I
Sopra la montagna che
sovrastava il paese, scorgevano il disco rosso del sole tramontare
entro un trionfale incendio. Le lunghe lingue di fuoco si libravano
sul mare azzurro cupo e le lontane linee dei promontorii francesi
parevano immergersi lentamente nello specchio ceruleo, quasi dorsi di
mostri marini a raggiungere le oscure profondità.
A oriente s’intravvedeva
la luna pallida.
I pini sul dorso selvoso
del monte Nero fremevano al venticello fresco. Il silenzio regnava
nei cuori.
Loro, i compagni, forse
pensavano al ritorno. Ma lui, lui non pensava. Aveva nell’animo
un’immagine fissa, ossessionante fino al tormento.
E il suo sguardo
perdendosi nella luce morente dell’occaso sanguigno e baluginante
in guizzi ancora e accecanti saette, si socchiuse, come per mirare
oltre.
E oltre vide Misandra.
I capelli aveva pari alle
fiamme del tramonto, e gli occhi simili all’acque di sorgenti
montane, profonde e verdi n’erano le pupille, siccome sui monti le
fontane gelide scorrenti rilucono fra l’ombre degli alti abeti.
E lontano, verso il sole
morente, pareva udire un lamento, un coro unanime di voci, e sembrava
che un corteo lunghissimo s’immergesse laggiù, nel mare, insieme
all’astro rovente. E li vedeva, laggiù, turbinare in una danza
caotica, quasi al ritmo ossessivo d’una musica lugubre,
inesorabile, inestinguibile. Ma essi s’estinguevano, e a poco, a
poco, scomparivano entro l’arco di fuoco e di sangue.
E, mentre procedeva tra
gli alberi, una musica soave ne faceva stormire le fronde profumate e
lo trascinò verso una roccia in direzione del mare. Dall’alto
vide, all’improvviso, l’immensa distesa che sembrava per magia
cingere la montagna, come se il paese sul litorale fosse stato
sommerso.
Dietro di lui lo stradone
s’allargava e una sabbia rossastra riluceva ancora all’ultimo
sole, ma se la cima era spoglia non così erano i lati della
montagna. Donde erano saliti, l’ultima tappa alla volta della
modesta vetta, qui era invece un’altissima selva di pini, tanto
alti nell’abbraccio del monte per l’eccesso dell’ombra, e
pareva un insondabile colonnato che reggesse una volta invisibile
eppure non penetrata dai raggi.
E la selva s’allargava
immensa, si moltiplicava su e giù per le colline oltre il monte Nero
e oltre ancora, sovra le montagne. E la luce traspariva fra le fronde
siccome tra le vetrate d’un tempio.
E il sentiero si perdeva
senza meta, sotto all’altissima navata, di tra le colonne rugose e
profumate del muschio che maculava il legno brunito, innalzantisi
tronchi quasi fossero bronzei a sostenere il peso d’ardite volte.
E quasi una nebbia, una
bruma oscura sulle pianure del Nord, essa selva si stendeva ovunque
quale un’onda cupa, colma d’alghe verdi si plachi sovra il lido,
e tutta empiva dell’abbraccio l’ineguale estensione delle terre,
sì che pareva che innanzi al sole brulicasse un mare di fronde
frementi.
E man mano che avanzava il
suo passo, egli scorgeva nel verde smeraldo brillare le rosseggianti
piccole sfere dei corbezzoli. Ne coglieva qualcuno che gli si
scioglieva nella bocca, dolcemente.
E penetrava tra le fronde
frementi che sapevano il respiro del mare. E poi, come appena uscito
dal flutto che si richiudeva dietro di lui, il cammino continuava e
continuavano i compagni a seguirlo. Non conoscevano essi la meta,
ignari. E ben presto vollero tornare, poi che la notte annunciava la
sera rapidamente.
Allora convenne a
discendere. Ma, quando fu al bivio che conduceva al paese da un lato,
dall’altro si perdeva nella campagna, disse loro l’addio e si
volse incurante alla buia contrada.
Quando giunse al cancello
della villa, l’immenso giardino era immerso in una luce rosata e
tenue, una nube di vapori nunzii d’estasi oltremarine.
Quando suonò il
campanello, gli fu aperto. Un vecchio giardiniere lo condusse sino
alla grande porta di legno lucido.
Entrò.
L’atrio era in penombra.
Un profumo di fiori lo pervadeva. Scorse vicino a una finestra,
attraversata dalla luce crepuscolare, un gran vaso di ranuncoli e
gerbere, di colore violaceo e blu e rosso vivo.
Nella sala, sopra il
pianoforte dalla cassa verticale, c’erano altri vasi di ceramica,
colmi di gerbere rosse e dei pennacchi di canna della Pampa.
E su tutti quei fiori
aleggiava l’alone del tramonto. Così un’unica tinta di cielo
vespertino s’era posata magicamente anche sugli arredi, sopra le
tappezzerie, sui mobili, sui tappeti.
E i quadri parevano
rinnovati da quella luce consueta in quell’ora, eppure insolita per
i paesaggi ch’essi presentavano o per i volti che esigevano una
luminosità diversa. Pure, tutte le immagini sembravano avide di quel
lucore fuggitivo, quasi lo chiamassero a loro pur di non rimanere
oscurate.
E per una finestra
intravvide nel giardino le rose rosse rampicanti che si sostenevano
al venticello intrecciate alla rete sopra il muretto di cinta, e da
un lato tra le foglie notò i piccoli e lucidi frutti del susino,
brunicci, quasi scarlatti.
Si voltò a un improvviso,
lieve rumore. Non era nulla. Ma, mentre percorreva il corridoio,
oscuro, verso la stanza che sapeva essere stata preparata per il suo
arrivo, lo assalì l’onda dei ricordi, dei ricordi più lontani,
quando amava d’un amore infantile quella bambina, un’occasione
per rammentare il viso di colei che più non aveva veduto, e che ora
gli offriva un’ospitalità silente e misteriosa, come appunto per
ricordargli che altro non restava se non il ricordo.
Come fu sulla soglia della
camera, aperse lentamente la porta di legno scuro. Lentamente
s’immerse nell’ombra.
La stanza appariva
smisurata, i mobili sembravano vaghe masse fluttuanti nel fondo.
Il soffitto biancastro era
pervaso da una strana e tenue luminosità. Pareva la superficie
d’un’acqua immota, illustrata dal chiarore delle stelle e dalla
pallida regina della notte.
E quando si coricò nel
letto, i raggi di luna s’insinuarono per le imposte chiuse. E il
bianco lenzuolo lo avvolse come un’acqua chiara.
II
Sognava.
Era all’interno d’un
antico tempio pagano. Le colonne candide, avvolte di fitta edera,
s’alzavano a sostenere un architrave roso dai secoli. Rivolgendo lo
sguardo in alto, poteva mirare le stelle attraverso un vago intrico
di rovi, di edere, di erbacce, cresciuto sopra alcune colonne quasi
una chioma arborea.
La luna illuminava al
centro del tempio un grande bacino marmoreo, colmo d’acqua limpida.
Com’egli vi pose la
vista, vide un volto a lui noto, ma prodigiosamente mutato.
Una donna appariva,
bellissima, la cui fronte splendeva della luminosità pura, eburnea,
della luna, e i cui capelli, d’un colore tra il castano e il fulvo,
scendevano delicatamente sulle spalle. Gli occhi brillavano, ed erano
grandi e profondi e in essi l’iride mutava a seconda dei raggi che
la colpivano, poiché era costituita da tre colori : intorno alla
pupilla una tinta bruna, scura, attorno a questa un alone giallastro
macchiettato di verde, e l’ultimo alone era grigio. Il viso
rifletteva i lievi raggi lunari e su di esso la morbida bocca
risaltava, rossa e sensuale.
Ma, quando egli, dopo una
pausa di sorpresa e di contemplazione, si rese conto del viso che
aveva dinanzi, non poté non essere colto da un senso di sgomento.
Era infatti quella donna,
pur nelle linee dell’ovale e nelle fattezze del naso e delle
orecchie squisitamente femminili, era in modo straordinario simile,
anzi identica, a lui stesso.
E quando levò il volto
dallo strano incantamento, s’avvide che tra le colonne s’erano
insediati, al pari d’improvvise e mostruose ragnatele, dei grandi
specchi, appannati e inverditi come l’acqua degli stagni e
incorniciati da legno dorato, splendido e radiante.
E poi lunghi rami di
mandorlo, dai fiori candidi quale neve pura, spandevano la viva e
fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi in
essi creavano l’illusione d’una remota primavera sui campi e sui
ruscelli di paesaggi lontani.
Al mattino spalancò con
un ampio gesto rituale le persiane della finestra, e il sole lo
abbagliò.
Sebbene non fosse tardi,
la campagna era inondata dalla luce, e le piante del giardino e i
prati e le colline in lontananza brillavano, ancora velati dalla
rugiada.
Gli uccelli cantavano,
erano rondini e passerotti che avevano nidificato sul tetto della
casa e frequentavano i rami degli alberi a frotte, rapidi,
intrecciando i loro voli vivaci nell’ebbrezza del giorno nuovo.
Mauro respirò
profondamente l’aria pura e fresca. Si vestì in fretta per uscire
e cogliere l’ora fuggitiva.
Probabilmente Misandra lo
attendeva nel bosco, dove si recava sempre a passeggiare. E forse
egli avrebbe anche incontrato il marito di lei, il conte Oberto. Del
resto, per molti ettari non si potevano incontrare altre persone, a
parte l’esigua servitù.
Mauro si trovava nel
piccolo regno di sua cugina.
III
Misandra abitava fuori dal
paese, nella villa antica.
L’unica figlia del
defunto zio era un’attrattiva senza paragone, quando si mostrava
per le vie del paese, anche se ciò accadeva assai di rado. Era
bellissima.
Sposata al conte Oberto
Aloisio d’Ormengo s’era ritirata nella campagna, per una sorta di
riserbo, o secondo i maligni, di alterigia nobiliare, in realtà
perché il conte Aloisio aveva dilapidato buona parte delle sue
sostanze e con quel che rimaneva s’era ritirato in volontario
esilio nei possedimenti aviti, che non erano stati perduti al gioco
come tutto il resto del patrimonio.
E mentre pensava lungo il
cammino, Mauro osservava intorno.
La foresta s’estendeva
fitta e profondissima.
Solo la torre a cupola
della vecchia villa emergeva rilucendo d’un verde smeraldo. Un
mondo davvero incantato le sorgeva intorno; le piante erano cresciute
dapprima educate nelle loro aiuole e nei loro vivai e trattenute
alcune e legate a paletti e sempre opportunamente sfrondate, e gli
arbusti e gli alberi da frutto potati nella giusta stagione, dipoi,
col trascorrere del tempo, erano state a poco a poco trascurate se
non abbandonate completamente, sicché, con l’assottigliarsi del
patrimonio famigliare, avevano per così dire ripreso l’antico
stato di natura e, affrancate, erano tornate libere e selvagge.
Esse parevano veramente
quei pensieri e quelle fantasie che, repressi e circoscritti e
ostacolati in ogni modo durante la veglia, prendono irresistibile
vigore nel sonno e, crescendo smisuratamente, invadono
l’immaginazione superando ogni argine, quasi un fiume in piena
nutrito dalle piogge abbondanti sulle montagne.
E, colmato dalle piogge e
nutrito da una piccola fontana sormontata da un simulacro di delfino
corroso dal tempo, faceva scintillare le sue fievoli onde un
laghetto, dalle acque verdastre, circondato da lauri e da pini, sul
quale il vento sibilava provenendo dal mare e tentava di conferirgli
il suo stesso odore salino ch’effondeva nell’aria.
Intorno la fitta boscaglia
lasciava filtrare i fasci luminosi, dove svolazzavano le tortore
grigiastre. Le lunghe e tenaci piante rampicanti intessevano vaste
trame tra gli alti rami delle querce, stendendo ampie tele verdi
incompiute fra i legni contorti, che fungevano da naturali telai. E
il manto smeraldino si confondeva qua e là in ombre senza fondo o si
lacerava in squarci di luce abbagliante. Talvolta un silenzio
assoluto e l’assenza di vento lasciava sospesa nell’immobilità
quella visione d’acque limpide e di lussureggianti intrecci
floreali, quasi si fosse innanzi ad un quadro dipinto da un pittore
ammaliato, ma poi, quando il silente incantesimo si rompeva o per
l’improvvisa irruzione d’un colombo agitato o per gli sbuffi
capricciosi dell’aria frizzante, allora il movimento inaspettato
animava improvvisamente le piante e gli elementi, come se si
destassero degli spiriti potenti dal pacifico sonno dei secoli.
Talvolta una radura
s’apriva, investita dai raggi del sole che s’innalzava
trionfante, e da quel luogo era possibile volgere lo sguardo alle
montagne intorno, dove i pini erano più radi e lasciavano libera la
nuda roccia che pareva in alcuni punti riflettere il giorno fulgido.
E più lontano ancora più
alte erano le montagne e una vegetazione ignota le possedeva, bruna e
impenetrabile.
E se si procedeva nella
foresta, allora s’udiva anche il mormorìo sommesso d’un ruscello
che scorreva tra i sassi e poi fluiva in un rivo quasi sepolto dai
giunchi sulle sponde, ma dove s’allargava e stazionava in
insenature, formava specchi d’acqua profonda sulla quale le ninfee
navigavano dai fiori bianchi, sorreggendo qualche rana sonnolenta e
sfidata dal volo d’una rapida libellula.
Così discendendo a valle
il rivo alimentava qua e là degli stagni nel terreno irregolare,
nutrendo un folto canneto e malve e trifoglio.
Si sentiva cantare in un
intrico di castagni e di querce abbracciati da liane robuste. Era un
trillo argentino di merlo o una gazzarra di passeri o di storni
pasciuti dove il folto delle foglie si confondeva con l’erba alta,
ma in alto appariva il falco nel giro ampio delle grandi ruote :
planava immobile e maestoso.
C’era un vecchio mulino
ad acqua nascosto dalla vegetazione. Le erbacce e i rovi avevano
formato un alto recinto attorno ad esso, ma la sua fabbrica tozza
appariva ugualmente, anche se rivestita d’uno spesso strato di
rampicanti.
Le pale lignee erano in
parte consunte dal tempo e divorate dai vermi e dall’umidità.
L’acqua che cadeva nel bacino di pietra sembrava aver fretta di
lasciare quel luogo desolato, come avesse orrore dei muschi e delle
erbe tra i quali doveva correre e che avevano riempito quel rudere
senza gloria.
Il canale era ostruito dal
fango e dai detriti trasportati dall’acqua, sì che il rivo
s’allargava in nere pozzanghere dove s’agitavano girini e larve
di zanzara.
Un sentore d’umor
fracido aleggiava sotto i rami contorti d’un fico gigantesco, i cui
frutti caduti imputridivano gonfi nel liquame.
E oltre la siepe di
pittòsporo selvatico il suolo declinava seguendo la fuga del
fiumiciattolo.
Ora era nella pineta
presso al mare.
Sotto ad un alto pino
stavano due ragazze. Erano seminude e non s’erano accorte della sua
presenza. La brezza marina enfiava loro delicatamente le chiome e
sollevava un poco le vesti deposte ai piedi.
Erano molto simili tra
loro, parevano riflettersi l’una nell’altra. Erano bionde, e le
membra avevano d’un incarnato roseo, che, quando era illustrato dai
raggi tralucenti fra le fronde lievemente mosse, risplendeva.
Così chiaro era il loro
incarnato quale hanno le rose pallide non ancora trascorse e al
culmine della loro pienezza.
Veramente pareva
realizzarsi il sogno dei suoi sensi, un’illusione sfuggiva agli
occhi profondi, quale sorgiva cilestre, della più casta, mentre
l’altra sorrideva d’un caldo anelito, come un ansito del giorno
estivo che forse si soffermava sperando fra i suoi capelli.
Preso da quella visione,
siccome fosse in deliquio, non udiva neppure il mormorio del mare.
Nel boschetto irrigato
dagli accordi delle onde sonore e regolari si disperdeva e si
smarriva il venticello carico d’umidi vapori, e al largo la vasta
distesa non si muoveva, assonnata, rifrangendo la luce
perpendicolarmente sfrecciante al cielo.
E nell’ombra e nel
silenzio dello spazio raccolto, nell’ombra e nel silenzio s’udiva
un dolente sospiro, un impercettibile, un sussurrato richiamo.
Dov’era il suo anelito ?
Oltre le montagne, oltre i mari ?
Là nel trionfo del sole,
là intorno alle vette superbe delle montagne il suo cuore aveva
sfidato distese infinite di nubi, s’erano inebriati i suoi occhi
della vertigine degli abissi.
Aveva cantato il suo cuore
un canto di potenza e di gioia, mentre ascendeva di roccia in roccia,
e udiva il gracchiare dei corvi echeggiare e il volo rapido
scomparire nella luce, fra le nuvole.
Tutte le vette intorno, e
tutti i boschi allora vibravano perdutamente nell’immensa ebbrezza.
Ma un gemito, un sospiro
pareva salire dalla valle.
E, preso dal ricordo,
volle riposare un momento all’ombra degli alberi.
Trascorreva il primo
pomeriggio.
“L’ora che lo suo
dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno;
e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per
venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi
partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera,
e puosimi a pensare di questa cortesissima.”
Rammentò il dolce
rapimento che lo aveva colto alla lettura della Vita
Nova e il dono che aveva diligentemente
preparato per un amico, confidente dei suoi sogni, il Libro
di Coloro che temono.
E insieme a quel breve
scritto era fuggita anche la sua adolescenza. Ma la rimembranza di
essa era cresciuta tanto da colmare la sua vita che rimaneva, siccome
la stanca celebrazione ad opera d’un popolo vecchio della
straordinaria storia degli avi.
E così ricordava il dolce
amore dell’adolescenza, il dolce amore sognato.
E la memoria anche gli
donava per pochi istanti i giorni del passato, quando durante
l’estate, da fanciullo, saliva per un sentiero nel bosco fino a un
cascinale abbandonato.
Il giorno splendeva d’una
luce intensa.
Gli alberi erano avvolti
da un alone dorato.
I ruderi delle cascine
erano seminascosti dai rovi e dalle gaggìe.
E da quel sito solitario
in alto sulla collina, si scorgeva un panorama di colli e balze
prealpine, coverti da un unico manto selvoso, d’un verde lucido.
E poi rammentava la
villetta che sovrastava la casa colonica, coi due ippocastani dal
lato sinistro e il giardino e il frutteto, e il grande prato davanti.
Dopo il giardino c’erano
in un boschetto tre alti cedri del libano che ondeggiavano
maestosamente nei giorni di vento. E c’era una nera quercia
frondosa che affondava le nodose radici nel lieve pendìo come
braccia forti. E poi v’era qualche abete e poi ancora una china
erbosa che terminava in un torrentello.
Quanti sogni viaggiando
avevano un poco sostato in quel luogo, e, come i cavalli d’una
vecchia diligenza, s’erano abbeverati alla stazione, e, riposatisi,
di nuovo avevano ripreso la loro corsa per dileguarsi all’orizzonte.
Quelle colline peraltro
erano già ricche di memorie. Uno scrittore che aveva abitato in una
casa non lontana, passando in carrozza o a cavallo aveva ricevuto
sicuramente l’ispirazione dal fascino del paesaggio, dall’atmosfera
sognante o forse dalle bellezze locali. Ma c’erano altre memorie,
meno feconde di volumi, certo, pure assai più vive e tenaci, e vaste
per ogni vita per lui che ricordava.
E ricordava ogni evento in
un alone di giorno luminoso, ogni giorno del suo passato immerso in
una pura bellezza, in un quadro radioso di colori e di spazi
sconfinati, quasi che, avendo appena terminato la lettura del più
bello dei romanzi, ora ne ripercorresse le vicende, facendo rivivere
i personaggi e le emozioni e le peripezie, nella rimembranza.
E così rammentava la
vasta distesa delle montagne, e l’altezza dei picchi rocciosi,
immersi tra le nubi. E la coltre delle nebbie che s’adagiava sui
fianchi del monte distaccava, come in un sogno, un mondo insperato di
dei dal mondo, oscuro nella valle, degli uomini. Lassù, per certo,
un altro sole, più grande e più benevolo, illustrava della sua
gioia, del suo gaudio immenso, le vette e le rupi ardite e le rendeva
partecipi d’una vita celeste ed immortale.
Non avrebbe voluto tornare
indietro.
Lassù lo attendeva la
visione del mondo.
Lassù gli si sarebbe
mostrata la verità in tutta la sua grandezza.
Pure, doveva tornare.
Certo a quell’ora Misandra lo aspettava.
La selva appariva d’un
verde cupo, qua e là tra le nebbie vaganti come spettri che, più
spesse a valle, si diradavano, s’allungavano, si frastagliavano man
mano che, innalzandosi, volitavano verso le alte montagne.
Ed egli s’inoltrò per
un sentiero, tra i castagni ombrosi, nell’umido silenzio del
sottobosco.
IV
Misandra se ne stava sotto
un vasto pino. Il venticello proveniente dal mare ne faceva stormire
le fronde. I raggi trapelavano fra i rami, che rilucevano nel
mezzogiorno.
Come già in un tempo
lontano ella lo aveva atteso sotto quelle foglie tremule in autunno,
così ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a lei
potesse meglio ricordare. Ricordare quegli anni trascorsi quasi in un
eterno oblio. Rammentava il canto dolce, ora fievole ora intenso,
librarsi in invisibili volute dalla sua pura bocca. E al suono d’una
chitarra si disperdevano le note e la voce nella campagna, alla sera,
quando soltanto un lembo di luce purpurea aleggiava stanco sopra
l’orizzonte del mare. “ O dove sei, incanto di gioventù, sorriso
perduto per sempre ? “ diceva egli a se stesso.
E ora a lui si volgeva,
benevola, e lo guardava sorridendo : “ Sono contenta.
Finalmente sei venuto, dopo tanto tempo. Io ti ho sempre atteso, con
ansia in certi momenti, ma in fondo al mio cuore non dubitavo di te,
non potevo dubitare. “ Così diceva, e lo fissava nel volto,
intensamente. Era pallida, ed avvolta nella luminosità del meriggio
pareva emanare una luce propria. I lunghi capelli le discendevano
sulle spalle, fulvi come i raggi dei tramonti, e gli occhi le
splendevano, vivi e strani, indefinibili, poi che ne variava il
colore a seconda dell’ombra o del chiarore, sì che andavano, dalla
pupilla all’estremo arco dell’iride, dal giallo oro al verde
luminoso, al grigio azzurro proprio dell’onde del mare.
Egli alzò allora lo
sguardo verso di lei. Ed ella, silenziosa, intensamente fissò i suoi
occhi. Ed egli scorse gli occhi di lei, brillanti e invasi di dolce
indulgenza.
E subito abbassò il
volto, preso da vergogna. In verità non riusciva a sostenere la
vista di lei. Un fiotto veemente di passione gli aveva rivelato in un
brivido che ella era della sua medesima natura, della sua medesima
sostanza, e ch’essi respiravano nel desiderio l’aura della
medesima armonia.
Ma erano fuggiti gli anni
lontani, erano per sempre fuggiti. Ed egli ricordava le speranze
della sua giovinezza, quando inerpicandosi per le pendici delle
montagne saliva sino alla vetta di roccia in roccia e sognava una
vita splendida e possente. Ma la vita si rivelava troppo breve e
troppo vana.
E così, dopo ch’egli se
n’era andato dal suo paese per tentare la fortuna nell’esercito,
ella s’era unita in matrimonio con il conte Oberto.
Il conte era peraltro un
buon amico di Mauro. Avevano trascorso gran parte della giovinezza
insieme e avevano insieme corteggiato le ragazze negli anni
dell’esuberante libertinaggio.
E in quegli stessi anni,
ahimé, egli era innamorato di Misandra. Ma la povertà non gli aveva
permesso di chiedere la sua mano. Così era partito, in cerca di
avventure, e per dimenticare.
Ma non aveva dimenticato.
Ed ora era dinanzi alla donna che aveva amato, che amava. Quale altro
sacrificio doveva chiedere al suo cuore ?
Ella si allontanò,
chiamata da un servitore per alcune faccende alla villa. Cortesemente
si congedò dicendogli che presto si sarebbero rivisti e che nel
frattempo egli poteva approfittare della bella giornata di sole per
camminare ancora nel bosco o lungo la spiaggia dove la pineta
estendeva i suoi rami ondosi.
Obbedì.
La passeggiata era in
effetti gradevole e il sole del pomeriggio inondando la vegetazione
ne schiudeva il sentore acre e possente di resine e liberava il
profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo
anfratto da cui la vista si perdeva sul golfo splendente, si sedette
sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore del tabacco si
fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo
espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini
che sorgevano in lui disordinatamente.
Una distesa verde
d’alberi, di cespugli e di macchia mediterranea si prolungava sino
al mare, distinta dal flutto cilestre da un breve serpeggiare di
sabbia.
Il fumo s’alzava
nell’aria, si smarriva come i suoi sogni, svaniva nel puro
cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di
fanciulle. Il sito era silente e colmo d’un torpore lussureggiante.
Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco confondere negli
esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili che
cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli
lenti.
E ricordava quella
bellissima immagine che Foscolo ricreò nelle Grazie,
traendola da Omero, e gli parve che un infinito sciame d’api divine
e luminose s’estendesse sul mare azzurro e calmo come gli occhi
d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche che a lui
apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo
invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde,
spumeggianti sulla battigia, e udiva il murmure delle acque
ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel
sonoro fluttuare, ripetuto innumerevoli volte, quasi una musica
d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni
come le voci vaghe di interminabili cori di anime un tempo viventi,
che celebravano e rimpiangevano la breve esistenza ?
E pensava alla propria
esistenza, agli anni irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava
solo un incerto ricordo, ai volti incontrati di gente fuggevole e a
qualche gentile volto di fanciulla, che aveva amato segretamente in
brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria meravigliosa
vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido
riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle
fanciulle non avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli
invece aveva assaporato con lentezza la beltà senza paragone dei
corpi e delle anime inconsapevoli. E così, innanzi agli stupendi
paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e davanti
alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi
dello spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri
dell’amore in quei limiti stessi che lo facevano desiderare.
Infatti egli non poteva amare se non quello di cui sentiva
profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come
l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio,
avido di bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi
volti di donne brutte che parevano essere più dei due terzi della
popolazione femminile. E veramente la bruttezza, la volgarità, la
scipitezza appaiono nella donna con fortissima evidenza, ma la
bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre rapito, quando
appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura. Allora
i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio
come si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile
prospettiva su monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente
l’antipatica realtà, fredda e vuota, e si consolava e sognava i
mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava
illusioni oltre le illusioni, in una infinita distesa di forme e di
colori, un oceano sconfinato di fronte al quale il suo occhio
interiore restava fisso in preda allo stupore e allo sgomento, poi
che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere nella
sua anima.
