gli eucalipti fino alla foce d’un piccolo fiume.
Forse fra piante fantastiche ella s’era celata, né apparve dapprima. E poi, in una fragranza di fiori sconosciuti e di ghirlande intrecciatesi nel canneto e sui tronchi dei lauri, si svelava, lievemente avvolta nei suoi lunghi capelli ambrati.
Così ora ella scompariva fra gli alberi oscuri e certo il suo candido corpo era illustrato dai raggi discreti della luna che s’insinuavano tra il fogliame. Ella si schermiva forse dietro larghe foglie d’edera, umide di rugiada notturna. Forse s’era volta verso di lui e lo guardava un poco stupita. Gli occhi brillavano della luce stellare e la chioma castanea le cadeva sofficemente sul dorso e le fronde le nascondevano il pube e la sua pelle eburnea s’illuminava, sì ch’ella appariva veramente una dea.
Ah, dunque ricominciava la sua angoscia, ed ella gli sfuggiva ancora nella notte, mentre il turbamento della sua apparizione non si placava. Ancora, non aveva forse desiderato ucciderla ? Sì, avrebbe dovuto offrirla in sacrificio per espiare la colpa degli avi, per giustificare le sofferenze della sua stirpe. Ma ne era ancora innamorato, e pure, in lui sorgeva veemente la brama di averla tra le braccia e di stringerla, di soffocarla. Quanta inutile sofferenza ! Quanti anni votati al dolore, per quell’illusione, per quell’attrazione funesta verso il miraggio della felicità ! Un delirio soltanto, uno spossante e insensato delirio carnale, un’aspirazione al soddisfacimento dei sensi privo di vero appagamento. Ma perché l’aveva conquiso così, dietro la malìa del suo fascino, oscuro, pieno d’insidie e di tormento ?
Ricordava, ancora una volta. Una bambina di circa dieci anni, ma già sviluppata e aggraziata, gli si era posta innanzi, a una svolta della strada, sul far del pomeriggio, quando egli era solito fare la passeggiata, e gli aveva chiesto, con un imbarazzo pieno di una vaga sensualità, che ora fosse. Egli aveva risposto, e in quell’istante aveva sentito un tremito invaderlo da capo a piedi, e un folle desiderio gli aveva fatto stringere i pugni in una morsa d’odio. E forse ella trascorreva ancora oltre l’orizzonte oscuro, in lande non rischiarate dalla luna, o si stendeva mollemente su un prato d’asfodeli e osservava le stelle sorgere ed estinguersi più in fretta del suo respiro.
Misandra certo non era tanto giovane. Ma certo possedeva appieno quel fascino che inconsapevolmente attrae magicamente e, pure, nulla concede. Ed era nella sua ingenuità tanto maliziosa da apparire un’acqua di montagna che sgorga brillante dalle rocce e si aduna limpida nelle gore, ma è così gelida da ferirvi la bocca.
Ed egli era stato ferito ed era fuggito per l’impossibilità di sostenere ulteriormente il suo sguardo. Si era ritirato in se stesso ed era andato lontano, in lontani paesi. Ma laggiù il suo cuore si era infranto. Quando passava per i lunghi viali, alla vista degli innamorati il suo cuore si spezzava e il suo essere lacerato volendo obliare se stesso desiderava seguire gli altrui destini. Così i suoi occhi seguitavano con infinita malinconia il cammino di una coppia felice che procedeva ignara d’ogni altro essere nella piena luce del giorno.
E sognava allora, sognava la sua Misandra, coricata sui fiori sotto le fronde dei pini, mentre dormiva e una brezza leggera le scostava appena i capelli sulle guance e la luce del sole le illuminava la fronte. O la pensava al lume della luna, pallida e giacente sul candido letto, mentre il disco di Diana argenteo appariva all’ampia vetrata della stanza. “ Oh, dormi Misandra, dormi “ allora pensava, “ e non svegliarti nel mio cuore se non per dirmi che non mi lascerai mai più.”
Così diceva chiuso in se stesso, ma non poteva, non riusciva a reprimere una brama turpe di vendetta.
Eppure nei rigidi pomeriggi d’inverno, durante le lunghe e solitarie passeggiate nella foresta, gli accadeva proprio di ricordarsi di lei, ma era una visione d’estate, un sogno dorato di rami carichi di fronda sotto un cielo risonante di gioiosi canti di cicale e di uccelli vivaci.
E l’immaginazione lo trascinava verso i piaceri proibiti e l’abbraccio di un corpo roseo e delicato, splendido nella luce del giorno, e lo seduceva l’eterno fascino della donna, della regina del mondo, cui s’immolano tutte le vite, tutti i palpiti dei cuori, per morire e rinascere sempre.
Ed egli la immaginava allora dove l’aveva vista una volta, ai margini del mare, sui limiti dell’infinito. E gli parve davvero ch’ella fosse una messaggera dell’al di là, un essere divino inviato sulla terra per abbracciare i mortali nel cerchio del suo fascino immortale.
Ed ella appariva cinta della veste di primavera anche nell’autunno delle cose e degli esseri circostanti, sempre giovane. E il vento giocava tra i suoi capelli e sommuoveva le vesti, e le onde del mare lambivano delicatamente le dita dei suoi piedi, ed ella appariva sul limite della riva, quasi attendesse la venuta d’una navicella che dovesse traghettarla per ignoti reami.
E quando il crepuscolo stendeva sul mare il suo manto purpureo e le onde violacee si riversavano sul lido e intorno agli scogli, stancamente, allora egli la vedeva rifulgere innanzi al disco solare morente, circondata dall’alone rossastro, mentre i suoi piedi poggiavano su una terra insanguinata dai raggi proni a estinguersi nelle ombre. Ed era davvero fulgente anche nella luce della sera, perché risaltava sullo sfondo immenso dell’orizzonte, del mare e del cielo, dove onde e nubi parevano fondersi in un abisso di vortici, di profondità, di precipizii insondabili e di spazi inconcepibili, ma ella sembrava appunto precederli sorridendo, quasi che non le fosse ignoto alcun mistero.
La malinconica rimembranza del passato lo allontanava dalla realtà, lo induceva a poco a poco in uno stato di torpore fisico, simile al sonno. Ed egli ricordava, e i ricordi si confondevano con i desideri inespressi, con le velleità immaginate, coi sogni dell’adolescente.
Quanto aveva bramato rivelarle il suo mondo interiore ! Con l’ardore tipico di chi s’illude e ingenuamente persegue le fantasie di cui si nutrono i sospiri dei ragazzi come una fonte d’acqua pura e di vita immortale, così il suo cuore avrebbe voluto affidare in grembo a lei i suoi segreti.
Ma ella non aveva saputo, ella ancora non sapeva.
E la malinconia possedeva il cuore di Mauro. La malinconia che non è grigia tristezza, sibbene rimpianto d’un mondo lontano, d’un sogno irraggiungibile. Egli aveva veduto con gli occhi dell’amante una figura d’indescrivibile bellezza, che solo un cuore d’amante o una mente d’artista può concepire. Egli aveva visto colei che non è di questa terra, il cui fascino è circonfuso d’un alone immortale, ed ella pure era ignara di tanto incantesimo, quasi un portento della natura, inconsapevole del semplice miracolo.
Una malinconia profonda, una incolmabile insoddisfazione lo tormentavano di fronte all’esistenza degli altri uomini. Egli aveva disgusto della loro vita, insulsa e ignobile, delle loro meschine aspirazioni, dei loro stolidi guadagni. Egli avvertiva talvolta se stesso quale un cigno tra frotte di rane gracidanti, sicché fuggiva dalla moltitudine saccente e chiacchierona e si rifugiava nel suo mondo interiore, alto come una montagna assolata sopra le valli brumose.

Alto come una montagna assolata sopra le valli brumose, il suo cuore s’empiva della luce d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della giovinezza.
Ricordava vagamente le parole di un canto appreso nell’adolescenza : “ Tu sei la mia terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.” Ah, sì, non era mai mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri solitari d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia sopra la valle, cingere i fianchi del monte, carezzare le cime dei pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi agli sbuffi del vento o frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il suo cuore cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva intorno a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era al mondo, doveva essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il sibilo del vento contro le fronde degli alberi, era il lento ascendere della nebbia, era il silenzio della montagna. Non altro era il mondo.

E pensava all’amore di Petrarca per Laura e a quella meravigliosa solitudine di Valchiusa, così immaginava, immersa nel verde degli ulivi, dei castagni e dei pini, una passione incurabile e nello stesso tempo pura come la segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava le meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte Ventoso, e si riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto essere le sue.
Così guardava dall’alto del colle la campagna d’intorno e le altre colline digradanti verso il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di fronde. E il sole faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre il suo manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli uccelli cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di sé l’eco d’una musica insistente, suasiva, impetuosa, e che il rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di trombe ad annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli apparve allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re dell’universo forse lo esortava a non temere, a non fuggire più la vita, ad abbracciarla, a viverla in tutta la pienezza, a colmare le vene del suo stesso fuoco ? Gli occhi gli si riempirono di quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione strana di scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma di sé, correre nel buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi occhi splendevano nell’oscurità come smeraldi irradiati.
E quella musica, insistente, invincibile attraversava la foresta nell’impeto del vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume risuonante.
Ebbe allora la chiara visione dell’Occhio universale. Si librava sopra il vasto lago dell’Essere e lo guardava, con la sua iride trasparente. Brillava della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso occhio, i suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno a lui l’apparizione della volontà senza limiti, della vita rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà rinascente in nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come affermazione, come “sì” al richiamo della vita, e nella sua giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli uomini, di tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno di gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci, quali ondate del vasto mare risonante, un fragore di flutti iridescenti, un canto sublime e possente fluire quale un fiume impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.

Vagò a lungo per la foresta, in un labirinto di tronchi neri, appena lambiti da qualche raggio di sole, che il fitto intreccio dei rami impediva quando non erano mossi dal vento.
Intravedeva non distante una radura, perché la luce colà si faceva più intensa e il colore era un verde brillante.
Pareva davvero che un qualche essere silvano lo invitasse alla sosta. Affrettò quindi il passo e giunse nello spazio aperto agli influssi del cielo.

Adagiato sull’erba, preda d’un torpore ebbro di sogni, egli guardava fisso davanti a sé, immerso nella visione.
Ella gli appariva, luminosa, leggera sui fiori, avvolta in una veste fragile e fluttuante come un alone d’oro, i capelli erano lunghissimi e riverberanti bagliori di fiamma e le toccavano morbidamente i contorni del corpo sino al tallone, poi parevano fondersi col suolo. I suoi occhi erano tinti del colore del sottobosco d’autunno, belli e variegati, bronzei e vibranti di lingue di fuoco.
Tutto intorno era luce, e gli alberi erano accarezzati da un vento luminoso, una corrente di pulviscolo aureo irradiantesi nella foresta come una linfa vivificante, come un’anima infusa per prodigio in un organo per lungo tempo muto. Il suo viso si fermò su di lui. Ella fissò i suoi occhi morbidamente, maliosamente e a lui parve abbandonarsi a un’onda di luce più forte del turbine tempestoso e più dolce della brezza dell’alba. Ora sembrava che da uno scrigno d’oro gli si offrisse l’essenza della vita, il tesoro che non ha pari. Doveva dunque abbandonarsi.
Ma, quando sollevò il capo dagli steli abbattuti, non più era luce, se non lo stanco raggio del crepuscolo. E già alitava la fresca sera.

Egli era cosciente del proprio transito, della propria debolezza, del proprio passaggio permeato di sogni, di visioni estatiche. Insufficiente piccola parte di un tutto incomprensibile, coglieva in un istante la propria essenza in una mano, una goccia d’acqua dispersa nell’oceano infinito.
Come quando sulle montagne la luce splende sopra le nevi, così il suo sguardo posava estatico sulla vastità circostante. Il silenzio degli spazi sconfinati gli cantava intorno il suo inno di gloria. In quell’attimo coglieva anche la propria eternità.
L’eternità del rito, sempre nascente infante.
L’immagine di sé fra il padre e la madre, un tempo, in un luogo lontano nella valle, su un prato innanzi al sole del mattino. Nel respiro intorno degli alberi, nell’alito del vento luminoso, il suo sé scorgeva estatico e ignaro il mistero dei giorni, ancora nel nido fra i sorrisi dei genitori pieni di speranze. Ah, anime amate!
La luce attorniava il bimbo, i sorrisi brillavano come aurore, del sole che sempre sorge.

Ah, immergersi nell’alito del mattino, come in una corrente d’acqua gelida, sentirne il brivido e l’impeto !
Come la dea Aurora intesse nel suo velo i canti che sgorgano dalla luce presso i lavacri del mare, così dentro di sé era invaso dal fremito dolce del risveglio delle creature.
E la luce si dilatava in un’onda iridata sopra le giogaie dei monti e sulle rocce e sulle selve brune.
Il mare dell’essere si rivelava nell’immensa distesa.




V




Il conte Oberto lo introdusse nella biblioteca. Era una stanza vasta, di forma rettangolare, altissima, tanto che nella penombra non si discerneva il soffitto. I lati erano ingombri di pesanti armadii, in legno nero, colmi di antichi volumi. Tra un armadio e l’altro c’erano grandi cornici dalla doratura brunita dagli anni, contenenti le immagini degli avi. I ritratti erano incupiti dalle muffe e si distinguevano appena i volti, ma in tutti erano visibili gli occhi penetranti, le cui pupille nere risaltavano nel biancore stranamente conservatosi fra le palpebre grigiastre. Dei candelabri, imponenti, di ferro lavorato, s’ergevano intorno a un tavolo massiccio, posto al centro del vano, sul quale stavano accatastati libri di diverso formato, rilegati in cuoio e in pergamena, alcuni di essi aperti e collocati su forti leggii. I ceri diffondevano una luce appena sufficiente a illuminare quegli scartafacci polverosi e ammucchiati disordinatamente. Un senso d’oblìo ispirava l’immobilità della fiammella, quasi si fosse in una chiesa silenziosa o in un santuario immoto, senza fedeli.
Il conte lo guardava con un sorriso enigmatico. Pareva quasi l’atteggiamento d’uno studioso dinanzi ad un interessante fenomeno o ad un oggetto di particolare valore. E tuttavia lo sguardo era distaccato, privo di emozione, decisamente freddo.
Un libro era aperto sul leggìo. Erano le “ Opere e giorni “ di Esiodo. Nella pagina a fronte del testo greco erano sottolineati i versi seguenti :
“… quindi la voce
le dette il nunzio divino, nominò la donna
Pandora, ché tutti gli aventi dimora in Olimpo
le donarono dono, pena agli uomini affaticati. “
E mentre il conte parlava, il suo occhio incuriosito veniva raggiunto dai raggi della luna sorgente, nella notte della stanza. L’ampia vetrata azzurra era simile ad un circoscritto specchio d’acqua, entro il quale, per puro caso, si contemplasse il volto stupito del satellite deserto, o, più poeticamente, il pallido viso di Diana sognante. E quel lucore turchino s’adagiava mollemente sui volumi, inargentandone la doratura del dorso, o illustrando le pagine aperte d’indecifrabili ombreggiature. Pareva che tra una lettera e l’altra s’aggirassero arcani inconoscibili siccome fughe d’ignoti sicarii per le vie oscure delle città deserte, che, per certo, illuminava vagamente quella medesima lampada tenue e reticente testimone. Cupi lati ed angoli di case lanciavano le ombre segrete a perdersi nella notte, lontano, nella città, i cui fuochi pari a punti ardenti pullulavano lungo il golfo.
E come laggiù sembrava che anche qui echeggiasse, sebbene attutito dalla distanza e dalle mura, il rantolo marino, che forse ora si fondeva in tutt’uno col respirare degli uomini, più stanco nella fine del giorno.
Il conte pose termine al suo discorso. Mauro non aveva inteso una parola, poi che la sua mente aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma questa volta dovette per forza prestare attenzione perché il suo ospite lo prese sottobraccio con una discreta energia e, aperta una porta, che prima non aveva notato, lo introdusse in un vano buio donde una scala a chiocciola scendeva nella più completa oscurità.
Il conte accese una torcia e fece da guida.
E così dalla torre ove era possibile spingere lo sguardo sulla vasta campagna in cui le sagome degli alberi fremevano alla gelida brezza, e il cielo bluastro svelava la luna e le stelle e un senso di potenza arcana s’impadroniva del cuore degli uomini, degli uomini che s’affrettavano verso casa quasi timorosi dell’oscurità, mentre le stanze s’illuminavano e s’udiva un canto lontano, e solo un lembo estremo di sole ancora appariva quale favilla crepitante nella cenere che lentamente s’estingue, così dalla torre scendevano lentamente entro le ombre della terra.
Dopo molti gradini giunsero davanti ad una porta. Il conte l’aperse ed entrarono in una camera bassa, senza mobilia.
La luce della torcia pose in risalto immediatamente di fronte a loro sulla parete una lunga crisalide colore del sangue, dal volto di donna, circondata da un’aureola di raggi rossi. Sulle altre pareti dei medaglioni in bronzo rappresentavano teste di animali fantastici, il cui nome era a Mauro ignoto.
L’alto sarcofago era di legno smaltato del tutto simile ai sarcofagi egizii e la testa di donna splendeva nel luccichìo dell’ebano e dell’oro. I grandi occhi oblunghi e bianchi fissavano Mauro con le immote pupille nere come la notte. Egli sorpreso si volse istintivamente altrove, ma lo sguardo si rifletté improvviso in uno specchio ovale che giungeva dal pavimento sino al soffitto, entro una cornice dorata.
La sua stessa figura lo intimorì, poi che gli parve minacciosa e cupa quale quella d’un démone.
Stornò subito la vista e andò verso l’ingresso dove ancora sostava la sua guida. Essa abbozzò un sorriso, e però s’irrigidì quasi immediatamente. Nella penombra, illuminato direttamente dalla torcia, il profilo del conte dava l’impressione del volto d’un idolo di pietra. I tratti, scarni e marcati, parevano scolpiti nel marmo, e la luce li investiva esaltandone il pallore.
Si allontanarono percorrendo un lungo corridoio scarsamente illuminato. Le loro ombre s’allungavano sulle pareti, le sagome delle teste si fondevano nell’oscurità. Mauro seguiva il conte Oberto ed inspiegabilmente percepiva ed assorbiva una vaga sensazione di freddo che propagandosi nelle membra gli faceva crescere dentro un sentimento di collera.
Uscirono infine su una vasta terrazza dove era disposto un telescopio per osservare le stelle, ed altri oggetti d’uso sconosciuto.
Lontano le onde argentine si riversavano monotone sul lido, mormorando.
Nel buio ebbe la percezione vaga, insondabile, della propria esistenza. Con terrore ne accoglieva l’idea. Esisteva. Era un privilegio o una condanna ? Il tempo scorreva, era trascorso, e già non si sentiva più, egli era vissuto. Ah, era veramente come quel buio anche lui ? Sarebbe stato forse un giorno una notte fredda, senza stelle ?
Ma, appena presa quella boccata d’aria, gli parve che il conte lo conducesse ancora per altri lunghi corridoi entro una vasta cavità della terra. Gli mostrò in ampie sale innumerevoli scaffali, colmi d’antichi libri, i cui titoli arcani lo lasciarono confuso, stupefatto e smarrito in una crescente vertigine. L’uomo parlava, sibilava, tuonava, il suo eloquio sembrava un fiume vorticoso e che rombasse intorno a lui assordandolo, nelle stanze immense.

E quel fiume si perse nella notte, confluì nel silente mare stellato, ondeggiando nelle tenebre misteriose.
E si perse sovra il fiume scintillante il suo pensiero, si smarriva nei meandri vorticosi, si librava sopra i flutti, alato e candido uccello marino. Verso altri lidi, verso altre terre lontane, anelava all’al di là, laggiù ove l’oscuro orizzonte procombeva nelle infinite solitudini.
Domani, un altro giorno, un altro giorno ancora. Fino a quando ?

Fino a quando il sole non si leverà alto nel cielo e l’uomo sulla cima della montagna aspetterà d’essere inondato dalla sua luce. Allora, volto lo sguardo diritto verso di esso, sentirà l’anima irraggiare dalle membra e fondersi in Lui in un abbraccio perenne.
Sentirà i Suoi raggi attraverso il suo corpo e il suo corpo diventare i Suoi raggi e lo sguardo levato al cielo librarsi nell’alto, libero e senza limiti planare nell’azzurro, calmo e veloce come un grande alato bianco che s’innalza nei vortici radiosi.







VI







Il conte aveva deciso di festeggiare il compleanno di Misandra. Aveva così organizzato un grande ricevimento e dato ordine di non badare a spese e di allestire in tutto l’edificio un apparato magnifico e sontuoso.
Pareva che una strana frenesìa lo possedesse di scialacquare le sue ultime sostanze. In effetti la villa sembrava invasa dal corteo di Bacco e la musica delle danze risuonava entro le mura e fuori del giardino si effondeva sul mare e sovra la selva addormentata.
Le luci delle finestre e dei lampioni erano i fuochi notturni di misteriosi riti e solo l’alta luna assisteva conscia e indifferente, pallida del suo statuario pallore.
Mauro s’aggirava sbigottito tra la folla che aveva invaso il palazzo solitario e che rumoreggiava fastidiosamente tra le volte agili del salone e correva dietro chimere amorose nei viali del parco.
La musica di Strauss, banalissima, accompagnava quella frenesìa di godimento, che s’inebetiva di champagne e di pasticcini.
Mauro trascorreva nel fiume ignoto delle chiacchiere, delle occhiate, delle risa convulse, delle barzellette, delle maldicenze, tra quella moltitudine congestionata, dallo sguardo scintillante e dalle pupille spalancate.
Passava come una foglia secca sull’acqua torbida d’un torrente, ignaro e ignorato, anonimo. Gli altri non lo notavano infatti, lo sfioravano, gli ostacolavano la via, gliela tagliavano e per poco non lo urtavano, quasi che egli non esistesse neppure.
Egli allora s’affacciò alla finestra e guardò nel giardino.
Al centro di esso un’antica fontana di marmo, segnata dal tempo, lasciava scaturire il suo mormorìo diffuso all’intorno quasi una melodia misteriosa e leggiadra, come la veste fluttuante d’una ninfa che corresse a celarsi nei boschi profondi. Attorno al bacino marmoreo crescevano piante diverse, dalle foglie gigantesche e dai fiori magnifici e sontuosi. C’era un arbusto, in un vaso d’alabastro, che offriva alla vista una profusione di fiori purpurei e pareva scintillare d’un alone di magici raggi. Tutto il suolo era coverto di rami e di foglie, di erbe sconosciute e floride e ridenti in un intrico di fogliame lussureggiante.
E allora scorse Misandra. Camminava lentamente nel giardino, accarezzando con la veste sollevata dal venticello le piante e i fiori. Tra i rami degli alberi la sua capigliatura era una fronda copiosa e scintillante che ondeggiava al respiro della primavera. La sua gonna scarlatta si confondeva coi cespugli delle rose rampicanti e poi ella appariva a mezzo busto fra l’orgoglio delle ortensie, come ninfa in una visione di poeta.
Allora veramente pensò d’essere giunto in un mondo meraviglioso e incantato, che la sua fantasia aveva sempre evocato nei lunghi momenti d’ozio degli inverni trascorsi. Fioriva la primavera e rinasceva quel mondo.

