sabato 25 ottobre 2014

Misandra, cap. 8

All’alba gli stallieri arrivarono con le cavalcature sellate. A Mauro fu affidato un cavallo bianco, di linee eleganti e dalla criniera fluente, Misandra montò un poderoso stallone nero, nervoso, dagli occhi ardenti.
S’avviarono al trotto verso la piana, che s’estendeva tra la foresta e il fiume diretto al mare.
Mauro, appartenendo a una famiglia onorata ma povera, non aveva mai avuto un cavallo suo. Apprese da Misandra che quello consegnatogli era il destriero del conte Oberto. Con un sentimento di soddisfazione mista ad invidia, considerò con uno sguardo lo stupendo esemplare ch’era sotto di lui. “ Fortunato il conte ! “ pensò, rialzando il volto in direzione di Misandra. Ella gli volse una rapida occhiata, quasi avesse compreso.
Indossava una veste succinta, da cavallerizza. Contrariamente all’uso, non portava la gonna, ma calzoni attillati coperti da stivaletti leggeri, lunghi sino al ginocchio. Un corpetto di velluto rosso e un cappellino piumato costituivano il resto dell’abbigliamento.
Cavalcava alla maniera degli uomini, e pareva un bellissimo fanciullo che partisse all’avventura o per la caccia.
E quando il sole illuminò la selva e fra i tronchi verzicanti e muscosi dilagava un torrente di luce, Misandra lanciò al galoppo il suo cavallo, che nitrì selvaggiamente, invaso dalla foga improvvisa.
Allora anche Mauro si gettò all’inseguimento, ma il suo destriero riusciva a stento a inserirsi nella scia polverosa del superbo animale, che pareva dotato d'un impeto sovrannaturale, demoniaco, quasi che la volontà di Misandra riuscisse a fargli compiere prodigi. Ed ambedue fuggivano, come esseri fantastici, sollevati dal vento, lui e la donna, presi dalla corrente misteriosa d’un inspiegabile ardore, protesi verso una meta ignota, arsi dalla sete d’una rivelazione.
E fuggivano, fuggivano, saltando e superando ogni ostacolo, aggirando ogni macigno, evitando ogni pruno o roveto, prodigando in scintille d’argento l’acqua dei ruscelli.
La raggiunse sotto una vasta quercia. Ella era appena smontata di sella e lo attendeva. Era lievemente alterata dalla corsa e i suoi occhi brillavano.
Saltò giù dalla sella e legò la briglia all’albero. La guardò mentre ella gli sorrideva.
Andiamo di qua, per questo sentiero “ disse, tendendogli la mano. Egli la seguì, silenziosamente.
Camminarono nel bosco, dove i raggi del giorno filtravano appena. Dopo circa una mezz’ora si fermarono dinanzi a un edificio in rovina, coperto quasi interamente da erbe rampicanti.
Ella levò il viso verso la facciata della costruzione, dove un rosone in alto rivelava il santuario. Il sole lo faceva risplendere e i vetri colorati inviavano bagliori misti di luce turchina e rossa. Pareva un grande occhio la cui iride avesse catturato il riflesso dei tramonti.
Vicino scorreva un ruscello e dietro il tempio formava un piccolo lago azzurro. Come Misandra si specchiò nelle acque, disse : “ Un tempo venivo qui con le amiche, prima di sposarmi, e, in pieno inverno, ricordo, ero l’unica a gettarmi in questo laghetto gelido. Dovevo essere cianotica quando uscivo. Erano tutte preoccupate e mi abbracciavano, stringendosi a me e sfregandomi con forza. “
Così diceva e Mauro all’udirla si sentiva invadere da un sentimento d’ammirazione. Misandra era davvero una bella creatura selvaggia, un essere assolutamente spontaneo e senza freni, eccetto quelli della sua naturale sensibilità. Era strana, raffinata e, pure, quasi inculta, poi che la sua gentilezza non era frutto d’artificio. Ella era bella e leggiadra creatura della foresta.
Si sedette sotto un albero, al riparo dal sole. Ed egli le si pose dinanzi, accovacciato sull’erba, e la guardava in silenzio.
Misandra sembrava in attesa. In attesa forse di qualche evento insolito o dell’arrivo di un altro cavaliere ?
In verità Mauro era tenuto in sospeso dall’incertezza. Non era pienamente consapevole dei propri sentimenti. Essi gli sfuggivano, come sabbia fra le dita, perché non era abituato a sondare in profondità il suo animo. Ma aveva il vago sentore che quell’attesa non fosse per un altro, fosse proprio per lui, l’incerto, ancora ignaro della sua stessa natura.
Ella aspettava, aspettava da lui un segno, la rivelazione senza ambiguità, il sì definitivo.
E allora vinto definitivamente, abbattuto dagli strali d’Amore, aggiogato al carro della guerriera, egli si sentì trascinare da una forza arcana e irresistibile verso di lei. Allora la baciò, in uno stato di vera incoscienza, non più padrone di se stesso. Ed ella non pareva turbata, ma pareva che quell’istante le fosse noto da molti anni.
E tuttavia non fu l’abbraccio che Mauro aveva sempre sognato. Fredde erano le labbra di lei, stranamente fredde come il ghiaccio. Come poteva essere ? Non emanava il suo corpo un senso di straordinaria energia, tale che l’innamorato ne era stato interamente conquistato, quasi fosse dinanzi ad una volontà superiore e ardentemente vitale ? Ah, le rosse labbra di lei quali i petali purpurei d’una rosa invasa dalla rugiada, come potevano essere tanto dure, fredde, marmoree ?
E l’incanto si ruppe, ed ella si alzò quasi immediatamente e, nulla dicendo, appressatasi al cavallo, rimontò in sella e s’avviò senza aspettare.
Egli rimase. Seduto su un sasso, restava a fissare il terreno, immobile e cupo. Non ebbe più la coscienza del tempo. Osservava le cose intorno a lui e vi si confondeva, oggetto smarrito nella foresta frusciante, sotto il sole.