Se chiudeva gli occhi
spesso si trovava nel buio dello spazio fra gli astri ed innumerevoli
nubi di luminoso pulviscolo stellare, e con incredibile velocità
trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella sospensione del
tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i secoli, e
le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua
fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza,
misteriosa e irriconoscibile, quasi un flutto inarcantesi in un
attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e invisibile prima
del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo, nel
vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla
propria vita trascorsa e ormai dissolta, presente di quando in quando
nel ricordo, ma raramente come nitida immagine anzi più spesso vaga
e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la gioia di
attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei
momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una
freschezza, di una dolcezza e di un senso di vastità così forte e
di magnanimità, che il suo spirito si sentiva sollevato
all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei mondi che appaiono
sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella
solitudine.
E quegli istanti di felice
rimembranza gli consegnavano, pur nella loro brevità, la
giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume torbido
della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia
trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà
quale mano, e che talvolta torni in superficie nelle soste della
corsa impetuosa, e improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato
dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi
senza seguito erano sorti in lui dalla fuggevole rimembranza, dalla
rimembranza fuggevole d’immagini deliziose quali quelle scaturite
dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e Isminia,
così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché,
nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono
flebile che si smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana
sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco nascosto. Laggiù si
celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e selvaggio. Le
tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin
dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi
gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava
il suo occhio, luminoso come un faro.
E avanzava sul sentiero
sassoso, in mezzo ai pini fruscianti.
Il tramonto arrossava i
loro tronchi, che avevano l’aspetto di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare
immenso, il cielo era invaso da strisce di nuvole fosche che
navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare
dell’onde e gli parve che i monti intorno echeggiassero a
quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al
mare murmureo, udì un improvviso fruscìo fra i pini e i ciuffi di
ginestra selvatica. Si volse incuriosito e intravide fra i rami e le
foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo
e della luna nascente furono incantati e carpiti da occhi che
nell’ombra lo guardarono quasi gemme, rilucendo d’una luce
indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi marini e
il fulgore degli astri.
E si allontanò nel
silenzio.
Ma allora le tenebre
estendendosi sul mare iniziarono a costituirsi in una coltre fitta e
impenetrabile, mentre il sole soltanto emergendo dalla linea
dell’orizzonte occidentale apparve fissarlo quasi un occhio
sbarrato, immenso.
Era ella quel biancore,
quella luce che svaniva a poco a poco su per il promontorio, nel
folto del bosco ?
Anche un tempo s’era
abbandonata a una fuga, leggera, sulla spiaggia, in un tramonto ormai
vago nella memoria. E poi s’era rifugiata fra alte piante, nella
pineta e nella macchia, e poi ancora sotto gli eucalipti fino alla
foce d’un piccolo fiume.
Forse fra piante
fantastiche ella s’era celata, né apparve dapprima. E poi, in una
fragranza di fiori sconosciuti e di ghirlande intrecciatesi nel
canneto e sui tronchi dei lauri, si svelava, lievemente avvolta nei
suoi lunghi capelli ambrati.
Così ora ella scompariva
fra gli alberi oscuri e certo il suo candido corpo era illustrato dai
raggi discreti della luna che s’insinuavano tra il fogliame. Ella
si schermiva forse dietro larghe foglie d’edera, umide di rugiada
notturna. Forse s’era volta verso di lui e lo guardava un poco
stupita. Gli occhi brillavano della luce stellare e la chioma
castanea le cadeva sofficemente sul dorso e le fronde le nascondevano
il pube e la sua pelle eburnea s’illuminava, sì ch’ella appariva
veramente una dea.
Ah, dunque ricominciava la
sua angoscia, ed ella gli sfuggiva ancora nella notte, mentre il
turbamento della sua apparizione non si placava. Ancora, non aveva
forse desiderato ucciderla ? Sì, avrebbe dovuto offrirla in
sacrificio per espiare la colpa degli avi, per giustificare le
sofferenze della sua stirpe. Ma ne era ancora innamorato, e pure, in
lui sorgeva veemente la brama di averla tra le braccia e di
stringerla, di soffocarla. Quanta inutile sofferenza ! Quanti anni
votati al dolore, per quell’illusione, per quell’attrazione
funesta verso il miraggio della felicità ! Un delirio soltanto, uno
spossante e insensato delirio carnale, un’aspirazione al
soddisfacimento dei sensi privo di vero appagamento. Ma perché
l’aveva conquiso così, dietro la malìa del suo fascino, oscuro,
pieno d’insidie e di tormento ?
Ricordava, ancora una
volta. Una bambina di circa dieci anni, ma già sviluppata e
aggraziata, gli si era posta innanzi, a una svolta della strada, sul
far del pomeriggio, quando egli era solito fare la passeggiata, e gli
aveva chiesto, con un imbarazzo pieno di una vaga sensualità, che
ora fosse. Egli aveva risposto, e in quell’istante aveva sentito un
tremito invaderlo da capo a piedi, e un folle desiderio gli aveva
fatto stringere i pugni in una morsa d’odio. E forse ella
trascorreva ancora oltre l’orizzonte oscuro, in lande non
rischiarate dalla luna, o si stendeva mollemente su un prato
d’asfodeli e osservava le stelle sorgere ed estinguersi più in
fretta del suo respiro.
Misandra certo non era
tanto giovane. Ma certo possedeva appieno quel fascino che
inconsapevolmente attrae magicamente e, pure, nulla concede. Ed era
nella sua ingenuità tanto maliziosa da apparire un’acqua di
montagna che sgorga brillante dalle rocce e si aduna limpida nelle
gore, ma è così gelida da ferirvi la bocca.
Ed egli era stato ferito
ed era fuggito per l’impossibilità di sostenere ulteriormente il
suo sguardo. Si era ritirato in se stesso ed era andato lontano, in
lontani paesi. Ma laggiù il suo cuore si era infranto. Quando
passava per i lunghi viali, alla vista degli innamorati il suo cuore
si spezzava e il suo essere lacerato volendo obliare se stesso
desiderava seguire gli altrui destini. Così i suoi occhi seguitavano
con infinita malinconia il cammino di una coppia felice che procedeva
ignara d’ogni altro essere nella piena luce del giorno.
E sognava allora, sognava
la sua Misandra, coricata sui fiori sotto le fronde dei pini, mentre
dormiva e una brezza leggera le scostava appena i capelli sulle
guance e la luce del sole le illuminava la fronte. O la pensava al
lume della luna, pallida e giacente sul candido letto, mentre il
disco di Diana argenteo appariva all’ampia vetrata della stanza. “
Oh, dormi Misandra, dormi “ allora pensava, “ e non svegliarti
nel mio cuore se non per dirmi che non mi lascerai mai più.”
Così diceva chiuso in se
stesso, ma non poteva, non riusciva a reprimere una brama turpe di
vendetta.
Eppure nei rigidi
pomeriggi d’inverno, durante le lunghe e solitarie passeggiate
nella foresta, gli accadeva proprio di ricordarsi di lei, ma era una
visione d’estate, un sogno dorato di rami carichi di fronda sotto
un cielo risonante di gioiosi canti di cicale e di uccelli vivaci.
E l’immaginazione lo
trascinava verso i piaceri proibiti e l’abbraccio di un corpo roseo
e delicato, splendido nella luce del giorno, e lo seduceva l’eterno
fascino della donna, della regina del mondo, cui s’immolano tutte
le vite, tutti i palpiti dei cuori, per morire e rinascere sempre.
Ed egli la immaginava
allora dove l’aveva vista una volta, ai margini del mare, sui
limiti dell’infinito. E gli parve davvero ch’ella fosse una
messaggera dell’al di là, un essere divino inviato sulla terra per
abbracciare i mortali nel cerchio del suo fascino immortale.
Ed ella appariva cinta
della veste di primavera anche nell’autunno delle cose e degli
esseri circostanti, sempre giovane. E il vento giocava tra i suoi
capelli e sommuoveva le vesti, e le onde del mare lambivano
delicatamente le dita dei suoi piedi, ed ella appariva sul limite
della riva, quasi attendesse la venuta d’una navicella che dovesse
traghettarla per ignoti reami.
E quando il crepuscolo
stendeva sul mare il suo manto purpureo e le onde violacee si
riversavano sul lido e intorno agli scogli, stancamente, allora egli
la vedeva rifulgere innanzi al disco solare morente, circondata
dall’alone rossastro, mentre i suoi piedi poggiavano su una terra
insanguinata dai raggi proni a estinguersi nelle ombre. Ed era
davvero fulgente anche nella luce della sera, perché risaltava sullo
sfondo immenso dell’orizzonte, del mare e del cielo, dove onde e
nubi parevano fondersi in un abisso di vortici, di profondità, di
precipizii insondabili e di spazi inconcepibili, ma ella sembrava
appunto precederli sorridendo, quasi che non le fosse ignoto alcun
mistero.
La malinconica rimembranza
del passato lo allontanava dalla realtà, lo induceva a poco a poco
in uno stato di torpore fisico, simile al sonno. Ed egli ricordava, e
i ricordi si confondevano con i desideri inespressi, con le velleità
immaginate, coi sogni dell’adolescente.
Quanto aveva bramato
rivelarle il suo mondo interiore ! Con l’ardore tipico di chi
s’illude e ingenuamente persegue le fantasie di cui si nutrono i
sospiri dei ragazzi come una fonte d’acqua pura e di vita
immortale, così il suo cuore avrebbe voluto affidare in grembo a lei
i suoi segreti.
Ma ella non aveva saputo,
ella ancora non sapeva.
E la malinconia possedeva
il cuore di Mauro. La malinconia che non è grigia tristezza, sibbene
rimpianto d’un mondo lontano, d’un sogno irraggiungibile. Egli
aveva veduto con gli occhi dell’amante una figura d’indescrivibile
bellezza, che solo un cuore d’amante o una mente d’artista può
concepire. Egli aveva visto colei che non è di questa terra, il cui
fascino è circonfuso d’un alone immortale, ed ella pure era ignara
di tanto incantesimo, quasi un portento della natura, inconsapevole
del semplice miracolo.
Una malinconia profonda,
una incolmabile insoddisfazione lo tormentavano di fronte
all’esistenza degli altri uomini. Egli aveva disgusto della loro
vita, insulsa e ignobile, delle loro meschine aspirazioni, dei loro
stolidi guadagni. Egli avvertiva talvolta se stesso quale un cigno
tra frotte di rane gracidanti, sicché fuggiva dalla moltitudine
saccente e chiacchierona e si rifugiava nel suo mondo interiore, alto
come una montagna assolata sopra le valli brumose.
Alto come una montagna
assolata sopra le valli brumose, il suo cuore s’empiva della luce
d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della giovinezza.
Ricordava vagamente le
parole di un canto appreso nell’adolescenza : “ Tu sei la mia
terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.” Ah, sì, non era mai
mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri solitari
d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia
sopra la valle, cingere i fianchi del monte, carezzare le cime dei
pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi agli sbuffi del vento o
frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il suo cuore
cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva
intorno a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era
al mondo, doveva essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il
sibilo del vento contro le fronde degli alberi, era il lento
ascendere della nebbia, era il silenzio della montagna. Non altro era
il mondo.
E pensava all’amore di
Petrarca per Laura e a quella meravigliosa solitudine di Valchiusa,
così immaginava, immersa nel verde degli ulivi, dei castagni e dei
pini, una passione incurabile e nello stesso tempo pura come la
segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava
le meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte
Ventoso, e si riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto
essere le sue.
Così guardava dall’alto
del colle la campagna d’intorno e le altre colline digradanti verso
il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di fronde. E il sole
faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre il suo
manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli
uccelli cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di
sé l’eco d’una musica insistente, suasiva, impetuosa, e che il
rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di trombe ad
annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si
volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli
apparve allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re
dell’universo forse lo esortava a non temere, a non fuggire più la
vita, ad abbracciarla, a viverla in tutta la pienezza, a colmare le
vene del suo stesso fuoco ? Gli occhi gli si riempirono di
quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione
strana di scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma
di sé, correre nel buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi
occhi splendevano nell’oscurità come smeraldi irradiati.
E quella musica,
insistente, invincibile attraversava la foresta nell’impeto del
vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume risuonante.
Ebbe allora la chiara
visione dell’Occhio universale. Si librava sopra il vasto lago
dell’Essere e lo guardava, con la sua iride trasparente. Brillava
della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso occhio, i
suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente
del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno
a lui l’apparizione della volontà senza limiti, della vita
rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà rinascente in
nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come
affermazione, come “sì” al richiamo della vita, e nella sua
giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli uomini, di
tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno
di gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci,
quali ondate del vasto mare risonante, un fragore di flutti
iridescenti, un canto sublime e possente fluire quale un fiume
impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.
Vagò a lungo per la
foresta, in un labirinto di tronchi neri, appena lambiti da qualche
raggio di sole, che il fitto intreccio dei rami impediva quando non
erano mossi dal vento.
Intravedeva non distante
una radura, perché la luce colà si faceva più intensa e il colore
era un verde brillante.
Pareva davvero che un
qualche essere silvano lo invitasse alla sosta. Affrettò quindi il
passo e giunse nello spazio aperto agli influssi del cielo.
Adagiato sull’erba,
preda d’un torpore ebbro di sogni, egli guardava fisso davanti a
sé, immerso nella visione.
Ella gli appariva,
luminosa, leggera sui fiori, avvolta in una veste fragile e
fluttuante come un alone d’oro, i capelli erano lunghissimi e
riverberanti bagliori di fiamma e le toccavano morbidamente i
contorni del corpo sino al tallone, poi parevano fondersi col suolo.
I suoi occhi erano tinti del colore del sottobosco d’autunno, belli
e variegati, bronzei e vibranti di lingue di fuoco.
Tutto intorno era luce, e
gli alberi erano accarezzati da un vento luminoso, una corrente di
pulviscolo aureo irradiantesi nella foresta come una linfa
vivificante, come un’anima infusa per prodigio in un organo per
lungo tempo muto. Il suo viso si fermò su di lui. Ella fissò i suoi
occhi morbidamente, maliosamente e a lui parve abbandonarsi a un’onda
di luce più forte del turbine tempestoso e più dolce della brezza
dell’alba. Ora sembrava che da uno scrigno d’oro gli si offrisse
l’essenza della vita, il tesoro che non ha pari. Doveva dunque
abbandonarsi.
Ma, quando sollevò il
capo dagli steli abbattuti, non più era luce, se non lo stanco
raggio del crepuscolo. E già alitava la fresca sera.
Egli era cosciente del
proprio transito, della propria debolezza, del proprio passaggio
permeato di sogni, di visioni estatiche. Insufficiente piccola parte
di un tutto incomprensibile, coglieva in un istante la propria
essenza in una mano, una goccia d’acqua dispersa nell’oceano
infinito.
Come quando sulle montagne
la luce splende sopra le nevi, così il suo sguardo posava estatico
sulla vastità circostante. Il silenzio degli spazi sconfinati gli
cantava intorno il suo inno di gloria. In quell’attimo coglieva
anche la propria eternità.
L’eternità del rito,
sempre nascente infante.
L’immagine di sé fra il
padre e la madre, un tempo, in un luogo lontano nella valle, su un
prato innanzi al sole del mattino. Nel respiro intorno degli alberi,
nell’alito del vento luminoso, il suo sé scorgeva estatico e
ignaro il mistero dei giorni, ancora nel nido fra i sorrisi dei
genitori pieni di speranze. Ah, anime amate!
La luce attorniava il
bimbo, i sorrisi brillavano come aurore, del sole che sempre sorge.
Ah, immergersi nell’alito
del mattino, come in una corrente d’acqua gelida, sentirne il
brivido e l’impeto !
Come la dea Aurora intesse
nel suo velo i canti che sgorgano dalla luce presso i lavacri del
mare, così dentro di sé era invaso dal fremito dolce del risveglio
delle creature.
E la luce si dilatava in
un’onda iridata sopra le giogaie dei monti e sulle rocce e sulle
selve brune.
Il mare dell’essere si
rivelava nell’immensa distesa.
V
Il conte Oberto lo
introdusse nella biblioteca. Era una stanza vasta, di forma
rettangolare, altissima, tanto che nella penombra non si discerneva
il soffitto. I lati erano ingombri di pesanti armadii, in legno nero,
colmi di antichi volumi. Tra un armadio e l’altro c’erano grandi
cornici dalla doratura brunita dagli anni, contenenti le immagini
degli avi. I ritratti erano incupiti dalle muffe e si distinguevano
appena i volti, ma in tutti erano visibili gli occhi penetranti, le
cui pupille nere risaltavano nel biancore stranamente conservatosi
fra le palpebre grigiastre. Dei candelabri, imponenti, di ferro
lavorato, s’ergevano intorno a un tavolo massiccio, posto al centro
del vano, sul quale stavano accatastati libri di diverso formato,
rilegati in cuoio e in pergamena, alcuni di essi aperti e collocati
su forti leggii. I ceri diffondevano una luce appena sufficiente a
illuminare quegli scartafacci polverosi e ammucchiati
disordinatamente. Un senso d’oblìo ispirava l’immobilità della
fiammella, quasi si fosse in una chiesa silenziosa o in un santuario
immoto, senza fedeli.
Il conte lo guardava con
un sorriso enigmatico. Pareva quasi l’atteggiamento d’uno
studioso dinanzi ad un interessante fenomeno o ad un oggetto di
particolare valore. E tuttavia lo sguardo era distaccato, privo di
emozione, decisamente freddo.
Un libro era aperto sul
leggìo. Erano le “ Opere e giorni “ di Esiodo. Nella pagina a
fronte del testo greco erano sottolineati i versi seguenti :
“… quindi la voce
le dette il nunzio divino,
nominò la donna
Pandora, ché tutti gli
aventi dimora in Olimpo
le donarono dono, pena
agli uomini affaticati. “
E mentre il conte parlava,
il suo occhio incuriosito veniva raggiunto dai raggi della luna
sorgente, nella notte della stanza. L’ampia vetrata azzurra era
simile ad un circoscritto specchio d’acqua, entro il quale, per
puro caso, si contemplasse il volto stupito del satellite deserto, o,
più poeticamente, il pallido viso di Diana sognante. E quel lucore
turchino s’adagiava mollemente sui volumi, inargentandone la
doratura del dorso, o illustrando le pagine aperte d’indecifrabili
ombreggiature. Pareva che tra una lettera e l’altra s’aggirassero
arcani inconoscibili siccome fughe d’ignoti sicarii per le vie
oscure delle città deserte, che, per certo, illuminava vagamente
quella medesima lampada tenue e reticente testimone. Cupi lati ed
angoli di case lanciavano le ombre segrete a perdersi nella notte,
lontano, nella città, i cui fuochi pari a punti ardenti pullulavano
lungo il golfo.
E come laggiù sembrava
che anche qui echeggiasse, sebbene attutito dalla distanza e dalle
mura, il rantolo marino, che forse ora si fondeva in tutt’uno col
respirare degli uomini, più stanco nella fine del giorno.
Il conte pose termine al
suo discorso. Mauro non aveva inteso una parola, poi che la sua mente
aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma questa volta
dovette per forza prestare attenzione perché il suo ospite lo prese
sottobraccio con una discreta energia e, aperta una porta, che prima
non aveva notato, lo introdusse in un vano buio donde una scala a
chiocciola scendeva nella più completa oscurità.
Il conte accese una torcia
e fece da guida.
E così dalla torre ove
era possibile spingere lo sguardo sulla vasta campagna in cui le
sagome degli alberi fremevano alla gelida brezza, e il cielo bluastro
svelava la luna e le stelle e un senso di potenza arcana
s’impadroniva del cuore degli uomini, degli uomini che
s’affrettavano verso casa quasi timorosi dell’oscurità, mentre
le stanze s’illuminavano e s’udiva un canto lontano, e solo un
lembo estremo di sole ancora appariva quale favilla crepitante nella
cenere che lentamente s’estingue, così dalla torre scendevano
lentamente entro le ombre della terra.
Dopo molti gradini
giunsero davanti ad una porta. Il conte l’aperse ed entrarono in
una camera bassa, senza mobilia.
La luce della torcia pose
in risalto immediatamente di fronte a loro sulla parete una lunga
crisalide colore del sangue, dal volto di donna, circondata da
un’aureola di raggi rossi. Sulle altre pareti dei medaglioni in
bronzo rappresentavano teste di animali fantastici, il cui nome era a
Mauro ignoto.
L’alto sarcofago era di
legno smaltato del tutto simile ai sarcofagi egizii e la testa di
donna splendeva nel luccichìo dell’ebano e dell’oro. I grandi
occhi oblunghi e bianchi fissavano Mauro con le immote pupille nere
come la notte. Egli sorpreso si volse istintivamente altrove, ma lo
sguardo si rifletté improvviso in uno specchio ovale che giungeva
dal pavimento sino al soffitto, entro una cornice dorata.
La sua stessa figura lo
intimorì, poi che gli parve minacciosa e cupa quale quella d’un
démone.
Stornò subito la vista e
andò verso l’ingresso dove ancora sostava la sua guida. Essa
abbozzò un sorriso, e però s’irrigidì quasi immediatamente.
Nella penombra, illuminato direttamente dalla torcia, il profilo del
conte dava l’impressione del volto d’un idolo di pietra. I
tratti, scarni e marcati, parevano scolpiti nel marmo, e la luce li
investiva esaltandone il pallore.
Si allontanarono
percorrendo un lungo corridoio scarsamente illuminato. Le loro ombre
s’allungavano sulle pareti, le sagome delle teste si fondevano
nell’oscurità. Mauro seguiva il conte Oberto ed inspiegabilmente
percepiva ed assorbiva una vaga sensazione di freddo che propagandosi
nelle membra gli faceva crescere dentro un sentimento di collera.
Uscirono infine su una
vasta terrazza dove era disposto un telescopio per osservare le
stelle, ed altri oggetti d’uso sconosciuto.
Lontano le onde argentine
si riversavano monotone sul lido, mormorando.
Nel buio ebbe la
percezione vaga, insondabile, della propria esistenza. Con terrore ne
accoglieva l’idea. Esisteva. Era un privilegio o una condanna ? Il
tempo scorreva, era trascorso, e già non si sentiva più, egli era
vissuto. Ah, era veramente come quel buio anche lui ? Sarebbe stato
forse un giorno una notte fredda, senza stelle ?
Ma, appena presa quella
boccata d’aria, gli parve che il conte lo conducesse ancora per
altri lunghi corridoi entro una vasta cavità della terra. Gli mostrò
in ampie sale innumerevoli scaffali, colmi d’antichi libri, i cui
titoli arcani lo lasciarono confuso, stupefatto e smarrito in una
crescente vertigine. L’uomo parlava, sibilava, tuonava, il suo
eloquio sembrava un fiume vorticoso e che rombasse intorno a lui
assordandolo, nelle stanze immense.
E quel fiume si perse
nella notte, confluì nel silente mare stellato, ondeggiando nelle
tenebre misteriose.
E si perse sovra il fiume
scintillante il suo pensiero, si smarriva nei meandri vorticosi, si
librava sopra i flutti, alato e candido uccello marino. Verso altri
lidi, verso altre terre lontane, anelava all’al di là, laggiù ove
l’oscuro orizzonte procombeva nelle infinite solitudini.
Domani, un altro giorno,
un altro giorno ancora. Fino a quando ?
Fino a quando il sole non
si leverà alto nel cielo e l’uomo sulla cima della montagna
aspetterà d’essere inondato dalla sua luce. Allora, volto lo
sguardo diritto verso di esso, sentirà l’anima irraggiare dalle
membra e fondersi in Lui in un abbraccio perenne.
Sentirà i Suoi raggi
attraverso il suo corpo e il suo corpo diventare i Suoi raggi e lo
sguardo levato al cielo librarsi nell’alto, libero e senza limiti
planare nell’azzurro, calmo e veloce come un grande alato bianco
che s’innalza nei vortici radiosi.
VI
Il conte aveva deciso di
festeggiare il compleanno di Misandra. Aveva così organizzato un
grande ricevimento e dato ordine di non badare a spese e di allestire
in tutto l’edificio un apparato magnifico e sontuoso.
Pareva che una strana
frenesìa lo possedesse di scialacquare le sue ultime sostanze. In
effetti la villa sembrava invasa dal corteo di Bacco e la musica
delle danze risuonava entro le mura e fuori del giardino si effondeva
sul mare e sovra la selva addormentata.
Le luci delle finestre e
dei lampioni erano i fuochi notturni di misteriosi riti e solo l’alta
luna assisteva conscia e indifferente, pallida del suo statuario
pallore.
Mauro s’aggirava
sbigottito tra la folla che aveva invaso il palazzo solitario e che
rumoreggiava fastidiosamente tra le volte agili del salone e correva
dietro chimere amorose nei viali del parco.
La musica di Strauss,
banalissima, accompagnava quella frenesìa di godimento, che
s’inebetiva di champagne e di pasticcini.
Mauro trascorreva nel
fiume ignoto delle chiacchiere, delle occhiate, delle risa convulse,
delle barzellette, delle maldicenze, tra quella moltitudine
congestionata, dallo sguardo scintillante e dalle pupille spalancate.
Passava come una foglia
secca sull’acqua torbida d’un torrente, ignaro e ignorato,
anonimo. Gli altri non lo notavano infatti, lo sfioravano, gli
ostacolavano la via, gliela tagliavano e per poco non lo urtavano,
quasi che egli non esistesse neppure.
Egli allora s’affacciò
alla finestra e guardò nel giardino.
Al centro di esso
un’antica fontana di marmo, segnata dal tempo, lasciava scaturire
il suo mormorìo diffuso all’intorno quasi una melodia misteriosa e
leggiadra, come la veste fluttuante d’una ninfa che corresse a
celarsi nei boschi profondi. Attorno al bacino marmoreo crescevano
piante diverse, dalle foglie gigantesche e dai fiori magnifici e
sontuosi. C’era un arbusto, in un vaso d’alabastro, che offriva
alla vista una profusione di fiori purpurei e pareva scintillare d’un
alone di magici raggi. Tutto il suolo era coverto di rami e di
foglie, di erbe sconosciute e floride e ridenti in un intrico di
fogliame lussureggiante.
E allora scorse Misandra.
Camminava lentamente nel giardino, accarezzando con la veste
sollevata dal venticello le piante e i fiori. Tra i rami degli alberi
la sua capigliatura era una fronda copiosa e scintillante che
ondeggiava al respiro della primavera. La sua gonna scarlatta si
confondeva coi cespugli delle rose rampicanti e poi ella appariva a
mezzo busto fra l’orgoglio delle ortensie, come ninfa in una
visione di poeta.
Allora veramente pensò
d’essere giunto in un mondo meraviglioso e incantato, che la sua
fantasia aveva sempre evocato nei lunghi momenti d’ozio degli
inverni trascorsi. Fioriva la primavera e rinasceva quel mondo.