Prima di concedersi ai molti, Misandra aveva intrattenuto i più intimi. Ella, seduta innanzi al caminetto, aveva letto il racconto di Eichendorff, e aveva così creato un’atmosfera di malìa indicibile. Un brivido, in verità, aveva attraversato Mauro. Egli aveva riconosciuto la singolare somiglianza del suo destino con il personaggio di Raimondo.
Perduto, tutto è perduto ! “ Ripeteva anch’egli a se stesso. In effetti anche per lui gli anni della giovinezza erano trascorsi velocemente come in un oscuro sogno.
E allora lo invase un senso di infelicità profonda, irrevocabile, senza appello, la sensazione che la vita fosse per lui un buio carcere, ove dovesse trascorrere un’esistenza priva di luce, priva di gioia. Lo catturò un sentimento di solitudine senza conforto, di abbandono. E come Misandra l’aveva respinto a suo tempo, così lo respingeva per sempre la vita.
Ma egli comprendeva anche che il volto impassibile di Misandra, i suoi celesti occhi quali gelide acque d’oceano, fissandolo mentre ella raccontava, simboleggiavano per lui la vita stessa. Parevano dirgli : “ Non sai che l’esistenza stessa è abbandono, desolazione e rovina ? Non sai che Amore si compiace del tormento e che il desiderio è una tabe infame ? Ma che speri, che hai sperato ? Illuso ! La felicità non esiste e l’uomo che la cerca piangerà le lacrime amare della disperazione. “
La vita fuggiva. Dalla finestra egli scorgeva i raggi che attraversavano i rami degli alberi, nel giardino pervaso dalla luce stanca del crepuscolo. E un lembo di piana marina, calmo e desolato, taceva presso gli scogli dell’alto dorso del promontorio oscuro.
La vita fuggiva. Insieme al mormorìo delle piante vetuste nella brezza leggera che di quando in quando faceva tremolare le foglie, anche nel suo cuore sentiva risonare un murmure roco, quasi un’eco del sordo flusso del sangue. Correvano gli attimi via assieme alla luce sempre più fievole e si sperdevano le foglie trascinate dal respiro notturno, via.
Eppure egli provava inesplicabilmente, proprio nell’attimo stesso in cui coglieva la vanità delle vanità, provava un senso di pace, un invito certo alla quiete notturna, eppure non al semplice sonno. Era un conforto, quasi, quel pensiero vago che gli si formava nella mente; proprio all’annuncio della morte del giorno nella corsa del tempo che non ha requie, avvertiva la presenza dell’eterno.
E udì una musica fluire tenue nella stanza ed empirla con la sua malìa. Misandra suonava al pianoforte alcuni brani dal concerto n. 21 di Mozart.
E lo prese una dolce sensazione d’abbandono. Gli pareva che la sua intima essenza unendosi a quelle note incantate si dissolvesse in onde trasparenti e fugaci fantasmi, o nei vortici di fumo dei sigari, accesi dal conte e da qualche ospite. Gli pareva di fuggire e di perdersi nei meandri della memoria o nei labirinti del desiderio d’un tempo. E come scorse la luna nella vasta notte, sola nel mare delle tenebre, lo morse la consapevolezza amara della propria solitudine senza rimedio, della disperazione del suo amore proibito e negato sin dalla nascita.
Il suo volto s’irrigidì, non volle esprimere più alcun sentimento.
E, come un tempo, amare lacrime salirono dal profondo del cuore. Amare lacrime come un tempo, quando, nell’estate dopo l’ultimo anno di liceo, sgomento innanzi al vuoto del futuro e al deserto del passato, mentre se ne stava, momentaneamente ospite, nella villa di Misandra, seduto sopra un divano a baldacchino posto nel mezzo del giardino rigoglioso, amare lacrime aveva trattenuto a stento, colpito da un senso d’abbandono senza pari, di desolazione senza rimedio, reggendo tra le mani il volume dell’oscuro irlandese, che aveva voluto rinnovare le peripezie d’Ulisse. E, come allora, la memoria tenera e lenta lo pervase del suo languore, lo adagiò nel vago sognare un sogno lontano.
E la melodìa interiore, figlia della rimembranza di molte musiche più volte ascoltate con rapimento ed estasi, lo condusse verso gli anni della sua prima giovinezza, quando, nell’atmosfera di una biblioteca, leggeva libri di poesie, avvolto dalla luce violacea e sensuale della sera che si faceva innanzi, speranza tentatrice, quasi un miraggio di donna, sorridente nell’ombra.

Il convito notturno iniziò tra lo scintillìo dei vassoi e le portate rigogliose e variegate come fioriture.
Mentre i commensali bevevano e mangiavano con ostentazione di gaudio, meccanicamente, Mauro osservava Misandra, la quale sorseggiava a tratti, pigramente, il vino rosso nel calice. Oh, ella beveva il sangue della vita ! Così gli pareva, che quella bevanda fosse sangue, scaturito con forza dalle vene aperte, caldo sangue. E le sue labbra violacee lo bevevano con lentezza, lo assaporavano con una voluttà amara, crudele. Gli angoli delle labbra erano appena convessi, gli angoli esterni delle palpebre, ma solo per un istante, aggrinzivano appena. Gli occhi grandi irradiavano una luce febbrile, le pupille erano un cielo accecante. Ella arcuava un poco la nuca, sì che i capelli cadevano sulle spalle, risaltanti dalla scollatura dell’abito, con un’onda di color cupo, scintillante alla luce dei candelabri in fili d’oro, quali sul mare crespo i raggi già declinanti dell’astro fuggente.
I suoi occhi, le sue labbra, i suoi capelli fluttuanti risaltavano inebriando sulla veste rossa, dall’ampia scollatura, una veste come una fiamma che l’avvolgesse, ne annunziava i lineamenti e il disegno mirabile della figura elegante, nobile, maestosa.

Il silenzio, fuori, si stendeva sconfinato sulle colline selvose, mescendosi agli impenetrabili brani di tenebra nel folto delle valli, nell’insondabile buio del mare. Era un’orda brulicante di lupi famelici, un’onda baluginante d’occhi crudeli.
Avesse potuto cogliere in quel momento il mistero profondo della luna pallida e lucente sul mare come una regina sovra il suo magico trono, cosciente di tutti gli incanti ch’effonde sopra le onde nere, e rappresentarne la malìa da pittore scaltrito ad ogni sfumatura. Avesse potuto cogliere il bagliore dei suoi occhi e chiuderlo come una gemma in un castone prezioso e sentire fra le dita la fragranza dei capelli e avere le tempie ebbre del loro profumo !
Mentre il convito si quietava e s’allontanavano i commensali in un’altra stanza e la penombra si stendeva sovra il mobilio non più lucente, egli si dileguava, percorreva il lungo corridoio, fuggiva nell’ombra e intorno a lui turbinavano i lumi dei candelabri, egli s’immergeva nella notte oscura.
Richiamato da un canto lontano, dal canto malinconico della luna alta nel cielo, si precipitava nei viali del giardino invaso dalla brezza, respirava profondamente, ansimava, guardava le stelle, estatico e atterrito.
E il canto lunare era sempre più forte, stringeva il suo cuore, lo avvolgeva nella spirale. Ah, non finiva, non finiva mai !
Come il fluido sonoro delle danze, percepito in lontananza, lo attrasse, egli inviò se stesso colà, ove meno avrebbe voluto, e s’immise nella luce dolciastra.

Mauro le si avvicinò lentamente, mentre la musica da ballo si diffondeva sempre più imperiosa, e, senza quasi ch’ella se ne accorgesse, le prese la mano e la strinse nella sua con forza. Ella non si mosse, stupita, e pervasa dal fluido invisibile del desiderio, ma poi, vinta dal dolore della stretta che si faceva a poco a poco più intensa, ritrasse il braccio con lievissimo disappunto, che soltanto si percepiva dallo sguardo smarrito, e volse a Mauro un’occhiata interrogativa, colma di dubbi e di domande senza risposta.
E mentre la musica intorno vibrava, volteggiava nell’aria calda della festa, il pendolo ondeggiava scandendo il ritmo del tempo e le ore procedevano senza indugio verso la fine. Come un esercito inesorabile le ore avanzavano, parevano circondare gli ospiti, ormai impauriti, li assalivano, li coglievano alla gola col cappio invisibile. Momentaneamente ammutolì l’orchestrina e la musica vanì vaporosamente nel fumo delle candele. Le gambe divennero di pietra e il tempo parve fermarsi.
Oltre l’ampia vetrata, lievemente socchiusa, la grande sagoma nera del mare rumoreggiava contro la scogliera. S’avviluppavano le onde e a tratti scorgevasi la cresta spumosa al bagliore della luce lunare come di prodigiosi cavalli neri dalla bianca criniera. Rollava, rombava, rampava e si tendeva sul lido con le sue spire, friggeva la spuma sulla sabbia e succhiata svaniva, smuovendo crepitanti i granelli quasi scintille.
Sulla collina, a destra del lido, cerea al lucore notturno, come una statua di nudo marmo, posava l’antica abbazia cinta da resti di un borgo, come spezzate vertebre accanto a lunghe ossa eburnee. Sagome oscillanti di fusti nati sulle rovine si stagliavano sulle mura quasi un teatro d’ombre. Ma sulla sommità d’un torrione una cupola ingannava a quella luce e sembrava un gigantesco teschio che volgesse il suo ghigno ai vivi, ancora immersi nell’illusione.
E fu allora che il cumulo delle ansie nell’animo suo precipitò entro di lui come un masso improvvisamente staccatosi dalla rupe, il male nero lo soffocò e i suoi occhi si gonfiarono quasi offesi da un fumo denso e maligno. Voleva liberarsene e non poteva. La maledizione del suo essere lo schiacciava, lo distruggeva. Il male innato pareva invincibile.
Si volse e pose attenzione alla ripresa della danza. La sala era tutta un seguito di vortici. Dame e cavalieri, cavalieri e dame; ma non erano dame, erano idoli dorati, scintillanti di gemme e di seta e pure innalzate sull’altare, anzi sul trono. Dominavano la scena e gli altri erano dominati. Sul loro viso non si scorgeva che un solo pensiero, desiderio e sentimento : dominare e stringere nelle spire del possesso. Erano dame ? Non erano neppure donne, in verità. Il volto era duro, tirato, segnato da rughe premature, legnoso. Il profilo marcato, gli occhi scintillanti e maligni, la bocca amara. Pareva che al lembo della loro veste fluttuante nel movimento fossero aggrappate, anzi agganciate le male grazie in uno strascico di pervertita bramosìa e di livore, frutto dell’invidia. Il loro anelito, nel sollevarsi dei petti, emanava un efflusso malsano, che stordiva. I cavalieri, allucinati, parevano girare su se stessi come trottole.
Ed egli guardò di nuovo verso la finestra.
Fuori non s’udiva più il minimo rumore. Non era altro che buio. Niente altro. Il nulla.







VII



Il giorno dopo si recò nella vicina città, non molto lontano, presso il mare. Le strade erano colme di vetture rombanti, di autotreni, esalanti vapori sotto i colonnati di palme.
Quando si era svegliato il sole l’aveva accolto in un alone d’oro. La persiana non era stata chiusa e il mattino era liberamente entrato. Ed ora era come se quel corteo di luce lo accompagnasse ancora, nonostante non fosse più solo.
Un corteo di luminose immagini, miste ai sogni dell’alba, gli era intorno, di sogni giovanili, di ricordi. Una pineta, i prati, una fanciulla bionda al centro della compagnia. Erano gli ultimi giorni di scuola e la domenica anticipava ormai le prossime vacanze estive. Quella fanciulla un tempo gli piaceva, ma ora il suo viso non era che una vaga rimembranza, una luce dorata e rosea, un fluire biondo, un ruscello fiottante, limpido, su sassi d’argento, fra cespi di margherite.
Ora il sole lo accompagnava tra la polvere e i fumi della strada.
Ma la voce lontana eppure intima lo chiamava ancora, in un rigoglio di verdi distese e di alti rami inondati di luce, una musica potente e profonda che lo invadeva in un dolce brivido, remota malìa di divinità silvane, stormire di fronde nel silenzio, sapido mistero del sottobosco.
Ed ora scorgeva attorno le vetture sfrecciare, fastidiose, come le rondini in un volo infesto sfiorano saettando il capo del viandante, a difesa del nido vicino, con sibilo molesto.
Nell’ansia mattutina era assai più invadente il rumore dei motori, una minaccia costante, il costante monito del tempo che fugge e che vola verso un’ambigua meta. Dove, dove ?
Le strade si popolavano lentamente. I cittadini uscivano dai portoni con gesti lenti, assonnati. Piano, piano il formicolìo cresceva e avrebbe raggiunto l’apice a mezzogiorno. Le saracinesche dei negozi stridendo schiudevano al mondo le merci variopinte, come ogni giorno la città si rimetteva in moto e le arterie che l’attraversavano si gonfiavano del flusso di vetture, camions, autobus e di passanti frettolosi.
La città nel chiasso e nella polvere riprendeva la sua vita, fatta di traffici, di orari d’ufficio, di noiose lezioni a scuola, di code agli sportelli pubblici, di suoni di sirene e soprattutto del volo dei piccioni e dei gabbiani che si posavano sui camini e sugli alberi e sui lampioni, lasciandovi le reliquie corrosive della loro presenza.
La città come una grassa e giovane donna pubblica si svegliava. I marciapiedi ogni giorno dovevano essere spazzati, migliaia di persone si agitavano correndo di qua e di là.
La via che dalla piazza centrale entrava nella città vecchia era interdetta alle vetture e già popolata di venditori ambulanti negri che cercavano di attirare i passanti con il loro eloquio stentato. Un profumo di pollame, di macelleria, di salumi impregnava l’aria, la gente saliva e scendeva per la strada inumidita dall’acqua, gettata davanti all’ingresso dei negozi per la pulizia del mattino.
Verso le undici e il mezzodì il traffico avrebbe raggiunto il culmine per trasformarsi nel pomeriggio in una sorta di sfilata dei perdigiorno. Allora la via sottostante, la più elegante e quella che annoverava i cinema e teatri e i negozi di lusso, si sarebbe colmata di una gioventù spensierata e chiassosa, spesso volgare, che l’avrebbe percorsa in lungo e in largo più volte alla ricerca di futili passioncelle.
Un senso di noia profonda aleggiava sulla città. Intanto s’udiva verso il porto il rauco vociare marino diventare sempre più forte. Contro il molo le onde si scagliavano con furia schiantandosi in mille scintille di spuma e il vento fischiava isterico sovra il mare rabbioso.
Gruppi di gabbiani volitavano sulla città, sopra i cui tetti avevano ormai da tempo fatto il nido. In basso la turba transitava frenetica e rumorosa recandosi al mercato annonario, entrando per le viuzze laterali, in gran fretta come sempre, punta dall’assillo fastidioso e tenace.
Ma il mare urlava oltre il molo, il mare cui non interessano le vicende degli uomini, e inviava legioni di ondate a sfracellarsi contro gli scogli, nel tentativo, per ora vano, di strappare alla terra un po’ del suo dominio.



Sentiva nel sole dell’estate la pienezza della vita, ricordava il riverbero dei raggi sulle onde quando immerso nel mare scorgeva la riva e le case sulle colline, biancheggianti tra il verde dei giardini, ricordava se stesso fra le piante, dedito alla cura dei campi, mentre zappava e, ogni tanto sostando, aspirava l’aria intrisa d’aromi e d’esali erbacei, allora era una cosa sola con la natura, non era più se stesso, ma il puro e semplice atto, il puro e semplice fluire.
E come quando ascendeva l’erta della montagna, aspra, assolata, battuta dal vento, sentiva nella fatica il suo respiro venir più calmo, per contrasto, ma era l’armonia che giungeva quale onda placantesi sulla riva, e allora gli pareva davvero di cogliere il soffio vitale.
E fiottavano innanzi gli anni dell’adolescenza, immagini rapide e guizzanti ormai. Ma allora, seppure inconsciamente, egli aveva colto se stesso. E ricordava appunto se stesso quale un occhio aperto sullo stupore del mondo, e intimidito dinanzi all’incomprensibilità del mondo; ora comprendeva quella fortuna. La vita è veramente meravigliosa se non può neppure essere colta nei suoi istanti d’ogni giorno, né nei suoi sogni, né nei suoi amori, né nella sua sconfinata bellezza, come Misandra quando gli appariva ai raggi diurni, sulla riva del mare, e i suoi capelli rilucevano quali onde pervase dal sole e i suoi occhi irradiavano quali gemme penetrate di splendore. E il suo sorriso era la brezza e il tepore del sonno.
Nell’alto volitavano nubi leggere, ed egli pensava alla giovinezza fugace, adolescente piena di avvenenza, o come a ragazzi vivaci le cui parole corrono nell’aria. La giovinezza fuggiva e tutto il passato si sarebbe risolto in un pallido sogno. Il succo della vita è il rimpianto, per ciò che è stato e non è stato, comunque il rimpianto.
In un gemito di rivi montani sentì fluire il passato fra sassi e sponde erbose e fiorite, nel profumo dei verdi pascoli, quando si sono dissolti ormai le nevi e i ghiacci della morte.
E la meta di quel ruscello sarebbe stato il mare, il mare infinito e libero, il mare tremendo e bellissimo.
Ed egli era una goccia del vasto oceano, che si sarebbe effusa e dissolta nel vasto oceano.



E nella vasta calma del pomeriggio estivo entrò nel salottino immerso nella penombra, e, seduto sul divano, osservava lentamente i quadretti di varia foggia appesi alle pareti, gli idillii di lontani boschi, verdi di fronde, bagnati da pigri fiumi, le rame oscillanti alla brezza dei mattini, nutrite di morbida luce, i volti umani di remote contrade, perdute nell’occidente africano, i vivi colori della selvaggina stesa su vassoi di vetro smeraldino, e sognava nella camera dei sogni, in quel salottino a lui tanto familiare e, pure, sempre inconsueto e colmo di strane memorie. Una realtà di sogni era la sua, una vita sognata.
E gli giunse alla mente, inatteso, un suo vecchio e ingenuo sonetto degli anni di gioventù, e lasciò che la memoria gli ripetesse :

La divina foresta spessa e viva
mormoreggiava di tra i raggi lenta
e d’ogni fronda, d’ogni fiore auliva
dalla cima dorata all’erba spenta,

e il ruscello tortuoso s’insinuava
quale magica serpe fra giunchiglie;
su meandri azzurri e verdi arcava
gotica volta in corolle vermiglie.

Poi correva giù, per le vallate,
e si perdeva fra i massi, rigirava
ancor schiumante in onde intorbidate.

E nella bruma della piana immensa
poi si smarriva fra la messe densa,
e nell’ignota e oscura via entrava. “


Una vita di sogni è una giovinezza perpetua. Così era per lui, come un’illusione non mai compresa non mai negata, come un meraviglioso miraggio che permane nel deserto della vita.

L’occhio dell’orologio a muro lo fissava inesorabile. Il tempo s’alternava come il respiro regolare d’un dormente. La vita fuggiva come un ruscello fiottante tra i sassi levigati. Presto sarebbe calata la sera e un nuovo mondo di ombre avrebbe abitato la terra. La luna col suo corteggio di sogni era prossima a vivere la vita riflessa del giorno come la luce del sole, e il sonno s’accingeva a disserrare le porte del suo regno sconfinato.
E così sul mare la stirpe infinita delle onde abbracciava la luce nel commiato del sole oltre l’orizzonte, e le nubi come cenere calda parevano a poco a poco dileguarsi nel buio fra guizzi rossastri, e le rupi lontane si ammantavano d’ombre.