Quando tornò alla villa, vide nell’atrio alcune scatole vuote, poi, furtivamente, notò nel grande specchio all’ingresso che in fondo al corridoio una porta era aperta. Si avvicinò incuriosito, ma ristette sulla soglia, da che una moltitudine di riflessi abbagliava la vista.
A perdita d’occhio s’apriva un labirinto e un’unica immagine si riproduceva di lato in lato, ed ella, avvolta in una fluente veste purpurea, dardeggiava più fortemente dei lumi e in ogni canto appariva sinuosa, ammaliante, tiranna. Dovunque era, in ogni angolo, come al meriggio i raggi furiosi sopra il mare, e i suoi occhi ovunque fissavano, e anche lui coglievano incauto, al laccio.
Si ritrasse, colpito, forse, dal suo ghigno beffardo, se pur non fosse una pura impressione, e, veloce, anelante, s’affrettò verso la sua stanza.


Le tenebre correvano sul mare di porpora, mentre ad occidente nubi insanguinate si accalcavano sopra l’abisso del sole fuggitivo, nella morte del giorno.
Lunghi manti oscuri, nere ali, si distendevano sovra strisce esili di fiamme che si disperdevano e si spegnevano fra le onde d’un azzurro cupo e freddo, fluitante su profondità insondabili. Il mare, denso e pigro e quasi viscoso come un vino forte, esalava a tratti riflessi violacei, respirando monotono.
Negli intervalli del flusso regolare, quale in un sonno senza sogni svanisce la coscienza del dormente, sgombra di pensieri inquieti, il silenzio accoglieva la terra, recandola nelle regioni del nulla.
Sognava.
Fluttuava la luce sotto gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa, che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle montagne.
Una vegetazione rigogliosa si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive del grande fiume.
Su per l’acqua veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni, deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.
Tra la vegetazione dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso, carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava per sempre un dio antico.
Al centro di quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta, rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e nerastro.
Un trono imponente, di pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava, le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale, illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del loto.
Il volto brunito era impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano, allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude, la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca, nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava, innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé, sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del sangue.
Ed ella s’entusiasmava nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella danza interminabile.
E il sangue stillante dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un fiume veemente, verso il mare murmureo.