Prima di concedersi ai
molti, Misandra aveva intrattenuto i più intimi. Ella, seduta
innanzi al caminetto, aveva letto il racconto di Eichendorff, e aveva
così creato un’atmosfera di malìa indicibile. Un brivido, in
verità, aveva attraversato Mauro. Egli aveva riconosciuto la
singolare somiglianza del suo destino con il personaggio di Raimondo.
“ Perduto, tutto è
perduto ! “ Ripeteva anch’egli a se stesso. In effetti anche per
lui gli anni della giovinezza erano trascorsi velocemente come in un
oscuro sogno.
E allora lo invase un
senso di infelicità profonda, irrevocabile, senza appello, la
sensazione che la vita fosse per lui un buio carcere, ove dovesse
trascorrere un’esistenza priva di luce, priva di gioia. Lo catturò
un sentimento di solitudine senza conforto, di abbandono. E come
Misandra l’aveva respinto a suo tempo, così lo respingeva per
sempre la vita.
Ma egli comprendeva anche
che il volto impassibile di Misandra, i suoi celesti occhi quali
gelide acque d’oceano, fissandolo mentre ella raccontava,
simboleggiavano per lui la vita stessa. Parevano dirgli : “ Non sai
che l’esistenza stessa è abbandono, desolazione e rovina ? Non sai
che Amore si compiace del tormento e che il desiderio è una tabe
infame ? Ma che speri, che hai sperato ? Illuso ! La felicità non
esiste e l’uomo che la cerca piangerà le lacrime amare della
disperazione. “
La vita fuggiva. Dalla
finestra egli scorgeva i raggi che attraversavano i rami degli
alberi, nel giardino pervaso dalla luce stanca del crepuscolo. E un
lembo di piana marina, calmo e desolato, taceva presso gli scogli
dell’alto dorso del promontorio oscuro.
La vita fuggiva. Insieme
al mormorìo delle piante vetuste nella brezza leggera che di quando
in quando faceva tremolare le foglie, anche nel suo cuore sentiva
risonare un murmure roco, quasi un’eco del sordo flusso del sangue.
Correvano gli attimi via assieme alla luce sempre più fievole e si
sperdevano le foglie trascinate dal respiro notturno, via.
Eppure egli provava
inesplicabilmente, proprio nell’attimo stesso in cui coglieva la
vanità delle vanità, provava un senso di pace, un invito certo alla
quiete notturna, eppure non al semplice sonno. Era un conforto,
quasi, quel pensiero vago che gli si formava nella mente; proprio
all’annuncio della morte del giorno nella corsa del tempo che non
ha requie, avvertiva la presenza dell’eterno.
E udì una musica fluire
tenue nella stanza ed empirla con la sua malìa. Misandra suonava al
pianoforte alcuni brani dal concerto n. 21 di Mozart.
E lo prese una dolce
sensazione d’abbandono. Gli pareva che la sua intima essenza
unendosi a quelle note incantate si dissolvesse in onde trasparenti e
fugaci fantasmi, o nei vortici di fumo dei sigari, accesi dal conte e
da qualche ospite. Gli pareva di fuggire e di perdersi nei meandri
della memoria o nei labirinti del desiderio d’un tempo. E come
scorse la luna nella vasta notte, sola nel mare delle tenebre, lo
morse la consapevolezza amara della propria solitudine senza rimedio,
della disperazione del suo amore proibito e negato sin dalla nascita.
Il suo volto s’irrigidì,
non volle esprimere più alcun sentimento.
E, come un tempo, amare
lacrime salirono dal profondo del cuore. Amare lacrime come un tempo,
quando, nell’estate dopo l’ultimo anno di liceo, sgomento innanzi
al vuoto del futuro e al deserto del passato, mentre se ne stava,
momentaneamente ospite, nella villa di Misandra, seduto sopra un
divano a baldacchino posto nel mezzo del giardino rigoglioso, amare
lacrime aveva trattenuto a stento, colpito da un senso d’abbandono
senza pari, di desolazione senza rimedio, reggendo tra le mani il
volume dell’oscuro irlandese, che aveva voluto rinnovare le
peripezie d’Ulisse. E, come allora, la memoria tenera e lenta lo
pervase del suo languore, lo adagiò nel vago sognare un sogno
lontano.
E la melodìa interiore,
figlia della rimembranza di molte musiche più volte ascoltate con
rapimento ed estasi, lo condusse verso gli anni della sua prima
giovinezza, quando, nell’atmosfera di una biblioteca, leggeva libri
di poesie, avvolto dalla luce violacea e sensuale della sera che si
faceva innanzi, speranza tentatrice, quasi un miraggio di donna,
sorridente nell’ombra.
Il convito notturno iniziò
tra lo scintillìo dei vassoi e le portate rigogliose e variegate
come fioriture.
Mentre i commensali
bevevano e mangiavano con ostentazione di gaudio, meccanicamente,
Mauro osservava Misandra, la quale sorseggiava a tratti, pigramente,
il vino rosso nel calice. Oh, ella beveva il sangue della vita ! Così
gli pareva, che quella bevanda fosse sangue, scaturito con forza
dalle vene aperte, caldo sangue. E le sue labbra violacee lo bevevano
con lentezza, lo assaporavano con una voluttà amara, crudele. Gli
angoli delle labbra erano appena convessi, gli angoli esterni delle
palpebre, ma solo per un istante, aggrinzivano appena. Gli occhi
grandi irradiavano una luce febbrile, le pupille erano un cielo
accecante. Ella arcuava un poco la nuca, sì che i capelli cadevano
sulle spalle, risaltanti dalla scollatura dell’abito, con un’onda
di color cupo, scintillante alla luce dei candelabri in fili d’oro,
quali sul mare crespo i raggi già declinanti dell’astro fuggente.
I suoi occhi, le sue
labbra, i suoi capelli fluttuanti risaltavano inebriando sulla veste
rossa, dall’ampia scollatura, una veste come una fiamma che
l’avvolgesse, ne annunziava i lineamenti e il disegno mirabile
della figura elegante, nobile, maestosa.
Il silenzio, fuori, si
stendeva sconfinato sulle colline selvose, mescendosi agli
impenetrabili brani di tenebra nel folto delle valli,
nell’insondabile buio del mare. Era un’orda brulicante di lupi
famelici, un’onda baluginante d’occhi crudeli.
Avesse potuto cogliere in
quel momento il mistero profondo della luna pallida e lucente sul
mare come una regina sovra il suo magico trono, cosciente di tutti
gli incanti ch’effonde sopra le onde nere, e rappresentarne la
malìa da pittore scaltrito ad ogni sfumatura. Avesse potuto cogliere
il bagliore dei suoi occhi e chiuderlo come una gemma in un castone
prezioso e sentire fra le dita la fragranza dei capelli e avere le
tempie ebbre del loro profumo !
Mentre il convito si
quietava e s’allontanavano i commensali in un’altra stanza e la
penombra si stendeva sovra il mobilio non più lucente, egli si
dileguava, percorreva il lungo corridoio, fuggiva nell’ombra e
intorno a lui turbinavano i lumi dei candelabri, egli s’immergeva
nella notte oscura.
Richiamato da un canto
lontano, dal canto malinconico della luna alta nel cielo, si
precipitava nei viali del giardino invaso dalla brezza, respirava
profondamente, ansimava, guardava le stelle, estatico e atterrito.
E il canto lunare era
sempre più forte, stringeva il suo cuore, lo avvolgeva nella
spirale. Ah, non finiva, non finiva mai !
Come il fluido sonoro
delle danze, percepito in lontananza, lo attrasse, egli inviò se
stesso colà, ove meno avrebbe voluto, e s’immise nella luce
dolciastra.
Mauro le si avvicinò
lentamente, mentre la musica da ballo si diffondeva sempre più
imperiosa, e, senza quasi ch’ella se ne accorgesse, le prese la
mano e la strinse nella sua con forza. Ella non si mosse, stupita, e
pervasa dal fluido invisibile del desiderio, ma poi, vinta dal dolore
della stretta che si faceva a poco a poco più intensa, ritrasse il
braccio con lievissimo disappunto, che soltanto si percepiva dallo
sguardo smarrito, e volse a Mauro un’occhiata interrogativa, colma
di dubbi e di domande senza risposta.
E mentre la musica intorno
vibrava, volteggiava nell’aria calda della festa, il pendolo
ondeggiava scandendo il ritmo del tempo e le ore procedevano senza
indugio verso la fine. Come un esercito inesorabile le ore
avanzavano, parevano circondare gli ospiti, ormai impauriti, li
assalivano, li coglievano alla gola col cappio invisibile.
Momentaneamente ammutolì l’orchestrina e la musica vanì
vaporosamente nel fumo delle candele. Le gambe divennero di pietra e
il tempo parve fermarsi.
Oltre l’ampia vetrata,
lievemente socchiusa, la grande sagoma nera del mare rumoreggiava
contro la scogliera. S’avviluppavano le onde e a tratti scorgevasi
la cresta spumosa al bagliore della luce lunare come di prodigiosi
cavalli neri dalla bianca criniera. Rollava, rombava, rampava e si
tendeva sul lido con le sue spire, friggeva la spuma sulla sabbia e
succhiata svaniva, smuovendo crepitanti i granelli quasi scintille.
Sulla collina, a destra
del lido, cerea al lucore notturno, come una statua di nudo marmo,
posava l’antica abbazia cinta da resti di un borgo, come spezzate
vertebre accanto a lunghe ossa eburnee. Sagome oscillanti di fusti
nati sulle rovine si stagliavano sulle mura quasi un teatro d’ombre.
Ma sulla sommità d’un torrione una cupola ingannava a quella luce
e sembrava un gigantesco teschio che volgesse il suo ghigno ai vivi,
ancora immersi nell’illusione.
E fu allora che il cumulo
delle ansie nell’animo suo precipitò entro di lui come un masso
improvvisamente staccatosi dalla rupe, il male nero lo soffocò e i
suoi occhi si gonfiarono quasi offesi da un fumo denso e maligno.
Voleva liberarsene e non poteva. La maledizione del suo essere lo
schiacciava, lo distruggeva. Il male innato pareva invincibile.
Si volse e pose attenzione
alla ripresa della danza. La sala era tutta un seguito di vortici.
Dame e cavalieri, cavalieri e dame; ma non erano dame, erano idoli
dorati, scintillanti di gemme e di seta e pure innalzate sull’altare,
anzi sul trono. Dominavano la scena e gli altri erano dominati. Sul
loro viso non si scorgeva che un solo pensiero, desiderio e
sentimento : dominare e stringere nelle spire del possesso. Erano
dame ? Non erano neppure donne, in verità. Il volto era duro,
tirato, segnato da rughe premature, legnoso. Il profilo marcato, gli
occhi scintillanti e maligni, la bocca amara. Pareva che al lembo
della loro veste fluttuante nel movimento fossero aggrappate, anzi
agganciate le male grazie in uno strascico di pervertita bramosìa e
di livore, frutto dell’invidia. Il loro anelito, nel sollevarsi dei
petti, emanava un efflusso malsano, che stordiva. I cavalieri,
allucinati, parevano girare su se stessi come trottole.
Ed egli guardò di nuovo
verso la finestra.
Fuori non s’udiva più
il minimo rumore. Non era altro che buio. Niente altro. Il nulla.
VII
Il giorno dopo si recò
nella vicina città, non molto lontano, presso il mare. Le strade
erano colme di vetture rombanti, di autotreni, esalanti vapori sotto
i colonnati di palme.
Quando si era svegliato il
sole l’aveva accolto in un alone d’oro. La persiana non era stata
chiusa e il mattino era liberamente entrato. Ed ora era come se quel
corteo di luce lo accompagnasse ancora, nonostante non fosse più
solo.
Un corteo di luminose
immagini, miste ai sogni dell’alba, gli era intorno, di sogni
giovanili, di ricordi. Una pineta, i prati, una fanciulla bionda al
centro della compagnia. Erano gli ultimi giorni di scuola e la
domenica anticipava ormai le prossime vacanze estive. Quella
fanciulla un tempo gli piaceva, ma ora il suo viso non era che una
vaga rimembranza, una luce dorata e rosea, un fluire biondo, un
ruscello fiottante, limpido, su sassi d’argento, fra cespi di
margherite.
Ora il sole lo
accompagnava tra la polvere e i fumi della strada.
Ma la voce lontana eppure
intima lo chiamava ancora, in un rigoglio di verdi distese e di alti
rami inondati di luce, una musica potente e profonda che lo invadeva
in un dolce brivido, remota malìa di divinità silvane, stormire di
fronde nel silenzio, sapido mistero del sottobosco.
Ed ora scorgeva attorno le
vetture sfrecciare, fastidiose, come le rondini in un volo infesto
sfiorano saettando il capo del viandante, a difesa del nido vicino,
con sibilo molesto.
Nell’ansia mattutina era
assai più invadente il rumore dei motori, una minaccia costante, il
costante monito del tempo che fugge e che vola verso un’ambigua
meta. Dove, dove ?
Le strade si popolavano
lentamente. I cittadini uscivano dai portoni con gesti lenti,
assonnati. Piano, piano il formicolìo cresceva e avrebbe raggiunto
l’apice a mezzogiorno. Le saracinesche dei negozi stridendo
schiudevano al mondo le merci variopinte, come ogni giorno la città
si rimetteva in moto e le arterie che l’attraversavano si
gonfiavano del flusso di vetture, camions, autobus e di passanti
frettolosi.
La città nel chiasso e
nella polvere riprendeva la sua vita, fatta di traffici, di orari
d’ufficio, di noiose lezioni a scuola, di code agli sportelli
pubblici, di suoni di sirene e soprattutto del volo dei piccioni e
dei gabbiani che si posavano sui camini e sugli alberi e sui
lampioni, lasciandovi le reliquie corrosive della loro presenza.
La città come una grassa
e giovane donna pubblica si svegliava. I marciapiedi ogni giorno
dovevano essere spazzati, migliaia di persone si agitavano correndo
di qua e di là.
La via che dalla piazza
centrale entrava nella città vecchia era interdetta alle vetture e
già popolata di venditori ambulanti negri che cercavano di attirare
i passanti con il loro eloquio stentato. Un profumo di pollame, di
macelleria, di salumi impregnava l’aria, la gente saliva e scendeva
per la strada inumidita dall’acqua, gettata davanti all’ingresso
dei negozi per la pulizia del mattino.
Verso le undici e il
mezzodì il traffico avrebbe raggiunto il culmine per trasformarsi
nel pomeriggio in una sorta di sfilata dei perdigiorno. Allora la via
sottostante, la più elegante e quella che annoverava i cinema e
teatri e i negozi di lusso, si sarebbe colmata di una gioventù
spensierata e chiassosa, spesso volgare, che l’avrebbe percorsa in
lungo e in largo più volte alla ricerca di futili passioncelle.
Un senso di noia profonda
aleggiava sulla città. Intanto s’udiva verso il porto il rauco
vociare marino diventare sempre più forte. Contro il molo le onde si
scagliavano con furia schiantandosi in mille scintille di spuma e il
vento fischiava isterico sovra il mare rabbioso.
Gruppi di gabbiani
volitavano sulla città, sopra i cui tetti avevano ormai da tempo
fatto il nido. In basso la turba transitava frenetica e rumorosa
recandosi al mercato annonario, entrando per le viuzze laterali, in
gran fretta come sempre, punta dall’assillo fastidioso e tenace.
Ma il mare urlava oltre il
molo, il mare cui non interessano le vicende degli uomini, e inviava
legioni di ondate a sfracellarsi contro gli scogli, nel tentativo,
per ora vano, di strappare alla terra un po’ del suo dominio.
Sentiva nel sole
dell’estate la pienezza della vita, ricordava il riverbero dei
raggi sulle onde quando immerso nel mare scorgeva la riva e le case
sulle colline, biancheggianti tra il verde dei giardini, ricordava se
stesso fra le piante, dedito alla cura dei campi, mentre zappava e,
ogni tanto sostando, aspirava l’aria intrisa d’aromi e d’esali
erbacei, allora era una cosa sola con la natura, non era più se
stesso, ma il puro e semplice atto, il puro e semplice fluire.
E come quando ascendeva
l’erta della montagna, aspra, assolata, battuta dal vento, sentiva
nella fatica il suo respiro venir più calmo, per contrasto, ma era
l’armonia che giungeva quale onda placantesi sulla riva, e allora
gli pareva davvero di cogliere il soffio vitale.
E fiottavano innanzi gli
anni dell’adolescenza, immagini rapide e guizzanti ormai. Ma
allora, seppure inconsciamente, egli aveva colto se stesso. E
ricordava appunto se stesso quale un occhio aperto sullo stupore del
mondo, e intimidito dinanzi all’incomprensibilità del mondo; ora
comprendeva quella fortuna. La vita è veramente meravigliosa se non
può neppure essere colta nei suoi istanti d’ogni giorno, né nei
suoi sogni, né nei suoi amori, né nella sua sconfinata bellezza,
come Misandra quando gli appariva ai raggi diurni, sulla riva del
mare, e i suoi capelli rilucevano quali onde pervase dal sole e i
suoi occhi irradiavano quali gemme penetrate di splendore. E il suo
sorriso era la brezza e il tepore del sonno.
Nell’alto volitavano
nubi leggere, ed egli pensava alla giovinezza fugace, adolescente
piena di avvenenza, o come a ragazzi vivaci le cui parole corrono
nell’aria. La giovinezza fuggiva e tutto il passato si sarebbe
risolto in un pallido sogno. Il succo della vita è il rimpianto, per
ciò che è stato e non è stato, comunque il rimpianto.
In un gemito di rivi
montani sentì fluire il passato fra sassi e sponde erbose e fiorite,
nel profumo dei verdi pascoli, quando si sono dissolti ormai le nevi
e i ghiacci della morte.
E la meta di quel ruscello
sarebbe stato il mare, il mare infinito e libero, il mare tremendo e
bellissimo.
Ed egli era una goccia del
vasto oceano, che si sarebbe effusa e dissolta nel vasto oceano.
E nella vasta calma del
pomeriggio estivo entrò nel salottino immerso nella penombra, e,
seduto sul divano, osservava lentamente i quadretti di varia foggia
appesi alle pareti, gli idillii di lontani boschi, verdi di fronde,
bagnati da pigri fiumi, le rame oscillanti alla brezza dei mattini,
nutrite di morbida luce, i volti umani di remote contrade, perdute
nell’occidente africano, i vivi colori della selvaggina stesa su
vassoi di vetro smeraldino, e sognava nella camera dei sogni, in quel
salottino a lui tanto familiare e, pure, sempre inconsueto e colmo di
strane memorie. Una realtà di sogni era la sua, una vita sognata.
E gli giunse alla mente,
inatteso, un suo vecchio e ingenuo sonetto degli anni di gioventù, e
lasciò che la memoria gli ripetesse :
“ La divina foresta
spessa e viva
mormoreggiava di tra i
raggi lenta
e d’ogni fronda, d’ogni
fiore auliva
dalla cima dorata all’erba
spenta,
e il ruscello tortuoso
s’insinuava
quale magica serpe fra
giunchiglie;
su meandri azzurri e verdi
arcava
gotica volta in corolle
vermiglie.
Poi correva giù, per le
vallate,
e si perdeva fra i massi,
rigirava
ancor schiumante in onde
intorbidate.
E nella bruma della piana
immensa
poi si smarriva fra la
messe densa,
e nell’ignota e oscura
via entrava. “
Una vita di sogni è una
giovinezza perpetua. Così era per lui, come un’illusione non mai
compresa non mai negata, come un meraviglioso miraggio che permane
nel deserto della vita.
L’occhio dell’orologio
a muro lo fissava inesorabile. Il tempo s’alternava come il respiro
regolare d’un dormente. La vita fuggiva come un ruscello fiottante
tra i sassi levigati. Presto sarebbe calata la sera e un nuovo mondo
di ombre avrebbe abitato la terra. La luna col suo corteggio di sogni
era prossima a vivere la vita riflessa del giorno come la luce del
sole, e il sonno s’accingeva a disserrare le porte del suo regno
sconfinato.
E così sul mare la stirpe
infinita delle onde abbracciava la luce nel commiato del sole oltre
l’orizzonte, e le nubi come cenere calda parevano a poco a poco
dileguarsi nel buio fra guizzi rossastri, e le rupi lontane si
ammantavano d’ombre.
E venne sulle ali
dell’aria, dal campanile sulla collina, il tocco dell’ora, e fu
necessario avviarsi verso la sala ove era atteso.
Una lunga tavola lucente,
immersa in un fiume di luce, era al centro e, intorno, antichi e
pesanti mobili pareva racchiudessero porcellane e cristalli, certo
ormai da molto tempo non più riesumati.
Il conte lo invitò a
sedersi e cominciò a parlare del più e del meno, mentre Misandra
sorseggiava del vino colore del fuoco e i suoi occhi rilucevano dei
bagliori del tramonto.
Come il giorno precedente
Mauro rimase colpito dal suo sguardo, dalla sfumatura d’ironia
crudele agli angoli degli occhi e della bocca. Attirava ciononostante
e prometteva voluttà misteriose e inenarrabili, e il cuore umano
certo si sarebbe totalmente perduto se avesse soltanto osato
abbandonarsi all’incanto di quel viso straordinario.
Così restava innanzi a
lei stupito e muto, quale fanciullo cui per la prima volta si sveli
ai raggi del giorno l’inattesa forma d’una giovane donna, ed egli
sta silente ed estatico, similmente la guardava Mauro e non riusciva
a emanciparsi da quel volto.
Improvvisamente entrò
nella stanza una figura leggera, avvicinandosi sveltamente a
Misandra, mentre nel giardino adiacente si udivano voci rincorrersi
tra le ombre.
Vide una fanciulla di
circa quindici anni, la più graziosa e delicata che mai fosse
possibile incontrare; i suoi occhi appena inumiditi dalla malinconia
gli parvero d’un languore estremo; lunghi capelli biondi
fluttuavano sulle spalle; la bocca era fresca e vermiglia; ella era
così seducente che non si poteva resistere alla sua presenza senza
ammirarla silenti.
Misandra le fece mille
complimenti, accarezzandola ripetutamente, fino a che abbandonò il
marito e Mauro, salutandoli soavemente, e presa per mano la bambina,
quasi aleggiando sovra i gradini dello scalone, scomparve alla vista
chiudendosi nel buio delle stanze superiori.
Ma il giardino era in
preda a volteggianti echi di fanciulle. Si inseguivano, giocando, fra
le aiuole, per i viali alberati, ed era come una seduzione di sirene
il vociare argentino che brillava insieme agli ultimi raggi
nell’aria.
Misandra, quale misteriosa
Circe, s’era dileguata ai loro sguardi, ma la sua presenza comunque
aleggiava tra l’abbondanza dei fiori, degli odori e dei frutti
ormai esausta.
Uno sgomento aveva
sorpreso Mauro alla festa, la volubilità, i moti fuggenti degli
occhi di Misandra lo avevano colmato d’incertezza. Ella mentiva. E
il suo passo nelle stanze della casa era l’ombra della sera che
avvolge lentamente e nasconde ogni parvenza e copre ogni rivelazione.
Ma era l’ombra della
sera oppur l’ombra della tempesta ? Il fruscìo della sua veste era
ora il roco fremere del vento, e il manto della sua figura annunciava
il corteo di nubi minacciose.
Così era entrata, come
nebbia tra forre d’alte e cupe montagne ove crescono abeti
sull’orlo dei precipizi.
VIII
All’alba gli stallieri
arrivarono con le cavalcature sellate. A Mauro fu affidato un cavallo
bianco, di linee eleganti e dalla criniera fluente, Misandra montò
un poderoso stallone nero, nervoso, dagli occhi ardenti.
S’avviarono al trotto
verso la piana, che s’estendeva tra la foresta e il fiume diretto
al mare.
Mauro, appartenendo a una
famiglia onorata ma povera, non aveva mai avuto un cavallo suo.
Apprese da Misandra che quello consegnatogli era il destriero del
conte Oberto. Con un sentimento di soddisfazione mista ad invidia,
considerò con uno sguardo lo stupendo esemplare ch’era sotto di
lui. “ Fortunato il conte ! “ pensò, rialzando il volto in
direzione di Misandra. Ella gli volse una rapida occhiata, quasi
avesse compreso.
Indossava una veste
succinta, da cavallerizza. Contrariamente all’uso, non portava la
gonna, ma calzoni attillati coperti da stivaletti leggeri, lunghi
sino al ginocchio. Un corpetto di velluto rosso e un cappellino
piumato costituivano il resto dell’abbigliamento.
Cavalcava alla maniera
degli uomini, e pareva un bellissimo fanciullo che partisse
all’avventura o per la caccia.
E quando il sole illuminò
la selva e fra i tronchi verzicanti e muscosi dilagava un torrente di
luce, Misandra lanciò al galoppo il suo cavallo, che nitrì
selvaggiamente, invaso dalla foga improvvisa.
Allora anche Mauro si
gettò all’inseguimento, ma il suo destriero riusciva a stento a
inserirsi nella scia polverosa del superbo animale, che pareva dotato
d'un impeto sovrannaturale, demoniaco, quasi che la volontà di
Misandra riuscisse a fargli compiere prodigi. Ed ambedue fuggivano,
come esseri fantastici, sollevati dal vento, lui e la donna, presi
dalla corrente misteriosa d’un inspiegabile ardore, protesi verso
una meta ignota, arsi dalla sete d’una rivelazione.
E fuggivano, fuggivano,
saltando e superando ogni ostacolo, aggirando ogni macigno, evitando
ogni pruno o roveto, prodigando in scintille d’argento l’acqua
dei ruscelli.
La raggiunse sotto una
vasta quercia. Ella era appena smontata di sella e lo attendeva. Era
lievemente alterata dalla corsa e i suoi occhi brillavano.
Saltò giù dalla sella e
legò la briglia all’albero. La guardò mentre ella gli sorrideva.
“ Andiamo di qua, per
questo sentiero “ disse, tendendogli la mano. Egli la seguì,
silenziosamente.
Camminarono nel bosco,
dove i raggi del giorno filtravano appena. Dopo circa una mezz’ora
si fermarono dinanzi a un edificio in rovina, coperto quasi
interamente da erbe rampicanti.
Ella levò il viso verso
la facciata della costruzione, dove un rosone in alto rivelava il
santuario. Il sole lo faceva risplendere e i vetri colorati inviavano
bagliori misti di luce turchina e rossa. Pareva un grande occhio la
cui iride avesse catturato il riflesso dei tramonti.
Vicino scorreva un
ruscello e dietro il tempio formava un piccolo lago azzurro. Come
Misandra si specchiò nelle acque, disse : “ Un tempo venivo qui
con le amiche, prima di sposarmi, e, in pieno inverno, ricordo, ero
l’unica a gettarmi in questo laghetto gelido. Dovevo essere
cianotica quando uscivo. Erano tutte preoccupate e mi abbracciavano,
stringendosi a me e sfregandomi con forza. “
Così diceva e Mauro
all’udirla si sentiva invadere da un sentimento d’ammirazione.