E venne sulle ali dell’aria, dal campanile sulla collina, il tocco dell’ora, e fu necessario avviarsi verso la sala ove era atteso.
Una lunga tavola lucente, immersa in un fiume di luce, era al centro e, intorno, antichi e pesanti mobili pareva racchiudessero porcellane e cristalli, certo ormai da molto tempo non più riesumati.
Il conte lo invitò a sedersi e cominciò a parlare del più e del meno, mentre Misandra sorseggiava del vino colore del fuoco e i suoi occhi rilucevano dei bagliori del tramonto.
Come il giorno precedente Mauro rimase colpito dal suo sguardo, dalla sfumatura d’ironia crudele agli angoli degli occhi e della bocca. Attirava ciononostante e prometteva voluttà misteriose e inenarrabili, e il cuore umano certo si sarebbe totalmente perduto se avesse soltanto osato abbandonarsi all’incanto di quel viso straordinario.
Così restava innanzi a lei stupito e muto, quale fanciullo cui per la prima volta si sveli ai raggi del giorno l’inattesa forma d’una giovane donna, ed egli sta silente ed estatico, similmente la guardava Mauro e non riusciva a emanciparsi da quel volto.
Improvvisamente entrò nella stanza una figura leggera, avvicinandosi sveltamente a Misandra, mentre nel giardino adiacente si udivano voci rincorrersi tra le ombre.
Vide una fanciulla di circa quindici anni, la più graziosa e delicata che mai fosse possibile incontrare; i suoi occhi appena inumiditi dalla malinconia gli parvero d’un languore estremo; lunghi capelli biondi fluttuavano sulle spalle; la bocca era fresca e vermiglia; ella era così seducente che non si poteva resistere alla sua presenza senza ammirarla silenti.
Misandra le fece mille complimenti, accarezzandola ripetutamente, fino a che abbandonò il marito e Mauro, salutandoli soavemente, e presa per mano la bambina, quasi aleggiando sovra i gradini dello scalone, scomparve alla vista chiudendosi nel buio delle stanze superiori.
Ma il giardino era in preda a volteggianti echi di fanciulle. Si inseguivano, giocando, fra le aiuole, per i viali alberati, ed era come una seduzione di sirene il vociare argentino che brillava insieme agli ultimi raggi nell’aria.
Misandra, quale misteriosa Circe, s’era dileguata ai loro sguardi, ma la sua presenza comunque aleggiava tra l’abbondanza dei fiori, degli odori e dei frutti ormai esausta.
Uno sgomento aveva sorpreso Mauro alla festa, la volubilità, i moti fuggenti degli occhi di Misandra lo avevano colmato d’incertezza. Ella mentiva. E il suo passo nelle stanze della casa era l’ombra della sera che avvolge lentamente e nasconde ogni parvenza e copre ogni rivelazione.
Ma era l’ombra della sera oppur l’ombra della tempesta ? Il fruscìo della sua veste era ora il roco fremere del vento, e il manto della sua figura annunciava il corteo di nubi minacciose.
Così era entrata, come nebbia tra forre d’alte e cupe montagne ove crescono abeti sull’orlo dei precipizi.



















VIII




All’alba gli stallieri arrivarono con le cavalcature sellate. A Mauro fu affidato un cavallo bianco, di linee eleganti e dalla criniera fluente, Misandra montò un poderoso stallone nero, nervoso, dagli occhi ardenti.
S’avviarono al trotto verso la piana, che s’estendeva tra la foresta e il fiume diretto al mare.
Mauro, appartenendo a una famiglia onorata ma povera, non aveva mai avuto un cavallo suo. Apprese da Misandra che quello consegnatogli era il destriero del conte Oberto. Con un sentimento di soddisfazione mista ad invidia, considerò con uno sguardo lo stupendo esemplare ch’era sotto di lui. “ Fortunato il conte ! “ pensò, rialzando il volto in direzione di Misandra. Ella gli volse una rapida occhiata, quasi avesse compreso.
Indossava una veste succinta, da cavallerizza. Contrariamente all’uso, non portava la gonna, ma calzoni attillati coperti da stivaletti leggeri, lunghi sino al ginocchio. Un corpetto di velluto rosso e un cappellino piumato costituivano il resto dell’abbigliamento.
Cavalcava alla maniera degli uomini, e pareva un bellissimo fanciullo che partisse all’avventura o per la caccia.
E quando il sole illuminò la selva e fra i tronchi verzicanti e muscosi dilagava un torrente di luce, Misandra lanciò al galoppo il suo cavallo, che nitrì selvaggiamente, invaso dalla foga improvvisa.
Allora anche Mauro si gettò all’inseguimento, ma il suo destriero riusciva a stento a inserirsi nella scia polverosa del superbo animale, che pareva dotato d'un impeto sovrannaturale, demoniaco, quasi che la volontà di Misandra riuscisse a fargli compiere prodigi. Ed ambedue fuggivano, come esseri fantastici, sollevati dal vento, lui e la donna, presi dalla corrente misteriosa d’un inspiegabile ardore, protesi verso una meta ignota, arsi dalla sete d’una rivelazione.
E fuggivano, fuggivano, saltando e superando ogni ostacolo, aggirando ogni macigno, evitando ogni pruno o roveto, prodigando in scintille d’argento l’acqua dei ruscelli.
La raggiunse sotto una vasta quercia. Ella era appena smontata di sella e lo attendeva. Era lievemente alterata dalla corsa e i suoi occhi brillavano.
Saltò giù dalla sella e legò la briglia all’albero. La guardò mentre ella gli sorrideva.
Andiamo di qua, per questo sentiero “ disse, tendendogli la mano. Egli la seguì, silenziosamente.
Camminarono nel bosco, dove i raggi del giorno filtravano appena. Dopo circa una mezz’ora si fermarono dinanzi a un edificio in rovina, coperto quasi interamente da erbe rampicanti.
Ella levò il viso verso la facciata della costruzione, dove un rosone in alto rivelava il santuario. Il sole lo faceva risplendere e i vetri colorati inviavano bagliori misti di luce turchina e rossa. Pareva un grande occhio la cui iride avesse catturato il riflesso dei tramonti.
Vicino scorreva un ruscello e dietro il tempio formava un piccolo lago azzurro. Come Misandra si specchiò nelle acque, disse : “ Un tempo venivo qui con le amiche, prima di sposarmi, e, in pieno inverno, ricordo, ero l’unica a gettarmi in questo laghetto gelido. Dovevo essere cianotica quando uscivo. Erano tutte preoccupate e mi abbracciavano, stringendosi a me e sfregandomi con forza. “
Così diceva e Mauro all’udirla si sentiva invadere da un sentimento d’ammirazione. Misandra era davvero una bella creatura selvaggia, un essere assolutamente spontaneo e senza freni, eccetto quelli della sua naturale sensibilità. Era strana, raffinata e, pure, quasi inculta, poi che la sua gentilezza non era frutto d’artificio. Ella era bella e leggiadra creatura della foresta.
Si sedette sotto un albero, al riparo dal sole. Ed egli le si pose dinanzi, accovacciato sull’erba, e la guardava in silenzio.
Misandra sembrava in attesa. In attesa forse di qualche evento insolito o dell’arrivo di un altro cavaliere ?
In verità Mauro era tenuto in sospeso dall’incertezza. Non era pienamente consapevole dei propri sentimenti. Essi gli sfuggivano, come sabbia fra le dita, perché non era abituato a sondare in profondità il suo animo. Ma aveva il vago sentore che quell’attesa non fosse per un altro, fosse proprio per lui, l’incerto, ancora ignaro della sua stessa natura.
Ella aspettava, aspettava da lui un segno, la rivelazione senza ambiguità, il sì definitivo.
E allora vinto definitivamente, abbattuto dagli strali d’Amore, aggiogato al carro della guerriera, egli si sentì trascinare da una forza arcana e irresistibile verso di lei. Allora la baciò, in uno stato di vera incoscienza, non più padrone di se stesso. Ed ella non pareva turbata, ma pareva che quell’istante le fosse noto da molti anni.
E tuttavia non fu l’abbraccio che Mauro aveva sempre sognato. Fredde erano le labbra di lei, stranamente fredde come il ghiaccio. Come poteva essere ? Non emanava il suo corpo un senso di straordinaria energia, tale che l’innamorato ne era stato interamente conquistato, quasi fosse dinanzi ad una volontà superiore e ardentemente vitale ? Ah, le rosse labbra di lei quali i petali purpurei d’una rosa invasa dalla rugiada, come potevano essere tanto dure, fredde, marmoree ?
E l’incanto si ruppe, ed ella si alzò quasi immediatamente e, nulla dicendo, appressatasi al cavallo, rimontò in sella e s’avviò senza aspettare.
Egli rimase. Seduto su un sasso, restava a fissare il terreno, immobile e cupo. Non ebbe più la coscienza del tempo. Osservava le cose intorno a lui e vi si confondeva, oggetto smarrito nella foresta frusciante, sotto il sole.



Quando tornò alla villa, vide nell’atrio alcune scatole vuote, poi, furtivamente, notò nel grande specchio all’ingresso che in fondo al corridoio una porta era aperta. Si avvicinò incuriosito, ma ristette sulla soglia, da che una moltitudine di riflessi abbagliava la vista.
A perdita d’occhio s’apriva un labirinto e un’unica immagine si riproduceva di lato in lato, ed ella, avvolta in una fluente veste purpurea, dardeggiava più fortemente dei lumi e in ogni canto appariva sinuosa, ammaliante, tiranna. Dovunque era, in ogni angolo, come al meriggio i raggi furiosi sopra il mare, e i suoi occhi ovunque fissavano, e anche lui coglievano incauto, al laccio.
Si ritrasse, colpito, forse, dal suo ghigno beffardo, se pur non fosse una pura impressione, e, veloce, anelante, s’affrettò verso la sua stanza.


Le tenebre correvano sul mare di porpora, mentre ad occidente nubi insanguinate si accalcavano sopra l’abisso del sole fuggitivo, nella morte del giorno.
Lunghi manti oscuri, nere ali, si distendevano sovra strisce esili di fiamme che si disperdevano e si spegnevano fra le onde d’un azzurro cupo e freddo, fluitante su profondità insondabili. Il mare, denso e pigro e quasi viscoso come un vino forte, esalava a tratti riflessi violacei, respirando monotono.
Negli intervalli del flusso regolare, quale in un sonno senza sogni svanisce la coscienza del dormente, sgombra di pensieri inquieti, il silenzio accoglieva la terra, recandola nelle regioni del nulla.
Sognava.
Fluttuava la luce sotto gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa, che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle montagne.
Una vegetazione rigogliosa si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive del grande fiume.
Su per l’acqua veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni, deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.
Tra la vegetazione dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso, carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava per sempre un dio antico.
Al centro di quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta, rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e nerastro.
Un trono imponente, di pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava, le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale, illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del loto.
Il volto brunito era impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano, allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude, la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca, nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava, innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé, sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del sangue.
Ed ella s’entusiasmava nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella danza interminabile.
E il sangue stillante dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un fiume veemente, verso il mare murmureo.


Il mattino si annunciò col rombo del tuono. Un forte temporale avvolgeva il cielo e le folgori baluginavano qua e là scaricando la loro terribile potenza.
Egli aperse, sceso dal letto e vestitosi, la finestra della camera e volse lo sguardo verso il mare.
Sulla spiaggia accadeva qualcosa di strano.
Furiosamente al galoppo falciava le onde spumose sulla battigia argentea un cavallo nero, gigantesco, che al limite della terra e del mare nitrendo fuggiva.
Ebbe sentore del fluire dei propri pensieri, perciò Mauro uscì dalla villa e più rapido del vento, non sapeva dove, anch’egli fuggì.
Si ritrovò in un luogo oscuro, ignoto, di fronte a un edificio d’antica pietra, invaso dai rampicanti.
Avanzò lungo la sagoma scura, al mormorìo di un venticello fioco e maligno, sussurrante tra le branche cupe.
Le foglie frusciavano sotto i suoi passi, le foglie volitavano intorno secche e leggere come mani furtive, rapide, agili su magico strumento. Sentiva insieme alla sferza del vento la corsa dei suoi pensieri, quale un cocchio trascinato da furibondi cavalli. Dove procedeva ? Dove andava ? Si libravano sull’aura attorno a lui le ali degli albatri, si posavano sopra le mura in attesa, come arpie. La sagoma della luna ancora recava barlumi quasi lampi, illuminazioni improvvise, intuizioni in una lunga ricerca.
Ecco il portale. Ecco le fantastiche icone volgersi a lui per presentare i misteri dei mondi di là. Tre colpi echeggianti batté e s’aperse senza rumore quasi onda che si ritrae.
Egli entrò nella chiesa abbandonata. L’edificio diroccato era appena illuminato internamente. Tortuosi turbini arcavano sopra abissi verde lucenti, onde s’agitavano, fluitavano vapori, fluivano fumi d’incenso, fremevano braci, s’attorcevano lunghissime chiome nere che procombevano sopra rupi. Nella penombra la fantasia s’accendeva e scorgeva rocce schiumanti e muscose invase d’acque scure, cuposonanti, avvolgentesi in spire serpentine.
Non erano candele, né lampade, sibbene dèmoni lunghi come serpi, dalla capigliatura ardente e dagli occhi di bragia. L’altare maggiore splendeva a giorno, ad opera di enormi candelieri viventi, perché erano braccia che uscivano misteriosamente dal marmo e aprivano le mani accogliendo lingue di fuoco dai colori più vari. In mezzo all’altare era adagiato un gatto nero di proporzioni gigantesche, dalla coda ondeggiante e dagli occhi spaventosamente lucenti. La coda s’allungava nel buio oltre l’ara, in vortici, in tortuosi turbini.
I bacili dell’acqua lustrale erano fessi sull’orlo, ma pieni ormai d’acqua piovana e maculati dal muschio sul marmo opaco.
L’aria, greve, stagnava fra le colonne possenti che reggevano ancora in parte la volta, come grandi alberi la chioma nell’impenetrabile foresta. Dall’alto il crollo di qualche troppo ardita arcata lasciava filtrare una scìa di raggi che si fondevano in un lucore sulfureo con le fiammelle guizzanti del rito sabbatico.
Poté così notare alla sua sinistra un grande affresco, di tra le colonne, ora vivido stranamente, come appena dipinto.
All’estremità d’una radura sorgeva una roccia simile a un pulpito, circondata da quattro pini ardenti, la cui cima crepitava esalando un fumo acre e denso. Intorno il fuoco gettava sprazzi di luce che rivelavano una folla numerosa, nel cuore di quella selvaggia solitudine.
Un inno lento e solenne si levava da quell’adunanza misteriosa. Un canto malinconico, pio in apparenza per la musica conforme alle sacre cerimonie, si manifestava, man mano che se ne distinguevano le parole, un’orribile litania di bestemmie. E tra una strofa e l’altra, il coro muggiva bestialmente quasi il rintronare d’un organo potente, e un boato s’effondeva ed echeggiava per la selva fondendosi con il crosciare dei torrenti e l’ululato dei lupi.
E il fuoco che fremeva sopra la roccia s’aperse in una vampa del colore del sangue, e apparve un’immagine sinistra, l’ombra d’un uomo nerboruto e gigantesco.
E come dalle montagne s’ode il cupo rombo del tuono e i venti trascinano con sé il livido manto delle nubi che cala sulla pianura quale una valanga tumultuosa, così la sua voce cadeva dall’alto.

Mauro si destò improvvisamente dal sonno, sudato e tremante, e dopo alcuni minuti, quando scorse i primi raggi del sole penetrare nella stanza attraverso le fessure delle persiane, allora si rese conto che era stato tutto un sogno.

Allora affrontò la luce del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria di giochi femminili.
Più lontano gruppi di fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo cuore.
Continuò a camminare lungo la riva.
Un impulso insolito lo spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni, era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui, serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte, giovane e immortale.
E inerpicandosi per il sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini. Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia innitrendo.
La foresta si risvegliava. Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò. Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il volto?
Respirò profondamente. Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo, come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti, dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli uomini.
Potentemente e prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù, nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso, disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il cammino.
Più fitta era la vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della montagna.
E quando vi giunse, vide alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una ricchezza inattesa.
E il sole irradiava, splendido nella sua forza.
E a lui parve di trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita. Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del dio!
E guardò le nubi a occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
Ma tardo, al fine m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni, che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne anch’egli un puro elemento.


Nell’ombra smarrendosi, dissolvendosi, errava verso brume lontane, diffuse nelle vallate, sorgenti tra rocce livide, bramose di tempeste. Laggiù gracchiavano corvi, rumoreggiavano acque. Un sordo tonare saliva dal grembo della montagna. Sparsi fuochi levitavano sagome danzanti e minacciose, e strida acute aleggiavano di rapaci notturni.
Forse fughe tra rami contorti, nel folto dei boschi, forse rapite estasi ed inni di gioia selvaggia gareggiavano coi vagiti e i mugolii delle tenebre. Strane note d’ignoti strumenti scaturivano dal profondo, dalle macchie nere sotto i dirupi, dalle gole nascoste alla luna.
E il mare, selvaggio e crinito, urlava contro le rocce, laggiù nell’oscurità, a tratti inluminata dalla lampada notturna, quasi dietro le nubi frante sorgesse erta da un braccio misterioso. Urlava e sibilava, un tortuoso immane serpente verde, un drago dalla cresta irta e biancastra, fluente chioma incolta.
Nel vago lamento sorgevano, fra i vapori salsi, fuochi sulfurei, un corteo sinuoso saliva per il pendio, una nenia rotta da improvvisi silenzi avanzava, scaturita dal gorgo profondo, un mistico coro ascendeva dai meandri di una stigia palude. Nel folto dei canneti echeggiava un uluco maligno. E il grido si mesceva al roco afflato delle onde perse.
E perso egli era nell’ombra cupa del suo destino, un rigagnolo dilungantesi nel fango e tra le zolle cespose e pallide sotto la luna esangue. Forse anch’egli fatalmente volgeva a cogliere ingenuo i grani purpurei della punica mela e a inghiottirli, per sempre nell’abisso della propria condanna ?
Rispose un nero tuono, e fremette vacillando come all’aprirsi d’un baratro sotto di lui.
La nebbia ribolliva intorno alle rocce, i nembi sorgevano attorti e solidi sotto di lui, bianchi e sulfurei, quasi schiuma da frementi oceani del cupo inferno, i cui flutti s’infrangono sul lido vivido, sparso di sassi come teste tronche di dannati.

Gli parve che il suo corpo immoto si allontanasse alla deriva in una barca nera senza remi né vela, come una bara. La chiglia gorgogliava sovra l’elemento denso, una palude appena schiarita da una luce malata. Gli parve che quella palude non avesse fine.
E nera alitava la notte e la spuma e i vapori incalzavano i fianchi del legno, incubi e spettri sotto il volto incredulo della luna.
La luna si rifletteva, pallida come una donna isterica, sul deserto liquido. I venti del sud inaridivano i fiori dei giardini. Si sfibravano le corolle e marcivano le foglie nelle fontane occluse ed impure.
La luna fissava una desolazione di rocce e di zolle disseccate, una vampa mortale soffocava ogni anelito. Il suo volto rifletteva il pallore della luna, ove si specchiava sulla riva del mare una donna dai lunghi capelli, come manto di ombre. Un velo violetto incupiva le sue palpebre inferiori, la chioma le oscurava il collo, scendendo morbidamente sulle spalle. Le sue pupille parevano volte all’astro delle tenebre, un’atmosfera fosforica la cingeva in un abbraccio.
Come un fiore notturno la luna inebriava di sé il mare tumultuoso e vasto quanto il desiderio degli uomini, una malìa si librava sovra le spume.
Quel morbido candore, quale di pelle bianca e profumata, la incoronava. L’iride verde dei suoi occhi riluceva similmente al grembo ignoto delle foreste quando è violato dai raggi diurni o alla palude di terre nebbiose quando il sole rompe il cielo plumbeo o agli occhi verdi dei gatti quando gemono sedotti dalla luna.
Ella osservava la pianura del mare biancheggiare sotto la luna, specchio dello specchio del sole, e i suoi occhi come smeraldi erano accesi d’una luce misteriosa e in essi si protraeva la vita infinita di quell’immenso respiro glauco.
Era forse un angelo sorto dalle acque, che ha conosciuto i segreti della tomba e ha dimorato in mari profondi insieme al suo giorno tramontato e i suoi occhi sono colmi, come abissi, di tutte le distruzioni del mondo e le sue palpebre sono stanche di tutte le passioni e le bellezze morte, ed ella è antica più delle rupi sulle quali posa il suo piede ?
Aveva il suo piede sfiorato i gigli delle valli, e aveva deterso il suo corpo avvolta nelle correnti generate senza posa dalle montagne e si era coricata sovra i fiori anelanti dall’oscurità della terra, e la sua mano aveva rapito i frutti dalla vita dei rami, e la sua bocca aveva morso la loro ricchezza.
Aveva il suo piede varcato la soglia della morte e aveva condotto la barca delle anime sopra il mare tinto di sangue ad un’isola senza nome, corsa dallo strepito degli avvoltoi. E la chiglia solcava quel mare violaceo quale sangue corrotto, e i dannati gemevano, naufraghi nell’ombra. E imploravano, e imprecavano, dispersi fra i gorghi, e chiamavano inutilmente.
Era la luna che l’aveva resa così pallida, un sentore divino l’avviluppava in un vapore sottile. Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri. Nella notte profonda il suo respiro era il gemito delle fonti nei boschi e il pianto della brina sull’erba dei maggesi, e il mormorio delle acque e dei venti per le giogaie, e una fuga nelle nebbie sovra i dirupi.
Aveva ella il potere di suscitare le tempeste, di vagare invisibile per i villaggi, di mutarsi nelle forme degli animali.
Come luna tra rocce un sorriso irradiava di lontananze ignote, chinando la sua fronte carca di purezza notturna. Di mitici pallori riviveva tutte le primavere spente, Regina adolescente, taciturna e spersa nell’oceano dei sogni.
Così a lui apparve nell’alone della luna, cinta dall’astro quasi da lei ricevesse la luce.
Una barca lunga e nera, ombra sulle acque, si avvicinò alla riva. Ed egli era ormai pronto al varco. Come dunque ebbe i piedi sul legno, la barca scivolò via per le profondità, quale una serpe d’acqua, fendendo le onde con un lieve sibilo.
E navigava lontano, nel tempo e nello spazio.


