Il mattino si annunciò col rombo del tuono. Un forte temporale avvolgeva il cielo e le folgori baluginavano qua e là scaricando la loro terribile potenza.
Egli aperse, sceso dal letto e vestitosi, la finestra della camera e volse lo sguardo verso il mare.
Sulla spiaggia accadeva qualcosa di strano.
Furiosamente al galoppo falciava le onde spumose sulla battigia argentea un cavallo nero, gigantesco, che al limite della terra e del mare nitrendo fuggiva.
Ebbe sentore del fluire dei propri pensieri, perciò Mauro uscì dalla villa e più rapido del vento, non sapeva dove, anch’egli fuggì.
Si ritrovò in un luogo oscuro, ignoto, di fronte a un edificio d’antica pietra, invaso dai rampicanti.
Avanzò lungo la sagoma scura, al mormorìo di un venticello fioco e maligno, sussurrante tra le branche cupe.
Le foglie frusciavano sotto i suoi passi, le foglie volitavano intorno secche e leggere come mani furtive, rapide, agili su magico strumento. Sentiva insieme alla sferza del vento la corsa dei suoi pensieri, quale un cocchio trascinato da furibondi cavalli. Dove procedeva ? Dove andava ? Si libravano sull’aura attorno a lui le ali degli albatri, si posavano sopra le mura in attesa, come arpie. La sagoma della luna ancora recava barlumi quasi lampi, illuminazioni improvvise, intuizioni in una lunga ricerca.
Ecco il portale. Ecco le fantastiche icone volgersi a lui per presentare i misteri dei mondi di là. Tre colpi echeggianti batté e s’aperse senza rumore quasi onda che si ritrae.
Egli entrò nella chiesa abbandonata. L’edificio diroccato era appena illuminato internamente. Tortuosi turbini arcavano sopra abissi verde lucenti, onde s’agitavano, fluitavano vapori, fluivano fumi d’incenso, fremevano braci, s’attorcevano lunghissime chiome nere che procombevano sopra rupi. Nella penombra la fantasia s’accendeva e scorgeva rocce schiumanti e muscose invase d’acque scure, cuposonanti, avvolgentesi in spire serpentine.
Non erano candele, né lampade, sibbene dèmoni lunghi come serpi, dalla capigliatura ardente e dagli occhi di bragia. L’altare maggiore splendeva a giorno, ad opera di enormi candelieri viventi, perché erano braccia che uscivano misteriosamente dal marmo e aprivano le mani accogliendo lingue di fuoco dai colori più vari. In mezzo all’altare era adagiato un gatto nero di proporzioni gigantesche, dalla coda ondeggiante e dagli occhi spaventosamente lucenti. La coda s’allungava nel buio oltre l’ara, in vortici, in tortuosi turbini.
I bacili dell’acqua lustrale erano fessi sull’orlo, ma pieni ormai d’acqua piovana e maculati dal muschio sul marmo opaco.
L’aria, greve, stagnava fra le colonne possenti che reggevano ancora in parte la volta, come grandi alberi la chioma nell’impenetrabile foresta. Dall’alto il crollo di qualche troppo ardita arcata lasciava filtrare una scìa di raggi che si fondevano in un lucore sulfureo con le fiammelle guizzanti del rito sabbatico.
Poté così notare alla sua sinistra un grande affresco, di tra le colonne, ora vivido stranamente, come appena dipinto.
All’estremità d’una radura sorgeva una roccia simile a un pulpito, circondata da quattro pini ardenti, la cui cima crepitava esalando un fumo acre e denso. Intorno il fuoco gettava sprazzi di luce che rivelavano una folla numerosa, nel cuore di quella selvaggia solitudine.
Un inno lento e solenne si levava da quell’adunanza misteriosa. Un canto malinconico, pio in apparenza per la musica conforme alle sacre cerimonie, si manifestava, man mano che se ne distinguevano le parole, un’orribile litania di bestemmie. E tra una strofa e l’altra, il coro muggiva bestialmente quasi il rintronare d’un organo potente, e un boato s’effondeva ed echeggiava per la selva fondendosi con il crosciare dei torrenti e l’ululato dei lupi.
E il fuoco che fremeva sopra la roccia s’aperse in una vampa del colore del sangue, e apparve un’immagine sinistra, l’ombra d’un uomo nerboruto e gigantesco.
E come dalle montagne s’ode il cupo rombo del tuono e i venti trascinano con sé il livido manto delle nubi che cala sulla pianura quale una valanga tumultuosa, così la sua voce cadeva dall’alto.