Misandra era davvero una bella creatura selvaggia, un essere
assolutamente spontaneo e senza freni, eccetto quelli della sua
naturale sensibilità. Era strana, raffinata e, pure, quasi inculta,
poi che la sua gentilezza non era frutto d’artificio. Ella era
bella e leggiadra creatura della foresta.
Si sedette sotto un
albero, al riparo dal sole. Ed egli le si pose dinanzi, accovacciato
sull’erba, e la guardava in silenzio.
Misandra sembrava in
attesa. In attesa forse di qualche evento insolito o dell’arrivo di
un altro cavaliere ?
In verità Mauro era
tenuto in sospeso dall’incertezza. Non era pienamente consapevole
dei propri sentimenti. Essi gli sfuggivano, come sabbia fra le dita,
perché non era abituato a sondare in profondità il suo animo. Ma
aveva il vago sentore che quell’attesa non fosse per un altro,
fosse proprio per lui, l’incerto, ancora ignaro della sua stessa
natura.
Ella aspettava, aspettava
da lui un segno, la rivelazione senza ambiguità, il sì definitivo.
E allora vinto
definitivamente, abbattuto dagli strali d’Amore, aggiogato al carro
della guerriera, egli si sentì trascinare da una forza arcana e
irresistibile verso di lei. Allora la baciò, in uno stato di vera
incoscienza, non più padrone di se stesso. Ed ella non pareva
turbata, ma pareva che quell’istante le fosse noto da molti anni.
E tuttavia non fu
l’abbraccio che Mauro aveva sempre sognato. Fredde erano le labbra
di lei, stranamente fredde come il ghiaccio. Come poteva essere ? Non
emanava il suo corpo un senso di straordinaria energia, tale che
l’innamorato ne era stato interamente conquistato, quasi fosse
dinanzi ad una volontà superiore e ardentemente vitale ? Ah, le
rosse labbra di lei quali i petali purpurei d’una rosa invasa dalla
rugiada, come potevano essere tanto dure, fredde, marmoree ?
E l’incanto si ruppe, ed
ella si alzò quasi immediatamente e, nulla dicendo, appressatasi al
cavallo, rimontò in sella e s’avviò senza aspettare.
Egli rimase. Seduto su un
sasso, restava a fissare il terreno, immobile e cupo. Non ebbe più
la coscienza del tempo. Osservava le cose intorno a lui e vi si
confondeva, oggetto smarrito nella foresta frusciante, sotto il sole.
Quando tornò alla villa,
vide nell’atrio alcune scatole vuote, poi, furtivamente, notò nel
grande specchio all’ingresso che in fondo al corridoio una porta
era aperta. Si avvicinò incuriosito, ma ristette sulla soglia, da
che una moltitudine di riflessi abbagliava la vista.
A perdita d’occhio
s’apriva un labirinto e un’unica immagine si riproduceva di lato
in lato, ed ella, avvolta in una fluente veste purpurea, dardeggiava
più fortemente dei lumi e in ogni canto appariva sinuosa,
ammaliante, tiranna. Dovunque era, in ogni angolo, come al meriggio i
raggi furiosi sopra il mare, e i suoi occhi ovunque fissavano, e
anche lui coglievano incauto, al laccio.
Si ritrasse, colpito,
forse, dal suo ghigno beffardo, se pur non fosse una pura
impressione, e, veloce, anelante, s’affrettò verso la sua stanza.
Le tenebre correvano sul
mare di porpora, mentre ad occidente nubi insanguinate si accalcavano
sopra l’abisso del sole fuggitivo, nella morte del giorno.
Lunghi manti oscuri, nere
ali, si distendevano sovra strisce esili di fiamme che si
disperdevano e si spegnevano fra le onde d’un azzurro cupo e
freddo, fluitante su profondità insondabili. Il mare, denso e pigro
e quasi viscoso come un vino forte, esalava a tratti riflessi
violacei, respirando monotono.
Negli intervalli del
flusso regolare, quale in un sonno senza sogni svanisce la coscienza
del dormente, sgombra di pensieri inquieti, il silenzio accoglieva la
terra, recandola nelle regioni del nulla.
Sognava.
Fluttuava la luce sotto
gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa,
che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un
ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei
balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra
le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle
montagne.
Una vegetazione rigogliosa
si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e
bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora
si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie
ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel
recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il
fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le
armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a
furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive
del grande fiume.
Su per l’acqua
veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla
riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali
tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e
leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con
le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano
riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il
fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore
della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di
fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le
gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si
appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti
generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli
boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico
del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a
quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore
inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni,
deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e
s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.
Tra la vegetazione
dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei
lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra
ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di
flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la
corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso,
carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace
traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa
volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava
per sempre un dio antico.
Al centro di
quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente
all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca
della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se
pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico
tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta,
rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma
muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i
rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e
nerastro.
Un trono imponente, di
pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a
campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa
una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù
per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di
perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro
dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava,
le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua
schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede
giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte
colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su
cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un
indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in
mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di
gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale,
illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del
loto.
Il volto brunito era
impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche
risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride
plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il
mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare
inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano,
allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude
entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della
donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle
innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di
seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del
senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono
l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel
cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito
d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte
colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude,
la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo
della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a
incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite
dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva
d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle
speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel
tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca,
nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in
generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi
pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e
nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava,
innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del
suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé,
sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del
sangue.
Ed ella s’entusiasmava
nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e
reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella
danza interminabile.
E il sangue stillante
dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico
della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde
scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i
frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un
fiume veemente, verso il mare murmureo.
Il mattino si annunciò
col rombo del tuono. Un forte temporale avvolgeva il cielo e le
folgori baluginavano qua e là scaricando la loro terribile potenza.
Egli aperse, sceso dal
letto e vestitosi, la finestra della camera e volse lo sguardo verso
il mare.
Sulla spiaggia accadeva
qualcosa di strano.
Furiosamente al galoppo
falciava le onde spumose sulla battigia argentea un cavallo nero,
gigantesco, che al limite della terra e del mare nitrendo fuggiva.
Ebbe sentore del fluire
dei propri pensieri, perciò Mauro uscì dalla villa e più rapido
del vento, non sapeva dove, anch’egli fuggì.
Si ritrovò in un luogo
oscuro, ignoto, di fronte a un edificio d’antica pietra, invaso dai
rampicanti.
Avanzò lungo la sagoma
scura, al mormorìo di un venticello fioco e maligno, sussurrante tra
le branche cupe.
Le foglie frusciavano
sotto i suoi passi, le foglie volitavano intorno secche e leggere
come mani furtive, rapide, agili su magico strumento. Sentiva insieme
alla sferza del vento la corsa dei suoi pensieri, quale un cocchio
trascinato da furibondi cavalli. Dove procedeva ? Dove andava ? Si
libravano sull’aura attorno a lui le ali degli albatri, si posavano
sopra le mura in attesa, come arpie. La sagoma della luna ancora
recava barlumi quasi lampi, illuminazioni improvvise, intuizioni in
una lunga ricerca.
Ecco il portale. Ecco le
fantastiche icone volgersi a lui per presentare i misteri dei mondi
di là. Tre colpi echeggianti batté e s’aperse senza rumore quasi
onda che si ritrae.
Egli entrò nella chiesa
abbandonata. L’edificio diroccato era appena illuminato
internamente. Tortuosi turbini arcavano sopra abissi verde lucenti,
onde s’agitavano, fluitavano vapori, fluivano fumi d’incenso,
fremevano braci, s’attorcevano lunghissime chiome nere che
procombevano sopra rupi. Nella penombra la fantasia s’accendeva e
scorgeva rocce schiumanti e muscose invase d’acque scure,
cuposonanti, avvolgentesi in spire serpentine.
Non erano candele, né
lampade, sibbene dèmoni lunghi come serpi, dalla capigliatura
ardente e dagli occhi di bragia. L’altare maggiore splendeva a
giorno, ad opera di enormi candelieri viventi, perché erano braccia
che uscivano misteriosamente dal marmo e aprivano le mani accogliendo
lingue di fuoco dai colori più vari. In mezzo all’altare era
adagiato un gatto nero di proporzioni gigantesche, dalla coda
ondeggiante e dagli occhi spaventosamente lucenti. La coda
s’allungava nel buio oltre l’ara, in vortici, in tortuosi
turbini.
I bacili dell’acqua
lustrale erano fessi sull’orlo, ma pieni ormai d’acqua piovana e
maculati dal muschio sul marmo opaco.
L’aria, greve, stagnava
fra le colonne possenti che reggevano ancora in parte la volta, come
grandi alberi la chioma nell’impenetrabile foresta. Dall’alto il
crollo di qualche troppo ardita arcata lasciava filtrare una scìa di
raggi che si fondevano in un lucore sulfureo con le fiammelle
guizzanti del rito sabbatico.
Poté così notare alla
sua sinistra un grande affresco, di tra le colonne, ora vivido
stranamente, come appena dipinto.
All’estremità d’una
radura sorgeva una roccia simile a un pulpito, circondata da quattro
pini ardenti, la cui cima crepitava esalando un fumo acre e denso.
Intorno il fuoco gettava sprazzi di luce che rivelavano una folla
numerosa, nel cuore di quella selvaggia solitudine.
Un inno lento e solenne si
levava da quell’adunanza misteriosa. Un canto malinconico, pio in
apparenza per la musica conforme alle sacre cerimonie, si
manifestava, man mano che se ne distinguevano le parole, un’orribile
litania di bestemmie. E tra una strofa e l’altra, il coro muggiva
bestialmente quasi il rintronare d’un organo potente, e un boato
s’effondeva ed echeggiava per la selva fondendosi con il crosciare
dei torrenti e l’ululato dei lupi.
E il fuoco che fremeva
sopra la roccia s’aperse in una vampa del colore del sangue, e
apparve un’immagine sinistra, l’ombra d’un uomo nerboruto e
gigantesco.
E come dalle montagne
s’ode il cupo rombo del tuono e i venti trascinano con sé il
livido manto delle nubi che cala sulla pianura quale una valanga
tumultuosa, così la sua voce cadeva dall’alto.
Mauro si destò
improvvisamente dal sonno, sudato e tremante, e dopo alcuni minuti,
quando scorse i primi raggi del sole penetrare nella stanza
attraverso le fessure delle persiane, allora si rese conto che era
stato tutto un sogno.
Allora affrontò la luce
del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e
mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria
di giochi femminili.
Più lontano gruppi di
fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di
fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla
battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le
sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le
ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era
bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per
qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò
lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve
brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo
cuore.
Continuò a camminare
lungo la riva.
Un impulso insolito lo
spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni,
era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci
inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui,
serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel
bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita
per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano
nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a
intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il
silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare
nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un
continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni
incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un
ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte,
giovane e immortale.
E inerpicandosi per il
sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul
nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del
mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli
magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini.
Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri
duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse
bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la
presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia
innitrendo.
La foresta si risvegliava.
Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui
rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel
sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E
lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli
scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva
armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una
sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò.
Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza
e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò
la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì
in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del
bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli
scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu
l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni
essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il
volto?
Respirò profondamente.
Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non
diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un
laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti
intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria
immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo,
come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle
piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si
avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le
gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti,
dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una
melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo
imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di
forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei
suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della
foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere
della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la
percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro
meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma
all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti
erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo
le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza
umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli
uomini.
Potentemente e
prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva
trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole
filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi
passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba
fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di
pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente
denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La
solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le
nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione
della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù,
nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso,
disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e
luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il
richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura
onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito
del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e
seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle
pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto
d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco
spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di
capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il
cammino.
Più fitta era la
vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si
fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva
appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di
percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni
albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si
tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo
il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in
un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il
tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra
due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda
pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino
all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il
sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un
odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli
arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei
corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi
colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la
porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della
montagna.
E quando vi giunse, vide
alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a
sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno
meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una
ricchezza inattesa.
E il sole irradiava,
splendido nella sua forza.
E a lui parve di
trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso
ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie
vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita.
Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un
inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita
degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito
dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi
del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente
il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la
scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le
strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e
di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce
musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e
indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta
del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese
nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il
fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno
degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava
sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque
riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o
che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del
dio!
E guardò le nubi a
occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve
che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi
grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della
luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia
lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde
velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad
isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti
giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore
del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio
dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
“ Ma tardo, al fine
m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e
su le corde mosse
come da un breve anelito;
e li chiusi,
vinto; e sentii come il
frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea
nell’ombra;
e sentii come lontanar tra
quello
la meraviglia di dedalee
storie,
simili a bianche e lunghe
vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di
tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano
nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si
assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e
fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni,
che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si
amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare
il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò
nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto
tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si
distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne
anch’egli un puro elemento.
Nell’ombra smarrendosi,
dissolvendosi, errava verso brume lontane, diffuse nelle vallate,
sorgenti tra rocce livide, bramose di tempeste. Laggiù gracchiavano
corvi, rumoreggiavano acque. Un sordo tonare saliva dal grembo della
montagna. Sparsi fuochi levitavano sagome danzanti e minacciose, e
strida acute aleggiavano di rapaci notturni.
Forse fughe tra rami
contorti, nel folto dei boschi, forse rapite estasi ed inni di gioia
selvaggia gareggiavano coi vagiti e i mugolii delle tenebre. Strane
note d’ignoti strumenti scaturivano dal profondo, dalle macchie
nere sotto i dirupi, dalle gole nascoste alla luna.
E il mare, selvaggio e
crinito, urlava contro le rocce, laggiù nell’oscurità, a tratti
inluminata dalla lampada notturna, quasi dietro le nubi frante
sorgesse erta da un braccio misterioso. Urlava e sibilava, un
tortuoso immane serpente verde, un drago dalla cresta irta e
biancastra, fluente chioma incolta.
Nel vago lamento
sorgevano, fra i vapori salsi, fuochi sulfurei, un corteo sinuoso
saliva per il pendio, una nenia rotta da improvvisi silenzi avanzava,
scaturita dal gorgo profondo, un mistico coro ascendeva dai meandri
di una stigia palude. Nel folto dei canneti echeggiava un uluco
maligno. E il grido si mesceva al roco afflato delle onde perse.
E perso egli era
nell’ombra cupa del suo destino, un rigagnolo dilungantesi nel
fango e tra le zolle cespose e pallide sotto la luna esangue. Forse
anch’egli fatalmente volgeva a cogliere ingenuo i grani purpurei
della punica mela e a inghiottirli, per sempre nell’abisso della
propria condanna ?
Rispose un nero tuono, e
fremette vacillando come all’aprirsi d’un baratro sotto di lui.
La nebbia ribolliva
intorno alle rocce, i nembi sorgevano attorti e solidi sotto di lui,
bianchi e sulfurei, quasi schiuma da frementi oceani del cupo
inferno, i cui flutti s’infrangono sul lido vivido, sparso di sassi
come teste tronche di dannati.
Gli parve che il suo corpo
immoto si allontanasse alla deriva in una barca nera senza remi né
vela, come una bara. La chiglia gorgogliava sovra l’elemento denso,
una palude appena schiarita da una luce malata. Gli parve che quella
palude non avesse fine.
E nera alitava la notte e
la spuma e i vapori incalzavano i fianchi del legno, incubi e spettri
sotto il volto incredulo della luna.
La luna si rifletteva,
pallida come una donna isterica, sul deserto liquido. I venti del sud
inaridivano i fiori dei giardini. Si sfibravano le corolle e
marcivano le foglie nelle fontane occluse ed impure.
La luna fissava una
desolazione di rocce e di zolle disseccate, una vampa mortale
soffocava ogni anelito. Il suo volto rifletteva il pallore della
luna, ove si specchiava sulla riva del mare una donna dai lunghi
capelli, come manto di ombre. Un velo violetto incupiva le sue
palpebre inferiori, la chioma le oscurava il collo, scendendo
morbidamente sulle spalle. Le sue pupille parevano volte all’astro
delle tenebre, un’atmosfera fosforica la cingeva in un abbraccio.
Come un fiore notturno la
luna inebriava di sé il mare tumultuoso e vasto quanto il desiderio
degli uomini, una malìa si librava sovra le spume.
Quel morbido candore,
quale di pelle bianca e profumata, la incoronava. L’iride verde dei
suoi occhi riluceva similmente al grembo ignoto delle foreste quando
è violato dai raggi diurni o alla palude di terre nebbiose quando il
sole rompe il cielo plumbeo o agli occhi verdi dei gatti quando
gemono sedotti dalla luna.
Ella osservava la pianura
del mare biancheggiare sotto la luna, specchio dello specchio del
sole, e i suoi occhi come smeraldi erano accesi d’una luce
misteriosa e in essi si protraeva la vita infinita di quell’immenso
respiro glauco.
Era forse un angelo sorto
dalle acque, che ha conosciuto i segreti della tomba e ha dimorato in
mari profondi insieme al suo giorno tramontato e i suoi occhi sono
colmi, come abissi, di tutte le distruzioni del mondo e le sue
palpebre sono stanche di tutte le passioni e le bellezze morte, ed
ella è antica più delle rupi sulle quali posa il suo piede ?
Aveva il suo piede
sfiorato i gigli delle valli, e aveva deterso il suo corpo avvolta
nelle correnti generate senza posa dalle montagne e si era coricata
sovra i fiori anelanti dall’oscurità della terra, e la sua mano
aveva rapito i frutti dalla vita dei rami, e la sua bocca aveva morso
la loro ricchezza.
Aveva il suo piede varcato
la soglia della morte e aveva condotto la barca delle anime sopra il
mare tinto di sangue ad un’isola senza nome, corsa dallo strepito
degli avvoltoi. E la chiglia solcava quel mare violaceo quale sangue
corrotto, e i dannati gemevano, naufraghi nell’ombra. E
imploravano, e imprecavano, dispersi fra i gorghi, e chiamavano
inutilmente.
Era la luna che l’aveva
resa così pallida, un sentore divino l’avviluppava in un vapore
sottile. Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri.
Nella notte profonda il suo respiro era il gemito delle fonti nei
boschi e il pianto della brina sull’erba dei maggesi, e il mormorio
delle acque e dei venti per le giogaie, e una fuga nelle nebbie sovra
i dirupi.
Aveva ella il potere di
suscitare le tempeste, di vagare invisibile per i villaggi, di
mutarsi nelle forme degli animali.
Come luna tra rocce un
sorriso irradiava di lontananze ignote, chinando la sua fronte carca
di purezza notturna. Di mitici pallori riviveva tutte le primavere
spente, Regina adolescente, taciturna e spersa nell’oceano dei
sogni.
Così a lui apparve
nell’alone della luna, cinta dall’astro quasi da lei ricevesse la
luce.
Una barca lunga e nera,
ombra sulle acque, si avvicinò alla riva. Ed egli era ormai pronto
al varco. Come dunque ebbe i piedi sul legno, la barca scivolò via
per le profondità, quale una serpe d’acqua, fendendo le onde con
un lieve sibilo.
E navigava lontano, nel
tempo e nello spazio.
IX
Al ritorno, mentre
percorreva il viale, tra i fiori e le piante ombrose, vide innanzi
alla porta una bambola abbandonata che lo fissava con occhi azzurri
vividi e vitrei, coronata di ricci d’oro e di nastri rossi, vestita
di raso verde. Come un idolo, custode del tempio, se ne stava
all’entrata. E la porta, di legno scuro, pareva celare segreti e un
mondo ignoto.
Ricordò che Misandra,
appena uscita dal collegio, era stata affidata al conte, come appunto
una bambola tolta di recente dalla vetrina d’una bottega di
giocattoli, e il marito l’aveva idoleggiata e coccolata proprio
come si fa d’un dono vagheggiato per lungo tempo, e gelosamente
custodita. E in effetti, quasi a confermare il simbolo, la stanza
prediletta da Misandra era piena di bambole, sui divani, negli armadi
e sovra mensole alle pareti. E la bambola dagli occhi immobili e
glaciali lo teneva alla soglia, lo impietriva come Medusa.
Come gli era impedita
ormai l’entrata alla villa, Mauro decise di recarsi alla spiaggia,
poi che il sole ancora tiepido si coricava mollemente sulle acque e
sopra le ombrate riviere.
Quando fu alla riva udì
una compagnia di fanciulle ridenti che scherzavano tra loro e la loro
voce era una gioia di rondini in cielo.
S’adagiò sulla sabbia e
sui ciottoli, e, nel blando tepore del tramonto, fu colto ancora da
un profondo torpore simile a un sonno inquieto.
Nell’acque scorgeva il
volto di mille uomini e donne, che lo miravano, inchiusi in
quell’utero. Ed era un seguito di donne denudate, dai fluenti
capelli neri, dal corpo pallido e saldo quasi avorio o candido marmo
in cui sbocciavano le rose del grembo e neri crini velavano
l’inguine. Ed ecco una donna dalla copiosa forma, dalla selvosa
criniera rossa intrecciata di viole, che sorrideva ammaliante
attorcendo le ciocche fulve tra le agili dita. Ecco una donna pingue,
dalla capellatura adorna di preziosi, e ricca d’anelli, d’armille
e di collane, dalla larga gola, dai seni flosci, dall’andatura
imponente, dal cipiglio sovrano. E poi una vecchia, vizza e sul capo
una trina di fili d’argento, dall’orbite incavate, dalle guance
affossate, senza labbra. Una stoffa nerastra le copriva la sagoma, ma
le si intravedeva un seno, un bulbo duro.
Una figura abbagliante,
quale ambra irradiata, gli rivolgeva un sorriso e nel contempo si
ravvolgeva nell’oscurità d’una selva buia e selvaggia, che solo
un chiarore di luce aurorale timidamente violava.
Un leone gigantesco era ai
suoi piedi, immerso nel sopore. Le grandi zampe giacevano immobili,
soffici adornamenti in un tappeto vivente, la folta giuba si offriva
come un morbido cuscino. Ella vi depose il suo candore, che tanto
contrastava con l’irsuto pelo della fiera, e si addormentò, mentre
la folta e lunga chioma si fondeva con la pelliccia brunastra.
Una nube fiottò da un
incensiere. Una donna, vestita d’una stola bianca che le celava i
piedi, si dispose poco discosto. E curiosamente lo guardava,
maliziosamente, quasi che per la prima volta vedesse un uomo. Aveva
un viso rotondo, le guance rosee, gli occhi neri e grandi, le
sopracciglia lunate. La capellatura era raccolta e nera come la
notte.
Sopra marmi puri,
statuaria nella perfezione della sua nudità, una donna bellissima,
dai crini crespi d’ebano, dalle ciglia ombreggiate di sopra al
lungo taglio degli occhi, dal collo cinto da un colletto di triplice
giro, sorreggeva con il braccio sinistro, all’altezza del capo, un
pomo di bronzo, sul quale era infitta una vittoria alata, anch’essa
di bronzo, che suscitava una singolare impressione, così com’era
sollevata dal biancore di quella mano.
In un’altra icona, una
femmina rossa, cui due bande di rubra criniera nascondevano le spalle
e la parte superiore del petto, tranne le mammelle, nuda, nella mano
destra una lente dal manico argenteo, lo fissava, appena svelando
l’avorio dei denti tra tenui labbra avare. L’iride grigia sotto i
sopraccigli era pervasa d’una luce crudele. Un pitone le vorticava
intorno alle gambe.
In una seconda icona, in
primo piano sovra uno sfondo d’alberi d’oro, una signora magra e
leggiadra, dalla capigliatura cotonata, dalla carne delicatamente
olivastra, dalle gote toccate da un soffio di rosa, socchiudeva gli
occhi quasi in estasi. Le si vedevano gl’incisivi eburnei tra
labbra un po’ riarse. Il collo era chiuso da un monile spesso,
dorato e ingemmato, ma suggeriva il collare d’una schiava.
In un’altra icona, una
dama semicurva, dalla chioma nera raccolta ma leggermente slacciata,
schiudeva a metà palpebra, come una morta, l’iride castanea
risaltata dall’ombretto. Un falso neo era apposto sullo zigomo
sinistro. Il profilo del viso era mirabile, il naso sottile,
lievemente incurvato, e un poco all’in sù sopra le narici
voluttuose. Un’abbondante stoffa di tinta fosca di cenere calda,
quale piumaggio di fagiano, le lasciava scoperte le coppe delle
mammelle, corrette sotto da una striscia di seta. Quanto al resto, si
mostravano solo le mani sottili e nervose, con i polsi inanellati, e
la sinistra reggeva tra le dita attorcigliati i capelli d’un capo
mozzo, dalle palpebre recluse. Alla base dell’icona era scritto : “
Giuditta “.
In un’alcova intima,
tappezzata di velluto grigio piombo, impresso di fantasie verdecupo,
dalla volta in lacunari, era un divano mascherato da una ricca
copertura a fiorami, e sopra era una giovane dall’opulenta chioma,
scriminata e rattenuta da fermagli in figura di conchiglia. Aveva
orecchini di corallo che assorbivano l’incarnato delle labbra,
collegate al naso breve da un breve solco. Gli occhi, grandi e
grigioverdi, risaltavano sotto morbide ciglia non lunghe, com’è
proprio del tipo biondo, e sotto una fronte seminascosta dalla fronda
castana. Tra le spalle e il collo delicato, una lunga collana di
coralli rifletteva il fascino dei labbri, posando sopra una pelle
luminosa che s’alimentava del calore di quella chioma. Una veste,
che pareva aver colore dal corpo che ospitava, se ne allontanava in
doviziose pieghe ed enfiature eleganti, le maniche erano strette
all’omero da un nastro, sul quale erano fiori di stoffa dal
pistillo rosa e dai petali color seppia. Il tessuto era disegnato di
larghe foglie di piante ignote che rifrangevano nel loro smalto la
malìa di quel viso fatato e di quella fronda prodigiosa. Da esso
uscivano tenui dita, l’una inanellata d’una pietra cinerea,
l’altra d’un castone di rubini splendenti.
Gli pareva così di posare
tra fiori rossi, immerso in una trama di steli, di respirarne il
profumo e sognare.
Sotto i raggi filtrati fra
i rami fronzuti s’estendevano tappeti di fiori rossi, papaveri
forse o tulipani, tappeti di fiori purpurei o color ciclamino,
dovunque variamente sfumati alla luce sinuosa. Attraversava la
foresta dagli alti tronchi bruni, e, tra le sagome degli abeti
avvolti dalla nebbia, saliva alla vetta, verso i bianchi ghiacciai.