IX









Al ritorno, mentre percorreva il viale, tra i fiori e le piante ombrose, vide innanzi alla porta una bambola abbandonata che lo fissava con occhi azzurri vividi e vitrei, coronata di ricci d’oro e di nastri rossi, vestita di raso verde. Come un idolo, custode del tempio, se ne stava all’entrata. E la porta, di legno scuro, pareva celare segreti e un mondo ignoto.
Ricordò che Misandra, appena uscita dal collegio, era stata affidata al conte, come appunto una bambola tolta di recente dalla vetrina d’una bottega di giocattoli, e il marito l’aveva idoleggiata e coccolata proprio come si fa d’un dono vagheggiato per lungo tempo, e gelosamente custodita. E in effetti, quasi a confermare il simbolo, la stanza prediletta da Misandra era piena di bambole, sui divani, negli armadi e sovra mensole alle pareti. E la bambola dagli occhi immobili e glaciali lo teneva alla soglia, lo impietriva come Medusa.
Come gli era impedita ormai l’entrata alla villa, Mauro decise di recarsi alla spiaggia, poi che il sole ancora tiepido si coricava mollemente sulle acque e sopra le ombrate riviere.
Quando fu alla riva udì una compagnia di fanciulle ridenti che scherzavano tra loro e la loro voce era una gioia di rondini in cielo.
S’adagiò sulla sabbia e sui ciottoli, e, nel blando tepore del tramonto, fu colto ancora da un profondo torpore simile a un sonno inquieto.
Nell’acque scorgeva il volto di mille uomini e donne, che lo miravano, inchiusi in quell’utero. Ed era un seguito di donne denudate, dai fluenti capelli neri, dal corpo pallido e saldo quasi avorio o candido marmo in cui sbocciavano le rose del grembo e neri crini velavano l’inguine. Ed ecco una donna dalla copiosa forma, dalla selvosa criniera rossa intrecciata di viole, che sorrideva ammaliante attorcendo le ciocche fulve tra le agili dita. Ecco una donna pingue, dalla capellatura adorna di preziosi, e ricca d’anelli, d’armille e di collane, dalla larga gola, dai seni flosci, dall’andatura imponente, dal cipiglio sovrano. E poi una vecchia, vizza e sul capo una trina di fili d’argento, dall’orbite incavate, dalle guance affossate, senza labbra. Una stoffa nerastra le copriva la sagoma, ma le si intravedeva un seno, un bulbo duro.
Una figura abbagliante, quale ambra irradiata, gli rivolgeva un sorriso e nel contempo si ravvolgeva nell’oscurità d’una selva buia e selvaggia, che solo un chiarore di luce aurorale timidamente violava.
Un leone gigantesco era ai suoi piedi, immerso nel sopore. Le grandi zampe giacevano immobili, soffici adornamenti in un tappeto vivente, la folta giuba si offriva come un morbido cuscino. Ella vi depose il suo candore, che tanto contrastava con l’irsuto pelo della fiera, e si addormentò, mentre la folta e lunga chioma si fondeva con la pelliccia brunastra.
Una nube fiottò da un incensiere. Una donna, vestita d’una stola bianca che le celava i piedi, si dispose poco discosto. E curiosamente lo guardava, maliziosamente, quasi che per la prima volta vedesse un uomo. Aveva un viso rotondo, le guance rosee, gli occhi neri e grandi, le sopracciglia lunate. La capellatura era raccolta e nera come la notte.
Sopra marmi puri, statuaria nella perfezione della sua nudità, una donna bellissima, dai crini crespi d’ebano, dalle ciglia ombreggiate di sopra al lungo taglio degli occhi, dal collo cinto da un colletto di triplice giro, sorreggeva con il braccio sinistro, all’altezza del capo, un pomo di bronzo, sul quale era infitta una vittoria alata, anch’essa di bronzo, che suscitava una singolare impressione, così com’era sollevata dal biancore di quella mano.
In un’altra icona, una femmina rossa, cui due bande di rubra criniera nascondevano le spalle e la parte superiore del petto, tranne le mammelle, nuda, nella mano destra una lente dal manico argenteo, lo fissava, appena svelando l’avorio dei denti tra tenui labbra avare. L’iride grigia sotto i sopraccigli era pervasa d’una luce crudele. Un pitone le vorticava intorno alle gambe.
In una seconda icona, in primo piano sovra uno sfondo d’alberi d’oro, una signora magra e leggiadra, dalla capigliatura cotonata, dalla carne delicatamente olivastra, dalle gote toccate da un soffio di rosa, socchiudeva gli occhi quasi in estasi. Le si vedevano gl’incisivi eburnei tra labbra un po’ riarse. Il collo era chiuso da un monile spesso, dorato e ingemmato, ma suggeriva il collare d’una schiava.
In un’altra icona, una dama semicurva, dalla chioma nera raccolta ma leggermente slacciata, schiudeva a metà palpebra, come una morta, l’iride castanea risaltata dall’ombretto. Un falso neo era apposto sullo zigomo sinistro. Il profilo del viso era mirabile, il naso sottile, lievemente incurvato, e un poco all’in sù sopra le narici voluttuose. Un’abbondante stoffa di tinta fosca di cenere calda, quale piumaggio di fagiano, le lasciava scoperte le coppe delle mammelle, corrette sotto da una striscia di seta. Quanto al resto, si mostravano solo le mani sottili e nervose, con i polsi inanellati, e la sinistra reggeva tra le dita attorcigliati i capelli d’un capo mozzo, dalle palpebre recluse. Alla base dell’icona era scritto : “ Giuditta “.
In un’alcova intima, tappezzata di velluto grigio piombo, impresso di fantasie verdecupo, dalla volta in lacunari, era un divano mascherato da una ricca copertura a fiorami, e sopra era una giovane dall’opulenta chioma, scriminata e rattenuta da fermagli in figura di conchiglia. Aveva orecchini di corallo che assorbivano l’incarnato delle labbra, collegate al naso breve da un breve solco. Gli occhi, grandi e grigioverdi, risaltavano sotto morbide ciglia non lunghe, com’è proprio del tipo biondo, e sotto una fronte seminascosta dalla fronda castana. Tra le spalle e il collo delicato, una lunga collana di coralli rifletteva il fascino dei labbri, posando sopra una pelle luminosa che s’alimentava del calore di quella chioma. Una veste, che pareva aver colore dal corpo che ospitava, se ne allontanava in doviziose pieghe ed enfiature eleganti, le maniche erano strette all’omero da un nastro, sul quale erano fiori di stoffa dal pistillo rosa e dai petali color seppia. Il tessuto era disegnato di larghe foglie di piante ignote che rifrangevano nel loro smalto la malìa di quel viso fatato e di quella fronda prodigiosa. Da esso uscivano tenui dita, l’una inanellata d’una pietra cinerea, l’altra d’un castone di rubini splendenti.
Gli pareva così di posare tra fiori rossi, immerso in una trama di steli, di respirarne il profumo e sognare.
Sotto i raggi filtrati fra i rami fronzuti s’estendevano tappeti di fiori rossi, papaveri forse o tulipani, tappeti di fiori purpurei o color ciclamino, dovunque variamente sfumati alla luce sinuosa. Attraversava la foresta dagli alti tronchi bruni, e, tra le sagome degli abeti avvolti dalla nebbia, saliva alla vetta, verso i bianchi ghiacciai. Le nebbie si diradavano e appariva l’immenso dorso irto d’abeti lucenti, e udiva il canto dei ruscelli perdersi nell’infinito sogno. Tra le gore limpida luceva l’acqua gorgogliante, e, in alto, le nubi rade transitavano, passeggere curiose, e svanivano. Scendeva al sentiero variamente maculato d’ombre e di luci, poi passava per un boschetto di querce frondeggianti, e divagava di via in via, ora dirigendosi verso la valle, ora risalendo, ora soffermandosi a mirare il paesaggio, ora affrettando il passo. Nel silenzio si estendevano le catene dei monti, sopra le nubi, nell’aria più pura d’un cielo sopra il cielo. Erano veramente la dimora degli dei ? A che altro era nato se non che ad innalzare l’anima a quel cielo puro e azzurro, in una solitudine inviolabile ?
E intorno, sul bosco schiarito dal pallore di migliaia di anemoni, soffiavano i venti gelidi dell’inverno sopra i rami agitati dagli sbuffi, e la corrente carpiva il sentore dei narcisi, che flettevano il capo quasi tenere fanciulle etiche, minate dal freddo mortale. Procedeva allora nella foresta, alla deriva come un’imbarcazione liberata dall’ormeggio, fino a che, colpito dal colore giallo vivace dei gelsomini, s’arrestò innanzi a un casolare di pietra, che n’era adorno.
S’appoggiò al tronco d’un giovane pino che fremeva al vento come dotato di vita animale, mentre il sole illuminava la casupola, ricoperta di un mantello di muschio. Nel cielo una solitaria nube nera s’elevava come una torre in fronte al sole possente. La massa grigia s’attenuava e svaporava in alto in un baratro di luce ignota. Quali mondi s’estendevano al di là di quelle mura ? Forse i sogni negati alla giovinezza, liberati dall’incantesimo dell’esistenza, s’avvicendavano in un incessante prodigio. Sciolti i legami della misera vita, egli avrebbe potuto laggiù esplicare l’infinito potere dell’animo e della fantasia senza confini.
Sin dalla prima giovinezza il suo spirito non camminava insieme alle anime degli uomini, né guardava sopra la terra con umani occhi, la sete della loro ambizione non era la sua, né lo era lo scopo della loro esistenza. Le sue gioie, i suoi dolori lo rendevano uno straniero, egli non aveva simpatia per la carne umana, la sua gioia vera era nella natura selvaggia, nel respiro dell’aria aspra delle vette innevate, dove neppure gli uccelli hanno il nido e donde soltanto scaturiscono dalla loro culla i getti dorati delle sorgenti, precipitandosi in luminose cascate nell’aria frizzante del mattino.
Era dentro di lui una forza misteriosa che lo spingeva a procedere nell’oscurità, nel deserto dell’esistenza, senza una ragione, senza un qualsiasi fine, senza alcuna gioia.
Sul suo volto si scorgevano ormai i segni del male. I suoi occhi erano colmi di una febbre velata a tratti da ombre di quiete che pareva spegnerli per poi accenderli di una acuta ansia, di un sorriso talvolta, freddo come un ghigno.
Egli era un essere solitario, isolato, oscuro, immerso in un sogno d’odio, d’orgoglio inappagato, in un esilio disumano.
Le teorie delle regine maledette lo circuivano dietro le lusinghe del serpente, chimere mortali, terribili, delle acque insondabili, degli spazi inviolati, delle ombre e dei sogni, che coprono con le loro volute insidiose il fondo della nostra vita, del Mistero.
E il Mistero si rivelava dopo i primi smarrimenti. Egli era consapevole ormai che, oltre le immagini ingannevoli che parevano deviarlo per la via della vita, una irresistibile forza agiva in lui come un destino.
E quella forza era lui stesso, nella violenta volontà di essere se stesso, nella brama di vivere la sua vita, specchio di se stesso.
Sentiva la propria solitudine e l’esclusione da un mondo cui non apparteneva.
Si volse a contemplare da lontano la piana delle correnti cerulee. La sua pupilla si perdette in orizzonti sconosciuti, per i quali aveva osato il viaggio nella stagione della sua primavera, isole immense trionfanti di intrichi selvosi e di labirinti turriti e d’arditi archi su vertiginosi baratri.
Ove aveva corso coi centauri sulla riva del mare mugghiante e al vento acre, ove aveva assistito alla furia dell’eroe contro lo Scamandro, o al volo dei corvi di Odin, gracchianti tra le nubi porfiree nei tramonti boreali, o al tuono e agl’inni tenebrosi delle vergini guerriere, ascese nel turbine della tempesta, laggiù voleva tornare.
Un alone violaceo lo cinse, poi che il sole all’orizzonte declinava dietro un velo di amaranto. I gabbiani volteggiavano fra i vapori nell’indaco della veste ombrosa.
Sopra la collina, che invadeva le onde come un’immensa testuggine, era un fiore bianco.
Presto un agile centauro dalla chioma fluida che si smarriva nel vello bruno del petto e gli inondava le spalle, una virente criniera lungo il dorso arcuato, balzò sino alla cima, rotando la coda come un flagello. Sorreggeva col braccio destro un corpo pallido, esangue, sul quale s’allungava un manto verde lucente, quali sono le sponde delle fonti nei campi solitari, ove cresce l’agnocasto e il lauro, e sull’orlo del manto una lista scarlatta di crisantemi declinava per le gambe eburnee. L’anca era stretta dalla mano nervosa del centauro e il torace poggiava sovra l’omero destro del vasto animale, il capo adagiato alla gota sinistra aveva la bocca socchiusa, livide le labbra. Una corona d’alloro era sulla fluente chioma castana, striata di venature dorate. Pareva trasumanato nell’effusione dell’ultimo canto, celebrato il sogno estremo. Un sangue nero colava sulla carne di neve, sotto le ciglia dormivano i suoi occhi.
Il centauro lo conduceva alla sede degli dei beati ove si perpetua la giovinezza, per poi nascondersi nuovamente nell’oscurità delle foreste.
Nelle foreste, dove rombano i fiumi e imperversano i venti, esso galoppa furente di forza e la sua voce s’unisce a quella di tutti gli esseri, divini e ferini. La sua voce è una eco della possente voce dell’Oceano dei secoli antichi, la sua forza serve il dominio del grande Dioniso.
Ormai il sangue del cielo s’effondeva intorno al disco del sole, e le montagne si coloravano di cupo azzurro e confondevano le loro pendici col mare.
Lungi s’alluminavano le minuscole città, ignare.
E i timori degli uomini morivano nelle loro tane, inesperti del terrore sconfinato che urla sovra le rupi dei precipizi, che sibila sulle cime, che schianta gli anfratti dei promontori. Lo conoscono le aquile, che di tanto superano gli uomini, e le volpi che li ingannano, i camosci audaci e le vigili marmotte pronte alla fuga.
E così moriva nel vasto tramonto il poeta, il suo sangue s’univa al sangue del crepuscolo che si sfibrava in striature, in velami tinti di ciclamino, sottesi d’un’orditura d’oro.
Ma lontano, nella città, la paura si coricava nella notte degli uomini.







X







Come si destò dal lungo sogno, gli parve che dovesse essere ormai notte. Ma il sole era ancora alto nel cielo.
Si trovava sulla spiaggia, oppresso dalla calura.
Si mosse e s’avviò per tornare alla villa e, mentre era in cammino, incontrò nuovamente la fanciulla di prima, questa volta di fronte a lui, e i suoi capelli bruni mossi dalla brezza le ricadevano come arabeschi sulle spalle morbide e bianche.
Nei suoi occhi vide il riflesso dei laghi alpini dove si specchia il sole, e un fremito di esultanza lo pervase come il vento un abete sui monti.
E la disperazione del desiderio lo catturò crudelmente senza scampo. Era la tempesta che scendeva con fragore dalle vette sino alla valle, giù turbinando per le pietraie, levando nugoli di terra arida, con un rombo per le gole fra le rocce echeggianti. Un tuono, un urlo terribile prorompeva fra le ardenti giogaie frustate dai fulmini. Sentiva in sé allora il tormento dei desideri e della volontà, la tempesta senza fine delle passioni, la tortura della vita.
Gli parve che anch’ella lo guardasse. S’infiammarono le guance e il pallore subitaneo mise in fuga il rossore. Il viso le s’irrigidì, concitato dall’ira. “ Dove mai la sanguinaria mènade è precipitata dall’amore spietato ? Qui e là dirige il passo, come una tigre orba dei nati con corsa furente percorre la foresta intorno al Gange. Non sa frenare l’ira, non sa por fine agli amori; ora ira ed amore han fatto causa comune : quale sarà l’effetto ? “
Proseguì dunque con l’amarezza nel cuore attraverso le alte palme ondeggianti al soffio dello scirocco.
Lunghi cespugli di rosmarino profumavano l’aria, alberelli di iucca innalzavano ancora tra le lunghe foglie spesse, di un verde lucido, i resti della loro bianca fioritura.
Il pomeriggio avanzava e si caricava dei cupi presagi della sera, svelati da nere nubi che facevano capolino tra i monti. Un senso di oppressione toglieva il respiro e il ricordo di dolci visioni. Ma come fu al cancello della villa, allora si dileguò per lui ogni minaccia di tenebre e un nuovo sole illuminò il suo volto, mentre il sole del giorno volgeva ormai al tramonto e copriva di un aureo velo l’edifizio e il giardino, trasfigurandoli.

Così, regina del mondo dei sogni, Misandra lo attendeva sulla soglia del suo palagio d’oro.
Come una principessa delle fiabe, vestita d’un lungo manto dei colori della primavera, ella lo attendeva sul più alto gradino dell’alta scalea.
Il vento soffiava forte sul mare e le nubi roteavano, mentre Mauro saliva timoroso e lento la gradinata, ma nel suo cuore s’agitava il turbine. E invero era immerso ormai nella corrente inestinguibile, e il suo volto si protendeva, per non più volgersi, verso colei che attendeva.
Ed ella irraggiava tutta la potenza dell’amore, più forte del tuono e del lampo. Potente regina vittoriosa, ella dominava le tempeste.
Ascendeva in vortici la musica onnipossente della natura ed empiva di sé inebriando l’ampia volta del cielo.
E gorghi e vertici e flutti dorati si tendevano con la forza d’un arco temibile a scoccare lo strale del loro immenso respiro. Viveva ogni creatura in quell’anelito, a quell’abbraccio gaudioso e ineffabile correva a dissolversi.

Così al tramonto d’oro lo accolse Misandra, e per lunghi corridoi lo condusse infine a una grande sala. I cortinaggi erano aperti e la luce rossastra illuminava le pareti. Su una di esse risaltava un grande ritratto d’epoca secentesca, il cui soggetto era un cavaliere ornato di corazza nera e lucente, avvolto in un ampio mantello purpureo. Alto, bruno, teneva la mano sinistra sul fianco e con la destra reggeva un bastone d’avorio. La spada risaltante di riflessi dorati gli stava alla sinistra, l’elsa finemente lavorata lasciava scorgere un mirabile intrico di arabeschi. Lunghi capelli neri gli cadevano sulle spalle, smossi dall’impeto della battaglia, la fronte alta e pallida rifletteva un chiarore perlaceo. Sotto le sopracciglia sottili e nere, occhi penetranti e minacciosi insidiavano qualunque sguardo con sfida beffarda e crudele, né parevano potersi eludere, ma seguivano chiunque fosse entrato nella sala. La loro tinta era indefinibile, d’un castano variabile a seconda della luce, ora chiaro, ora scuro, l’iride infatti mutava secondo i raggi, poi che il pittore l’aveva dipinta con capricciose sfumature. Le fattezze del volto erano nobili e ferme, le labbra rosse.
Misandra si fermò innanzi al quadro, né parve più accorgersi del suo ospite. Mauro perciò ebbe fretta d’allontanarsi e si diresse verso la porta, ma, colto da un moto di curiosità irresistibile, si fermò sulla soglia e stette a guardare.
Il dipinto non si trovava a grande altezza dal suolo, ma al livello più o meno di chi lo ammirasse, Misandra gli si avvicinò affascinata e senza alcuna esitazione, quasi fosse ormai un’abitudine, lo baciò sulla bocca. Quindi si ritrasse inebriata e come avesse perduto il senso del tempo e del luogo in cui era.
Perplesso, Mauro si ritirò rapidamente e raggiunse la propria stanza.
Nella camera era posto un grande armadio a specchio. Non poté fare a meno di guardare e vide la sua immagine riflessa, ma stentò a riconoscersi.
Chi era mai quell’uomo dagli occhi fissi sopra di lui, implacabili e dotati d’una straordinaria energia ? Pareva un demone appena uscito da una nube nera, circondato da un’aura di possente mistero. Lo fissava sogghignando, sarcastico e crudele, con le braccia incrociate, che sembravano dotate d’una forza immane, pronte in un balzo di belva a dilaniare.
Era proprio lui quell’individuo così terribile e minaccioso ? Ne ebbe paura. Una paura folle, senza rimedio. Quella era la vita interiore, profonda, oscura, invincibile, che gli toglieva ogni speranza, ogni illusione di equilibrio e di pace. Non voleva, non desiderava essere così. Aveva orrore di sé medesimo, della vita caotica, tumultuosa, che s’agitava entro di lui come magma pronto a esplodere, a scaturire, a distruggere. Aveva una folle paura di quella vita, ma quella vita era vera ed innegabile. Aveva paura, temeva le proprie azioni, temeva che qualcosa gli sfuggisse, lo tradisse, lo rivelasse a se stesso e agli altri. Temeva il buio della ragione. Avrebbe voluto che ogni suo atto fosse sotto il suo controllo, che ogni minimo atto fosse frutto di riflessione, di ponderazione, sino a potersi vedere, valutare, dirigere come un abile arbitro dirime e giudica o un esperto regista governa gli attori, così avrebbe desiderato osservarsi sulla scena del mondo. Ma era follia, follia per assurdo, volersi opporre alla follia stessa. Non s’accorgeva che la pazzia è il frutto di un eccesso di ragione. Ma la vita, la vita ! Questa terribile malattia !
Come avrebbe potuto affrontarla, come avrebbe potuto sostenere il peso ognora crescente dei giorni, sempre uguali, sempre diversi, e ognuno col suo costante bagaglio d’affanni, di tormenti, di delusioni ? Non aveva più forza per vivere, eppure era trascinato da un impeto oscuro, ed ella era là che lo attendeva, lo guardava e talvolta gli sorrideva. L’enigma della sua bellezza lo sconvolgeva, ah, era sempre più bella e sempre più lontana !
Ricordava brani di sogno, immagini volitanti nella mente come brandelli di fogli stracciati . Era quella che gli diceva : “ Le tue dita sembrano aghi. “ Ella gli parlava in un’ombra, entro una vasta cava ove risonava l’eco del mare.
Allora si volse e vide una navata immensa e in alto una cupola tra le nebbie dell’incenso e nel centro una gigantesca vasca marmorea ove nuotavano grandi tartarughe marine. E la donna, dagli occhi furtivi quale vigile gazzella, a lui diceva parole sommesse come onde di lago silenziose : “ Seguimi, ecco la via del serpente. “
Così disse a lui la donna e lo sedusse per la basilica immensa dove echeggiavano i canti delle acque crepuscolari. Color d’opale, uno specchio sorgeva a riflettere, occhio imperscrutabile, le alterne ombre e le onde vive.
Le ombre di mondi lontani, le ombre in lontani tramonti ove si riflettevano gli echi di cori oltremarini, le voci dei sogni d’infanzia e dei sogni mai sognati, un fluttuare impetuoso, onde di voci impetuose in vortici di luce si rifrangevano sulle coste rocciose d’isole incantate dove nell’ombra sorgevano altissimi castelli neri in fronte all’immenso tramonto. Un susurro si riversava sulle rocce d’acque lucenti e pure come voci di bimbi, i sogni mai sognati prendevano vita in un calice colmo d’incanto. Un inno s’alzava verso il cielo, un inno di luce eterna. E quel canto planava quale alato solitario sulla piana del mare, nell’alito dell’oceano s’allontanava tranquillo verso l’orizzonte, un’anima che vola verso la sua meta, verso le promesse che attendono tutte le nostre speranze.
Un’ombra si dileguava all’orizzonte, nell’abbraccio della notte, nel sogno della morte.