Mauro si destò improvvisamente dal sonno, sudato e tremante, e dopo alcuni minuti, quando scorse i primi raggi del sole penetrare nella stanza attraverso le fessure delle persiane, allora si rese conto che era stato tutto un sogno.

Allora affrontò la luce del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria di giochi femminili.
Più lontano gruppi di fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo cuore.
Continuò a camminare lungo la riva.
Un impulso insolito lo spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni, era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui, serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte, giovane e immortale.
E inerpicandosi per il sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini. Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia innitrendo.
La foresta si risvegliava. Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò. Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il volto?
Respirò profondamente. Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo, come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti, dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli uomini.
Potentemente e prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù, nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso, disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il cammino.
Più fitta era la vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della montagna.
E quando vi giunse, vide alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una ricchezza inattesa.
E il sole irradiava, splendido nella sua forza.
E a lui parve di trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita. Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del dio!
E guardò le nubi a occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
Ma tardo, al fine m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni, che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne anch’egli un puro elemento.


Nell’ombra smarrendosi, dissolvendosi, errava verso brume lontane, diffuse nelle vallate, sorgenti tra rocce livide, bramose di tempeste. Laggiù gracchiavano corvi, rumoreggiavano acque. Un sordo tonare saliva dal grembo della montagna. Sparsi fuochi levitavano sagome danzanti e minacciose, e strida acute aleggiavano di rapaci notturni.
Forse fughe tra rami contorti, nel folto dei boschi, forse rapite estasi ed inni di gioia selvaggia gareggiavano coi vagiti e i mugolii delle tenebre. Strane note d’ignoti strumenti scaturivano dal profondo, dalle macchie nere sotto i dirupi, dalle gole nascoste alla luna.
E il mare, selvaggio e crinito, urlava contro le rocce, laggiù nell’oscurità, a tratti inluminata dalla lampada notturna, quasi dietro le nubi frante sorgesse erta da un braccio misterioso. Urlava e sibilava, un tortuoso immane serpente verde, un drago dalla cresta irta e biancastra, fluente chioma incolta.
Nel vago lamento sorgevano, fra i vapori salsi, fuochi sulfurei, un corteo sinuoso saliva per il pendio, una nenia rotta da improvvisi silenzi avanzava, scaturita dal gorgo profondo, un mistico coro ascendeva dai meandri di una stigia palude. Nel folto dei canneti echeggiava un uluco maligno. E il grido si mesceva al roco afflato delle onde perse.
E perso egli era nell’ombra cupa del suo destino, un rigagnolo dilungantesi nel fango e tra le zolle cespose e pallide sotto la luna esangue. Forse anch’egli fatalmente volgeva a cogliere ingenuo i grani purpurei della punica mela e a inghiottirli, per sempre nell’abisso della propria condanna ?
Rispose un nero tuono, e fremette vacillando come all’aprirsi d’un baratro sotto di lui.
La nebbia ribolliva intorno alle rocce, i nembi sorgevano attorti e solidi sotto di lui, bianchi e sulfurei, quasi schiuma da frementi oceani del cupo inferno, i cui flutti s’infrangono sul lido vivido, sparso di sassi come teste tronche di dannati.