Le nebbie si diradavano e appariva l’immenso dorso irto d’abeti
lucenti, e udiva il canto dei ruscelli perdersi nell’infinito
sogno. Tra le gore limpida luceva l’acqua gorgogliante, e, in alto,
le nubi rade transitavano, passeggere curiose, e svanivano. Scendeva
al sentiero variamente maculato d’ombre e di luci, poi passava per
un boschetto di querce frondeggianti, e divagava di via in via, ora
dirigendosi verso la valle, ora risalendo, ora soffermandosi a mirare
il paesaggio, ora affrettando il passo. Nel silenzio si estendevano
le catene dei monti, sopra le nubi, nell’aria più pura d’un
cielo sopra il cielo. Erano veramente la dimora degli dei ? A che
altro era nato se non che ad innalzare l’anima a quel cielo puro e
azzurro, in una solitudine inviolabile ?
E intorno, sul bosco
schiarito dal pallore di migliaia di anemoni, soffiavano i venti
gelidi dell’inverno sopra i rami agitati dagli sbuffi, e la
corrente carpiva il sentore dei narcisi, che flettevano il capo quasi
tenere fanciulle etiche, minate dal freddo mortale. Procedeva allora
nella foresta, alla deriva come un’imbarcazione liberata
dall’ormeggio, fino a che, colpito dal colore giallo vivace dei
gelsomini, s’arrestò innanzi a un casolare di pietra, che n’era
adorno.
S’appoggiò al tronco
d’un giovane pino che fremeva al vento come dotato di vita animale,
mentre il sole illuminava la casupola, ricoperta di un mantello di
muschio. Nel cielo una solitaria nube nera s’elevava come una torre
in fronte al sole possente. La massa grigia s’attenuava e svaporava
in alto in un baratro di luce ignota. Quali mondi s’estendevano al
di là di quelle mura ? Forse i sogni negati alla giovinezza,
liberati dall’incantesimo dell’esistenza, s’avvicendavano in un
incessante prodigio. Sciolti i legami della misera vita, egli avrebbe
potuto laggiù esplicare l’infinito potere dell’animo e della
fantasia senza confini.
Sin dalla prima giovinezza
il suo spirito non camminava insieme alle anime degli uomini, né
guardava sopra la terra con umani occhi, la sete della loro ambizione
non era la sua, né lo era lo scopo della loro esistenza. Le sue
gioie, i suoi dolori lo rendevano uno straniero, egli non aveva
simpatia per la carne umana, la sua gioia vera era nella natura
selvaggia, nel respiro dell’aria aspra delle vette innevate, dove
neppure gli uccelli hanno il nido e donde soltanto scaturiscono dalla
loro culla i getti dorati delle sorgenti, precipitandosi in luminose
cascate nell’aria frizzante del mattino.
Era dentro di lui una
forza misteriosa che lo spingeva a procedere nell’oscurità, nel
deserto dell’esistenza, senza una ragione, senza un qualsiasi fine,
senza alcuna gioia.
Sul suo volto si
scorgevano ormai i segni del male. I suoi occhi erano colmi di una
febbre velata a tratti da ombre di quiete che pareva spegnerli per
poi accenderli di una acuta ansia, di un sorriso talvolta, freddo
come un ghigno.
Egli era un essere
solitario, isolato, oscuro, immerso in un sogno d’odio, d’orgoglio
inappagato, in un esilio disumano.
Le teorie delle regine
maledette lo circuivano dietro le lusinghe del serpente, chimere
mortali, terribili, delle acque insondabili, degli spazi inviolati,
delle ombre e dei sogni, che coprono con le loro volute insidiose il
fondo della nostra vita, del Mistero.
E il Mistero si rivelava
dopo i primi smarrimenti. Egli era consapevole ormai che, oltre le
immagini ingannevoli che parevano deviarlo per la via della vita, una
irresistibile forza agiva in lui come un destino.
E quella forza era lui
stesso, nella violenta volontà di essere se stesso, nella brama di
vivere la sua vita, specchio di se stesso.
Sentiva la propria
solitudine e l’esclusione da un mondo cui non apparteneva.
Si volse a contemplare da
lontano la piana delle correnti cerulee. La sua pupilla si perdette
in orizzonti sconosciuti, per i quali aveva osato il viaggio nella
stagione della sua primavera, isole immense trionfanti di intrichi
selvosi e di labirinti turriti e d’arditi archi su vertiginosi
baratri.
Ove aveva corso coi
centauri sulla riva del mare mugghiante e al vento acre, ove aveva
assistito alla furia dell’eroe contro lo Scamandro, o al volo dei
corvi di Odin, gracchianti tra le nubi porfiree nei tramonti boreali,
o al tuono e agl’inni tenebrosi delle vergini guerriere, ascese nel
turbine della tempesta, laggiù voleva tornare.
Un alone violaceo lo
cinse, poi che il sole all’orizzonte declinava dietro un velo di
amaranto. I gabbiani volteggiavano fra i vapori nell’indaco della
veste ombrosa.
Sopra la collina, che
invadeva le onde come un’immensa testuggine, era un fiore bianco.
Presto un agile centauro
dalla chioma fluida che si smarriva nel vello bruno del petto e gli
inondava le spalle, una virente criniera lungo il dorso arcuato,
balzò sino alla cima, rotando la coda come un flagello. Sorreggeva
col braccio destro un corpo pallido, esangue, sul quale s’allungava
un manto verde lucente, quali sono le sponde delle fonti nei campi
solitari, ove cresce l’agnocasto e il lauro, e sull’orlo del
manto una lista scarlatta di crisantemi declinava per le gambe
eburnee. L’anca era stretta dalla mano nervosa del centauro e il
torace poggiava sovra l’omero destro del vasto animale, il capo
adagiato alla gota sinistra aveva la bocca socchiusa, livide le
labbra. Una corona d’alloro era sulla fluente chioma castana,
striata di venature dorate. Pareva trasumanato nell’effusione
dell’ultimo canto, celebrato il sogno estremo. Un sangue nero
colava sulla carne di neve, sotto le ciglia dormivano i suoi occhi.
Il centauro lo conduceva
alla sede degli dei beati ove si perpetua la giovinezza, per poi
nascondersi nuovamente nell’oscurità delle foreste.
Nelle foreste, dove
rombano i fiumi e imperversano i venti, esso galoppa furente di forza
e la sua voce s’unisce a quella di tutti gli esseri, divini e
ferini. La sua voce è una eco della possente voce dell’Oceano dei
secoli antichi, la sua forza serve il dominio del grande Dioniso.
Ormai il sangue del cielo
s’effondeva intorno al disco del sole, e le montagne si coloravano
di cupo azzurro e confondevano le loro pendici col mare.
Lungi s’alluminavano le
minuscole città, ignare.
E i timori degli uomini
morivano nelle loro tane, inesperti del terrore sconfinato che urla
sovra le rupi dei precipizi, che sibila sulle cime, che schianta gli
anfratti dei promontori. Lo conoscono le aquile, che di tanto
superano gli uomini, e le volpi che li ingannano, i camosci audaci e
le vigili marmotte pronte alla fuga.
E così moriva nel vasto
tramonto il poeta, il suo sangue s’univa al sangue del crepuscolo
che si sfibrava in striature, in velami tinti di ciclamino, sottesi
d’un’orditura d’oro.
Ma lontano, nella città,
la paura si coricava nella notte degli uomini.
X
Come si destò dal lungo
sogno, gli parve che dovesse essere ormai notte. Ma il sole era
ancora alto nel cielo.
Si trovava sulla spiaggia,
oppresso dalla calura.
Si mosse e s’avviò per
tornare alla villa e, mentre era in cammino, incontrò nuovamente la
fanciulla di prima, questa volta di fronte a lui, e i suoi capelli
bruni mossi dalla brezza le ricadevano come arabeschi sulle spalle
morbide e bianche.
Nei suoi occhi vide il
riflesso dei laghi alpini dove si specchia il sole, e un fremito di
esultanza lo pervase come il vento un abete sui monti.
E la disperazione del
desiderio lo catturò crudelmente senza scampo. Era la tempesta che
scendeva con fragore dalle vette sino alla valle, giù turbinando per
le pietraie, levando nugoli di terra arida, con un rombo per le gole
fra le rocce echeggianti. Un tuono, un urlo terribile prorompeva fra
le ardenti giogaie frustate dai fulmini. Sentiva in sé allora il
tormento dei desideri e della volontà, la tempesta senza fine delle
passioni, la tortura della vita.
Gli parve che anch’ella
lo guardasse. S’infiammarono le guance e il pallore subitaneo mise
in fuga il rossore. Il viso le s’irrigidì, concitato dall’ira. “
Dove mai la sanguinaria mènade è precipitata dall’amore spietato
? Qui e là dirige il passo, come una tigre orba dei nati con corsa
furente percorre la foresta intorno al Gange. Non sa frenare l’ira,
non sa por fine agli amori; ora ira ed amore han fatto causa comune :
quale sarà l’effetto ? “
Proseguì dunque con
l’amarezza nel cuore attraverso le alte palme ondeggianti al soffio
dello scirocco.
Lunghi cespugli di
rosmarino profumavano l’aria, alberelli di iucca innalzavano ancora
tra le lunghe foglie spesse, di un verde lucido, i resti della loro
bianca fioritura.
Il pomeriggio avanzava e
si caricava dei cupi presagi della sera, svelati da nere nubi che
facevano capolino tra i monti. Un senso di oppressione toglieva il
respiro e il ricordo di dolci visioni. Ma come fu al cancello della
villa, allora si dileguò per lui ogni minaccia di tenebre e un nuovo
sole illuminò il suo volto, mentre il sole del giorno volgeva ormai
al tramonto e copriva di un aureo velo l’edifizio e il giardino,
trasfigurandoli.
Così, regina del mondo
dei sogni, Misandra lo attendeva sulla soglia del suo palagio d’oro.
Come una principessa delle
fiabe, vestita d’un lungo manto dei colori della primavera, ella lo
attendeva sul più alto gradino dell’alta scalea.
Il vento soffiava forte
sul mare e le nubi roteavano, mentre Mauro saliva timoroso e lento la
gradinata, ma nel suo cuore s’agitava il turbine. E invero era
immerso ormai nella corrente inestinguibile, e il suo volto si
protendeva, per non più volgersi, verso colei che attendeva.
Ed ella irraggiava tutta
la potenza dell’amore, più forte del tuono e del lampo. Potente
regina vittoriosa, ella dominava le tempeste.
Ascendeva in vortici la
musica onnipossente della natura ed empiva di sé inebriando l’ampia
volta del cielo.
E gorghi e vertici e
flutti dorati si tendevano con la forza d’un arco temibile a
scoccare lo strale del loro immenso respiro. Viveva ogni creatura in
quell’anelito, a quell’abbraccio gaudioso e ineffabile correva a
dissolversi.
Così al tramonto d’oro
lo accolse Misandra, e per lunghi corridoi lo condusse infine a una
grande sala. I cortinaggi erano aperti e la luce rossastra illuminava
le pareti. Su una di esse risaltava un grande ritratto d’epoca
secentesca, il cui soggetto era un cavaliere ornato di corazza nera e
lucente, avvolto in un ampio mantello purpureo. Alto, bruno, teneva
la mano sinistra sul fianco e con la destra reggeva un bastone
d’avorio. La spada risaltante di riflessi dorati gli stava alla
sinistra, l’elsa finemente lavorata lasciava scorgere un mirabile
intrico di arabeschi. Lunghi capelli neri gli cadevano sulle spalle,
smossi dall’impeto della battaglia, la fronte alta e pallida
rifletteva un chiarore perlaceo. Sotto le sopracciglia sottili e
nere, occhi penetranti e minacciosi insidiavano qualunque sguardo con
sfida beffarda e crudele, né parevano potersi eludere, ma seguivano
chiunque fosse entrato nella sala. La loro tinta era indefinibile,
d’un castano variabile a seconda della luce, ora chiaro, ora scuro,
l’iride infatti mutava secondo i raggi, poi che il pittore l’aveva
dipinta con capricciose sfumature. Le fattezze del volto erano nobili
e ferme, le labbra rosse.
Misandra si fermò innanzi
al quadro, né parve più accorgersi del suo ospite. Mauro perciò
ebbe fretta d’allontanarsi e si diresse verso la porta, ma, colto
da un moto di curiosità irresistibile, si fermò sulla soglia e
stette a guardare.
Il dipinto non si trovava
a grande altezza dal suolo, ma al livello più o meno di chi lo
ammirasse, Misandra gli si avvicinò affascinata e senza alcuna
esitazione, quasi fosse ormai un’abitudine, lo baciò sulla bocca.
Quindi si ritrasse inebriata e come avesse perduto il senso del tempo
e del luogo in cui era.
Perplesso, Mauro si ritirò
rapidamente e raggiunse la propria stanza.
Nella camera era posto un
grande armadio a specchio. Non poté fare a meno di guardare e vide
la sua immagine riflessa, ma stentò a riconoscersi.
Chi era mai quell’uomo
dagli occhi fissi sopra di lui, implacabili e dotati d’una
straordinaria energia ? Pareva un demone appena uscito da una nube
nera, circondato da un’aura di possente mistero. Lo fissava
sogghignando, sarcastico e crudele, con le braccia incrociate, che
sembravano dotate d’una forza immane, pronte in un balzo di belva a
dilaniare.
Era proprio lui
quell’individuo così terribile e minaccioso ? Ne ebbe paura. Una
paura folle, senza rimedio. Quella era la vita interiore, profonda,
oscura, invincibile, che gli toglieva ogni speranza, ogni illusione
di equilibrio e di pace. Non voleva, non desiderava essere così.
Aveva orrore di sé medesimo, della vita caotica, tumultuosa, che
s’agitava entro di lui come magma pronto a esplodere, a scaturire,
a distruggere. Aveva una folle paura di quella vita, ma quella vita
era vera ed innegabile. Aveva paura, temeva le proprie azioni, temeva
che qualcosa gli sfuggisse, lo tradisse, lo rivelasse a se stesso e
agli altri. Temeva il buio della ragione. Avrebbe voluto che ogni suo
atto fosse sotto il suo controllo, che ogni minimo atto fosse frutto
di riflessione, di ponderazione, sino a potersi vedere, valutare,
dirigere come un abile arbitro dirime e giudica o un esperto regista
governa gli attori, così avrebbe desiderato osservarsi sulla scena
del mondo. Ma era follia, follia per assurdo, volersi opporre alla
follia stessa. Non s’accorgeva che la pazzia è il frutto di un
eccesso di ragione. Ma la vita, la vita ! Questa terribile malattia !
Come avrebbe potuto
affrontarla, come avrebbe potuto sostenere il peso ognora crescente
dei giorni, sempre uguali, sempre diversi, e ognuno col suo costante
bagaglio d’affanni, di tormenti, di delusioni ? Non aveva più
forza per vivere, eppure era trascinato da un impeto oscuro, ed ella
era là che lo attendeva, lo guardava e talvolta gli sorrideva.
L’enigma della sua bellezza lo sconvolgeva, ah, era sempre più
bella e sempre più lontana !
Ricordava brani di sogno,
immagini volitanti nella mente come brandelli di fogli stracciati .
Era quella che gli diceva : “ Le tue dita sembrano aghi. “ Ella
gli parlava in un’ombra, entro una vasta cava ove risonava l’eco
del mare.
Allora si volse e vide una
navata immensa e in alto una cupola tra le nebbie dell’incenso e
nel centro una gigantesca vasca marmorea ove nuotavano grandi
tartarughe marine. E la donna, dagli occhi furtivi quale vigile
gazzella, a lui diceva parole sommesse come onde di lago silenziose :
“ Seguimi, ecco la via del serpente. “
Così disse a lui la donna
e lo sedusse per la basilica immensa dove echeggiavano i canti delle
acque crepuscolari. Color d’opale, uno specchio sorgeva a
riflettere, occhio imperscrutabile, le alterne ombre e le onde vive.
Le ombre di mondi lontani,
le ombre in lontani tramonti ove si riflettevano gli echi di cori
oltremarini, le voci dei sogni d’infanzia e dei sogni mai sognati,
un fluttuare impetuoso, onde di voci impetuose in vortici di luce si
rifrangevano sulle coste rocciose d’isole incantate dove nell’ombra
sorgevano altissimi castelli neri in fronte all’immenso tramonto.
Un susurro si riversava sulle rocce d’acque lucenti e pure come
voci di bimbi, i sogni mai sognati prendevano vita in un calice colmo
d’incanto. Un inno s’alzava verso il cielo, un inno di luce
eterna. E quel canto planava quale alato solitario sulla piana del
mare, nell’alito dell’oceano s’allontanava tranquillo verso
l’orizzonte, un’anima che vola verso la sua meta, verso le
promesse che attendono tutte le nostre speranze.
Un’ombra si dileguava
all’orizzonte, nell’abbraccio della notte, nel sogno della morte.
XI
Un cigno scivolava sulle
acque plumbee. Nell’oscurità risaltava la sagoma bianca, alla luce
della luna. Così scivolava la sua immaginazione per le remote
contrade del desiderio. Sognava un mondo di sogni, come sempre.
Coricato sul letto, era
avvolto da un alone misterioso, un velo, una nebbia bianca e
splendente. Era già pronto per il lungo viaggio ?
Come al solito non si
rivelava pienamente a se stesso. Rimaneva incompiuto e attendeva
sempre che un evento esterno, una forza estranea gli rivelasse un
aspetto del suo spirito che fino ad allora egli aveva ignorato. Era
mentalmente pigro, come un ciottolo giacente sul fondo del ruscello
che può smuovere soltanto il maggiore impeto della corrente, così
era, un essere inerte ma sempre mutevole.
Occasionali compagnie,
amici d’un giorno o poco più, negli anni giovanili avevano un poco
smosso quel sasso. Ora, avendo appreso chi era, anche in parte,
considerava se stesso con stupore. Non era certamente come gli altri,
ma apparteneva, per così dire, ad una razza diversa.
La vita lo chiamava,
insistentemente, prepotentemente.
Si sentiva ordinato a un
nuovo sacerdozio, a una consacrazione quale mai prima i devoti del
suo paese avevano concepito, o della quale, se mai vi avessero
pensato, non potevano che avere un’idea vaga e terribile.
Sulla spiaggia correva il
suo spirito, incessante. Più antico della sua vita, carico degli
anni di molte generazioni, lieve perché sempre rinato, come un
corsiero anelava ad orizzonti di promesse, a sogni che si perdevano
in ogni lontano tramonto.
Avanzava entro foreste
millenarie, ansava su per i dorsi dei colli verso le ampie giogaie
montuose. Quale corsiero, sentiva pulsare più forte il cuore.
Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al suolo aspro e
roccioso di quelle alte montagne, dove s’udiva soltanto il vasto
respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano
dall’inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E infine, stanco della
corsa, si arrestò presso il tronco d’un alto larice. E all’ombra
dell’essere silvano riposando, s’addormentò e di nuovo continuò
a correre tra nuovi sogni. E vide una figura di donna che fuggiva, e
aveva occhi cupi come abissi, e fuggiva verso un tormento di grida.
Avvolta in un manto nero si fondeva con la tenebra d’una valle
notturna cinta di rupi. I capelli brillavano al lume della luna, che
pareva tingersi di una tinta sanguigna.
Ella incedeva tra
grandiosi ruderi d’un antico tempio, le cui mura ed arcate erano
rivestite d’un intrico di piante rampicanti e parassite, e di edere
che tremolavano alla brezza. Alte, massicce, imponenti le rovine
ricevevano sull’ampio dorso i raggi torbidi e prolungavano l’ombra
cieca nella violacea penombra.
I suoi occhi, volgendosi
al tempio, riverberarono lo scintillio di molteplici fuochi, che
roteavano entro le volte risonanti di soffocati stridori. Mentre
avanzava, un esercito innumerevole di ignobili forme la circondò,
gorgogliando insieme ai rospi della vicina palude una sorta d’inno
incomprensibile che s’alzava al cielo come il borbottio di mille
pignatte ribollenti.
Come entrò nella navata,
echeggiò il murmure marino. Le parve che ogni altare brulicasse di
devoti sacrificanti. Il fumo acre dei sacrifici, misto ai vapori
dell’incenso, vagava quale nebula per la cavità innervata di
colonne e d’archi a ogiva, che scandivano l’ampio spazio
prolungantesi verso l’abside. Su ogni altare ogni dolce passione si
dissanguava in un bacile bianco coi polsi offerti ai volti immoti di
remote divinità troppo a lungo ignorate. Una nenia sussurrata e
soffocata si perdeva al di sotto degli architravi.
Talvolta s’intravvedeva
il bagliore della lama in mano al sacerdote, che calava fulminea
sulle carni deboli di qualche vittima sventurata, inconsapevole.
Allora s’avvertiva un gemito sordo, assorbito dalla terra.
In fondo, dietro la
balaustra di porfido, scintillava d’oro e di gemme un trono. Una
donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e dalla copiosa
chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo lucente di
smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di preziosi le
posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e di rubini
le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui fianchi da due
lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale sedeva, levato sopra
la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La bocca era lievemente
improntata a un sorriso, che non era di comprensione o di amabilità,
ma di serena e sovrana indifferenza. Gli occhi grigi erano profondi e
freddi come la calma dei mari settentrionali pervasi dai ghiacci. Un
orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola
dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto
segreto dell’amore.
Il desiderio lo colse
improvviso, inevitabile, irreprimibile. Sentiva il proprio corpo
avvolto da una spirale di voluttà di cui era totalmente prigioniero.
Era impossibile sottrarsi. L’idolo vagava per la stanza e per i
meandri della sua mente. Quell’immagine era ormai dappertutto.
Destatosi, anelante,
s’affacciò alla finestra, l’aperse e, nella notte, guardò verso
l’altra finestra, ancora illuminata, di Misandra.
La camera era a lato del
chiostro, di fronte proprio alla sua.
Non vide nulla, neppure
un’ombra. Allora immaginò di vederla, e gliela dipinse vivamente
la lussuria, mentre adagiata sul letto lo invitava tra le braccia.
Ed egli si saziava del suo
corpo, ammaliato, stordito, ebbro. I suoi occhi non vedevano se non
gli occhi di lei che lo fissavano, e le membra di lei palpitanti,
bianche e rosee, e i lunghi capelli sciolti sul dorso e nell’ombra
intorno.
Gli occhi profondi e verdi
inghiottivano la sua coscienza come abissi marini.
Le spire del piacere lo
conducevano, lo traevano giù. Egli ansimando effondeva le proprie
forze con uno spasimo.
Ed ella lo accoglieva. Le
braccia lo cingevano strettamente, si avvinghiava a lui, lo
tratteneva, lo vincolava, lo possedeva.
Sentendosi soffocare,
Mauro dischiuse le palpebre che l’immaginazione aveva catturato, e
si meravigliò del silenzio e del vuoto. Non un alito di vento nella
notte, non rumori di servi, non lamenti d’animali, lontano, nella
boscaglia.
Ma, nella boscaglia, la
luce della luna giocava coi rami torti e silenti, lunghe nodose
braccia che si tendevano nell’oscuro ansimo dell’ora. Corpi nella
notte s’avvinghiavano, si torcevano, si fondevano nell’abbraccio
e apparivano in barlumi improvvisi, madidi e lucenti e misteriosi
come palpiti di fiamma nel cuore della tenebra.
XII
La Volontà era il fremito
del tuono e il baluginare dei fulmini. La minaccia, che scaturisce
dalle profondità del cielo e dalle viscere della terra, planava come
un rapace nero nel vento freddo sopra le valli, e a Mauro sembrava
d’esserne annientato e che folgorato si disperdesse crepitando in
cenere accesa. Lo sguardo pallido dell’uomo si volgeva al cielo.
Nella notte il suo capo si sollevava appena dalla terra, in alto il
lampeggiare d’una parola terribile segnava forse la condanna senza
appello. “ Se sono tuo figlio, perché mi hai consegnato alla
disperazione ? ”
Un’informe testa di toro
s’alzava dalla bruma fangosa sotto il bagliore sinistro, mentre il
sole scardinava i cancelli dell’oceano e fugava imperioso le
schiere impaurite delle tenebre. E pur se l’aurora annunciava la
fine del temporale notturno e la vita degli uomini si ridestava alle
cure consuete, egli pensava all’esistenza volgare e alla propria
morte, inevitabile. E pensava di essere già morto. Ora, che
differenza avrebbe fatto ? Non siamo forse tutti già morti ? Il
nostro languido soffrire e traballar sognante attraverso le quattro
età della vita, invasi da immagini triviali, segna un percorso ben
strano che non conduce da nessuna parte, infine ci dileguiamo come
foglie secche, e la polvere il vento trascina via. Gli uomini
somigliano davvero a orologi che caricati procedono senza sapere
perché e nel moto circolare ripetono costantemente le stesse ore,
giorno dopo giorno, e pare che avanzino sempre nel nostro futuro,
mentre irrimediabilmente tornano sempre al punto di partenza.
La vita scorreva, oh
quanto desiderava che passasse, che tutto finisse ! La vita ha questa
legge inesorabile, scorre, scorre all’infinito. Trascorriamo
allora, lasciamoci trasportare dalla corrente. Dovunque andremo
saremo al punto di partenza e, probabilmente, morendo saremo sul
punto di nascere.
Come dunque la vita
imponeva la sua eterna condanna, egli si levò, si vestì e uscì nel
giardino, umido e rosato, e respirò l’aria fresca del nuovo
giorno.
E mentre si voltava verso
la porta, scorse sui gradini del colonnato che reggeva l’ampia
terrazza superiore, una bambola, i cui lustrini splendevano e i crini
biondi parevano invitare a gara i vividi raggi a celebrare una festa.
Incuriosito s’avvicinò
e con sorpresa notò che aveva il vestitino insanguinato, che certo
non poteva essere altro quella gran macchia porporina, dai grumi
scuri, il cui odore non era di vernice.
Ma, preso da un timore
superstizioso e quasi reverenziale, non prese l’oggetto in mano,
anzi se ne allontanò subito.
Rientrando, mentre
camminava lungo un corridoio, vide all’improvviso, sopra l’entrata
d’una stanza mai visitata, un quadro dalla cornice imbrunita dal
tempo, il cui soggetto rappresentava un tramonto estivo sopra una
valle amena. Tra gli alberi i raggi del giorno morente giocavano i
loro ultimi giochi con le fronde esili ma di color bronzeo, le
montagne rivelavano le cime argentee, parendo emergere da un mare
d’ombra.
Nella valle scorreva un
ruscello sulle cui rive due fanciulle scherzavano fra loro
amabilmente, i loro visetti ridenti raccoglievano tutta l’armonia
d’un pomeriggio quieto e sereno. Poco lontano da loro, ma non
visto, dietro una grande quercia stava un pastore e rivolgeva a loro
lo sguardo, pieno di curiosità, il suo volto tradiva una strana
espressione, che dapprima si sarebbe potuta interpretare come un
sorriso di compiacimento, ma, facendo più attenzione, vi si poteva
cogliere una sfumatura di concupiscenza.
Turbato, si diresse verso
la sua stanza, per prepararsi a una passeggiata nell’aria ancora
fresca del mattino.
Quando uscì, l’accolse
la luce inebriante del giorno ed egli s’incamminò senza una meta
precisa verso la montagna che sovrastava il paese.