XI




Un cigno scivolava sulle acque plumbee. Nell’oscurità risaltava la sagoma bianca, alla luce della luna. Così scivolava la sua immaginazione per le remote contrade del desiderio. Sognava un mondo di sogni, come sempre.
Coricato sul letto, era avvolto da un alone misterioso, un velo, una nebbia bianca e splendente. Era già pronto per il lungo viaggio ?
Come al solito non si rivelava pienamente a se stesso. Rimaneva incompiuto e attendeva sempre che un evento esterno, una forza estranea gli rivelasse un aspetto del suo spirito che fino ad allora egli aveva ignorato. Era mentalmente pigro, come un ciottolo giacente sul fondo del ruscello che può smuovere soltanto il maggiore impeto della corrente, così era, un essere inerte ma sempre mutevole.
Occasionali compagnie, amici d’un giorno o poco più, negli anni giovanili avevano un poco smosso quel sasso. Ora, avendo appreso chi era, anche in parte, considerava se stesso con stupore. Non era certamente come gli altri, ma apparteneva, per così dire, ad una razza diversa.
La vita lo chiamava, insistentemente, prepotentemente.
Si sentiva ordinato a un nuovo sacerdozio, a una consacrazione quale mai prima i devoti del suo paese avevano concepito, o della quale, se mai vi avessero pensato, non potevano che avere un’idea vaga e terribile.
Sulla spiaggia correva il suo spirito, incessante. Più antico della sua vita, carico degli anni di molte generazioni, lieve perché sempre rinato, come un corsiero anelava ad orizzonti di promesse, a sogni che si perdevano in ogni lontano tramonto.
Avanzava entro foreste millenarie, ansava su per i dorsi dei colli verso le ampie giogaie montuose. Quale corsiero, sentiva pulsare più forte il cuore. Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al suolo aspro e roccioso di quelle alte montagne, dove s’udiva soltanto il vasto respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano dall’inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E infine, stanco della corsa, si arrestò presso il tronco d’un alto larice. E all’ombra dell’essere silvano riposando, s’addormentò e di nuovo continuò a correre tra nuovi sogni. E vide una figura di donna che fuggiva, e aveva occhi cupi come abissi, e fuggiva verso un tormento di grida. Avvolta in un manto nero si fondeva con la tenebra d’una valle notturna cinta di rupi. I capelli brillavano al lume della luna, che pareva tingersi di una tinta sanguigna.
Ella incedeva tra grandiosi ruderi d’un antico tempio, le cui mura ed arcate erano rivestite d’un intrico di piante rampicanti e parassite, e di edere che tremolavano alla brezza. Alte, massicce, imponenti le rovine ricevevano sull’ampio dorso i raggi torbidi e prolungavano l’ombra cieca nella violacea penombra.
I suoi occhi, volgendosi al tempio, riverberarono lo scintillio di molteplici fuochi, che roteavano entro le volte risonanti di soffocati stridori. Mentre avanzava, un esercito innumerevole di ignobili forme la circondò, gorgogliando insieme ai rospi della vicina palude una sorta d’inno incomprensibile che s’alzava al cielo come il borbottio di mille pignatte ribollenti.
Come entrò nella navata, echeggiò il murmure marino. Le parve che ogni altare brulicasse di devoti sacrificanti. Il fumo acre dei sacrifici, misto ai vapori dell’incenso, vagava quale nebula per la cavità innervata di colonne e d’archi a ogiva, che scandivano l’ampio spazio prolungantesi verso l’abside. Su ogni altare ogni dolce passione si dissanguava in un bacile bianco coi polsi offerti ai volti immoti di remote divinità troppo a lungo ignorate. Una nenia sussurrata e soffocata si perdeva al di sotto degli architravi.
Talvolta s’intravvedeva il bagliore della lama in mano al sacerdote, che calava fulminea sulle carni deboli di qualche vittima sventurata, inconsapevole. Allora s’avvertiva un gemito sordo, assorbito dalla terra.
In fondo, dietro la balaustra di porfido, scintillava d’oro e di gemme un trono. Una donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e dalla copiosa chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo lucente di smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di preziosi le posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e di rubini le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui fianchi da due lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale sedeva, levato sopra la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La bocca era lievemente improntata a un sorriso, che non era di comprensione o di amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. Gli occhi grigi erano profondi e freddi come la calma dei mari settentrionali pervasi dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto segreto dell’amore.

Il desiderio lo colse improvviso, inevitabile, irreprimibile. Sentiva il proprio corpo avvolto da una spirale di voluttà di cui era totalmente prigioniero. Era impossibile sottrarsi. L’idolo vagava per la stanza e per i meandri della sua mente. Quell’immagine era ormai dappertutto.
Destatosi, anelante, s’affacciò alla finestra, l’aperse e, nella notte, guardò verso l’altra finestra, ancora illuminata, di Misandra.
La camera era a lato del chiostro, di fronte proprio alla sua.
Non vide nulla, neppure un’ombra. Allora immaginò di vederla, e gliela dipinse vivamente la lussuria, mentre adagiata sul letto lo invitava tra le braccia.
Ed egli si saziava del suo corpo, ammaliato, stordito, ebbro. I suoi occhi non vedevano se non gli occhi di lei che lo fissavano, e le membra di lei palpitanti, bianche e rosee, e i lunghi capelli sciolti sul dorso e nell’ombra intorno.
Gli occhi profondi e verdi inghiottivano la sua coscienza come abissi marini.
Le spire del piacere lo conducevano, lo traevano giù. Egli ansimando effondeva le proprie forze con uno spasimo.
Ed ella lo accoglieva. Le braccia lo cingevano strettamente, si avvinghiava a lui, lo tratteneva, lo vincolava, lo possedeva.
Sentendosi soffocare, Mauro dischiuse le palpebre che l’immaginazione aveva catturato, e si meravigliò del silenzio e del vuoto. Non un alito di vento nella notte, non rumori di servi, non lamenti d’animali, lontano, nella boscaglia.
Ma, nella boscaglia, la luce della luna giocava coi rami torti e silenti, lunghe nodose braccia che si tendevano nell’oscuro ansimo dell’ora. Corpi nella notte s’avvinghiavano, si torcevano, si fondevano nell’abbraccio e apparivano in barlumi improvvisi, madidi e lucenti e misteriosi come palpiti di fiamma nel cuore della tenebra.






XII




La Volontà era il fremito del tuono e il baluginare dei fulmini. La minaccia, che scaturisce dalle profondità del cielo e dalle viscere della terra, planava come un rapace nero nel vento freddo sopra le valli, e a Mauro sembrava d’esserne annientato e che folgorato si disperdesse crepitando in cenere accesa. Lo sguardo pallido dell’uomo si volgeva al cielo. Nella notte il suo capo si sollevava appena dalla terra, in alto il lampeggiare d’una parola terribile segnava forse la condanna senza appello. “ Se sono tuo figlio, perché mi hai consegnato alla disperazione ? ”
Un’informe testa di toro s’alzava dalla bruma fangosa sotto il bagliore sinistro, mentre il sole scardinava i cancelli dell’oceano e fugava imperioso le schiere impaurite delle tenebre. E pur se l’aurora annunciava la fine del temporale notturno e la vita degli uomini si ridestava alle cure consuete, egli pensava all’esistenza volgare e alla propria morte, inevitabile. E pensava di essere già morto. Ora, che differenza avrebbe fatto ? Non siamo forse tutti già morti ? Il nostro languido soffrire e traballar sognante attraverso le quattro età della vita, invasi da immagini triviali, segna un percorso ben strano che non conduce da nessuna parte, infine ci dileguiamo come foglie secche, e la polvere il vento trascina via. Gli uomini somigliano davvero a orologi che caricati procedono senza sapere perché e nel moto circolare ripetono costantemente le stesse ore, giorno dopo giorno, e pare che avanzino sempre nel nostro futuro, mentre irrimediabilmente tornano sempre al punto di partenza.
La vita scorreva, oh quanto desiderava che passasse, che tutto finisse ! La vita ha questa legge inesorabile, scorre, scorre all’infinito. Trascorriamo allora, lasciamoci trasportare dalla corrente. Dovunque andremo saremo al punto di partenza e, probabilmente, morendo saremo sul punto di nascere.
Come dunque la vita imponeva la sua eterna condanna, egli si levò, si vestì e uscì nel giardino, umido e rosato, e respirò l’aria fresca del nuovo giorno.
E mentre si voltava verso la porta, scorse sui gradini del colonnato che reggeva l’ampia terrazza superiore, una bambola, i cui lustrini splendevano e i crini biondi parevano invitare a gara i vividi raggi a celebrare una festa.
Incuriosito s’avvicinò e con sorpresa notò che aveva il vestitino insanguinato, che certo non poteva essere altro quella gran macchia porporina, dai grumi scuri, il cui odore non era di vernice.
Ma, preso da un timore superstizioso e quasi reverenziale, non prese l’oggetto in mano, anzi se ne allontanò subito.
Rientrando, mentre camminava lungo un corridoio, vide all’improvviso, sopra l’entrata d’una stanza mai visitata, un quadro dalla cornice imbrunita dal tempo, il cui soggetto rappresentava un tramonto estivo sopra una valle amena. Tra gli alberi i raggi del giorno morente giocavano i loro ultimi giochi con le fronde esili ma di color bronzeo, le montagne rivelavano le cime argentee, parendo emergere da un mare d’ombra.
Nella valle scorreva un ruscello sulle cui rive due fanciulle scherzavano fra loro amabilmente, i loro visetti ridenti raccoglievano tutta l’armonia d’un pomeriggio quieto e sereno. Poco lontano da loro, ma non visto, dietro una grande quercia stava un pastore e rivolgeva a loro lo sguardo, pieno di curiosità, il suo volto tradiva una strana espressione, che dapprima si sarebbe potuta interpretare come un sorriso di compiacimento, ma, facendo più attenzione, vi si poteva cogliere una sfumatura di concupiscenza.
Turbato, si diresse verso la sua stanza, per prepararsi a una passeggiata nell’aria ancora fresca del mattino.
Quando uscì, l’accolse la luce inebriante del giorno ed egli s’incamminò senza una meta precisa verso la montagna che sovrastava il paese.



XIII





Ricordava, forse, ma lontano, nell’aria azzurrina, pervasa di una luce stanca, tra cupoverdi colline di pini e castagni, le casupole di pietra sparse sui crinali, umide di pioggia autunnale, e in fondo il manto del mare argenteo. Un sogno appariva e si dileguava costantemente. Un desiderio profondo, una nostalgia di svanire, di fluire per tutti i ruscelli sino alla vasta piana d’acque canore, come un uccello di fiume, come un ampio chiaro gabbiano volteggiante sui flutti canuti. Avesse potuto assimigliarsi, unirsi a quel sogno! Eppure un giorno lo avrebbe atteso con gioia l’ansia dell’aurora, e il nuovo sole sarebbe asceso nel cielo fervido di nubi rosseggianti, tra il coro dell’onde e lo spiro infinito dei venti.
Come nell’ascesa dei raggi dell’alba, il sogno lo trasportava lassù, sui monti, in verdi valli ove la luce vibrava chiara sulle correnti e sopra il risuono costante dell’acque dalle alte rupi. Nel vasto respiro dei boschi e il vociare spensierato degli uccelli, scorgeva da lontano le casupole sparse dei mandriani e ignote figure lente, avviantesi su per il pendio, forse rivelando tra l’ombra delle fronde e gli spazi assolati un eco fluido di chiome.
Sentiva salire dalla terra l’essenza profumata della rugiada, su dall’erba verde, dai ciottoli umidi, dall’intrico dei rovi.
Il vagito delle greggi sulle pendici delle giogaie e il prolungato sufolare dei pastori ondeggiava nell’aria e si sperdeva rapito dalla brezza. Sopra di lui respiravano i pioppi, e scorgeva i sassi brillanti tra il mormorio del ruscello, e il canto degli alati accoglieva gioioso la luce del mattino.
Le nuvole si disperdevano in opposte schiere, ancora grigie e pure variamente intinte in un chiarore roseo, e si aprivano nella vastità del cielo sconfinato, come un ventaglio il cui semicerchio non trovasse mai il suo angolo piatto. S’allontanavano nell’infinito, mentre il sole sorgeva in mezzo ad esse quale un dio nel trionfo della sua nascita fra cortei di minori spiriti.
Ed egli ascendeva per il sentiero, contemplando il risveglio della Vita universale.
Essa si ridestava dopo il sonno, nelle membra rinascendo, rinnovando le fibre come una pianta permeata di linfa fresca, che genera foglie nuove e abbraccia coi rami i raggi vitali. La Vita intorno a lui nasceva, dopo la morte del giorno, in un altro giorno colmo di nascite e di morti, pullulante di esseri la cui esistenza era scandita sul ritmo di quella Vita più grande, misteriosa e onnipotente.
Aveva la sensazione di percepire un brusio in ogni cespuglio e un cinguettio in ogni albero, e rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre assolate in un sibilo minaccioso. E questi stridii e lavorii sommessi e canti e voci e fragori si accordavano e si mescevano in un rombo simile a tuono, che echeggiava sotto la volta del cielo quasi nella cavea d’un immenso teatro, perdendosi nello spazio, smarrendosi come il vociare indecifrabile d’un folle, sino a polverizzarsi nell’infinito silenzio.
E in sogno fu ai piedi delle montagne bianche, sopra le quali volitavano fragili veli di nebbia, dalle quali era riflesso il bagliore solare. E guardò, mentre il vento inchinava gli alti abeti.
Scorse un villaggio alpino.
Il sole sorgeva dalle montagne, che piano piano si rivestivano di verde. Un flauto suonava nel villaggio, che si destava al nuovo giorno e alle rinnovate fatiche. I buoi, trainando un carro dalle ruote piene, si dirigevano pungolati ai campi e ai meleti; ai confini dei terreni incombevano smisurati i monti rocciosi, d’una tonalità grigiorossastra.
Il fiume scorreva limpido, nascendo dai vicini ghiacciai, e si tuffava da strapiombi entro i quali muggiva formando a volte piccoli laghi in cui l’acqua verde azzurra, gelida, non lasciava gli sguardi penetrare sino al fondo. Le sue correnti mormoravano tra gli abeti presso una casa fondata sulla rupe, una casa di pietra e legno, dal tetto aguzzo e dalle minute finestre lavorate e dipinte.
Da una di queste s’affacciava un giovane che respirava l’aria frizzante e sognava ancora allo scorgere filamenti di nubi rosate nel cielo cristallino, che si dissolvevano in vortici aerei.
Mentre così era rapito nelle fantasticherie e in un ozio beato, udì un canto dall’altra riva del fiume, tra i fusti degli abeti dalla soffice fronda, e vide una fanciulla che trascorreva quale vera immagine di sogno.
Era una ragazza di umile aspetto, che reggeva un canestro di fiori e di erbe, ed era bionda. E come s’accorse d’essere osservata, si volse e gli sorrise un poco. Allora il giovane non si mosse fino a che non l’ebbe veduta scomparire nel folto della foresta.
Gli alati cinguettavano tra lo stormire dell’alto fogliame dei larici, e il giovane uscì dalla casa nella luce novella.
L’acqua scorreva tra gli scogli spumosa e garrula in ripetuti giri, ed egli passò il ponticello di tronchi e subito fu sulla sponda opposta. Camminava senza una meta, attratto dalla vita della selva dove filtravano flussi di luce più o meno intensi e s’alternavano a zone d’ombra, come in un tempio.
E prese il sentiero della montagna. Gli pareva udire una voce muliebre cantare a distanza, e gli sembrava che la voce vibrasse entro i tronchi e i rami, per tutta la boscaglia echeggiando. E pensava fosse la voce delle foglie cadute, che calpestava, e la voce delle foglie oscillanti sulle branche, e delle trame arboree che s’incupolavano sopra di lui. Proseguiva il cammino insieme al sole, e ascendeva di pietra in pietra in ventosi canaloni fra le ardue rupi, per cui sibilavano i soffi delle alture.
Man mano ch’egli s’avvicinava al mondo degli dei lo catturava un’inquietudine, un senso angoscioso d’incompiutezza, quasi che la solarità del mattino non fosse abbastanza vivida sì da avvolgerlo in un turbine di luce e trasumanarlo. Quale ansia lo spronava così da presso come una minacciosa necessità ? Quali sogni avevano sconvolto la sua mente ? Gli sembrava davvero che la memoria fosse un baratro da cui risalivano insieme alle correnti aeree le ombre del passato e i fantasmi della fantasia.
Allora ebbe paura di se stesso. Si sentì stranamente simile a un dio.
Un corvo lo guidò nel volo sonoro ad una fonte riparata dai pini. Una fonte che balbava tra pietruzze canute dell’età di millennii.
Bevve nel cavo della mano. E poi che si fu accucciato sotto un pino generoso, il sonno gli chiuse le palpebre.









XIV

L’antica selva era un colonnato di fusti imponenti che s’allontanava sulle colline d’ogni intorno, argentino, risaltando sul morbido tappeto di foglie, rossiccio come il manto della volpe. Mentre camminava, i piedi muovevano le foglie aride con un fruscio ininterrotto, echeggiante nel silenzio della navata arborea.
Il sole faceva capolino di tra le braccia imponenti tese al cielo e tremolanti nell’ansito del vento. Era il sole d’un tempo ? Sarebbe lo stesso sole dei giorni futuri ? Cosa voleva dirgli quell’occhio di fuoco ch’egli non aveva ancora compreso e forse non avrebbe compreso mai durante la vita ? Eppure in alto vorticosamente lo sguardo era trascinato da una forza misteriosa, possente, inaccessibile e nel contempo presente nell’animo, siccome fosse radicata quasi vetusta radice d’albero secolare entro e sovra la terra rocciosa.
Entro e sovra la terra rocciosa s’effondeva e s’inabissava la luce accecante dell’immenso rogo celeste che, creduto già un dio, s’assideva, inavvicinabile e terribile e pur benefico, al centro delle orbite dei pianeti. E di quella luce indispensabile la madre terra viveva, e gli uomini si chiedevano per quale volere avesse mai vinto le tenebre e a che scopo s’irradiasse per lo sconfinato spazio, così prodigamente ?
Era il desiderio della vita che lo attirava nel solco del sentiero arborato dove la luce occhieggiava giocando con le foglie ridenti carezzate dal venticello, e, discendendo per i rami e i fusti, macchiettava il soffice tappeto crepitante ? Ormai non aveva più dubbi, egli era il suo destino, egli era quelle foglie secche che calpestava noncurante, egli era quella luce che lo attirava, e, inevitabilmente, con stupore, riconosceva d’essere pure quel sole e quel fuoco, cui non si sarebbe mai potuto avvicinare senza esserne annientato.
La luce si posava sulle morbide fronde, intorno. Il vento le attraversava voluttuosamente, come una musica.
Ma lontano, sul mare si vedevano le onde incresparsi schiumanti, agitate dall’impeto di venti violenti e contrari che trascinavano con sé una estesa cortina di nubi, quasi un gregge incalzato dai cani che procede senza volontà propria.
Oscuro s’ammassava lungo l’orizzonte il cordone di nuvole e lentamente avanzava sul mare tumultuante e livido, dove non più i raggi regnavano ma come l’ombra di tristi pensieri.
Egli contemplava dall’alto della montagna per un’apertura fra i fusti ancora indorati, postosi sopra una roccia sporgente.
A destra e a sinistra declinavano i fianchi del monte e si fondevano in colline e in case bianche. Il vento recava un’illusione di brezza marina, ed egli aspirava pienamente l’aria fresca. Stava così, rivolto verso il turbine sovrastante le acque violacee, il cumulo di nembi cinto di foschi fuochi.
Il sole, innanzi alla minaccia, pareva fuggire nascondendosi nella dimora d’occidente, ma la sua fiamma viva abbracciava la montagna.
Mentre il vento lo colpiva in volto osservava estatico il fremere delle fronde rabbrividenti in un unico grido, e più lontano udiva l’eco del mare mormorante pervaso d’impeti criniti e di furiosi galoppi.
E avvolto dal vento, in alto, sulla vetta del monte, s’abbandonò, si lanciò nell’abbraccio del soffio marino, nell’estasi del sole ardente. Immenso il disco del sole lo accolse e il suo corpo fu consunto in un attimo, trasumanò, e la sua immagine sfolgorò in un alone di luce.
Così gli parve. Oh, se fosse accaduto! Ma certo ora il suo cuore palpitava di vita nuova, il sangue purificato scorreva.
Non più allora avvertì i raggi che lo colpivano, lo scaldavano, lo attraversavano, ma sentì chiaramente ed inspiegabilmente essere egli stesso quella luce che l’avvolgeva, che si effondeva generosamente sulla terra, che colmava le valli, che indorava le vette e che si diramava per il mare dell’universo.
Non più percepiva i limiti del corpo, non aveva più il corpo, era libero da se stesso, era in quell’attimo la stessa misteriosa, ineffabile essenza del mondo, la Vita universale, infinita.
Oh, fuggire, fuggire, via per sempre dal mondo, via da se stesso, non essere più, finalmente dissolversi nell’eterno fluire del Tutto !
Si mise a correre, impetuosamente, non sapeva dove, non voleva sapere.
Corse fino a che il respiro divenne affannoso. Fu costretto a sostare. Riprese lentamente a vagare per il bosco, simile a un’ombra errante.
