Gli parve che il suo corpo immoto si allontanasse alla deriva in una barca nera senza remi né vela, come una bara. La chiglia gorgogliava sovra l’elemento denso, una palude appena schiarita da una luce malata. Gli parve che quella palude non avesse fine.
E nera alitava la notte e la spuma e i vapori incalzavano i fianchi del legno, incubi e spettri sotto il volto incredulo della luna.
La luna si rifletteva, pallida come una donna isterica, sul deserto liquido. I venti del sud inaridivano i fiori dei giardini. Si sfibravano le corolle e marcivano le foglie nelle fontane occluse ed impure.
La luna fissava una desolazione di rocce e di zolle disseccate, una vampa mortale soffocava ogni anelito. Il suo volto rifletteva il pallore della luna, ove si specchiava sulla riva del mare una donna dai lunghi capelli, come manto di ombre. Un velo violetto incupiva le sue palpebre inferiori, la chioma le oscurava il collo, scendendo morbidamente sulle spalle. Le sue pupille parevano volte all’astro delle tenebre, un’atmosfera fosforica la cingeva in un abbraccio.
Come un fiore notturno la luna inebriava di sé il mare tumultuoso e vasto quanto il desiderio degli uomini, una malìa si librava sovra le spume.
Quel morbido candore, quale di pelle bianca e profumata, la incoronava. L’iride verde dei suoi occhi riluceva similmente al grembo ignoto delle foreste quando è violato dai raggi diurni o alla palude di terre nebbiose quando il sole rompe il cielo plumbeo o agli occhi verdi dei gatti quando gemono sedotti dalla luna.
Ella osservava la pianura del mare biancheggiare sotto la luna, specchio dello specchio del sole, e i suoi occhi come smeraldi erano accesi d’una luce misteriosa e in essi si protraeva la vita infinita di quell’immenso respiro glauco.
Era forse un angelo sorto dalle acque, che ha conosciuto i segreti della tomba e ha dimorato in mari profondi insieme al suo giorno tramontato e i suoi occhi sono colmi, come abissi, di tutte le distruzioni del mondo e le sue palpebre sono stanche di tutte le passioni e le bellezze morte, ed ella è antica più delle rupi sulle quali posa il suo piede ?
Aveva il suo piede sfiorato i gigli delle valli, e aveva deterso il suo corpo avvolta nelle correnti generate senza posa dalle montagne e si era coricata sovra i fiori anelanti dall’oscurità della terra, e la sua mano aveva rapito i frutti dalla vita dei rami, e la sua bocca aveva morso la loro ricchezza.
Aveva il suo piede varcato la soglia della morte e aveva condotto la barca delle anime sopra il mare tinto di sangue ad un’isola senza nome, corsa dallo strepito degli avvoltoi. E la chiglia solcava quel mare violaceo quale sangue corrotto, e i dannati gemevano, naufraghi nell’ombra. E imploravano, e imprecavano, dispersi fra i gorghi, e chiamavano inutilmente.
Era la luna che l’aveva resa così pallida, un sentore divino l’avviluppava in un vapore sottile. Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri. Nella notte profonda il suo respiro era il gemito delle fonti nei boschi e il pianto della brina sull’erba dei maggesi, e il mormorio delle acque e dei venti per le giogaie, e una fuga nelle nebbie sovra i dirupi.
Aveva ella il potere di suscitare le tempeste, di vagare invisibile per i villaggi, di mutarsi nelle forme degli animali.
Come luna tra rocce un sorriso irradiava di lontananze ignote, chinando la sua fronte carca di purezza notturna. Di mitici pallori riviveva tutte le primavere spente, Regina adolescente, taciturna e spersa nell’oceano dei sogni.
Così a lui apparve nell’alone della luna, cinta dall’astro quasi da lei ricevesse la luce.
Una barca lunga e nera, ombra sulle acque, si avvicinò alla riva. Ed egli era ormai pronto al varco. Come dunque ebbe i piedi sul legno, la barca scivolò via per le profondità, quale una serpe d’acqua, fendendo le onde con un lieve sibilo.
E navigava lontano, nel tempo e nello spazio.