XIII
Ricordava, forse, ma
lontano, nell’aria azzurrina, pervasa di una luce stanca, tra
cupoverdi colline di pini e castagni, le casupole di pietra sparse
sui crinali, umide di pioggia autunnale, e in fondo il manto del mare
argenteo. Un sogno appariva e si dileguava costantemente. Un
desiderio profondo, una nostalgia di svanire, di fluire per tutti i
ruscelli sino alla vasta piana d’acque canore, come un uccello di
fiume, come un ampio chiaro gabbiano volteggiante sui flutti canuti.
Avesse potuto assimigliarsi, unirsi a quel sogno! Eppure un giorno lo
avrebbe atteso con gioia l’ansia dell’aurora, e il nuovo sole
sarebbe asceso nel cielo fervido di nubi rosseggianti, tra il coro
dell’onde e lo spiro infinito dei venti.
Come nell’ascesa dei
raggi dell’alba, il sogno lo trasportava lassù, sui monti, in
verdi valli ove la luce vibrava chiara sulle correnti e sopra il
risuono costante dell’acque dalle alte rupi. Nel vasto respiro dei
boschi e il vociare spensierato degli uccelli, scorgeva da lontano le
casupole sparse dei mandriani e ignote figure lente, avviantesi su
per il pendio, forse rivelando tra l’ombra delle fronde e gli spazi
assolati un eco fluido di chiome.
Sentiva salire dalla terra
l’essenza profumata della rugiada, su dall’erba verde, dai
ciottoli umidi, dall’intrico dei rovi.
Il vagito delle greggi
sulle pendici delle giogaie e il prolungato sufolare dei pastori
ondeggiava nell’aria e si sperdeva rapito dalla brezza. Sopra di
lui respiravano i pioppi, e scorgeva i sassi brillanti tra il
mormorio del ruscello, e il canto degli alati accoglieva gioioso la
luce del mattino.
Le nuvole si disperdevano
in opposte schiere, ancora grigie e pure variamente intinte in un
chiarore roseo, e si aprivano nella vastità del cielo sconfinato,
come un ventaglio il cui semicerchio non trovasse mai il suo angolo
piatto. S’allontanavano nell’infinito, mentre il sole sorgeva in
mezzo ad esse quale un dio nel trionfo della sua nascita fra cortei
di minori spiriti.
Ed egli ascendeva per il
sentiero, contemplando il risveglio della Vita universale.
Essa si ridestava dopo il
sonno, nelle membra rinascendo, rinnovando le fibre come una pianta
permeata di linfa fresca, che genera foglie nuove e abbraccia coi
rami i raggi vitali. La Vita intorno a lui nasceva, dopo la morte del
giorno, in un altro giorno colmo di nascite e di morti, pullulante di
esseri la cui esistenza era scandita sul ritmo di quella Vita più
grande, misteriosa e onnipotente.
Aveva la sensazione di
percepire un brusio in ogni cespuglio e un cinguettio in ogni albero,
e rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano
nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso
lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre assolate in
un sibilo minaccioso. E questi stridii e lavorii sommessi e canti e
voci e fragori si accordavano e si mescevano in un rombo simile a
tuono, che echeggiava sotto la volta del cielo quasi nella cavea d’un
immenso teatro, perdendosi nello spazio, smarrendosi come il vociare
indecifrabile d’un folle, sino a polverizzarsi nell’infinito
silenzio.
E in sogno fu ai piedi
delle montagne bianche, sopra le quali volitavano fragili veli di
nebbia, dalle quali era riflesso il bagliore solare. E guardò,
mentre il vento inchinava gli alti abeti.
Scorse un villaggio
alpino.
Il sole sorgeva dalle
montagne, che piano piano si rivestivano di verde. Un flauto suonava
nel villaggio, che si destava al nuovo giorno e alle rinnovate
fatiche. I buoi, trainando un carro dalle ruote piene, si dirigevano
pungolati ai campi e ai meleti; ai confini dei terreni incombevano
smisurati i monti rocciosi, d’una tonalità grigiorossastra.
Il fiume scorreva limpido,
nascendo dai vicini ghiacciai, e si tuffava da strapiombi entro i
quali muggiva formando a volte piccoli laghi in cui l’acqua verde
azzurra, gelida, non lasciava gli sguardi penetrare sino al fondo. Le
sue correnti mormoravano tra gli abeti presso una casa fondata sulla
rupe, una casa di pietra e legno, dal tetto aguzzo e dalle minute
finestre lavorate e dipinte.
Da una di queste
s’affacciava un giovane che respirava l’aria frizzante e sognava
ancora allo scorgere filamenti di nubi rosate nel cielo cristallino,
che si dissolvevano in vortici aerei.
Mentre così era rapito
nelle fantasticherie e in un ozio beato, udì un canto dall’altra
riva del fiume, tra i fusti degli abeti dalla soffice fronda, e vide
una fanciulla che trascorreva quale vera immagine di sogno.
Era una ragazza di umile
aspetto, che reggeva un canestro di fiori e di erbe, ed era bionda. E
come s’accorse d’essere osservata, si volse e gli sorrise un
poco. Allora il giovane non si mosse fino a che non l’ebbe veduta
scomparire nel folto della foresta.
Gli alati cinguettavano
tra lo stormire dell’alto fogliame dei larici, e il giovane uscì
dalla casa nella luce novella.
L’acqua scorreva tra gli
scogli spumosa e garrula in ripetuti giri, ed egli passò il
ponticello di tronchi e subito fu sulla sponda opposta. Camminava
senza una meta, attratto dalla vita della selva dove filtravano
flussi di luce più o meno intensi e s’alternavano a zone d’ombra,
come in un tempio.
E prese il sentiero della
montagna. Gli pareva udire una voce muliebre cantare a distanza, e
gli sembrava che la voce vibrasse entro i tronchi e i rami, per tutta
la boscaglia echeggiando. E pensava fosse la voce delle foglie
cadute, che calpestava, e la voce delle foglie oscillanti sulle
branche, e delle trame arboree che s’incupolavano sopra di lui.
Proseguiva il cammino insieme al sole, e ascendeva di pietra in
pietra in ventosi canaloni fra le ardue rupi, per cui sibilavano i
soffi delle alture.
Man mano ch’egli
s’avvicinava al mondo degli dei lo catturava un’inquietudine, un
senso angoscioso d’incompiutezza, quasi che la solarità del
mattino non fosse abbastanza vivida sì da avvolgerlo in un turbine
di luce e trasumanarlo. Quale ansia lo spronava così da presso come
una minacciosa necessità ? Quali sogni avevano sconvolto la sua
mente ? Gli sembrava davvero che la memoria fosse un baratro da cui
risalivano insieme alle correnti aeree le ombre del passato e i
fantasmi della fantasia.
Allora ebbe paura di se
stesso. Si sentì stranamente simile a un dio.
Un corvo lo guidò nel
volo sonoro ad una fonte riparata dai pini. Una fonte che balbava tra
pietruzze canute dell’età di millennii.
Bevve nel cavo della mano.
E poi che si fu accucciato sotto un pino generoso, il sonno gli
chiuse le palpebre.
XIV
L’antica selva era un
colonnato di fusti imponenti che s’allontanava sulle colline d’ogni
intorno, argentino, risaltando sul morbido tappeto di foglie,
rossiccio come il manto della volpe. Mentre camminava, i piedi
muovevano le foglie aride con un fruscio ininterrotto, echeggiante
nel silenzio della navata arborea.
Il sole faceva capolino di
tra le braccia imponenti tese al cielo e tremolanti nell’ansito del
vento. Era il sole d’un tempo ? Sarebbe lo stesso sole dei giorni
futuri ? Cosa voleva dirgli quell’occhio di fuoco ch’egli non
aveva ancora compreso e forse non avrebbe compreso mai durante la
vita ? Eppure in alto vorticosamente lo sguardo era trascinato da una
forza misteriosa, possente, inaccessibile e nel contempo presente
nell’animo, siccome fosse radicata quasi vetusta radice d’albero
secolare entro e sovra la terra rocciosa.
Entro e sovra la terra
rocciosa s’effondeva e s’inabissava la luce accecante
dell’immenso rogo celeste che, creduto già un dio, s’assideva,
inavvicinabile e terribile e pur benefico, al centro delle orbite dei
pianeti. E di quella luce indispensabile la madre terra viveva, e gli
uomini si chiedevano per quale volere avesse mai vinto le tenebre e a
che scopo s’irradiasse per lo sconfinato spazio, così prodigamente
?
Era il desiderio della
vita che lo attirava nel solco del sentiero arborato dove la luce
occhieggiava giocando con le foglie ridenti carezzate dal venticello,
e, discendendo per i rami e i fusti, macchiettava il soffice tappeto
crepitante ? Ormai non aveva più dubbi, egli era il suo destino,
egli era quelle foglie secche che calpestava noncurante, egli era
quella luce che lo attirava, e, inevitabilmente, con stupore,
riconosceva d’essere pure quel sole e quel fuoco, cui non si
sarebbe mai potuto avvicinare senza esserne annientato.
La luce si posava sulle
morbide fronde, intorno. Il vento le attraversava voluttuosamente,
come una musica.
Ma lontano, sul mare si
vedevano le onde incresparsi schiumanti, agitate dall’impeto di
venti violenti e contrari che trascinavano con sé una estesa cortina
di nubi, quasi un gregge incalzato dai cani che procede senza volontà
propria.
Oscuro s’ammassava lungo
l’orizzonte il cordone di nuvole e lentamente avanzava sul mare
tumultuante e livido, dove non più i raggi regnavano ma come l’ombra
di tristi pensieri.
Egli contemplava dall’alto
della montagna per un’apertura fra i fusti ancora indorati, postosi
sopra una roccia sporgente.
A destra e a sinistra
declinavano i fianchi del monte e si fondevano in colline e in case
bianche. Il vento recava un’illusione di brezza marina, ed egli
aspirava pienamente l’aria fresca. Stava così, rivolto verso il
turbine sovrastante le acque violacee, il cumulo di nembi cinto di
foschi fuochi.
Il sole, innanzi alla
minaccia, pareva fuggire nascondendosi nella dimora d’occidente, ma
la sua fiamma viva abbracciava la montagna.
Mentre il vento lo colpiva
in volto osservava estatico il fremere delle fronde rabbrividenti in
un unico grido, e più lontano udiva l’eco del mare mormorante
pervaso d’impeti criniti e di furiosi galoppi.
E avvolto dal vento, in
alto, sulla vetta del monte, s’abbandonò, si lanciò
nell’abbraccio del soffio marino, nell’estasi del sole ardente.
Immenso il disco del sole lo accolse e il suo corpo fu consunto in un
attimo, trasumanò, e la sua immagine sfolgorò in un alone di luce.
Così gli parve. Oh, se
fosse accaduto! Ma certo ora il suo cuore palpitava di vita nuova, il
sangue purificato scorreva.
Non più allora avvertì i
raggi che lo colpivano, lo scaldavano, lo attraversavano, ma sentì
chiaramente ed inspiegabilmente essere egli stesso quella luce che
l’avvolgeva, che si effondeva generosamente sulla terra, che
colmava le valli, che indorava le vette e che si diramava per il mare
dell’universo.
Non più percepiva i
limiti del corpo, non aveva più il corpo, era libero da se stesso,
era in quell’attimo la stessa misteriosa, ineffabile essenza del
mondo, la Vita universale, infinita.
Oh, fuggire, fuggire, via
per sempre dal mondo, via da se stesso, non essere più, finalmente
dissolversi nell’eterno fluire del Tutto !
Si mise a correre,
impetuosamente, non sapeva dove, non voleva sapere.
Corse fino a che il
respiro divenne affannoso. Fu costretto a sostare. Riprese lentamente
a vagare per il bosco, simile a un’ombra errante.
XV
Lo chiamavano gli alberi a
sé, con voce nuova. Lo chiamavano a sé i vecchi giganti e
suggerivano parole misteriose, disperse nel vento.
La voce della Natura
onnipossente lo chiamava dal grembo della terra. La Madre gli
ricordava che era suo, come tutte le cose e gli esseri del mondo.
Ecco, un brivido lo
pervase ed egli vide sul mare il riverbero trionfante e fra il corteo
di lumi eterei scorgeva assurgere tra le onde spumose gli dei, che
ancora volgevano lo sguardo alla terra.
Tutte le vite si
abbracciavano nel mare dell’universo. Tutte si specchiavano nel
chiaro occhio del mondo, ed erano l’iride del chiaro occhio del
mondo. Gli alberi, le rocce, i cespugli si stagliavano nitidi. Senza
una nube il cielo abbagliava d’azzurro. Nell’immenso silenzio si
celebrava il più grande trionfo.
Oh, procedere verso il
sole, verso la gioia, verso la vita !
Un cantico luminoso
sorgeva dai fiori di campo, dalle fronde ondose dei pini, dalle rocce
solitarie, e s’innalzava sulle vallate, ad un cammino lontano, a
lontani orizzonti.
Ed egli avanzò fra i
ranuncoli bianchi, su per la collina. I rami dei pini ondeggiavano
alla brezza con un moto lento e maestoso. Egli avanzava, inesorabile
come il lento moto del tempo.
Nel folto dei lecci,
nell’umida ombra, in mezzo ai tronchi cupi e ai rami nodosi avvolti
di rampicanti, s’inoltrava e filtrava per le fronde in alto il
pallore del giorno, coricato tra un vapore leggero. Era bello
camminare così, immerso nel fogliame della foresta che respirava
frusciante gli aliti tiepidi del cielo.
Placida si coricava la
luce sul dorso selvoso delle colline, rilevando le zone d’ombra più
umide ove crescevano i faggi ondeggianti. Si riverberava sulle rocce
qua e là emerse e sparse quali specchi infranti. Si dileguava come
un eco, lontano, verso lunghi ed esili fronti di nebbie.
E lontano sul mare le
diafane colonne del sole occultato dal nembo silenti posavano
scanalate ed olimpiche. Il tempio di Zeus s’ergeva maestoso e
solenne sopra le infinite distese glauche, in attesa di nuove offerte
e di nuove preghiere.
Ma non era sufficiente la
solitudine intorno, dovevano scomparire i tumulti e le turbe interne,
doveva sopravvenire la pace dell’anima silenziosa, per acuire e
purificare gli occhi alla luce. E doveva sorgere dall’oceano il
Sole maestoso, e l’igneo cocchio trainato dai cavalli ardenti
percorrere vibrante la volta eterea e in alto irradiare, il
vivificante Elios, dal suo trono possente.
Così era infatti ogni
giorno, poi che ogni giorno era concesso.
E ricordava le magiche
parole : “ Tu che dal limo emergesti, che su nave navighi, che
nelle singole ore forma muti, e nei singoli di Zodiaco segni commuti.
“
Sull’infinito dorso del
mare cavalcavano le onde spumose, quali equini focosi si perdevano
sino all’orizzonte, ove la luce si scomponeva in mille fasci
radiosi, e là parve riflettersi, in un solo istante, l’essenza
della sua vita, la speranza.
La graziosa figura di una
bimbetta riposava sopra il lume dell’orizzonte, sopra il confine
del mare, né le si avvicinava l’ombra del timore né senso alcuno
di minaccia. E la Vita la benediceva nell’abbraccio della sua
aurora, nella certezza dei giorni futuri.
Ed egli comprendeva la
vanità della propria piccola esistenza e la meschinità dei desideri
e delle speranze che albergano nel cuore e l’inutile affanno nel
ricordo delle azioni passate, un agitarsi tormentoso destinato a
svanire nel nulla.
Non era certamente quello
che finora era stato. Era stato solo una maschera, uno sciocco
manichino, un burattino manovrato dal suo carattere avverso. Ma una
vita più profonda era in lui, una vita arcana, dolce e immutabile.
E, mentre saliva,
lentamente avvertiva nascere in sé una consapevolezza nuova, un Io
più grande, cui il suo corpo apparteneva insieme alla vastità del
mondo.
Ascendeva all’assoluto
silenzio del bosco, delle rupi sopra le quali planavano e
volteggiavano i corvi. Immensa era la vastità del silenzio, non
altri uomini s’aggiravano su per le pendici, ed egli rapido e
ostinato ascendeva per il corpo illimitato della montagna con il suo
piccolo corpo, violatore dell’immobilità, spettatore di uno
spettacolo gelosamente custodito.
Intorno i rami, inumiditi
dalla rugiada, gioivano in guizzi e scintillii. Colmo era il cuore di
quella luce. Invaso da un sentimento nuovo, da una passione non mai
provata, era spronato da un pungolo invisibile, anelava alla vetta.
Ora il dorso della
montagna nascondeva il disco del sole, tornato a rifulgere, ma i
dardi infallibili del Titano discendevano per la selva, un’ondata
di chiarità irresistibile. Una tempesta di raggi travolgeva gli alti
fusti e le fronde, forzando e abbattendo i muri delle ombre. Una
musica potente si frangeva contro il suo cuore. Egli ne fu sommerso e
rigenerato.
E come venne alla fine del
bosco e del cammino, sulla cresta erbosa del monte, il sole immenso
l’avvolse nello splendore e le giogaie e le rupi e i picchi audaci
ardevano inondati di luce. E vide il baratro al di sotto e l’altezza
dell’azzurro sopra di sé, e la sconfinata estensione delle catene
montuose, che si perdevano a vista d’occhio sempre meno evidenti e
più sfumate verso l’orizzonte.
Scorse alcuni rapaci che
aliavano in larghe ruote nell’aria irradiata, dove sparse reti di
nebbia svanivano lentamente.
E si smarrì il suo
sguardo nella luce dell’infinito azzurro. Gli sembrò che il corpo
si mutasse in un alato sfrecciante nel libero volo e le sue piume
scarmigliandosi incontrassero i flutti gelidi dei venti vorticosi e
le ali navigassero per sconfinati oceani di silenzio, su, sopra le
nubi, verso l’occhio del Titano.
XVI
In alto commosso dal
respiro insolito dell’aria e dalla libera visione dell’orizzonte,
ristette come stupito. Le nubi erano al di sotto dei suoi piedi. Le
Alpi rocciose e innevate, per le quali il feroce nemico del popolo
romano osò aprirsi il varco, coronavano la volta celeste, dove le
nuvole galleggiavano, strane, multiformi, candide navi.
Lentamente scese dalla
vetta, mentre i suoi pensieri, le sue immaginazioni vagavano intorno
a lui per l’ampio cielo azzurro. Quando infine si volse a mirare
l’alta montagna, la mole gli apparve stagliarsi sul fondo infinito,
isolata tra i nembi, quasi potesse cingerla in un istante con la
mano, così piccola innanzi alla vastità della mente umana.
Lo spirito è un’isola
eterna. Il mare mutevole, che si agita intorno a noi e che noi
osserviamo con sguardo intimorito o ammaliato, è la nostra stessa
esistenza. Esso si muove instancabilmente e si abbatte contro la
nostra riva con furia rinnovata, certo di trovarla sempre innanzi a
sé, come l’indispensabile meta dell’incessante suo movimento.
Rapidamente giunse al
limitare della foresta. E vide un mare crestato di spume vittoriose,
fremente dorso azzurro oltre le colonne dei pini. Udiva il fragore
delle ondate ed alzava lo sguardo alle branche frondose e
ondeggianti. La luce penetrava come per le vetrate d’un duomo.
Ascoltava. Una comunione
di aneliti, un ansimo profondo, una sinfonia aliava scaturendo dai
ceppi quasi da un organo sotterraneo. I grandi alberi protendevano i
robusti rami invasi come vele sulle acque dal querulo murmure del
vento. Il sibilo lo colpiva quale per frante velature nella tempesta
assale i marinai l’ansia della fine. Egli avvertiva prorompere
dalla terra il grande gemito.
Squillò un fulmine sul
mare risonante. E si precipitava la massa tumultuante e fosca come
un’immensa schiera di cavalli armata corrente sovra la pianura,
minacciosa, sollevando nugoli di polvere nera.
Calò il manto sulla volta
del cielo e la pioggia fitta iniziò a dardeggiare il bosco, prono
sui fianchi della montagna.
Egli vide lontano la
sagoma chiara della villa. Splendeva stranamente tra la vegetazione
degli eucalipti e dei cipressi che le stavano a rispettosa distanza,
timorosi e inclinati dalla procella.
La luce del sole morente
per puro caso imbattendosi in quelle mura sembrava tutta assorbita da
esse, poi che nell’ombra della sera tempestosa era l’unica casa a
risaltare, insieme ai lampi.
Non fuggì la tempesta,
ma, trovato riparo sotto la roccia sporgente, se ne stette fermo a
contemplare, inebriato dal furore di tutti gli elementi naturali,
sferzati dal tirso di Bacco.
E in accordo col crescere
della tempesta cresceva in lui il furore, egli partecipava dei
fenomeni di natura come propri della sua anima, così che quasi
poteva credere fosse invece la natura ad essere influenzata dai moti
occulti dell’anima sua.
Egli anelava a
oltrepassare se stesso, ad annientarsi fondendosi in un unico essere
con la tempesta devastatrice. La sua volontà era la medesima. Era
quella che suscitava il turbine e scagliava la saetta, quella che
mormoreggiava sinistra nel tuono, quella che prostrava i cespugli e
inchinava gli alti alberi.
La sentiva dentro di sé,
terribile, salire tumultuosamente dall’abisso del suo spirito,
dalle profondità dell’inferno, una potenza superiore al suo stesso
essere, ch’era in lui prima sopita in un letargo misterioso e ora,
destatasi, rompeva furiosamente ogni vincolo e si svelava una mènade
in una danza omicida.
E, quando fu di nuovo alla
villa, vide nel giardino la bionda fanciulla, pallida trascorrente
sul prato come una ninfa piccola, esangue. La luce tenue della sera
le accarezzava i lunghi capelli ondeggianti alla brezza nella corsa.
Correva dunque, sembrava impaurita.
La selva era intorno, del
parco. Alta era, oscura, mormorante al respiro profondo degli alberi
grevi.
Mauro aspirò l’aria
umida ch’esalava dalle foglie cadute, dai cespugli, dal fitto
fogliame. Ne fu quasi stordito e sostò un attimo, in raccoglimento.
Ebbe la sensazione che in lui trascorresse una musica lontana, dalle
remote regioni del passato, ondeggiante nella memoria, colma di mille
impressioni e desideri. Ah, la vita irraggiungibile ! Vissuta
realmente solo nel ricordo ! Così il pensiero lo pervadeva
istantaneamente, inconscio. Egli s’arrestava muto, chiuso nel
colloquio con se stesso, incantato da un’immagine forte e fragile
come il riverbero d’un raggio di sole. Allora gli pareva di vivere
davvero, quando ricordava.
E allora si diresse nella
sua stanza ed aperto un cassetto della scrivania, che era posta
innanzi alla finestra a sinistra d’un grande armadio, estrasse un
manoscritto e vi appose altri pensieri.
Immaginava d’essere
proprio in quella stanza. La camera era in penombra, le pareti
ingombre di scaffali e di libri, l’aria stantìa. Apriva perciò la
finestra e guardava. Vedeva in lontananza una distesa di colline e di
boschi dove la luce dilagava, allora usciva dalla casa e, mentre
stava chiudendo il portone, scorgeva una fanciulla che trascorreva
leggiadra e aveva i capelli quali messi ondose e biondi come i
grappoli colmi dei doni solari. Ella sorrideva e passava.
S’incamminava per il
sentiero che portava alla montagna. Proprio di fronte ai monti
s’estendeva il mare incanutito dai venti autunnali.
Le foglie degli ulivi
tremolavano, e mentre procedeva inoltrandosi nel bosco udiva il
fruscìo e il vasto respiro dei castagni e dei pini. Il concerto
degli uccelli e delle rondini che s’adunavano, e il gracchiare dei
gabbiani che volteggiavano verso terra, lo spingeva a levare il capo
di tratto in tratto e ad osservare il lento mutare delle nubi.
Sopra il mare il sole
sorgeva in un rogo rosso e imporporava le onde riversandosi
irrompente, quasi da vena copiosa una improvvisa scaturigine.
L’aria era frizzante e
pura e il sangue pareva purificarsi ad ogni passo e le membra
divenivano agili e vive al pari degli animali che corrono e guizzano
per le selve. Le foglie iniziavano appena a cadere e a tappezzare qua
e là il sentiero e il sottobosco, umido di rugiada. I raggi
illuminavano i tronchi dei pini e le branche dei castagni, accendendo
i muschi, che li maculavano d’un verde smeraldo.
Ma, ecco, proprio in
fronte apparve sopra un lauro, appollaiato e immobile, un corvo, nero
come una notte cieca, né accennava minimamente a prendere il volo,
anzi pareva insistentemente fissarlo. I suoi occhietti maligni gli
leggevano l’anima, e sembrava quasi che l’uccello mutasse il suo
consueto gracchio in un riso aspro e beffardo, quando il viandante,
straziato, con un gesto improvviso colse un sasso e glielo lanciò.
L’alata ombra del malaugurio volò via senza suono.
Continuando nel cammino
giungeva presso una sorgente. Vicino ad essa s’innalzava una
piccola casupola in pietra, ormai rifugio occasionale di vagabondi.
Poco discosto, il bosco di castagni offriva un’umida ombra al
riposo e al sogno.
XVII
Una fanciulla bionda
correva allegra nel giardino invaso dai raggi morbidi dell’aurora.
Era nello splendore della
pubertà, quando il corpo femminile raggiunge la perfezione della
grazia e l’armonia insuperabile della forma.
La guardò a lungo
trascorrere tra gli alberi, una ninfa nata proprio allora dal tronco
di qualche antica quercia, le braccia solo adornate di ghirlande
odorose e i capelli fluenti, tenue veste sulle membra splendenti.
Si fermò, stupito. Dunque
nulla era cambiato dai tempi del suo primo turbamento d’amore ? Era
ancora e sempre come la prima volta ? Ed era giusto quel sentimento
o, meglio, era giusta quell’attrazione così irresistibile ? Il
dubbio lo assillava. No. Sentiva dentro di sé un rimorso e il
terrore di una caduta senza ritorno. Sentiva la tortura dei sensi.
Nel contempo avvertiva il loro dominio tirannico e l’incapacità di
sottrarsi ad esso. Era consapevole dell’istinto e provava perciò
un’intima avversione. E, se pensava a se stesso, vedeva un’immagine
vana, un puro riflesso, dietro il quale una superficie opaca impediva
la vista.
Cos’era mai il suo io ?
Neppure lui lo sapeva. Non sapeva nulla. Sentiva la realtà difforme
dall’apparenza della persona che gli stava addosso quasi una
maschera. Sentiva in sé un vagare, un disordinato incrociarsi e
scontrarsi di cose frante. La sua vita regolare era la struttura
sulla quale il suo cervello tentava d’impiantare l’edificio
vacillante dell’esistenza. Ma in ogni istante quello, come una
pianta senza radici, crollava e bisognava ricostruirlo, in ogni
istante la sua debolezza lo feriva e lo umiliava. Talvolta non poteva
sostenere lo sguardo altrui, ma era smarrito come un bambino. E certo
aveva paura. Aveva paura della morte, ma ancor più della vita.