XV






Lo chiamavano gli alberi a sé, con voce nuova. Lo chiamavano a sé i vecchi giganti e suggerivano parole misteriose, disperse nel vento.
La voce della Natura onnipossente lo chiamava dal grembo della terra. La Madre gli ricordava che era suo, come tutte le cose e gli esseri del mondo.
Ecco, un brivido lo pervase ed egli vide sul mare il riverbero trionfante e fra il corteo di lumi eterei scorgeva assurgere tra le onde spumose gli dei, che ancora volgevano lo sguardo alla terra.
Tutte le vite si abbracciavano nel mare dell’universo. Tutte si specchiavano nel chiaro occhio del mondo, ed erano l’iride del chiaro occhio del mondo. Gli alberi, le rocce, i cespugli si stagliavano nitidi. Senza una nube il cielo abbagliava d’azzurro. Nell’immenso silenzio si celebrava il più grande trionfo.
Oh, procedere verso il sole, verso la gioia, verso la vita !
Un cantico luminoso sorgeva dai fiori di campo, dalle fronde ondose dei pini, dalle rocce solitarie, e s’innalzava sulle vallate, ad un cammino lontano, a lontani orizzonti.
Ed egli avanzò fra i ranuncoli bianchi, su per la collina. I rami dei pini ondeggiavano alla brezza con un moto lento e maestoso. Egli avanzava, inesorabile come il lento moto del tempo.
Nel folto dei lecci, nell’umida ombra, in mezzo ai tronchi cupi e ai rami nodosi avvolti di rampicanti, s’inoltrava e filtrava per le fronde in alto il pallore del giorno, coricato tra un vapore leggero. Era bello camminare così, immerso nel fogliame della foresta che respirava frusciante gli aliti tiepidi del cielo.
Placida si coricava la luce sul dorso selvoso delle colline, rilevando le zone d’ombra più umide ove crescevano i faggi ondeggianti. Si riverberava sulle rocce qua e là emerse e sparse quali specchi infranti. Si dileguava come un eco, lontano, verso lunghi ed esili fronti di nebbie.
E lontano sul mare le diafane colonne del sole occultato dal nembo silenti posavano scanalate ed olimpiche. Il tempio di Zeus s’ergeva maestoso e solenne sopra le infinite distese glauche, in attesa di nuove offerte e di nuove preghiere.
Ma non era sufficiente la solitudine intorno, dovevano scomparire i tumulti e le turbe interne, doveva sopravvenire la pace dell’anima silenziosa, per acuire e purificare gli occhi alla luce. E doveva sorgere dall’oceano il Sole maestoso, e l’igneo cocchio trainato dai cavalli ardenti percorrere vibrante la volta eterea e in alto irradiare, il vivificante Elios, dal suo trono possente.
Così era infatti ogni giorno, poi che ogni giorno era concesso.
E ricordava le magiche parole : “ Tu che dal limo emergesti, che su nave navighi, che nelle singole ore forma muti, e nei singoli di Zodiaco segni commuti. “
Sull’infinito dorso del mare cavalcavano le onde spumose, quali equini focosi si perdevano sino all’orizzonte, ove la luce si scomponeva in mille fasci radiosi, e là parve riflettersi, in un solo istante, l’essenza della sua vita, la speranza.
La graziosa figura di una bimbetta riposava sopra il lume dell’orizzonte, sopra il confine del mare, né le si avvicinava l’ombra del timore né senso alcuno di minaccia. E la Vita la benediceva nell’abbraccio della sua aurora, nella certezza dei giorni futuri.
Ed egli comprendeva la vanità della propria piccola esistenza e la meschinità dei desideri e delle speranze che albergano nel cuore e l’inutile affanno nel ricordo delle azioni passate, un agitarsi tormentoso destinato a svanire nel nulla.
Non era certamente quello che finora era stato. Era stato solo una maschera, uno sciocco manichino, un burattino manovrato dal suo carattere avverso. Ma una vita più profonda era in lui, una vita arcana, dolce e immutabile.
E, mentre saliva, lentamente avvertiva nascere in sé una consapevolezza nuova, un Io più grande, cui il suo corpo apparteneva insieme alla vastità del mondo.
Ascendeva all’assoluto silenzio del bosco, delle rupi sopra le quali planavano e volteggiavano i corvi. Immensa era la vastità del silenzio, non altri uomini s’aggiravano su per le pendici, ed egli rapido e ostinato ascendeva per il corpo illimitato della montagna con il suo piccolo corpo, violatore dell’immobilità, spettatore di uno spettacolo gelosamente custodito.
Intorno i rami, inumiditi dalla rugiada, gioivano in guizzi e scintillii. Colmo era il cuore di quella luce. Invaso da un sentimento nuovo, da una passione non mai provata, era spronato da un pungolo invisibile, anelava alla vetta.
Ora il dorso della montagna nascondeva il disco del sole, tornato a rifulgere, ma i dardi infallibili del Titano discendevano per la selva, un’ondata di chiarità irresistibile. Una tempesta di raggi travolgeva gli alti fusti e le fronde, forzando e abbattendo i muri delle ombre. Una musica potente si frangeva contro il suo cuore. Egli ne fu sommerso e rigenerato.
E come venne alla fine del bosco e del cammino, sulla cresta erbosa del monte, il sole immenso l’avvolse nello splendore e le giogaie e le rupi e i picchi audaci ardevano inondati di luce. E vide il baratro al di sotto e l’altezza dell’azzurro sopra di sé, e la sconfinata estensione delle catene montuose, che si perdevano a vista d’occhio sempre meno evidenti e più sfumate verso l’orizzonte.
Scorse alcuni rapaci che aliavano in larghe ruote nell’aria irradiata, dove sparse reti di nebbia svanivano lentamente.
E si smarrì il suo sguardo nella luce dell’infinito azzurro. Gli sembrò che il corpo si mutasse in un alato sfrecciante nel libero volo e le sue piume scarmigliandosi incontrassero i flutti gelidi dei venti vorticosi e le ali navigassero per sconfinati oceani di silenzio, su, sopra le nubi, verso l’occhio del Titano.








XVI









In alto commosso dal respiro insolito dell’aria e dalla libera visione dell’orizzonte, ristette come stupito. Le nubi erano al di sotto dei suoi piedi. Le Alpi rocciose e innevate, per le quali il feroce nemico del popolo romano osò aprirsi il varco, coronavano la volta celeste, dove le nuvole galleggiavano, strane, multiformi, candide navi.
Lentamente scese dalla vetta, mentre i suoi pensieri, le sue immaginazioni vagavano intorno a lui per l’ampio cielo azzurro. Quando infine si volse a mirare l’alta montagna, la mole gli apparve stagliarsi sul fondo infinito, isolata tra i nembi, quasi potesse cingerla in un istante con la mano, così piccola innanzi alla vastità della mente umana.
Lo spirito è un’isola eterna. Il mare mutevole, che si agita intorno a noi e che noi osserviamo con sguardo intimorito o ammaliato, è la nostra stessa esistenza. Esso si muove instancabilmente e si abbatte contro la nostra riva con furia rinnovata, certo di trovarla sempre innanzi a sé, come l’indispensabile meta dell’incessante suo movimento.
Rapidamente giunse al limitare della foresta. E vide un mare crestato di spume vittoriose, fremente dorso azzurro oltre le colonne dei pini. Udiva il fragore delle ondate ed alzava lo sguardo alle branche frondose e ondeggianti. La luce penetrava come per le vetrate d’un duomo.
Ascoltava. Una comunione di aneliti, un ansimo profondo, una sinfonia aliava scaturendo dai ceppi quasi da un organo sotterraneo. I grandi alberi protendevano i robusti rami invasi come vele sulle acque dal querulo murmure del vento. Il sibilo lo colpiva quale per frante velature nella tempesta assale i marinai l’ansia della fine. Egli avvertiva prorompere dalla terra il grande gemito.
Squillò un fulmine sul mare risonante. E si precipitava la massa tumultuante e fosca come un’immensa schiera di cavalli armata corrente sovra la pianura, minacciosa, sollevando nugoli di polvere nera.
Calò il manto sulla volta del cielo e la pioggia fitta iniziò a dardeggiare il bosco, prono sui fianchi della montagna.
Egli vide lontano la sagoma chiara della villa. Splendeva stranamente tra la vegetazione degli eucalipti e dei cipressi che le stavano a rispettosa distanza, timorosi e inclinati dalla procella.
La luce del sole morente per puro caso imbattendosi in quelle mura sembrava tutta assorbita da esse, poi che nell’ombra della sera tempestosa era l’unica casa a risaltare, insieme ai lampi.
Non fuggì la tempesta, ma, trovato riparo sotto la roccia sporgente, se ne stette fermo a contemplare, inebriato dal furore di tutti gli elementi naturali, sferzati dal tirso di Bacco.
E in accordo col crescere della tempesta cresceva in lui il furore, egli partecipava dei fenomeni di natura come propri della sua anima, così che quasi poteva credere fosse invece la natura ad essere influenzata dai moti occulti dell’anima sua.
Egli anelava a oltrepassare se stesso, ad annientarsi fondendosi in un unico essere con la tempesta devastatrice. La sua volontà era la medesima. Era quella che suscitava il turbine e scagliava la saetta, quella che mormoreggiava sinistra nel tuono, quella che prostrava i cespugli e inchinava gli alti alberi.
La sentiva dentro di sé, terribile, salire tumultuosamente dall’abisso del suo spirito, dalle profondità dell’inferno, una potenza superiore al suo stesso essere, ch’era in lui prima sopita in un letargo misterioso e ora, destatasi, rompeva furiosamente ogni vincolo e si svelava una mènade in una danza omicida.


E, quando fu di nuovo alla villa, vide nel giardino la bionda fanciulla, pallida trascorrente sul prato come una ninfa piccola, esangue. La luce tenue della sera le accarezzava i lunghi capelli ondeggianti alla brezza nella corsa. Correva dunque, sembrava impaurita.
La selva era intorno, del parco. Alta era, oscura, mormorante al respiro profondo degli alberi grevi.
Mauro aspirò l’aria umida ch’esalava dalle foglie cadute, dai cespugli, dal fitto fogliame. Ne fu quasi stordito e sostò un attimo, in raccoglimento. Ebbe la sensazione che in lui trascorresse una musica lontana, dalle remote regioni del passato, ondeggiante nella memoria, colma di mille impressioni e desideri. Ah, la vita irraggiungibile ! Vissuta realmente solo nel ricordo ! Così il pensiero lo pervadeva istantaneamente, inconscio. Egli s’arrestava muto, chiuso nel colloquio con se stesso, incantato da un’immagine forte e fragile come il riverbero d’un raggio di sole. Allora gli pareva di vivere davvero, quando ricordava.
E allora si diresse nella sua stanza ed aperto un cassetto della scrivania, che era posta innanzi alla finestra a sinistra d’un grande armadio, estrasse un manoscritto e vi appose altri pensieri.
Immaginava d’essere proprio in quella stanza. La camera era in penombra, le pareti ingombre di scaffali e di libri, l’aria stantìa. Apriva perciò la finestra e guardava. Vedeva in lontananza una distesa di colline e di boschi dove la luce dilagava, allora usciva dalla casa e, mentre stava chiudendo il portone, scorgeva una fanciulla che trascorreva leggiadra e aveva i capelli quali messi ondose e biondi come i grappoli colmi dei doni solari. Ella sorrideva e passava.
S’incamminava per il sentiero che portava alla montagna. Proprio di fronte ai monti s’estendeva il mare incanutito dai venti autunnali.
Le foglie degli ulivi tremolavano, e mentre procedeva inoltrandosi nel bosco udiva il fruscìo e il vasto respiro dei castagni e dei pini. Il concerto degli uccelli e delle rondini che s’adunavano, e il gracchiare dei gabbiani che volteggiavano verso terra, lo spingeva a levare il capo di tratto in tratto e ad osservare il lento mutare delle nubi.
Sopra il mare il sole sorgeva in un rogo rosso e imporporava le onde riversandosi irrompente, quasi da vena copiosa una improvvisa scaturigine.
L’aria era frizzante e pura e il sangue pareva purificarsi ad ogni passo e le membra divenivano agili e vive al pari degli animali che corrono e guizzano per le selve. Le foglie iniziavano appena a cadere e a tappezzare qua e là il sentiero e il sottobosco, umido di rugiada. I raggi illuminavano i tronchi dei pini e le branche dei castagni, accendendo i muschi, che li maculavano d’un verde smeraldo.
Ma, ecco, proprio in fronte apparve sopra un lauro, appollaiato e immobile, un corvo, nero come una notte cieca, né accennava minimamente a prendere il volo, anzi pareva insistentemente fissarlo. I suoi occhietti maligni gli leggevano l’anima, e sembrava quasi che l’uccello mutasse il suo consueto gracchio in un riso aspro e beffardo, quando il viandante, straziato, con un gesto improvviso colse un sasso e glielo lanciò. L’alata ombra del malaugurio volò via senza suono.
Continuando nel cammino giungeva presso una sorgente. Vicino ad essa s’innalzava una piccola casupola in pietra, ormai rifugio occasionale di vagabondi. Poco discosto, il bosco di castagni offriva un’umida ombra al riposo e al sogno.









XVII




Una fanciulla bionda correva allegra nel giardino invaso dai raggi morbidi dell’aurora.
Era nello splendore della pubertà, quando il corpo femminile raggiunge la perfezione della grazia e l’armonia insuperabile della forma.
La guardò a lungo trascorrere tra gli alberi, una ninfa nata proprio allora dal tronco di qualche antica quercia, le braccia solo adornate di ghirlande odorose e i capelli fluenti, tenue veste sulle membra splendenti.
Si fermò, stupito. Dunque nulla era cambiato dai tempi del suo primo turbamento d’amore ? Era ancora e sempre come la prima volta ? Ed era giusto quel sentimento o, meglio, era giusta quell’attrazione così irresistibile ? Il dubbio lo assillava. No. Sentiva dentro di sé un rimorso e il terrore di una caduta senza ritorno. Sentiva la tortura dei sensi. Nel contempo avvertiva il loro dominio tirannico e l’incapacità di sottrarsi ad esso. Era consapevole dell’istinto e provava perciò un’intima avversione. E, se pensava a se stesso, vedeva un’immagine vana, un puro riflesso, dietro il quale una superficie opaca impediva la vista.
Cos’era mai il suo io ? Neppure lui lo sapeva. Non sapeva nulla. Sentiva la realtà difforme dall’apparenza della persona che gli stava addosso quasi una maschera. Sentiva in sé un vagare, un disordinato incrociarsi e scontrarsi di cose frante. La sua vita regolare era la struttura sulla quale il suo cervello tentava d’impiantare l’edificio vacillante dell’esistenza. Ma in ogni istante quello, come una pianta senza radici, crollava e bisognava ricostruirlo, in ogni istante la sua debolezza lo feriva e lo umiliava. Talvolta non poteva sostenere lo sguardo altrui, ma era smarrito come un bambino. E certo aveva paura. Aveva paura della morte, ma ancor più della vita.
Ma la vita inesplicabile, nonostante tutte le sue paure, si rinnovava sempre, e non solo ogni anno. Il sogno dell’adolescenza forse era morto per lui, ma non per altri. In verità un’eterna ghirlanda di fiori cingeva sempre le tempie della bionda figlia di Cerere, ed ella risorgeva per le nuove generazioni a colmare di speranze il calice inebriante della giovinezza.
Sentiva un suono lontano, un eco di canti e ritmi di danze. Cos’era mai ? Nella valle, verso la montagna, pareva si celebrassero ora antichi riti, credenze di contadini, ai quali partecipavano, così gli era stato detto, i giovani del luogo. Pareva che al declino dell’estate si volesse rimediare con la magia degli scongiuri e farla durare ben oltre i suoi naturali confini.
Eterna giovinezza, eterna vita ! Tu sei la più naturale delle aspirazioni umane.
Quod enim genus figura est, ego non quod obierim ? “
Egli pensava alla incessante metamorfosi delle parvenze, e gli sembrava che in ciò potesse consistere l’eterno ritorno di tutte le cose.
Pensava alla vita che si rinnova costantemente secondo leggi eterne ed immutabili, e avvertiva dentro di sé sempre sorgere l’indistruttibile desiderio, il fato della passione, che lo spronava verso mete ignote, verso lidi irraggiungibili, sempre anelante, sempre deluso. Il desiderio combatteva contro tutte le parvenze ostili, la lotta impari lo traeva alla disperazione. Egli non sapeva più dove volgere il capo, in ogni campo di battaglia aleggiava l’aria della disfatta. Sentiva sopra di sé l’ombra di Aiace e la minaccia dell’insania.
Tutto era finito nel nulla. Ogni suo tentativo era naufragato contro gli scogli dell’altrui ostilità. L’interesse meschino, il pregiudizio sociale, l’egoismo più gretto gli avevano lentamente sottratto ogni speranza. Una corrente limacciosa trascinava via nei suoi gorghi il desiderio di vivere. Qualunque strada gli era preclusa, dovunque volti duri e ostili, falsi e sornioni risaltavano come maschere tragiche e funeree.
Era inutile, per lui non c’era nulla. Delle belle promesse del mondo non gli sarebbero spettate neppure le briciole.
L’accidia penosa lo trasse con sé nella sua morsa. Il sentimento disperato del fallimento prese a roderlo, impietoso. Ed egli piombò in una stanchezza senza rimedio.
Il sonno profondo lo prese immergendolo nella sua oscura palude, dove la sua anima scivolava sulle acque plumbee come un cigno, sotto la luna pallida. Come un cigno illuminato dalla luna la sua anima vagava verso rive remote, celate da una nera selva ignota.
Quell’oscuro groviglio di ramose piante e di rampicanti insidiosi nascondeva la trappola fatale della sua malinconia, l’abisso cupo e maligno, il torpore acido e putrescente che abbrancandolo e avvincendolo completamente lo trascinava nel gorgo odioso della follia.
Era l’antica maledizione che colpisce i mal nati tra gli uomini. “ I melanconici sono preda delle loro immaginazioni e commettono ogni sorta di pazzie “ aveva più o meno detto, e così ricordava, Aristotele e poi Galeno, e questo era il suo male, inveterato, ributtante.
Un dormiveglia affannoso lo trascinò dunque nei suoi vortici spumosi, e larve luminose o maligne gli si alternarono nella mente, in un gioco privo di senso.

Un canto si librava sotto le oscure volte.
Di chi mai la voce così melodiosamente si liberava nello spazio stellato ? Aprì la finestra. Ascendeva maestosamente nell’atmosfera tinta di un azzurro cupo e carica di umidore notturno e volteggiava per una via ignota. Strane fantasie sorgevano in lui.
Era con lei sulla riva del mare.
La brezza le animava i capelli che respiravano i vividi raggi. Gli occhi erano lo specchio profondo della distesa delle acque celesti e luminose nel mattino. In essi lo sguardo si smarriva come a cercarne l’orizzonte.
Ella l’osservava misteriosamente, senza parola.
Ma egli la ricambiò con un’occhiata d’odio troppo a lungo represso. In quali contrade voleva condurlo, ch’egli non avesse già percorso ? O quali conoscenze poteva comunicare questo essere affascinante, ma pur sempre limitato dai vincoli del corpo, bello d’una bellezza che aveva già ammirato nell’animo e nella mente e dotato d’attrattive assai inferiori a quelle che avevano ammaliato i suoi sogni ?
Provò il desiderio d’ingannarla, di violarla, di soffocarla col rancore della delusione, ma non poté che continuare a guardarla, costernato.
Ella era davanti a lui, impassibile, indifferente. Se fosse stata una statua o un blocco di pietra non avrebbe fatto diverso effetto.
Gli occhi, profondi e immutabili, l’osservavano senza emozione. Senza comprensione alcuna non mirava ella che un’immagine riflessa nelle sue pupille.
Una fusione delicata, diafana, d’ombra viola ed azzurra il vespero le pingeva sull’epidermide delle palpebre, negli occhi s’illuminava l’iride lionata degli angeli notturni.
Al chiarore lunare, nella landa solitaria estesa come un mare, si disegnava la sagoma nera degli alberi in un alone giallastro, evanescente. Si protendevano i rami cinerei nell’ansito greve, nel silenzio che li mordeva gelido.
Una candida figura era ella, indifesa e smarrita nel labirinto, dove di ululati si dilania la solitudine.
Ah, i polmoni bruciano, le tempie battono, la notte precipita negli occhi come un sole !
La luna purpurea ritagliava ombre entro la sua lucentezza per i canneti agitati, cadendo nell’acqua come un serpente dalle scaglie vitree.
Ella vide la sua immagine riflessa nello specchio mormorante.
Non era ella un mistero ? La sua immagine si confondeva con quella di lui, che le stava innanzi, estatico. Quasi la luce lunare l’avvolgesse tutta, la penetrasse, appariva trasparente, come un fantasma.
Nel turbine dei ricordi si confondeva ormai ogni visione. S’increspava al vento del mattino la superficie delle acque. Le anatre svolazzavano intorno alla foce del fiume.
Ella svaniva ai primi raggi dell’alba, e ogni speranza si dileguava per sempre.