sabato 18 ottobre 2014

Misandra, cap. 7

Il giorno dopo si recò nella vicina città, non molto lontano, presso il mare. Le strade erano colme di vetture rombanti, di autotreni, esalanti vapori sotto i colonnati di palme.
Quando si era svegliato il sole l’aveva accolto in un alone d’oro. La persiana non era stata chiusa e il mattino era liberamente entrato. Ed ora era come se quel corteo di luce lo accompagnasse ancora, nonostante non fosse più solo.
Un corteo di luminose immagini, miste ai sogni dell’alba, gli era intorno, di sogni giovanili, di ricordi. Una pineta, i prati, una fanciulla bionda al centro della compagnia. Erano gli ultimi giorni di scuola e la domenica anticipava ormai le prossime vacanze estive. Quella fanciulla un tempo gli piaceva, ma ora il suo viso non era che una vaga rimembranza, una luce dorata e rosea, un fluire biondo, un ruscello fiottante, limpido, su sassi d’argento, fra cespi di margherite.
Ora il sole lo accompagnava tra la polvere e i fumi della strada.
Ma la voce lontana eppure intima lo chiamava ancora, in un rigoglio di verdi distese e di alti rami inondati di luce, una musica potente e profonda che lo invadeva in un dolce brivido, remota malìa di divinità silvane, stormire di fronde nel silenzio, sapido mistero del sottobosco.
Ed ora scorgeva attorno le vetture sfrecciare, fastidiose, come le rondini in un volo infesto sfiorano saettando il capo del viandante, a difesa del nido vicino, con sibilo molesto.
Nell’ansia mattutina era assai più invadente il rumore dei motori, una minaccia costante, il costante monito del tempo che fugge e che vola verso un’ambigua meta. Dove, dove ?
Le strade si popolavano lentamente. I cittadini uscivano dai portoni con gesti lenti, assonnati. Piano, piano il formicolìo cresceva e avrebbe raggiunto l’apice a mezzogiorno. Le saracinesche dei negozi stridendo schiudevano al mondo le merci variopinte, come ogni giorno la città si rimetteva in moto e le arterie che l’attraversavano si gonfiavano del flusso di vetture, camions, autobus e di passanti frettolosi.
La città nel chiasso e nella polvere riprendeva la sua vita, fatta di traffici, di orari d’ufficio, di noiose lezioni a scuola, di code agli sportelli pubblici, di suoni di sirene e soprattutto del volo dei piccioni e dei gabbiani che si posavano sui camini e sugli alberi e sui lampioni, lasciandovi le reliquie corrosive della loro presenza.
La città come una grassa e giovane donna pubblica si svegliava. I marciapiedi ogni giorno dovevano essere spazzati, migliaia di persone si agitavano correndo di qua e di là.
La via che dalla piazza centrale entrava nella città vecchia era interdetta alle vetture e già popolata di venditori ambulanti negri che cercavano di attirare i passanti con il loro eloquio stentato. Un profumo di pollame, di macelleria, di salumi impregnava l’aria, la gente saliva e scendeva per la strada inumidita dall’acqua, gettata davanti all’ingresso dei negozi per la pulizia del mattino.
Verso le undici e il mezzodì il traffico avrebbe raggiunto il culmine per trasformarsi nel pomeriggio in una sorta di sfilata dei perdigiorno. Allora la via sottostante, la più elegante e quella che annoverava i cinema e teatri e i negozi di lusso, si sarebbe colmata di una gioventù spensierata e chiassosa, spesso volgare, che l’avrebbe percorsa in lungo e in largo più volte alla ricerca di futili passioncelle.
Un senso di noia profonda aleggiava sulla città. Intanto s’udiva verso il porto il rauco vociare marino diventare sempre più forte. Contro il molo le onde si scagliavano con furia schiantandosi in mille scintille di spuma e il vento fischiava isterico sovra il mare rabbioso.
Gruppi di gabbiani volitavano sulla città, sopra i cui tetti avevano ormai da tempo fatto il nido. In basso la turba transitava frenetica e rumorosa recandosi al mercato annonario, entrando per le viuzze laterali, in gran fretta come sempre, punta dall’assillo fastidioso e tenace.
Ma il mare urlava oltre il molo, il mare cui non interessano le vicende degli uomini, e inviava legioni di ondate a sfracellarsi contro gli scogli, nel tentativo, per ora vano, di strappare alla terra un po’ del suo dominio.