Ma la vita inesplicabile,
nonostante tutte le sue paure, si rinnovava sempre, e non solo ogni
anno. Il sogno dell’adolescenza forse era morto per lui, ma non per
altri. In verità un’eterna ghirlanda di fiori cingeva sempre le
tempie della bionda figlia di Cerere, ed ella risorgeva per le nuove
generazioni a colmare di speranze il calice inebriante della
giovinezza.
Sentiva un suono lontano,
un eco di canti e ritmi di danze. Cos’era mai ? Nella valle, verso
la montagna, pareva si celebrassero ora antichi riti, credenze di
contadini, ai quali partecipavano, così gli era stato detto, i
giovani del luogo. Pareva che al declino dell’estate si volesse
rimediare con la magia degli scongiuri e farla durare ben oltre i
suoi naturali confini.
Eterna giovinezza, eterna
vita ! Tu sei la più naturale delle aspirazioni umane.
“ Quod enim genus figura
est, ego non quod obierim ? “
Egli pensava alla
incessante metamorfosi delle parvenze, e gli sembrava che in ciò
potesse consistere l’eterno ritorno di tutte le cose.
Pensava alla vita che si
rinnova costantemente secondo leggi eterne ed immutabili, e avvertiva
dentro di sé sempre sorgere l’indistruttibile desiderio, il fato
della passione, che lo spronava verso mete ignote, verso lidi
irraggiungibili, sempre anelante, sempre deluso. Il desiderio
combatteva contro tutte le parvenze ostili, la lotta impari lo traeva
alla disperazione. Egli non sapeva più dove volgere il capo, in ogni
campo di battaglia aleggiava l’aria della disfatta. Sentiva sopra
di sé l’ombra di Aiace e la minaccia dell’insania.
Tutto era finito nel
nulla. Ogni suo tentativo era naufragato contro gli scogli
dell’altrui ostilità. L’interesse meschino, il pregiudizio
sociale, l’egoismo più gretto gli avevano lentamente sottratto
ogni speranza. Una corrente limacciosa trascinava via nei suoi gorghi
il desiderio di vivere. Qualunque strada gli era preclusa, dovunque
volti duri e ostili, falsi e sornioni risaltavano come maschere
tragiche e funeree.
Era inutile, per lui non
c’era nulla. Delle belle promesse del mondo non gli sarebbero
spettate neppure le briciole.
L’accidia penosa lo
trasse con sé nella sua morsa. Il sentimento disperato del
fallimento prese a roderlo, impietoso. Ed egli piombò in una
stanchezza senza rimedio.
Il sonno profondo lo prese
immergendolo nella sua oscura palude, dove la sua anima scivolava
sulle acque plumbee come un cigno, sotto la luna pallida. Come un
cigno illuminato dalla luna la sua anima vagava verso rive remote,
celate da una nera selva ignota.
Quell’oscuro groviglio
di ramose piante e di rampicanti insidiosi nascondeva la trappola
fatale della sua malinconia, l’abisso cupo e maligno, il torpore
acido e putrescente che abbrancandolo e avvincendolo completamente lo
trascinava nel gorgo odioso della follia.
Era l’antica maledizione
che colpisce i mal nati tra gli uomini. “ I melanconici sono
preda delle loro immaginazioni e commettono ogni sorta di pazzie “
aveva più o meno detto, e così ricordava, Aristotele e poi Galeno,
e questo era il suo male, inveterato, ributtante.
Un dormiveglia affannoso
lo trascinò dunque nei suoi vortici spumosi, e larve luminose o
maligne gli si alternarono nella mente, in un gioco privo di senso.
Un canto si librava sotto
le oscure volte.
Di chi mai la voce così
melodiosamente si liberava nello spazio stellato ? Aprì la finestra.
Ascendeva maestosamente nell’atmosfera tinta di un azzurro cupo e
carica di umidore notturno e volteggiava per una via ignota. Strane
fantasie sorgevano in lui.
Era con lei sulla riva del
mare.
La brezza le animava i
capelli che respiravano i vividi raggi. Gli occhi erano lo specchio
profondo della distesa delle acque celesti e luminose nel mattino. In
essi lo sguardo si smarriva come a cercarne l’orizzonte.
Ella l’osservava
misteriosamente, senza parola.
Ma egli la ricambiò con
un’occhiata d’odio troppo a lungo represso. In quali contrade
voleva condurlo, ch’egli non avesse già percorso ? O quali
conoscenze poteva comunicare questo essere affascinante, ma pur
sempre limitato dai vincoli del corpo, bello d’una bellezza che
aveva già ammirato nell’animo e nella mente e dotato d’attrattive
assai inferiori a quelle che avevano ammaliato i suoi sogni ?
Provò il desiderio
d’ingannarla, di violarla, di soffocarla col rancore della
delusione, ma non poté che continuare a guardarla, costernato.
Ella era davanti a lui,
impassibile, indifferente. Se fosse stata una statua o un blocco di
pietra non avrebbe fatto diverso effetto.
Gli occhi, profondi e
immutabili, l’osservavano senza emozione. Senza comprensione alcuna
non mirava ella che un’immagine riflessa nelle sue pupille.
Una fusione delicata,
diafana, d’ombra viola ed azzurra il vespero le pingeva
sull’epidermide delle palpebre, negli occhi s’illuminava l’iride
lionata degli angeli notturni.
Al chiarore lunare, nella
landa solitaria estesa come un mare, si disegnava la sagoma nera
degli alberi in un alone giallastro, evanescente. Si protendevano i
rami cinerei nell’ansito greve, nel silenzio che li mordeva gelido.
Una candida figura era
ella, indifesa e smarrita nel labirinto, dove di ululati si dilania
la solitudine.
Ah, i polmoni bruciano, le
tempie battono, la notte precipita negli occhi come un sole !
La luna purpurea
ritagliava ombre entro la sua lucentezza per i canneti agitati,
cadendo nell’acqua come un serpente dalle scaglie vitree.
Ella vide la sua immagine
riflessa nello specchio mormorante.
Non era ella un mistero ?
La sua immagine si confondeva con quella di lui, che le stava
innanzi, estatico. Quasi la luce lunare l’avvolgesse tutta, la
penetrasse, appariva trasparente, come un fantasma.
Nel turbine dei ricordi si
confondeva ormai ogni visione. S’increspava al vento del mattino la
superficie delle acque. Le anatre svolazzavano intorno alla foce del
fiume.
Ella svaniva ai primi
raggi dell’alba, e ogni speranza si dileguava per sempre.
XVIII
Era stato dunque un sogno,
un vaneggiamento dei sensi, un turbamento dello spirito, una vaga
fuga della fantasia, il suo amore per Misandra ?
Era come morta per lui, ed
era davanti a lui, ed egli l’avrebbe vista per l’ultima volta,
poiché era giunto proprio per l’estremo addio.
E Misandra gli aveva
rivolto un’ultima volta la parola, prima che si chiudessero per
sempre i cancelli di quel giardino proibito.
Ebbe la sensazione di non
aver vissuto che per quegli ultimi giorni, solo per quegli ultimi
giorni.
“ Tutto è perduto “
si disse, poi che la giovinezza era scomparsa per incanto. E solo
allora riusciva, se pur ancora vagamente, a rendersi conto di averla
amata, negli anni della fanciullezza, quando si può dire di non
essere consapevoli di nulla, di averla veramente e profondamente
amata. Ricordava la fanciulla graziosa, dagli occhi splendenti, dalla
fronte nobile e lucente come un astro, alta e atletica come Artemide,
e pensava a remote passeggiate nei boschi, ormai cinte nel ricordo
dalla luce magica d’un’irraggiungibile aurora. Era la più bella
del suo tempo : lo dicevano gli uomini, e lo confessavano le donne.
Chi la vide e non l’amò ?
Si raccolse in se stesso.
La realtà che già l’offendeva quotidianamente con la sua
incomprensibile esigenza di vita comune insieme ad una moltitudine
d’umanità bruta e malriuscita, con quella folla di aborti
prepotenti e di boriosi idioti che dominavano il mondo, quella realtà
ora gli aveva sottratto l’unico sogno.
Sentiva la pena per la
propria sensibilità eccessiva, quasi un male, il cui castigo era il
dileggio da parte del savio mondo, sentiva svanire a poco a poco
l’amore per la vita insieme al suo sogno, per cui solo era valso
trascinare l’esistenza, quasi per il miraggio d’un attimo
fuggevole d’incantevole e incommensurabile ebbrezza.
Ora ella appariva sulla
terrazza, al chiarore lunare, volta all’orizzonte stellato e al
mare infinito.
Il suo viso era un opale
velato dall’ombra, la sua chioma la nera brezza aspra, ella
respirava profondamente, lentamente, il fresco alito notturno.
Inviolata, come un fiore negli abissi, ella appariva,
irraggiungibile.
Ma, a un tratto, ella lo
colse in un bagliore, e gli occhi avvamparono come un rogo, e un’onda
impetuosa, vasta e furente lo abbatté invadendolo, scuotendo e
sradicando tutto il suo essere. Come una fiera lo avvinse tra i suoi
artigli ed egli restò pietrificato, preda senza scampo.
Rimase innanzi
all’immagine di Medusa, colto da un terrore dolcissimo.
Poi le ombre si distesero,
l’onda si ritrasse, il buio si chiuse.
Ed egli non vide più
nulla se non il deserto del silenzio e del mare e del cielo nero
sparso di fuochi, come un’immensa pianura costellata dai bivacchi e
dalle veglie, prima d’una battaglia.
Ma aveva visto ciò che
non doveva vedere, aveva intuito ciò che non doveva sapere. Era
ormai indegno di ogni rivelazione e inutilmente avrebbe tentato
l’oracolo.
La scorgeva nell’ombra
della stanza.
Scorgeva la sua immagine,
dardeggiante una luce estranea, sinistra, eppure vittrice,
stupendamente adornata di cinto e collane e armille e un diadema,
tutti di rubini sanguigni. Non d’altro era vestita, e dai suoi
occhi si dipartiva l’incanto dell’iride verde azzurra, che
prometteva un’ebrezza sconfinata, come il mare che dietro a lei
appariva e si fondeva all’orizzonte col cielo vespertino. Alta la
luna sovra di lei la irradiava della luminosità lugubre del
plenilunio, mentre gli ultimi raggi del crepuscolo venivano catturati
dai rubini.
Ella lo guardava
enigmatica.
Dietro di lei la sagoma
oscura di un grande armadio a specchio sorgeva dall’ombra e il
vetro era simile ad una rettangolare lastra d’argento, ma vi si
posava soltanto la luce lunare, poi che la figura di Misandra pur
essendogli innanzi si rivelava trasparente e invisibile come l’aria
notturna traversata dai pallidi vapori della luna.
Un misterioso terrore lo
invase. E il ricordo di leggende remote tramandate dai racconti
gotici letti da ragazzo gli presentò alla mente curiose coincidenze.
Non era forse anch’egli, però, un misterioso essere notturno ? Non
era infatti riflesso dallo specchio, dato che si trovava di fronte a
lei ed ella non era che un fantasma trasparente.
Ma ella sorrise d’un
sorriso ineffabile e lo guardò a lungo, così, e i suoi occhi
luminosi erano pieni di promesse.
Poi porse le braccia verso
di lui e avanzò lentamente, un piede dopo l’altro, leggera quasi
sfiorando terra.
E allora gli parve ch’ella
discendesse da una nube radiante, e gli occhi di lei s’accesero,
estatici, misteriosi.
Cadde innanzi a lei,
vinto, ed ebbe tuttavia l’ardire di volgere il volto in su, a lei,
fissandola rapito e atterrito nel contempo, invaso e travolto da un
potere invincibile, come una nave dalla tempesta.
E le ondate impetuose
della passione lo circondavano in un brivido vorticoso, in una
spirale di inniti vittoriosi e schiumanti quali flutti che si
frangono in mille lamine argentee contro gli scogli, fragorosi
all’ululo dei venti.
Fu allora travolto da quei
flutti e percorso dai brividi violenti del desiderio. Le sue membra
furono attraversate da una forza irresistibile, oscura.
Un’ebrietudine lo possedette, una follia bacchica che rese il suo
corpo sinuoso come la spirale d’un serpente e privandolo della
ragione gli donò inaudite facoltà e poteri prima sconosciuti.
S’avvinghiò a lei, la
cinse, affondò il volto fra i suoi seni e si esaltò al profumo
della sua carne, candida come avorio.
Ma il sogno lo possedette.
Si sentì abbrancare,
trascinare verso l’alto in un vortice d’ombre e di luci, mentre
il suo spirito esaltato era in preda alla vibrazione d’un’eccelsa
armonia, d’un inno di vittoria. E ondate di luce bionda pervasero
la sua mente, cullarono la sua immaginazione in un brivido di
dolcezza e di oblìo. Vibrarono le corde del suo spirito interamente
posseduto. Egli era felice e libero come pura musica.
XIX
Sulla selva antica
s’addensava l’ombra e il profondo fruscìo del silenzio. Dal
viale del giardino egli scorgeva nel cielo, sopra la foresta
assopita, la luna sorgente in una veste rossa, e innanzi le
trascorrevano tenui vapori del vasto vagito del mare, e sopra le rupi
del promontorio s’elevava lenta la luna, quasi galleggiando sulla
nebbia arrossata che si fondeva, s’immergeva nel parco oscurato.
Nel giardino ella lo
attendeva. Nel giardino ove le piante procombevano nel crepuscolo
stanco, estendendo le ombre dei lunghi rami. E si sentiva l’alitare
intenso degli aranci e il profumo delle siepi di rose rampicanti.
Ella lo attendeva e la
luna si rivelava ora dietro di lei, un vasto disco di luce pallida
rifulgente sul mare. E come si perdevano i rossi rivoli del tramonto
ormai dissolto oltre l’orizzonte, quasi lembi d’una veste
prolissa, d’un manto effuso nel vento e lacerato, e svanivano
bevuti dall’ombre della notte uniforme, non altra luce che quella
incantata e velata dell’antica Artemide si deponeva cautamente
sovra il silente golfo della terra assonnata e si dimostrava maliosa
agli occhi di Mauro, forse per la prima volta aperti al suo dischiuso
mistero.
Ed ella lo attendeva,
immota e bianca come un giglio. Ed egli s’avvicinò, e, quasi per
bere da un candido e puro calice, l’avvolse tra le braccia e
lentamente la baciò, bevendo a lunghi sorsi l’ebrietà del suo
fiato. E Misandra s’abbandonò, si lasciò sostenere la bella nuca,
e il corpo suo fremette poi che l’anima fluiva tutta e si riversava
fra le labbra di lui per dissetarlo. Poi, esausta, si distaccò,
soverchiata dall’amplesso, paga del suo dono, e il viso suo
risplendette nell’alone della luna virginea.
Dopo lo prese per mano e,
dapprima procedendo con lentezza, poi in un cammino affrettato e
quindi in una corsa simile a un volo, lo trascinò verso la collina.
In cima sorgevano le rovine d’un antico borgo medioevale. Quando
v’entrarono, la luna l’illuminò attraverso una bifora,
dall’alto, perché erano in una vasta navata d’un antico tempio
decaduto. Essendo crollato il tetto, il cielo stellato appariva sopra
di loro. Le mura del borgo, nere e minacciose, s’innalzavano sulla
collina. Essi erano nel vestibolo d’un mondo morto.
“ Vinci la tua paura ! “
ella disse, e lo condusse attraverso la porta della cripta, risonante
dei loro passi per il lungo andito oscuro. Poi discesero per una
scala umida e si trovarono in una vasta aula cinta di nicchie, cupa e
verdastra come caverna marina. Il soffitto concavo era occupato da
una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio, in alcune
cavità del sotterraneo dormivano i pipistrelli, qualcuno però
aliava sommuovendo la trasparente tela e lacerandone alcuni lembi
fluttuanti.
Sul pavimento sconnesso
era cresciuto uno strato di muschio e sulle pareti ancora, nonostante
la ramificazione delle muffe, si notavano figure d’affresco, sirene
che si curvavano verso l’onde mentre l’oro delle chiome fluide e
volitanti una mano ignota tentava di afferrare invano.
Un tritone suonava la
bùccina dorata che risaltava sullo sfondo divorato dall’umido, e
sembrava davvero uscire dalla profondità del mare, e un raggio di
luna filtrato da un pertugio nel soffitto lo illuminava, quasi fioca
luce negli abissi.
Ed iniziarono allora la
discesa nel sotterraneo, poiché nel centro della cupa grotta una
botola era aperta, come un invito ad entrare, mentre s’udiva dal
profondo salire un rumore quale d’acque mormoranti.
Entrarono. Un turbine
improvviso li colse nelle sue spire, li trascinò nel suo gorgo
oscuro. Ed essi furono ingoiati dalle tenebre, né vedevano né
udivano più nulla.
Ma poi si trovarono in una
vasta cavità, ove echeggiava il brontolìo di acque correnti che si
frangevano contro la riva. E in alto scorgevano quasi bagliori di
fulmini ed ascoltavano con meraviglia il rimbombare del tuono.
Stavano entrambi sulla sponda, come in attesa.
I raggi rosei dell’alba
ormai serpeggiavano nei flutti e la grande bocca della caverna pareva
aprirsi con denti scintillanti.
Alla roccia era legata una
barca. Vi salirono e Mauro cominciò a remare verso l’apertura
luminosa.
Sotto la vasta cupola
risonante essi si smarrivano tra le brume dei sogni. Scorgevano sulle
alte pareti i colori risaltanti stranamente alla luce del lago,
oscillante in un lucore verde rame, i colori di mosaici grandiosi,
dalle figure splendidamente ieratiche, immobili nella loro maestà.
Come uscirono, li avvolse
l’aria del mattino in una fresca ebbrezza. Le onde pigramente si
stendevano sul lido, altre roteavano presso le rocce, e si ritraevano
in cadenza. Una luce calda e verde circondava le colline intorno. Sul
promontorio la villa sorgeva come una roccia minacciosa. La torre con
l’orologio era un grande occhio spalancato sugli abissi
echeggianti. Ricordava il palazzo dei Farnese che domina il grande
lago, il palazzo dalla porta dalle due teste d’angelo, o di Medusa
?
Ed era la dimora
dell’illusione. Alta, inaccessibile, l’illusione d’amore
circondava in una veste irradiante la figura di Misandra che si
stagliava sulla distesa marina greve ancora dell’ombra notturna,
quasi lucente di proprio lume.
E l’aurora aleggiava
all’orizzonte e si fondeva con l’alitante tepore lunare, che si
schermiva dietro gli alti pini del promontorio a occidente,
procombente sulle acque oscure.
S’udì un improvviso
tintinnìo, ed ecco si staccava dalla penombra, sotto la massa
frondosa della costa, una navicella nera, avanzando sull’aleggiare
di bianche vele. S’avvicinava rapidamente, sopra lo specchio del
mare, e come fu presso la barca, Mauro vide che dalla poppa alla prua
era colma di bambole d’ogni tipo e d’ogni colore, che lo
fissavano coi loro occhi dipinti. Misandra fu tratta a bordo dal
braccio d’un destro marinaio, quindi la navicella s’allontanò
ancor più velocemente di prima.
Mauro allora si diresse
verso la spiaggia, remando in fretta, stupito e adirato per il
comportamento di Misandra, e, quando vi giunse, abbandonò la barca
sulla sabbia e s’incamminò verso la villa.
XX
Appena i sommi monti
cospargeva del suo lume il giorno seguente, quando dall’alto gorgo
s’innalzarono i cavalli del Sole e soffiarono luce dall’enfiate
nari . E le onde pigramente si distendevano, pigramente si
ritraevano. Ma la tempesta di luce invase rapidamente l’orizzonte e
tutto in breve sommerse. Così nacque un nuovo giorno. E Mauro si
fermò sulla sabbia e guardò a lungo la distesa del mare.
La navicella era ormai
lontana, un’esile sagoma nera, seminascosta dalle rocce che
s’inoltravano nel mare profondo. Sul lido sinuoso, al riparo dalla
massa erta d’alberi tortuosi e di rupi, ove l’onda si cullava
mite e dormente, un pastore con gesti lenti e cauti smuoveva col suo
vincastro la sabbia a riva intorno a una reliquia d’un antico
naufragio. Più distanti, presso qualche cespo di giunco, le pecore
belavano timidamente.
Nel mattino dello stesso
giorno una navicella leggiadra era trascorsa vicino alla costa, colla
vela quadrata tutta variopinta e lunghi vessilli e canti e profumo di
fiori, e poi s’era dileguata carezzata da Zefiro nel corteggio di
Venere. Ma a riva aveva dimenticato i suoi sogni.
Il mormorìo di acque
croscianti fra i sassi lo colse mentre era intento all’alto mare, e
improvvisamente scorse quasi dietro di lui, dopo un cespo di giunchi,
la spuma d’una cascata, un rivo d’acqua piovana, che danzando in
vortici innumerevoli fluiva verso l’onda salsa e cupa. Ma
brillavano i fiotti del rivo innanzi all’alba, come un saluto, e
correvano verso la luce, gioiosi.
Ricordava. Mentre
passeggiava lungo la riva, l’immenso mare risonante gli alitava
contro l’umido fiato salso, i gabbiani gracchiavano volitanti. E
lui era perduto nella sua malinconia, e pensava gli anni non vissuti
e che mai nessuno avrebbe potuto vivere, tanto ricca e onnivora
sarebbe stata quella vita bruciante e ardente di desideri inespressi
e inesprimibili. Ed era il suo cuore quale una coppa di vino generoso
troppo colma che trabocca, e il suo contenuto si disperde e nessuno
osa portarla alle labbra, per timore di macchiarsi la veste. Così
egli rimaneva inerte, arso internamente da una fiamma destinata a
estinguersi, dopo avere distrutto ogni cosa.
Ma ora conosceva
finalmente la realtà. E quel mondo di sogni lussureggianti e
rutilanti quasi un’immensa foresta equatoriale invasa da voli di
migliaia di uccelli variopinti d’ogni specie e da miriadi di
insetti luccicanti e giganteschi e di farfalle dai vivi colori,
attingenti il nettare da corolle purpuree e iridescenti come gemme
splendide, e da orchidee inebrianti e mostruose, quel mondo s’era
rivelato di tanto superiore alla realtà quanto una meravigliosa
statua vince di grazia e di bellezza e d’eterna gioventù ogni
misero corpo caduco, il cui fiore svanisce al tramonto della
stagione.
E cos’era allora la
realtà ? Se analizzava la propria esistenza poteva osservare con un
vago senso di disgusto ch’essa era in effetti quanto di più
piatto, banale, ed in definitiva di basso e di volgare si potesse
immaginare. Perché la volgarità autentica sta tutta in quella
perdita volontaria di immaginazione, in quell’immergersi nella
quotidianità che rende inevitabilmente limitati, anonimi, vuoti ed
ottusi. Ed egli avvertiva quanto la massa degli uomini è senza
rimedio bassa e comune e come crogiolandosi in un’apparente vita
gioconda sguazzi lorda nel pantano compiaciuta, pari a una mandra di
bestie merdose e lubriche. E sebbene il tutto sia ammantato di belle
vesti e di monili luccicanti e di portamenti alteri o di frasi
timorate, o talvolta da atteggiamenti pieni di riverente decoro e di
sacerdotale saviezza, pure non si cessa d’avvertire con un senso di
sgomento l’impercettibile odore di cadavere che avvolge il mondo
“reale” degli uomini che nascono e muoiono a nugoli, come le
mosche.
Guardava il mare. Non più
spirava la brezza. Immoto esso si stendeva appena sciabordando contro
gli scogli. Si avvicinò alla riva. L'acqua era limpida, trasparente
come cristallo. La vampa del meriggio vi si posava in abbandono, il
cielo vi si rifletteva in un dolce oblio.
Ma ebbe innanzi agli occhi
il fluire delle estati trascorse e un vago sentore del profumo della
giovinezza. E gli parve di scorgere nell’effluvio salino del mare
la forma, l’ombra d’una donna che s’immergeva, che s’allungava
fra le onde dardeggiate dai raggi d’oro.
Ma ebbe il pungente
sentore dello scorrere del tempo attraverso il suo corpo, reso
stranamente più vecchio dalla consapevolezza del suo cammino
inarrestabile. Si sentiva una goccia di pioggia caduta dal cielo a
svanire nell’infinità dell’oceano. E non era un destino di
morte. Era la stessa vita che, attimo dopo attimo, lo sottraeva a se
stesso, lo immergeva in un torpore pari all’oblio, quell’oblio
che è tutto della coscienza e ci rende stranieri a noi stessi per
sempre. A che vivere ? Era forse questa la vita che si era augurato
nelle fantasticherie dell’adolescenza ? Forse se avesse saputo
allora che era proprio questa, non avrebbe desiderato di continuarla
un attimo di più. Ma certamente prima o poi la sua vista sarebbe
stata liberata dall’inganno del velo di Maya ed egli avrebbe avuto
la rivelazione che pone fine ad ogni sofferenza come ad ogni
desiderio. Così sarebbe stato, poiché tutto è illusione.
Vagamente ricordava
l’immagine del poeta, e, se avesse potuto averne il libro tra le
mani, avrebbe riletto i versi seguenti :
“ Era la vita. Dopo il
moto alterno
d’un’onda sola che
salìa cantando,
scendea scrosciando,
mormorava il mare
immobilmente. E molte vite
in fila
salìan dal mare
riscendean nel mare :
quindi l’eterno. E
dall’eterno altre onde :
i figli. Altre onde
dall’eterno : i figli
dei figli. E onde e onde,
e onde e onde … “
Così s’allontanava
anch’egli sulla riva del mare. E incamminandosi per le dune
sabbiose e tra brulli cespi di giunchi, la sua sagoma si stagliava
oscura contro il sole, un’ombra triste, debole. Dov’erano le
fanciulle d’un giorno ? Dove le illusioni dell’immaginazione
ancora ingenua, non ancora intaccata dal sentore di morte ?
Ma quelle illusioni non
erano solo le sue, sarebbero state le illusioni di tanti nel tempo a
venire, un giorno più bello di altri. Tutto passa, scorre e ritorna,
come un ruscello nel mare che riconduce l’acqua delle piogge
generate dagli stessi vapori del mare. Tutto muore, perché dunque
lamentarsi ? Compiuto un ciclo ne inizia un altro e così la storia
continua. Chi può dire se vivremo ancora, chi può dire se siamo già
vissuti ?
Una voce sorgeva
dall’abisso della coscienza, gli diceva : “ Accetta il
destino, solo così sarai liberato nell’abbraccio della morte “.
Ma quando discese, per
l’ennesima volta, il disco del sole oltre le acque violacee
dell’orizzonte, allora nell’atmosfera bluastra lo avvolse il
solito misterioso torpore, ed egli rivide nel breve spazio di qualche
minuto la propria monotona esistenza scandita nei ritmi del
metabolismo suo e cosmico, invariabile come i variabili giorni che
nell’apparente mutevolezza sempre trascorrono all’uniforme tocco
del tempo.