XVIII


Era stato dunque un sogno, un vaneggiamento dei sensi, un turbamento dello spirito, una vaga fuga della fantasia, il suo amore per Misandra ?
Era come morta per lui, ed era davanti a lui, ed egli l’avrebbe vista per l’ultima volta, poiché era giunto proprio per l’estremo addio.
E Misandra gli aveva rivolto un’ultima volta la parola, prima che si chiudessero per sempre i cancelli di quel giardino proibito.
Ebbe la sensazione di non aver vissuto che per quegli ultimi giorni, solo per quegli ultimi giorni.
Tutto è perduto “ si disse, poi che la giovinezza era scomparsa per incanto. E solo allora riusciva, se pur ancora vagamente, a rendersi conto di averla amata, negli anni della fanciullezza, quando si può dire di non essere consapevoli di nulla, di averla veramente e profondamente amata. Ricordava la fanciulla graziosa, dagli occhi splendenti, dalla fronte nobile e lucente come un astro, alta e atletica come Artemide, e pensava a remote passeggiate nei boschi, ormai cinte nel ricordo dalla luce magica d’un’irraggiungibile aurora. Era la più bella del suo tempo : lo dicevano gli uomini, e lo confessavano le donne. Chi la vide e non l’amò ?
Si raccolse in se stesso. La realtà che già l’offendeva quotidianamente con la sua incomprensibile esigenza di vita comune insieme ad una moltitudine d’umanità bruta e malriuscita, con quella folla di aborti prepotenti e di boriosi idioti che dominavano il mondo, quella realtà ora gli aveva sottratto l’unico sogno.
Sentiva la pena per la propria sensibilità eccessiva, quasi un male, il cui castigo era il dileggio da parte del savio mondo, sentiva svanire a poco a poco l’amore per la vita insieme al suo sogno, per cui solo era valso trascinare l’esistenza, quasi per il miraggio d’un attimo fuggevole d’incantevole e incommensurabile ebbrezza.
Ora ella appariva sulla terrazza, al chiarore lunare, volta all’orizzonte stellato e al mare infinito.
Il suo viso era un opale velato dall’ombra, la sua chioma la nera brezza aspra, ella respirava profondamente, lentamente, il fresco alito notturno. Inviolata, come un fiore negli abissi, ella appariva, irraggiungibile.
Ma, a un tratto, ella lo colse in un bagliore, e gli occhi avvamparono come un rogo, e un’onda impetuosa, vasta e furente lo abbatté invadendolo, scuotendo e sradicando tutto il suo essere. Come una fiera lo avvinse tra i suoi artigli ed egli restò pietrificato, preda senza scampo.
Rimase innanzi all’immagine di Medusa, colto da un terrore dolcissimo.
Poi le ombre si distesero, l’onda si ritrasse, il buio si chiuse.
Ed egli non vide più nulla se non il deserto del silenzio e del mare e del cielo nero sparso di fuochi, come un’immensa pianura costellata dai bivacchi e dalle veglie, prima d’una battaglia.
Ma aveva visto ciò che non doveva vedere, aveva intuito ciò che non doveva sapere. Era ormai indegno di ogni rivelazione e inutilmente avrebbe tentato l’oracolo.

La scorgeva nell’ombra della stanza.
Scorgeva la sua immagine, dardeggiante una luce estranea, sinistra, eppure vittrice, stupendamente adornata di cinto e collane e armille e un diadema, tutti di rubini sanguigni. Non d’altro era vestita, e dai suoi occhi si dipartiva l’incanto dell’iride verde azzurra, che prometteva un’ebrezza sconfinata, come il mare che dietro a lei appariva e si fondeva all’orizzonte col cielo vespertino. Alta la luna sovra di lei la irradiava della luminosità lugubre del plenilunio, mentre gli ultimi raggi del crepuscolo venivano catturati dai rubini.
Ella lo guardava enigmatica.
Dietro di lei la sagoma oscura di un grande armadio a specchio sorgeva dall’ombra e il vetro era simile ad una rettangolare lastra d’argento, ma vi si posava soltanto la luce lunare, poi che la figura di Misandra pur essendogli innanzi si rivelava trasparente e invisibile come l’aria notturna traversata dai pallidi vapori della luna.
Un misterioso terrore lo invase. E il ricordo di leggende remote tramandate dai racconti gotici letti da ragazzo gli presentò alla mente curiose coincidenze. Non era forse anch’egli, però, un misterioso essere notturno ? Non era infatti riflesso dallo specchio, dato che si trovava di fronte a lei ed ella non era che un fantasma trasparente.
Ma ella sorrise d’un sorriso ineffabile e lo guardò a lungo, così, e i suoi occhi luminosi erano pieni di promesse.
Poi porse le braccia verso di lui e avanzò lentamente, un piede dopo l’altro, leggera quasi sfiorando terra.
E allora gli parve ch’ella discendesse da una nube radiante, e gli occhi di lei s’accesero, estatici, misteriosi.
Cadde innanzi a lei, vinto, ed ebbe tuttavia l’ardire di volgere il volto in su, a lei, fissandola rapito e atterrito nel contempo, invaso e travolto da un potere invincibile, come una nave dalla tempesta.
E le ondate impetuose della passione lo circondavano in un brivido vorticoso, in una spirale di inniti vittoriosi e schiumanti quali flutti che si frangono in mille lamine argentee contro gli scogli, fragorosi all’ululo dei venti.
Fu allora travolto da quei flutti e percorso dai brividi violenti del desiderio. Le sue membra furono attraversate da una forza irresistibile, oscura. Un’ebrietudine lo possedette, una follia bacchica che rese il suo corpo sinuoso come la spirale d’un serpente e privandolo della ragione gli donò inaudite facoltà e poteri prima sconosciuti.
S’avvinghiò a lei, la cinse, affondò il volto fra i suoi seni e si esaltò al profumo della sua carne, candida come avorio.
Ma il sogno lo possedette.
Si sentì abbrancare, trascinare verso l’alto in un vortice d’ombre e di luci, mentre il suo spirito esaltato era in preda alla vibrazione d’un’eccelsa armonia, d’un inno di vittoria. E ondate di luce bionda pervasero la sua mente, cullarono la sua immaginazione in un brivido di dolcezza e di oblìo. Vibrarono le corde del suo spirito interamente posseduto. Egli era felice e libero come pura musica.








XIX






Sulla selva antica s’addensava l’ombra e il profondo fruscìo del silenzio. Dal viale del giardino egli scorgeva nel cielo, sopra la foresta assopita, la luna sorgente in una veste rossa, e innanzi le trascorrevano tenui vapori del vasto vagito del mare, e sopra le rupi del promontorio s’elevava lenta la luna, quasi galleggiando sulla nebbia arrossata che si fondeva, s’immergeva nel parco oscurato.
Nel giardino ella lo attendeva. Nel giardino ove le piante procombevano nel crepuscolo stanco, estendendo le ombre dei lunghi rami. E si sentiva l’alitare intenso degli aranci e il profumo delle siepi di rose rampicanti.
Ella lo attendeva e la luna si rivelava ora dietro di lei, un vasto disco di luce pallida rifulgente sul mare. E come si perdevano i rossi rivoli del tramonto ormai dissolto oltre l’orizzonte, quasi lembi d’una veste prolissa, d’un manto effuso nel vento e lacerato, e svanivano bevuti dall’ombre della notte uniforme, non altra luce che quella incantata e velata dell’antica Artemide si deponeva cautamente sovra il silente golfo della terra assonnata e si dimostrava maliosa agli occhi di Mauro, forse per la prima volta aperti al suo dischiuso mistero.
Ed ella lo attendeva, immota e bianca come un giglio. Ed egli s’avvicinò, e, quasi per bere da un candido e puro calice, l’avvolse tra le braccia e lentamente la baciò, bevendo a lunghi sorsi l’ebrietà del suo fiato. E Misandra s’abbandonò, si lasciò sostenere la bella nuca, e il corpo suo fremette poi che l’anima fluiva tutta e si riversava fra le labbra di lui per dissetarlo. Poi, esausta, si distaccò, soverchiata dall’amplesso, paga del suo dono, e il viso suo risplendette nell’alone della luna virginea.
Dopo lo prese per mano e, dapprima procedendo con lentezza, poi in un cammino affrettato e quindi in una corsa simile a un volo, lo trascinò verso la collina. In cima sorgevano le rovine d’un antico borgo medioevale. Quando v’entrarono, la luna l’illuminò attraverso una bifora, dall’alto, perché erano in una vasta navata d’un antico tempio decaduto. Essendo crollato il tetto, il cielo stellato appariva sopra di loro. Le mura del borgo, nere e minacciose, s’innalzavano sulla collina. Essi erano nel vestibolo d’un mondo morto.
Vinci la tua paura ! “ ella disse, e lo condusse attraverso la porta della cripta, risonante dei loro passi per il lungo andito oscuro. Poi discesero per una scala umida e si trovarono in una vasta aula cinta di nicchie, cupa e verdastra come caverna marina. Il soffitto concavo era occupato da una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio, in alcune cavità del sotterraneo dormivano i pipistrelli, qualcuno però aliava sommuovendo la trasparente tela e lacerandone alcuni lembi fluttuanti.
Sul pavimento sconnesso era cresciuto uno strato di muschio e sulle pareti ancora, nonostante la ramificazione delle muffe, si notavano figure d’affresco, sirene che si curvavano verso l’onde mentre l’oro delle chiome fluide e volitanti una mano ignota tentava di afferrare invano.
Un tritone suonava la bùccina dorata che risaltava sullo sfondo divorato dall’umido, e sembrava davvero uscire dalla profondità del mare, e un raggio di luna filtrato da un pertugio nel soffitto lo illuminava, quasi fioca luce negli abissi.
Ed iniziarono allora la discesa nel sotterraneo, poiché nel centro della cupa grotta una botola era aperta, come un invito ad entrare, mentre s’udiva dal profondo salire un rumore quale d’acque mormoranti.
Entrarono. Un turbine improvviso li colse nelle sue spire, li trascinò nel suo gorgo oscuro. Ed essi furono ingoiati dalle tenebre, né vedevano né udivano più nulla.
Ma poi si trovarono in una vasta cavità, ove echeggiava il brontolìo di acque correnti che si frangevano contro la riva. E in alto scorgevano quasi bagliori di fulmini ed ascoltavano con meraviglia il rimbombare del tuono. Stavano entrambi sulla sponda, come in attesa.
I raggi rosei dell’alba ormai serpeggiavano nei flutti e la grande bocca della caverna pareva aprirsi con denti scintillanti.
Alla roccia era legata una barca. Vi salirono e Mauro cominciò a remare verso l’apertura luminosa.
Sotto la vasta cupola risonante essi si smarrivano tra le brume dei sogni. Scorgevano sulle alte pareti i colori risaltanti stranamente alla luce del lago, oscillante in un lucore verde rame, i colori di mosaici grandiosi, dalle figure splendidamente ieratiche, immobili nella loro maestà.
Come uscirono, li avvolse l’aria del mattino in una fresca ebbrezza. Le onde pigramente si stendevano sul lido, altre roteavano presso le rocce, e si ritraevano in cadenza. Una luce calda e verde circondava le colline intorno. Sul promontorio la villa sorgeva come una roccia minacciosa. La torre con l’orologio era un grande occhio spalancato sugli abissi echeggianti. Ricordava il palazzo dei Farnese che domina il grande lago, il palazzo dalla porta dalle due teste d’angelo, o di Medusa ?
Ed era la dimora dell’illusione. Alta, inaccessibile, l’illusione d’amore circondava in una veste irradiante la figura di Misandra che si stagliava sulla distesa marina greve ancora dell’ombra notturna, quasi lucente di proprio lume.
E l’aurora aleggiava all’orizzonte e si fondeva con l’alitante tepore lunare, che si schermiva dietro gli alti pini del promontorio a occidente, procombente sulle acque oscure.
S’udì un improvviso tintinnìo, ed ecco si staccava dalla penombra, sotto la massa frondosa della costa, una navicella nera, avanzando sull’aleggiare di bianche vele. S’avvicinava rapidamente, sopra lo specchio del mare, e come fu presso la barca, Mauro vide che dalla poppa alla prua era colma di bambole d’ogni tipo e d’ogni colore, che lo fissavano coi loro occhi dipinti. Misandra fu tratta a bordo dal braccio d’un destro marinaio, quindi la navicella s’allontanò ancor più velocemente di prima.
Mauro allora si diresse verso la spiaggia, remando in fretta, stupito e adirato per il comportamento di Misandra, e, quando vi giunse, abbandonò la barca sulla sabbia e s’incamminò verso la villa.













XX







Appena i sommi monti cospargeva del suo lume il giorno seguente, quando dall’alto gorgo s’innalzarono i cavalli del Sole e soffiarono luce dall’enfiate nari . E le onde pigramente si distendevano, pigramente si ritraevano. Ma la tempesta di luce invase rapidamente l’orizzonte e tutto in breve sommerse. Così nacque un nuovo giorno. E Mauro si fermò sulla sabbia e guardò a lungo la distesa del mare.
La navicella era ormai lontana, un’esile sagoma nera, seminascosta dalle rocce che s’inoltravano nel mare profondo. Sul lido sinuoso, al riparo dalla massa erta d’alberi tortuosi e di rupi, ove l’onda si cullava mite e dormente, un pastore con gesti lenti e cauti smuoveva col suo vincastro la sabbia a riva intorno a una reliquia d’un antico naufragio. Più distanti, presso qualche cespo di giunco, le pecore belavano timidamente.
Nel mattino dello stesso giorno una navicella leggiadra era trascorsa vicino alla costa, colla vela quadrata tutta variopinta e lunghi vessilli e canti e profumo di fiori, e poi s’era dileguata carezzata da Zefiro nel corteggio di Venere. Ma a riva aveva dimenticato i suoi sogni.
Il mormorìo di acque croscianti fra i sassi lo colse mentre era intento all’alto mare, e improvvisamente scorse quasi dietro di lui, dopo un cespo di giunchi, la spuma d’una cascata, un rivo d’acqua piovana, che danzando in vortici innumerevoli fluiva verso l’onda salsa e cupa. Ma brillavano i fiotti del rivo innanzi all’alba, come un saluto, e correvano verso la luce, gioiosi.
Ricordava. Mentre passeggiava lungo la riva, l’immenso mare risonante gli alitava contro l’umido fiato salso, i gabbiani gracchiavano volitanti. E lui era perduto nella sua malinconia, e pensava gli anni non vissuti e che mai nessuno avrebbe potuto vivere, tanto ricca e onnivora sarebbe stata quella vita bruciante e ardente di desideri inespressi e inesprimibili. Ed era il suo cuore quale una coppa di vino generoso troppo colma che trabocca, e il suo contenuto si disperde e nessuno osa portarla alle labbra, per timore di macchiarsi la veste. Così egli rimaneva inerte, arso internamente da una fiamma destinata a estinguersi, dopo avere distrutto ogni cosa.
Ma ora conosceva finalmente la realtà. E quel mondo di sogni lussureggianti e rutilanti quasi un’immensa foresta equatoriale invasa da voli di migliaia di uccelli variopinti d’ogni specie e da miriadi di insetti luccicanti e giganteschi e di farfalle dai vivi colori, attingenti il nettare da corolle purpuree e iridescenti come gemme splendide, e da orchidee inebrianti e mostruose, quel mondo s’era rivelato di tanto superiore alla realtà quanto una meravigliosa statua vince di grazia e di bellezza e d’eterna gioventù ogni misero corpo caduco, il cui fiore svanisce al tramonto della stagione.
E cos’era allora la realtà ? Se analizzava la propria esistenza poteva osservare con un vago senso di disgusto ch’essa era in effetti quanto di più piatto, banale, ed in definitiva di basso e di volgare si potesse immaginare. Perché la volgarità autentica sta tutta in quella perdita volontaria di immaginazione, in quell’immergersi nella quotidianità che rende inevitabilmente limitati, anonimi, vuoti ed ottusi. Ed egli avvertiva quanto la massa degli uomini è senza rimedio bassa e comune e come crogiolandosi in un’apparente vita gioconda sguazzi lorda nel pantano compiaciuta, pari a una mandra di bestie merdose e lubriche. E sebbene il tutto sia ammantato di belle vesti e di monili luccicanti e di portamenti alteri o di frasi timorate, o talvolta da atteggiamenti pieni di riverente decoro e di sacerdotale saviezza, pure non si cessa d’avvertire con un senso di sgomento l’impercettibile odore di cadavere che avvolge il mondo “reale” degli uomini che nascono e muoiono a nugoli, come le mosche.
Guardava il mare. Non più spirava la brezza. Immoto esso si stendeva appena sciabordando contro gli scogli. Si avvicinò alla riva. L'acqua era limpida, trasparente come cristallo. La vampa del meriggio vi si posava in abbandono, il cielo vi si rifletteva in un dolce oblio.
Ma ebbe innanzi agli occhi il fluire delle estati trascorse e un vago sentore del profumo della giovinezza. E gli parve di scorgere nell’effluvio salino del mare la forma, l’ombra d’una donna che s’immergeva, che s’allungava fra le onde dardeggiate dai raggi d’oro.
Ma ebbe il pungente sentore dello scorrere del tempo attraverso il suo corpo, reso stranamente più vecchio dalla consapevolezza del suo cammino inarrestabile. Si sentiva una goccia di pioggia caduta dal cielo a svanire nell’infinità dell’oceano. E non era un destino di morte. Era la stessa vita che, attimo dopo attimo, lo sottraeva a se stesso, lo immergeva in un torpore pari all’oblio, quell’oblio che è tutto della coscienza e ci rende stranieri a noi stessi per sempre. A che vivere ? Era forse questa la vita che si era augurato nelle fantasticherie dell’adolescenza ? Forse se avesse saputo allora che era proprio questa, non avrebbe desiderato di continuarla un attimo di più. Ma certamente prima o poi la sua vista sarebbe stata liberata dall’inganno del velo di Maya ed egli avrebbe avuto la rivelazione che pone fine ad ogni sofferenza come ad ogni desiderio. Così sarebbe stato, poiché tutto è illusione.
Vagamente ricordava l’immagine del poeta, e, se avesse potuto averne il libro tra le mani, avrebbe riletto i versi seguenti :

Era la vita. Dopo il moto alterno
d’un’onda sola che salìa cantando,
scendea scrosciando, mormorava il mare
immobilmente. E molte vite in fila
salìan dal mare riscendean nel mare :
quindi l’eterno. E dall’eterno altre onde :
i figli. Altre onde dall’eterno : i figli
dei figli. E onde e onde, e onde e onde … “

Così s’allontanava anch’egli sulla riva del mare. E incamminandosi per le dune sabbiose e tra brulli cespi di giunchi, la sua sagoma si stagliava oscura contro il sole, un’ombra triste, debole. Dov’erano le fanciulle d’un giorno ? Dove le illusioni dell’immaginazione ancora ingenua, non ancora intaccata dal sentore di morte ?
Ma quelle illusioni non erano solo le sue, sarebbero state le illusioni di tanti nel tempo a venire, un giorno più bello di altri. Tutto passa, scorre e ritorna, come un ruscello nel mare che riconduce l’acqua delle piogge generate dagli stessi vapori del mare. Tutto muore, perché dunque lamentarsi ? Compiuto un ciclo ne inizia un altro e così la storia continua. Chi può dire se vivremo ancora, chi può dire se siamo già vissuti ?
Una voce sorgeva dall’abisso della coscienza, gli diceva : “ Accetta il destino, solo così sarai liberato nell’abbraccio della morte “.
Ma quando discese, per l’ennesima volta, il disco del sole oltre le acque violacee dell’orizzonte, allora nell’atmosfera bluastra lo avvolse il solito misterioso torpore, ed egli rivide nel breve spazio di qualche minuto la propria monotona esistenza scandita nei ritmi del metabolismo suo e cosmico, invariabile come i variabili giorni che nell’apparente mutevolezza sempre trascorrono all’uniforme tocco del tempo.
E si sentì pervaso dal gelo dell’eternità, in un brivido dell’epidermide, una sensazione di bruto, priva di consapevolezza e perciò terribile. E, mentre gli si arrestava il sangue e si annebbiava la vista e gli pareva che le tempie fossero immerse in un’acqua fredda, avvertì il silenzio dell’infinito e pure l’immobile, strano a dirsi, corsa dei pianeti, e una mano di ghiaccio gli strinse il cuore.
E nel manto infinito del crepuscolo egli scorse la lunga ombra degli esseri già avvolti dalla tenebra, lamentosamente precipitarsi nella morte. Egli scorse il corteo funebre degli eroi, rigidi sul catafalco, tra le fiaccole e gli inni della gloria, e vide i loro roghi splendidi sul mare. Considerò allora la propria vita non più lunga d’un giorno, destinata a svanire in una eterna notte. E il dèmone lo invase, implacabile. Il dèmone della distruzione, dell’offerta votiva del sangue, il dèmone che ha sete e brama il sangue schiumante delle vittime svenate. Il volto s’irrigidì, non più svelò alcun sentimento umano. Ah, questo era dunque il retaggio della solitudine, dell’abbandono, un immenso, bruciante, infecondo deserto di sabbia e di tormentosi venti omicidi.
Ma quei venti non erano forse il respiro incessante dell’Essere, della Vita incoercibile, ah, certo, d’un dèmone assai più potente degli uomini. Terribile, questo dio circondato di belve possiede certo i segreti dell’esistenza, e ogni forza con assoluto potere sprigiona e domina.
Oh, quanto vanamente l’uomo crede o spera di poter domare quell’Essere ! Tanto è più grande e più forte di lui che tutta la vita degli uomini sembra un racconto la cui trama dipenda dal capriccio d’un sempre insoddisfatto scrittore, Egli mira per le Sue vie e le Sue ragioni stanno spesso negli intoppi della Sua penna. E l’uomo s’illude di governarsi con la ragione, quando questa non è che una scusa con la quale far tacere una buona volta il pungolo della fastidiosa ignoranza.
Tuttavia una strana calma sopraggiungeva. La calma dell’indifferenza, la quiete della sconfitta, della resa definitiva. Scopriva a poco a poco che per vivere ogni giorno doveva ogni giorno morire e lentamente staccarsi dalla vita. Doveva separarsi da ogni affetto, da ogni desiderio, serbarsi immoto e imperturbabile come una statua di granito, altrimenti come un frutto troppo maturo sarebbe marcito ancora attaccato al ramo. Doveva per vivere, vivere morto.
Ebbe sopra di lui la sensazione di un influsso maligno, era posseduto da un torpore malsano, da un innaturale desiderio di sonno, di oblio. Ricordava i discorsi delle persone volgari che un tempo lo avevano consolato e incitato alla vita, e quale vita ? La loro ? Ma se erano già morti da tempo e non se n’erano neppure accorti !
Siamo davvero dei bambini illusi che presumono di sapere qualcosa e invece non sanno nulla. Quanti discorsi tronfi, quante arie di importanza ! Imbecilli, che esprimono con sussiego tanto quanto è il vuoto del loro cervello.
E pensò allora a una strofa del Canto dell’Illuminato : “ Chi, essendo soggetto a morte, malattia e vecchiaia, trova diletto in chi è a sua volta partecipe di morte, malattia e vecchiaia, e non se ne turba, è pari alle bestie e agli uccelli. “

Mentre tornava alla villa lo assalse improvvisa l’angoscia, il senso profondo di solitudine e d’abbandono. Lo strinse implacabile alla gola, lo piegò quasi su se stesso, sì che gli pareva non poter più sostenere il peso dei ricordi. La sua vita era insopportabile ! Il suo essere medesimo gli era alieno, e un invincibile disgusto s’impossessava di lui come una mania che la volontà non domina.
Affranto, disorientato e smarrito percorreva il sentiero ghiaioso nervosamente e per qualche tratto correndo, inutilmente volendo sfuggire all’assillo.
E quando giunse nelle vicinanze del giardino, udì voci allegre di fanciulle che echeggiavano nei meandri intrecciatisi fra le piante secolari e frementi.
Colse nell’affanno un’onda di respiro silvestre, profumata di rose, di mirto e di resine. Si fermò, ebbro. Udiva le voci risuonare nell’aria. Il crepuscolo effondeva i suoi bagliori purpurei fra le membra degli alberi ondeggianti alla brezza. La villa era ormai una sagoma oscura tra i rami. Le voci divenivano più fioche. S’allontavano verso l’edificio.
Oltrepassato il cancello egli ne colse ancora l’incanto diffuso nel verde labirinto. Si sentì pervadere dal desiderio. Vide il getto schiumante della fontana dell’antico delfino e respirò un fresco e intenso odore di muschio e di foglie putrescenti. La sera lo ammaliava con soave sentore di morte. L’orlo del laghetto era circondato da cespugli rosseggianti di belledinotte che in quell’ora schiudevano le corolle.
Egli s’inoltrò nel buio, sotto gli eucalipti, e avanzò lentamente, un’anima perduta. Immaginò di scorgerla, di incontrarla nel giardino. Gli appariva il suo viso, pallido ai raggi della luna sorgente, coronato dai capelli misteriosamente neri come la notte. Immaginò ch’ella lo osservasse intensamente e che la luce degli occhi le variasse in ogni istante, pari al scintillare delle onde sotto le stelle. Sognava d’abbracciarla, di tenerla, d’essere invaso dal suo profumo, dalla sua bellezza.
Ma aveva innanzi a sé null’altro che l’ombra del proprio corpo, percettibile appena al chiarore del crepuscolo, un’ombra che s’allungava e si perdeva nell’ombra degli alti alberi.











XXI







Alla finestra della propria stanza coglieva, con il trapassare del giorno in lunghi lembi violacei come il sangue del sole, la luce lunare sul volto immobile. Immaginava che oltre l’orizzonte si fosse scatenata l’orrenda battaglia degli dei e dei giganti e ne crollasse l’universo, così come si narrava nei canti barbarici, e il suo cuore si nutriva di una strana voluttà. Una musica a lui nota sorgeva dalla profondità del ricordo e fantasie colme di ebbrezza tornavano ad agitarsi nella sua mente. Ma insieme tutta la massa delle memorie arrivava, ahimé, non perdute, e lo circondava con volti noti e misteriosi.
Intuiva l’abisso della coscienza, e che affacciarsi sul baratro significasse sfidare temerariamente le proprie forze.
La folta vegetazione del giardino era mossa dai sussulti di un vento caldo. Un greve sentore, un torpore sconosciuto proveniva dal fondo del groviglio silvestre.
Un luminoso colibrì dal piccolo capo smeraldino, dall’ali rubre, dalla pettorina turchese sortì dal suo letto di fiori. Quale trillo di sonagliere che preannunzi l’arrivo d’un personaggio atteso ma sconosciuto, lampeggiò il vivace volo, un rapido raggio che traversa l’aria frizzante nell’aurora.
Il vento dolcemente spirava sommuovendo sulla nuca d’un biondo cavaliere le ricciute chiome ondeggianti parimente al mantello, che morbidamente ricadeva sui fianchi lucenti del destriero fulvo, il quale fieramente avanzava in misurata cadenza percotendo il suolo, agile e lieve, ergendo il collo possente su cui la criniera fluttuava. Il volto del cavaliere era ombreggiato dal pallore della bruma che s’innalzava nel sorgere della sera. Il suo sguardo vagava ad una collinetta non lungi dalla riva del mare, donde si propagava un canto simile al dolce spirare dell’aurora che risveglia la terra e fa palpitare le onde.
Un’aura senza mutamento circondava di lucori cristallini il colle rivolto al bruire marino, alla cui sommità appariva un coro festevole di giovani donne. Un candido Pègaso aleggiava intorno con le ali dalle penne di fiamma, che raccoglievano nella trasparenza del finissimo tessuto tutta la ricchezza ramata dell’ora vespertina, come a protezione d’un mistero profondo che si celasse al mondo dei molti per rivelarsi nel risveglio degli eletti.
Un giovane, dalla lunga chioma bruna e dal corpo puro quale avorio a tratti velato di tonalità azzurrine, immergeva lo sguardo nell’epilogo oltremarino. Dalla sua bocca illuminata emanava un canto dolcissimo. Attorno al suo corpo, pervaso d’un colorito roseo, le Muse danzavano e libravano le dita sottili sovra antichi strumenti a corda, strani quali le parole dell’inno. L’astro, come un dio onnipotente che rinunci al trono di gloria per svanire in un sonno eterno, copriva il capo innanzi al mondo.
E il mare era ormai un’immensa distesa oscura, solo riconoscibile dal rantolo roco. Ma in quel rumore pareva salire una rabbia repressa e avvolgersi in spire crescenti. E una passione non mai soddisfatta, non mai consolata si piegava su se stessa, contorcendosi, fremendo, piangendo, urlando. E i legami del furore s’avvinghiavano in reti vorticose, inghiottivano ogni speranza nei gorghi lividi, mentre il vento fischiava, ululava impazzito. Le onde s’aggrovigliavano in schianti istantanei, un urto stridente di lamine bronzee, che si scindevano in creste furenti a perdersi nel cupo manto cilestre. Come mani gigantesche le ondate si volvevano sopra se stesse abbrancando il vento alla cieca sotto il vano lume delle stelle, mentre le tenebre velavano ogni elemento mobile e mutevole quale un nero vapore sul mare insondabile.
Con un suono di dischi d’argento o di cristalli infranti le onde si schiantavano le une contro le altre come i rami agitati di un’immensa foresta preda del turbine. Nere come chiome invase dal fiato furente dell’aria si levavano e si prolungavano indefinitamente verso l’orizzonte e verso le rocce del lido s’impennavano caparbie e ostili, lunghi capelli neri fluttuanti.

Mauro non poteva dormire. L’angoscia aveva preso il sopravvento. Un’oppressione insopportabile lo costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi alla finestra. La aperse e per alcuni istanti respirò profondamente l’aria balsamica della notte. Poi i suoi occhi s’immersero nell’oscurità, a contemplare in alto la luce gialla delle stelle e nel giardino le corolle grigiastre dei fiori, ormai insignificanti. Udiva il mormorio della fontana nel silenzio profondo e gli pareva volesse rivelare qualche segreto. Volse lo sguardo intorno, ma il resto della casa era al buio. Solo una stanza pareva ancora illuminata. Era la portafinestra della camera di Misandra, che dava sul balcone. Aveva le tende accostate alle pareti si che poteva agevolmente scorgersi l’interno. Tra gli armadi neri spiccava il letto bianco. Due figure v’erano distese, la cui nudità levigata rifletteva la luce della luna come le morbide corolle dei tulipani o le curve delicate delle ceramiche colme di fiori.

Ella accolse l’amata tra le sue braccia e le sfiorò con la punta delle dita la bella schiena rosea che i raggi della luna accarezzavano. Le ombre giocavano con le sue dita, lunghe e sottili, e, risalendo alla chioma nera come la notte, si confondevano coi capelli seguendo il moto fluido delle mani.
Ella depose un bacio sulla nuca dell’amata che si adagiava, vinta dal sonno, sui cuscini. Ergendosi, discese dal letto, nuda e bianca. Era magra e levigata come marmo vivente. Le lunghe gambe, i fianchi eleganti innalzavano il ventre sottile e il busto su cui sbocciavano i piccoli fiori violacei e delicati, un collo candido, l’opale del viso ancora nella penombra del capo, uno scintillare di pupille mobili. La luce e l’ombra s’alternavano sul profilo cangiante della sua nudità, che pareva, nel buio della stanza, essere l’anima furtiva della notte.
Con rapide movenze spalancò la finestra. La stanza accolse l’onda carezzevole della luce lunare. Ella se ne stava in piedi avvolta dai raggi d’argento, quasi una ninfa del mare che esce dall’acque, per essere scorta dal pescatore ancora assonnato sovra la barca dondolante sulla scintillante e violacea distesa. E la sua sagoma si rifletteva nello specchio della vasca marmorea del giardino sottostante, della fontana ove l’acqua susurrava in ritmi d’onde nate nel gorgoglìo delle spume dai getti lattei delle cornucopie. Nel flutto l’immagine sua s’allungava e si perdeva nel fluido incanto di lire e di flauti, fondendosi con i fiori delle ninfee e intorno nel profumo delle piante mormoranti.
Mauro assisteva alla scena da una finestra di fronte, all’altro lato del chiostro. Ogni cosa aveva veduto e nulla gli era ormai ignoto. Immobile rimaneva nell’ombra, come un’insidia. Ed ella, pur non potendo scorgerlo, guardava proprio verso di lui, insistentemente, sicuramente ignara, e le sue pupille parevano riflettere i giochi di luce della fontana e baluginare sinistre fra i vapori della notte.
La luna splendeva alta, d’una luce fulva, un ampio specchio ovale dov’erano racchiusi i misteri notturni, che ora venivano svelati, essendosi essa dischiusa come un grande occhio.
Il disco d’ambra sovra il mare irradiava l’incantesimo tra la folta vegetazione dei boschi, serpeggiava la sua malìa fra le fronde scure e palpitanti del giardino, abbracciando i tronchi, vellicando le foglie, insinuandosi nei fiori.
Allora gli parve scorgere, nell’abbraccio delle tenebre, discendere nell’ignota oscurità una donna, bella ed alta, dal viso triste, come avesse per sempre perduto un incanto di sogni e di gioia.
Ella sormontava le creste del mare nel fragore dei venti contrastanti coronata degli astri sorgenti, e la cupa chioma carica di profumi e di corone di fiori procombeva sopra il suo corpo argenteo. Era sollevata dall’onda furiosa, regina delle vie marine e delle vie del cielo, pallida, e con fredde mani reggeva il papavero rosso dell’oblio, che baciava con languide labbra. Sotto di lei fluiva l’eterno fiume d’oro, d’improvviso fiorendo ad un sole occiduo in cerchi roteanti e barbaglianti quali sfere ignite, crollando in subitanee cascate e innervandosi in trame e rabeschi e in rinnovate cateratte frementi. Sotto di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a fiotti dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla terra a saziare i ricordi dei morti, a nutrire i campi di grano e nuove speranze e forze nuove d’esseri avidi d’esistere. Consapevole del suo potere risuona tumultuante il sacro bosco, e delle vittime offerte le ceneri vengono sparse sulle terre da arare, poi che ogni cosa finisce e rinasce nel medesimo modo e dal seme di vita cresce la morte.
Era l’ultimo giorno, l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute. Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La vita incessante, tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di speranze oltre la morte ?

Sul balcone era buio. La luce era scomparsa. Mauro uscì dalla stanza. Era inebriato, esaltato e nel contempo invaso da ignote furie e perciò si diresse inconsciamente verso il luogo dell’apparizione.
La porta dell’appartamento di Misandra era stranamente aperta. Entrava, errava per sale silenziose, il cui soffitto a lacunari era molto alto e l’ambiente pervaso da un lume vermiglio che svelava le oblunghe finestre gotiche e finiva sopra i pesanti arazzi che pendevano dalle pareti. Libri e strumenti a corda e flauti erano sparsi dovunque su cassepanche, tavoli e savonarole. L’eco dei suoi passi era l’unico rumore a fargli compagnia. Un grande candelabro era posto sopra un pianoforte. La luce vagava fra le ombre.

La luce era nell’altra camera.
Egli entrò, inondato dalla luce degli specchi, mentre la donna, apparentemente, dormiva sul grande letto bianco. Si curvò sopra di lei e ascoltò, avvicinando al suo seno l’orecchio. Non udiva il battito del suo cuore.
Io non sono vivente “ gli parve sentire. Si voltò improvvisamente.
La crisalide lignea era là, in piedi, e gli sorrideva maligna, identica alla donna distesa e similmente vestita. Lo guardava fissamente, e i suoi occhi si muovevano come gli occhi delle bambole meccaniche.
Un’ira inesorabile, cupa, devastante invase la sua mente in un’improvvisa eclissi del lume della ragione. Barcollante si diresse verso la porta e corse via, in preda a un sudore gelido. Le sue pupille si dilatavano nel buio della notte, egli voleva vedere oltre l’orizzonte della sua mente, ma era impossibile.














XXII





Al mattino si svegliò in preda a una estenuazione nervosa. S’alzò, si vestì e corse sul balcone ai raggi del nuovo giorno.
Il cielo era limpido, una lieve brezza spirava sulle onde, e soltanto una lunga nube si disegnava verso il promontorio e sopra il mare, bianca e sottile. Le gazze gracchiavano volando di ramo in ramo, sugli ulivi ondeggianti al venticello, sullo sfondo azzurro del mare e del cielo. Era lo scenario ideale per l’artista che avesse potuto coglierlo e disporlo sulla tela, e questo certo fu il primo pensiero di Mauro. Ma la bellezza che circonda l’uomo lo trova non tanto indifferente quanto spesso inetto a comprenderla e tanto più a imitarla.
Uscì dalla stanza, dirigendosi verso la spiaggia. Prese la via più breve, per la breccia nell’alto muro del giardino. Quasi muraglia d’una città vetusta i blocchi di pietre erano smossi e abbattuti nel luogo più remoto, tra gli eucalipti e le canne, e si poteva passare fra le grandi pietre disposte a secco come le rocche dei tempi eroici.
Le onde dolcemente si stendevano sul lido sabbioso e sembravano voler lambire i cespugli dei giunchi e giungere sino ai pini e agli alti eucalipti. Sui colli verdeggiava brillante la gran selva della terra corsa dai raggi vivaci.
Verdi sotto il sole le onde dileguavano, quale eco di canti fra le montagne. Un murmure alterno tra le fronde afflava e insieme alle foglie carezzava i suoi capelli.
Come lo invitavano le rive solcate dal flusso, egli depose i suoi panni ed entrò a poco a poco nel grembo delle varie scintille. La corrente fresca lo avvolse, ed egli si slanciò proiettando sul fondo la sua ombra fluente. Si sentì rapito dalla profondità, dalle rocce e dai pesci che sfrecciavano in branco. Ma la necessità del respiro lo trasse a squarciare il vello ondoso, a mordere l’aria. L’insidia gli era accanto e lo blandiva. La paura rapidamente lo spronò alla riva ed egli placò fra i giunchi il turbamento, e la stanchezza cogliendolo stornò i ricordi dei sentimenti convulsi. Il torpore e il tremolio delle correnti lo trasse serpeggiando tra sporgenze di madreperla, candide e rosee.
Una torre a spirale culminava in una cupola irregolare e lucente di linee occhiute e di bizzarri arabeschi, e rilievi smeraldini ed eburnei quasi orli arcuati di pagode ornavano il palazzo immenso. La porta ovale d’una colossale conchiglia albicava al pari dell’ambra. L’interno abbagliava di bracieri e stordiva d’incenso. Ciclopiche statue di divinità indù troneggiavano in un’espressione di beatitudine indifferente e innanzi a loro su alti tripodi bruciavano le offerte. Mostri di basalto digrignavano le zanne ai lati oscurati dalle colonne rivestite di serpi, sorrette da elefanti marmorei. Nell’alto, un vortice alla vista, la cupola gigantesca si perdeva, insondabile, avvolgendosi quale torre di Babele e risuonando delle strida dei corvi.
Su cuscini color rubino una donna con dita leggere sfiorava il contorno dei seni e un serpente strisciava oscillando fra le sue caviglie, il capo eretto e gli occhi come fiammelle. Ma oltre gli si negò il sogno, un libro chiuso.

Tutto era dunque perduto per sempre.
Era tempo di partire.
Preparò le sue cose in fretta e uscendo dalla villa rivolse per qualche minuto lo sguardo a considerarne il fascino e la misteriosa bellezza. Tre ampie cupole la sovrastavano coperte di lastre grigie, poggiando su un’architettura in stile floreale, muri e colonnati e travi d’un color giallo sabbioso. Attorno l’ampio parco la coronava della sua fronda lussureggiante di cedri del Libano, palme, pini, eucalipti. Si scorgevano in volo le gazze e s’udivano i merli cantare vivaci e fantasiosi fra i cespugli. Bisognava andare.

Mentre egli saliva il sentiero della montagna, e il suo cuore si ostinava a salire, vide levarsi del vapore misto a brandelli di arso fogliame. Non comprendeva donde provenisse quel monito. Quando giunse alla meta cui il suo cuore anelava e fu nella radura radiosa sotto l’ombra degli alti pini dove frinivano le cicale nell’ora sacra al grande dio Pan, allora s’accorse che il sentiero che aveva percorso era minacciato da voraci lembi di fuoco che crepitavano e crescevano e colmavano il cielo in un ampio boato. Tentò quindi di scendere per il sentiero e di tornare, ma le fiamme, ormai molto elevate, stavano già divorando gli alberi sulla via e i cespi di ginestra selvatica.
Il vento rinforzava, empiendo le lingue vermiglie, vaste vele correnti sovra la selva arida. L’incendio saliva velocissimo, un’ondata rombante, inondando il versante del monte in forma d’un braciere inesausto.
Egli si vide perduto, e si precipitò in corsa, ansimando, in preda al panico. Ma poi scorse una via di scampo che conduceva ad un altro pendio della montagna. Non cessò di correre, poi che le fiamme incalzavano. E tuttavia gli parve d’essere pervaso anch’egli da quelle fiamme cui sfuggiva in un balzo d’agile animale, e che quelle fiamme così alte e terrificanti e onnipotenti gli trasmettessero la propria forza e la vigoria della divinità.
E quando fu in salvo per un altro sentiero, dopo una corsa ansiosa, e si volse a contemplare le torri di fumo denso e rossastro che empivano il cielo quasi estese nubi di tempesta, capì che per lui erano sorte e da quelle era stato purificato, ostia risparmiata dal sacrificio, e un dio gli aveva offerto quella gioia, serbata ai pochi, di sentirsi così vicino alla morte.
Egli vide sollevarsi sovra la montagna la corsa del dio vittorioso e il suo destriero splendido di crini accesi, asceso dalla terra alle folgori della tempesta, e il suo volto si perdeva nel cielo.
Nell’ebbrezza ebbe la triste sorpresa. Nel rogo immane era avvolta la villa di Misandra. Un fumo denso saliva al cielo e si scorgevano le mura nerastre, ormai prive del tetto.
Qual era stata dunque la sorte di Misandra ? Ormai era troppo lontano per saperlo, il suo cammino non gli permetteva il ritorno e il fuoco ancora crepitava per tutto il versante della montagna.
Ne avrebbe avuto notizia, ma troppo tardi.
Continuò dunque a camminare e arrivò in una radura dove sorgeva un riparo di pastore, tutto di pietre a secco.
Era quasi il tramonto. Un vecchio era l’unica presenza umana.
Come una scintillazione di rapida vita gli esultò d’un tratto nel corpo. Gli si dilatò l’anima dentro con impeto com’era giunto al vertice del colle, e gli ulivi ad ondate grigie si stendevano sotto di lui. Si sentì partecipe della sicura quiete delle cose viventi, respirò l’aria, strinse con la mano un tronco ruvido d’ulivo.
Stava il vecchio innanzi alla visione del mondo.
Era seduto a margine della strada, con un bastone in mano, l’aria tranquilla. Guardava di fronte a sé l’estesa catena delle montagne illuminate dal sole.
Così, mentre passava, egli vide un vecchio e s’immedesimò in lui. E gli parve essere ai confini della vita, innanzi alla vista immensa delle esistenze passate e future. Come se attraverso le fibre del corpo filtrassero gli aneliti di tutte le vite umane, sentì nell’attimo la rivelazione. In lui trascorreva l’eterno divenire, in lui trascorso avrebbe continuato il suo fluire in altre forme, in altre esistenze.
Lo ammoniva il vecchio, gli diceva con lo sguardo : “ Accetta il destino “. Ed egli abbassò il capo.
Una sensazione opprimente stringeva come una morsa le tempie e il suo cuore. Ma nel silenzio, un gelido manto, ecco un’idea insopprimibile gli si fece innanzi. Certo era così, nella sua solitudine egli non era solo, perché quella solitudine era comune a tutti gli uomini, a tutti gli esseri viventi. Non era solo nella sua solitudine !
Allora ricordò le parole del filosofo errante per le vie di Torino, del filosofo folle e denigrato e pur voce vivente, parole che risuonavano, una volta attinte alla fonte, dallo strumento della memoria. E lo ammonivano, nella consapevolezza della solitudine dell’uomo della conoscenza, della vecchiaia inesorabile che reca con sé solo il fardello della saggezza. Intravveduta la luce della vita da lontano, come un miraggio di meridiano splendore, come un attimo di gioia, lo colgono ben presto le nebbie della morte, ma egli ha veduto ciò che in ogni vita e in ogni tempo non sarà mai dimenticato.
Allora considerò il tempo trascorso in quell’angolo della terra, nella solitudine della giovinezza. E vide correre gli anni cinti dalla desolazione, dal tormento dello spirito, dall’asfissia del vincolo familiare. E scorse in un attimo i volti assurdi delle compagnie e delle scarse e vane amicizie, come una sfilata di maschere, e ne rise nel suo cuore di un riso amaro.
E, nell’ombra dilagante, sopra di lui, non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro indiscernibile senza fondo.
Ormai egli era certo. Ai suoi piedi e dietro le due colline ai lati si dilatava il mondo enorme dell’innumerevole società umana. Città gigantesche, rimbombanti di rumore di macchine, accomunavano in un fato senza nome milioni di uomini e tutti aspiravano a un incessante lavorìo di brame, a uno spossante travaglio, ma sopra, sempre più appesantendosi, si posava un’immensa nube nera, colma d’inerzia e di morbo.
Una nuova età s’approssimava, un’era cupa e piena d’orrore.
Senza più sentimento, piegò il volto sul petto, stanco.














































































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