E si sentì pervaso dal
gelo dell’eternità, in un brivido dell’epidermide, una
sensazione di bruto, priva di consapevolezza e perciò terribile. E,
mentre gli si arrestava il sangue e si annebbiava la vista e gli
pareva che le tempie fossero immerse in un’acqua fredda, avvertì
il silenzio dell’infinito e pure l’immobile, strano a dirsi,
corsa dei pianeti, e una mano di ghiaccio gli strinse il cuore.
E nel manto infinito del
crepuscolo egli scorse la lunga ombra degli esseri già avvolti dalla
tenebra, lamentosamente precipitarsi nella morte. Egli scorse il
corteo funebre degli eroi, rigidi sul catafalco, tra le fiaccole e
gli inni della gloria, e vide i loro roghi splendidi sul mare.
Considerò allora la propria vita non più lunga d’un giorno,
destinata a svanire in una eterna notte. E il dèmone lo invase,
implacabile. Il dèmone della distruzione, dell’offerta votiva del
sangue, il dèmone che ha sete e brama il sangue schiumante delle
vittime svenate. Il volto s’irrigidì, non più svelò alcun
sentimento umano. Ah, questo era dunque il retaggio della solitudine,
dell’abbandono, un immenso, bruciante, infecondo deserto di sabbia
e di tormentosi venti omicidi.
Ma quei venti non erano
forse il respiro incessante dell’Essere, della Vita incoercibile,
ah, certo, d’un dèmone assai più potente degli uomini. Terribile,
questo dio circondato di belve possiede certo i segreti
dell’esistenza, e ogni forza con assoluto potere sprigiona e
domina.
Oh, quanto vanamente
l’uomo crede o spera di poter domare quell’Essere ! Tanto è più
grande e più forte di lui che tutta la vita degli uomini sembra un
racconto la cui trama dipenda dal capriccio d’un sempre
insoddisfatto scrittore, Egli mira per le Sue vie e le Sue ragioni
stanno spesso negli intoppi della Sua penna. E l’uomo s’illude di
governarsi con la ragione, quando questa non è che una scusa con la
quale far tacere una buona volta il pungolo della fastidiosa
ignoranza.
Tuttavia una strana calma
sopraggiungeva. La calma dell’indifferenza, la quiete della
sconfitta, della resa definitiva. Scopriva a poco a poco che per
vivere ogni giorno doveva ogni giorno morire e lentamente staccarsi
dalla vita. Doveva separarsi da ogni affetto, da ogni desiderio,
serbarsi immoto e imperturbabile come una statua di granito,
altrimenti come un frutto troppo maturo sarebbe marcito ancora
attaccato al ramo. Doveva per vivere, vivere morto.
Ebbe sopra di lui la
sensazione di un influsso maligno, era posseduto da un torpore
malsano, da un innaturale desiderio di sonno, di oblio. Ricordava i
discorsi delle persone volgari che un tempo lo avevano consolato e
incitato alla vita, e quale vita ? La loro ? Ma se erano già morti
da tempo e non se n’erano neppure accorti !
Siamo davvero dei bambini
illusi che presumono di sapere qualcosa e invece non sanno nulla.
Quanti discorsi tronfi, quante arie di importanza ! Imbecilli, che
esprimono con sussiego tanto quanto è il vuoto del loro cervello.
E pensò allora a una
strofa del Canto dell’Illuminato : “ Chi, essendo soggetto a
morte, malattia e vecchiaia, trova diletto in chi è a sua volta
partecipe di morte, malattia e vecchiaia, e non se ne turba, è pari
alle bestie e agli uccelli. “
Mentre tornava alla villa
lo assalse improvvisa l’angoscia, il senso profondo di solitudine e
d’abbandono. Lo strinse implacabile alla gola, lo piegò quasi su
se stesso, sì che gli pareva non poter più sostenere il peso dei
ricordi. La sua vita era insopportabile ! Il suo essere medesimo gli
era alieno, e un invincibile disgusto s’impossessava di lui come
una mania che la volontà non domina.
Affranto, disorientato e
smarrito percorreva il sentiero ghiaioso nervosamente e per qualche
tratto correndo, inutilmente volendo sfuggire all’assillo.
E quando giunse nelle
vicinanze del giardino, udì voci allegre di fanciulle che
echeggiavano nei meandri intrecciatisi fra le piante secolari e
frementi.
Colse nell’affanno
un’onda di respiro silvestre, profumata di rose, di mirto e di
resine. Si fermò, ebbro. Udiva le voci risuonare nell’aria. Il
crepuscolo effondeva i suoi bagliori purpurei fra le membra degli
alberi ondeggianti alla brezza. La villa era ormai una sagoma oscura
tra i rami. Le voci divenivano più fioche. S’allontavano verso
l’edificio.
Oltrepassato il cancello
egli ne colse ancora l’incanto diffuso nel verde labirinto. Si
sentì pervadere dal desiderio. Vide il getto schiumante della
fontana dell’antico delfino e respirò un fresco e intenso odore di
muschio e di foglie putrescenti. La sera lo ammaliava con soave
sentore di morte. L’orlo del laghetto era circondato da cespugli
rosseggianti di belledinotte che in quell’ora schiudevano le
corolle.
Egli s’inoltrò nel
buio, sotto gli eucalipti, e avanzò lentamente, un’anima perduta.
Immaginò di scorgerla, di incontrarla nel giardino. Gli appariva il
suo viso, pallido ai raggi della luna sorgente, coronato dai capelli
misteriosamente neri come la notte. Immaginò ch’ella lo osservasse
intensamente e che la luce degli occhi le variasse in ogni istante,
pari al scintillare delle onde sotto le stelle. Sognava
d’abbracciarla, di tenerla, d’essere invaso dal suo profumo,
dalla sua bellezza.
Ma aveva innanzi a sé
null’altro che l’ombra del proprio corpo, percettibile appena al
chiarore del crepuscolo, un’ombra che s’allungava e si perdeva
nell’ombra degli alti alberi.
XXI
Alla finestra della
propria stanza coglieva, con il trapassare del giorno in lunghi lembi
violacei come il sangue del sole, la luce lunare sul volto immobile.
Immaginava che oltre l’orizzonte si fosse scatenata l’orrenda
battaglia degli dei e dei giganti e ne crollasse l’universo, così
come si narrava nei canti barbarici, e il suo cuore si nutriva di una
strana voluttà. Una musica a lui nota sorgeva dalla profondità del
ricordo e fantasie colme di ebbrezza tornavano ad agitarsi nella sua
mente. Ma insieme tutta la massa delle memorie arrivava, ahimé, non
perdute, e lo circondava con volti noti e misteriosi.
Intuiva l’abisso della
coscienza, e che affacciarsi sul baratro significasse sfidare
temerariamente le proprie forze.
La folta vegetazione del
giardino era mossa dai sussulti di un vento caldo. Un greve sentore,
un torpore sconosciuto proveniva dal fondo del groviglio silvestre.
Un luminoso colibrì dal
piccolo capo smeraldino, dall’ali rubre, dalla pettorina turchese
sortì dal suo letto di fiori. Quale trillo di sonagliere che
preannunzi l’arrivo d’un personaggio atteso ma sconosciuto,
lampeggiò il vivace volo, un rapido raggio che traversa l’aria
frizzante nell’aurora.
Il vento dolcemente
spirava sommuovendo sulla nuca d’un biondo cavaliere le ricciute
chiome ondeggianti parimente al mantello, che morbidamente ricadeva
sui fianchi lucenti del destriero fulvo, il quale fieramente avanzava
in misurata cadenza percotendo il suolo, agile e lieve, ergendo il
collo possente su cui la criniera fluttuava. Il volto del cavaliere
era ombreggiato dal pallore della bruma che s’innalzava nel sorgere
della sera. Il suo sguardo vagava ad una collinetta non lungi dalla
riva del mare, donde si propagava un canto simile al dolce spirare
dell’aurora che risveglia la terra e fa palpitare le onde.
Un’aura senza mutamento
circondava di lucori cristallini il colle rivolto al bruire marino,
alla cui sommità appariva un coro festevole di giovani donne. Un
candido Pègaso aleggiava intorno con le ali dalle penne di fiamma,
che raccoglievano nella trasparenza del finissimo tessuto tutta la
ricchezza ramata dell’ora vespertina, come a protezione d’un
mistero profondo che si celasse al mondo dei molti per rivelarsi nel
risveglio degli eletti.
Un giovane, dalla lunga
chioma bruna e dal corpo puro quale avorio a tratti velato di
tonalità azzurrine, immergeva lo sguardo nell’epilogo oltremarino.
Dalla sua bocca illuminata emanava un canto dolcissimo. Attorno al
suo corpo, pervaso d’un colorito roseo, le Muse danzavano e
libravano le dita sottili sovra antichi strumenti a corda, strani
quali le parole dell’inno. L’astro, come un dio onnipotente che
rinunci al trono di gloria per svanire in un sonno eterno, copriva il
capo innanzi al mondo.
E il mare era ormai
un’immensa distesa oscura, solo riconoscibile dal rantolo roco. Ma
in quel rumore pareva salire una rabbia repressa e avvolgersi in
spire crescenti. E una passione non mai soddisfatta, non mai
consolata si piegava su se stessa, contorcendosi, fremendo,
piangendo, urlando. E i legami del furore s’avvinghiavano in reti
vorticose, inghiottivano ogni speranza nei gorghi lividi, mentre il
vento fischiava, ululava impazzito. Le onde s’aggrovigliavano in
schianti istantanei, un urto stridente di lamine bronzee, che si
scindevano in creste furenti a perdersi nel cupo manto cilestre. Come
mani gigantesche le ondate si volvevano sopra se stesse abbrancando
il vento alla cieca sotto il vano lume delle stelle, mentre le
tenebre velavano ogni elemento mobile e mutevole quale un nero vapore
sul mare insondabile.
Con un suono di dischi
d’argento o di cristalli infranti le onde si schiantavano le une
contro le altre come i rami agitati di un’immensa foresta preda del
turbine. Nere come chiome invase dal fiato furente dell’aria si
levavano e si prolungavano indefinitamente verso l’orizzonte e
verso le rocce del lido s’impennavano caparbie e ostili, lunghi
capelli neri fluttuanti.
Mauro non poteva dormire.
L’angoscia aveva preso il sopravvento. Un’oppressione
insopportabile lo costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi alla
finestra. La aperse e per alcuni istanti respirò profondamente
l’aria balsamica della notte. Poi i suoi occhi s’immersero
nell’oscurità, a contemplare in alto la luce gialla delle stelle e
nel giardino le corolle grigiastre dei fiori, ormai insignificanti.
Udiva il mormorio della fontana nel silenzio profondo e gli pareva
volesse rivelare qualche segreto. Volse lo sguardo intorno, ma il
resto della casa era al buio. Solo una stanza pareva ancora
illuminata. Era la portafinestra della camera di Misandra, che dava
sul balcone. Aveva le tende accostate alle pareti si che poteva
agevolmente scorgersi l’interno. Tra gli armadi neri spiccava il
letto bianco. Due figure v’erano distese, la cui nudità levigata
rifletteva la luce della luna come le morbide corolle dei tulipani o
le curve delicate delle ceramiche colme di fiori.
Ella accolse l’amata tra
le sue braccia e le sfiorò con la punta delle dita la bella schiena
rosea che i raggi della luna accarezzavano. Le ombre giocavano con le
sue dita, lunghe e sottili, e, risalendo alla chioma nera come la
notte, si confondevano coi capelli seguendo il moto fluido delle
mani.
Ella depose un bacio sulla
nuca dell’amata che si adagiava, vinta dal sonno, sui cuscini.
Ergendosi, discese dal letto, nuda e bianca. Era magra e levigata
come marmo vivente. Le lunghe gambe, i fianchi eleganti innalzavano
il ventre sottile e il busto su cui sbocciavano i piccoli fiori
violacei e delicati, un collo candido, l’opale del viso ancora
nella penombra del capo, uno scintillare di pupille mobili. La luce e
l’ombra s’alternavano sul profilo cangiante della sua nudità,
che pareva, nel buio della stanza, essere l’anima furtiva della
notte.
Con rapide movenze
spalancò la finestra. La stanza accolse l’onda carezzevole della
luce lunare. Ella se ne stava in piedi avvolta dai raggi d’argento,
quasi una ninfa del mare che esce dall’acque, per essere scorta dal
pescatore ancora assonnato sovra la barca dondolante sulla
scintillante e violacea distesa. E la sua sagoma si rifletteva nello
specchio della vasca marmorea del giardino sottostante, della fontana
ove l’acqua susurrava in ritmi d’onde nate nel gorgoglìo delle
spume dai getti lattei delle cornucopie. Nel flutto l’immagine sua
s’allungava e si perdeva nel fluido incanto di lire e di flauti,
fondendosi con i fiori delle ninfee e intorno nel profumo delle
piante mormoranti.
Mauro assisteva alla scena
da una finestra di fronte, all’altro lato del chiostro. Ogni cosa
aveva veduto e nulla gli era ormai ignoto. Immobile rimaneva
nell’ombra, come un’insidia. Ed ella, pur non potendo scorgerlo,
guardava proprio verso di lui, insistentemente, sicuramente ignara, e
le sue pupille parevano riflettere i giochi di luce della fontana e
baluginare sinistre fra i vapori della notte.
La luna splendeva alta,
d’una luce fulva, un ampio specchio ovale dov’erano racchiusi i
misteri notturni, che ora venivano svelati, essendosi essa dischiusa
come un grande occhio.
Il disco d’ambra sovra
il mare irradiava l’incantesimo tra la folta vegetazione dei
boschi, serpeggiava la sua malìa fra le fronde scure e palpitanti
del giardino, abbracciando i tronchi, vellicando le foglie,
insinuandosi nei fiori.
Allora gli parve scorgere,
nell’abbraccio delle tenebre, discendere nell’ignota oscurità
una donna, bella ed alta, dal viso triste, come avesse per sempre
perduto un incanto di sogni e di gioia.
Ella sormontava le creste
del mare nel fragore dei venti contrastanti coronata degli astri
sorgenti, e la cupa chioma carica di profumi e di corone di fiori
procombeva sopra il suo corpo argenteo. Era sollevata dall’onda
furiosa, regina delle vie marine e delle vie del cielo, pallida, e
con fredde mani reggeva il papavero rosso dell’oblio, che baciava
con languide labbra. Sotto di lei fluiva l’eterno fiume d’oro,
d’improvviso fiorendo ad un sole occiduo in cerchi roteanti e
barbaglianti quali sfere ignite, crollando in subitanee cascate e
innervandosi in trame e rabeschi e in rinnovate cateratte frementi.
Sotto di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a
fiotti dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla
terra a saziare i ricordi dei morti, a nutrire i campi di grano e
nuove speranze e forze nuove d’esseri avidi d’esistere.
Consapevole del suo potere risuona tumultuante il sacro bosco, e
delle vittime offerte le ceneri vengono sparse sulle terre da arare,
poi che ogni cosa finisce e rinasce nel medesimo modo e dal seme di
vita cresce la morte.
Era l’ultimo giorno,
l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la
riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un
dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute.
Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della
linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine
mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende
la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo
sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si
sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La vita incessante,
tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una
nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli
vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì
l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non
dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di
speranze oltre la morte ?
Sul balcone era buio. La
luce era scomparsa. Mauro uscì dalla stanza. Era inebriato, esaltato
e nel contempo invaso da ignote furie e perciò si diresse
inconsciamente verso il luogo dell’apparizione.
La porta dell’appartamento
di Misandra era stranamente aperta. Entrava, errava per sale
silenziose, il cui soffitto a lacunari era molto alto e l’ambiente
pervaso da un lume vermiglio che svelava le oblunghe finestre gotiche
e finiva sopra i pesanti arazzi che pendevano dalle pareti. Libri e
strumenti a corda e flauti erano sparsi dovunque su cassepanche,
tavoli e savonarole. L’eco dei suoi passi era l’unico rumore a
fargli compagnia. Un grande candelabro era posto sopra un pianoforte.
La luce vagava fra le ombre.
La luce era nell’altra
camera.
Egli entrò, inondato
dalla luce degli specchi, mentre la donna, apparentemente, dormiva
sul grande letto bianco. Si curvò sopra di lei e ascoltò,
avvicinando al suo seno l’orecchio. Non udiva il battito del suo
cuore.
“ Io non sono vivente “
gli parve sentire. Si voltò improvvisamente.
La crisalide lignea era
là, in piedi, e gli sorrideva maligna, identica alla donna distesa e
similmente vestita. Lo guardava fissamente, e i suoi occhi si
muovevano come gli occhi delle bambole meccaniche.
Un’ira inesorabile,
cupa, devastante invase la sua mente in un’improvvisa eclissi del
lume della ragione. Barcollante si diresse verso la porta e corse
via, in preda a un sudore gelido. Le sue pupille si dilatavano nel
buio della notte, egli voleva vedere oltre l’orizzonte della sua
mente, ma era impossibile.
XXII
Al mattino si svegliò in
preda a una estenuazione nervosa. S’alzò, si vestì e corse sul
balcone ai raggi del nuovo giorno.
Il cielo era limpido, una
lieve brezza spirava sulle onde, e soltanto una lunga nube si
disegnava verso il promontorio e sopra il mare, bianca e sottile. Le
gazze gracchiavano volando di ramo in ramo, sugli ulivi ondeggianti
al venticello, sullo sfondo azzurro del mare e del cielo. Era lo
scenario ideale per l’artista che avesse potuto coglierlo e
disporlo sulla tela, e questo certo fu il primo pensiero di Mauro. Ma
la bellezza che circonda l’uomo lo trova non tanto indifferente
quanto spesso inetto a comprenderla e tanto più a imitarla.
Uscì dalla stanza,
dirigendosi verso la spiaggia. Prese la via più breve, per la
breccia nell’alto muro del giardino. Quasi muraglia d’una città
vetusta i blocchi di pietre erano smossi e abbattuti nel luogo più
remoto, tra gli eucalipti e le canne, e si poteva passare fra le
grandi pietre disposte a secco come le rocche dei tempi eroici.
Le onde dolcemente si
stendevano sul lido sabbioso e sembravano voler lambire i cespugli
dei giunchi e giungere sino ai pini e agli alti eucalipti. Sui colli
verdeggiava brillante la gran selva della terra corsa dai raggi
vivaci.
Verdi sotto il sole le
onde dileguavano, quale eco di canti fra le montagne. Un murmure
alterno tra le fronde afflava e insieme alle foglie carezzava i suoi
capelli.
Come lo invitavano le rive
solcate dal flusso, egli depose i suoi panni ed entrò a poco a poco
nel grembo delle varie scintille. La corrente fresca lo avvolse, ed
egli si slanciò proiettando sul fondo la sua ombra fluente. Si sentì
rapito dalla profondità, dalle rocce e dai pesci che sfrecciavano in
branco. Ma la necessità del respiro lo trasse a squarciare il vello
ondoso, a mordere l’aria. L’insidia gli era accanto e lo
blandiva. La paura rapidamente lo spronò alla riva ed egli placò
fra i giunchi il turbamento, e la stanchezza cogliendolo stornò i
ricordi dei sentimenti convulsi. Il torpore e il tremolio delle
correnti lo trasse serpeggiando tra sporgenze di madreperla, candide
e rosee.
Una torre a spirale
culminava in una cupola irregolare e lucente di linee occhiute e di
bizzarri arabeschi, e rilievi smeraldini ed eburnei quasi orli
arcuati di pagode ornavano il palazzo immenso. La porta ovale d’una
colossale conchiglia albicava al pari dell’ambra. L’interno
abbagliava di bracieri e stordiva d’incenso. Ciclopiche statue di
divinità indù troneggiavano in un’espressione di beatitudine
indifferente e innanzi a loro su alti tripodi bruciavano le offerte.
Mostri di basalto digrignavano le zanne ai lati oscurati dalle
colonne rivestite di serpi, sorrette da elefanti marmorei. Nell’alto,
un vortice alla vista, la cupola gigantesca si perdeva, insondabile,
avvolgendosi quale torre di Babele e risuonando delle strida dei
corvi.
Su cuscini color rubino
una donna con dita leggere sfiorava il contorno dei seni e un
serpente strisciava oscillando fra le sue caviglie, il capo eretto e
gli occhi come fiammelle. Ma oltre gli si negò il sogno, un libro
chiuso.
Tutto era dunque perduto
per sempre.
Era tempo di partire.
Preparò le sue cose in
fretta e uscendo dalla villa rivolse per qualche minuto lo sguardo a
considerarne il fascino e la misteriosa bellezza. Tre ampie cupole la
sovrastavano coperte di lastre grigie, poggiando su un’architettura
in stile floreale, muri e colonnati e travi d’un color giallo
sabbioso. Attorno l’ampio parco la coronava della sua fronda
lussureggiante di cedri del Libano, palme, pini, eucalipti. Si
scorgevano in volo le gazze e s’udivano i merli cantare vivaci e
fantasiosi fra i cespugli. Bisognava andare.
Mentre egli saliva il
sentiero della montagna, e il suo cuore si ostinava a salire, vide
levarsi del vapore misto a brandelli di arso fogliame. Non
comprendeva donde provenisse quel monito. Quando giunse alla meta cui
il suo cuore anelava e fu nella radura radiosa sotto l’ombra degli
alti pini dove frinivano le cicale nell’ora sacra al grande dio
Pan, allora s’accorse che il sentiero che aveva percorso era
minacciato da voraci lembi di fuoco che crepitavano e crescevano e
colmavano il cielo in un ampio boato. Tentò quindi di scendere per
il sentiero e di tornare, ma le fiamme, ormai molto elevate, stavano
già divorando gli alberi sulla via e i cespi di ginestra selvatica.
Il vento rinforzava,
empiendo le lingue vermiglie, vaste vele correnti sovra la selva
arida. L’incendio saliva velocissimo, un’ondata rombante,
inondando il versante del monte in forma d’un braciere inesausto.
Egli si vide perduto, e si
precipitò in corsa, ansimando, in preda al panico. Ma poi scorse una
via di scampo che conduceva ad un altro pendio della montagna. Non
cessò di correre, poi che le fiamme incalzavano. E tuttavia gli
parve d’essere pervaso anch’egli da quelle fiamme cui sfuggiva in
un balzo d’agile animale, e che quelle fiamme così alte e
terrificanti e onnipotenti gli trasmettessero la propria forza e la
vigoria della divinità.
E quando fu in salvo per
un altro sentiero, dopo una corsa ansiosa, e si volse a contemplare
le torri di fumo denso e rossastro che empivano il cielo quasi estese
nubi di tempesta, capì che per lui erano sorte e da quelle era stato
purificato, ostia risparmiata dal sacrificio, e un dio gli aveva
offerto quella gioia, serbata ai pochi, di sentirsi così vicino alla
morte.
Egli vide sollevarsi sovra
la montagna la corsa del dio vittorioso e il suo destriero splendido
di crini accesi, asceso dalla terra alle folgori della tempesta, e il
suo volto si perdeva nel cielo.
Nell’ebbrezza ebbe la
triste sorpresa. Nel rogo immane era avvolta la villa di Misandra. Un
fumo denso saliva al cielo e si scorgevano le mura nerastre, ormai
prive del tetto.
Qual era stata dunque la
sorte di Misandra ? Ormai era troppo lontano per saperlo, il suo
cammino non gli permetteva il ritorno e il fuoco ancora crepitava per
tutto il versante della montagna.
Ne avrebbe avuto notizia,
ma troppo tardi.
Continuò dunque a
camminare e arrivò in una radura dove sorgeva un riparo di pastore,
tutto di pietre a secco.
Era quasi il tramonto. Un
vecchio era l’unica presenza umana.
Come una scintillazione di
rapida vita gli esultò d’un tratto nel corpo. Gli si dilatò
l’anima dentro con impeto com’era giunto al vertice del colle, e
gli ulivi ad ondate grigie si stendevano sotto di lui. Si sentì
partecipe della sicura quiete delle cose viventi, respirò l’aria,
strinse con la mano un tronco ruvido d’ulivo.
Stava il vecchio innanzi
alla visione del mondo.
Era seduto a margine della
strada, con un bastone in mano, l’aria tranquilla. Guardava di
fronte a sé l’estesa catena delle montagne illuminate dal sole.
Così, mentre passava,
egli vide un vecchio e s’immedesimò in lui. E gli parve essere ai
confini della vita, innanzi alla vista immensa delle esistenze
passate e future. Come se attraverso le fibre del corpo filtrassero
gli aneliti di tutte le vite umane, sentì nell’attimo la
rivelazione. In lui trascorreva l’eterno divenire, in lui trascorso
avrebbe continuato il suo fluire in altre forme, in altre esistenze.
Lo ammoniva il vecchio,
gli diceva con lo sguardo : “ Accetta il destino “. Ed egli
abbassò il capo.
Una sensazione opprimente
stringeva come una morsa le tempie e il suo cuore. Ma nel silenzio,
un gelido manto, ecco un’idea insopprimibile gli si fece innanzi.
Certo era così, nella sua solitudine egli non era solo, perché
quella solitudine era comune a tutti gli uomini, a tutti gli esseri
viventi. Non era solo nella sua solitudine !
Allora ricordò le parole
del filosofo errante per le vie di Torino, del filosofo folle e
denigrato e pur voce vivente, parole che risuonavano, una volta
attinte alla fonte, dallo strumento della memoria. E lo ammonivano,
nella consapevolezza della solitudine dell’uomo della conoscenza,
della vecchiaia inesorabile che reca con sé solo il fardello della
saggezza. Intravveduta la luce della vita da lontano, come un
miraggio di meridiano splendore, come un attimo di gioia, lo colgono
ben presto le nebbie della morte, ma egli ha veduto ciò che in ogni
vita e in ogni tempo non sarà mai dimenticato.
Allora considerò il tempo
trascorso in quell’angolo della terra, nella solitudine della
giovinezza. E vide correre gli anni cinti dalla desolazione, dal
tormento dello spirito, dall’asfissia del vincolo familiare. E
scorse in un attimo i volti assurdi delle compagnie e delle scarse e
vane amicizie, come una sfilata di maschere, e ne rise nel suo cuore
di un riso amaro.
E, nell’ombra dilagante,
sopra di lui, non era il cielo stellato né il volto pallido e
stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un
baratro indiscernibile senza fondo.
Ormai egli era certo. Ai
suoi piedi e dietro le due colline ai lati si dilatava il mondo
enorme dell’innumerevole società umana. Città gigantesche,
rimbombanti di rumore di macchine, accomunavano in un fato senza nome
milioni di uomini e tutti aspiravano a un incessante lavorìo di
brame, a uno spossante travaglio, ma sopra, sempre più
appesantendosi, si posava un’immensa nube nera, colma d’inerzia e
di morbo.
Una nuova età
s’approssimava, un’era cupa e piena d’orrore.
Senza più sentimento,
piegò il volto sul petto, stanco.
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