Sentiva nel sole dell’estate la pienezza della vita, ricordava il riverbero dei raggi sulle onde quando immerso nel mare scorgeva la riva e le case sulle colline, biancheggianti tra il verde dei giardini, ricordava se stesso fra le piante, dedito alla cura dei campi, mentre zappava e, ogni tanto sostando, aspirava l’aria intrisa d’aromi e d’esali erbacei, allora era una cosa sola con la natura, non era più se stesso, ma il puro e semplice atto, il puro e semplice fluire.
E come quando ascendeva l’erta della montagna, aspra, assolata, battuta dal vento, sentiva nella fatica il suo respiro venir più calmo, per contrasto, ma era l’armonia che giungeva quale onda placantesi sulla riva, e allora gli pareva davvero di cogliere il soffio vitale.
E fiottavano innanzi gli anni dell’adolescenza, immagini rapide e guizzanti ormai. Ma allora, seppure inconsciamente, egli aveva colto se stesso. E ricordava appunto se stesso quale un occhio aperto sullo stupore del mondo, e intimidito dinanzi all’incomprensibilità del mondo; ora comprendeva quella fortuna. La vita è veramente meravigliosa se non può neppure essere colta nei suoi istanti d’ogni giorno, né nei suoi sogni, né nei suoi amori, né nella sua sconfinata bellezza, come Misandra quando gli appariva ai raggi diurni, sulla riva del mare, e i suoi capelli rilucevano quali onde pervase dal sole e i suoi occhi irradiavano quali gemme penetrate di splendore. E il suo sorriso era la brezza e il tepore del sonno.
Nell’alto volitavano nubi leggere, ed egli pensava alla giovinezza fugace, adolescente piena di avvenenza, o come a ragazzi vivaci le cui parole corrono nell’aria. La giovinezza fuggiva e tutto il passato si sarebbe risolto in un pallido sogno. Il succo della vita è il rimpianto, per ciò che è stato e non è stato, comunque il rimpianto.
In un gemito di rivi montani sentì fluire il passato fra sassi e sponde erbose e fiorite, nel profumo dei verdi pascoli, quando si sono dissolti ormai le nevi e i ghiacci della morte.
E la meta di quel ruscello sarebbe stato il mare, il mare infinito e libero, il mare tremendo e bellissimo.
Ed egli era una goccia del vasto oceano, che si sarebbe effusa e dissolta nel vasto oceano.



E nella vasta calma del pomeriggio estivo entrò nel salottino immerso nella penombra, e, seduto sul divano, osservava lentamente i quadretti di varia foggia appesi alle pareti, gli idillii di lontani boschi, verdi di fronde, bagnati da pigri fiumi, le rame oscillanti alla brezza dei mattini, nutrite di morbida luce, i volti umani di remote contrade, perdute nell’occidente africano, i vivi colori della selvaggina stesa su vassoi di vetro smeraldino, e sognava nella camera dei sogni, in quel salottino a lui tanto familiare e, pure, sempre inconsueto e colmo di strane memorie. Una realtà di sogni era la sua, una vita sognata.
E gli giunse alla mente, inatteso, un suo vecchio e ingenuo sonetto degli anni di gioventù, e lasciò che la memoria gli ripetesse :

La divina foresta spessa e viva
mormoreggiava di tra i raggi lenta
e d’ogni fronda, d’ogni fiore auliva
dalla cima dorata all’erba spenta,

e il ruscello tortuoso s’insinuava
quale magica serpe fra giunchiglie;
su meandri azzurri e verdi arcava
gotica volta in corolle vermiglie.

Poi correva giù, per le vallate,
e si perdeva fra i massi, rigirava
ancor schiumante in onde intorbidate.

E nella bruma della piana immensa
poi si smarriva fra la messe densa,
e nell’ignota e oscura via entrava. “


Una vita di sogni è una giovinezza perpetua. Così era per lui, come un’illusione non mai compresa non mai negata, come un meraviglioso miraggio che permane nel deserto della vita.

L’occhio dell’orologio a muro lo fissava inesorabile. Il tempo s’alternava come il respiro regolare d’un dormente. La vita fuggiva come un ruscello fiottante tra i sassi levigati. Presto sarebbe calata la sera e un nuovo mondo di ombre avrebbe abitato la terra. La luna col suo corteggio di sogni era prossima a vivere la vita riflessa del giorno come la luce del sole, e il sonno s’accingeva a disserrare le porte del suo regno sconfinato.
E così sul mare la stirpe infinita delle onde abbracciava la luce nel commiato del sole oltre l’orizzonte, e le nubi come cenere calda parevano a poco a poco dileguarsi nel buio fra guizzi rossastri, e le rupi lontane si ammantavano d’ombre.

E venne sulle ali dell’aria, dal campanile sulla collina, il tocco dell’ora, e fu necessario avviarsi verso la sala ove era atteso.
Una lunga tavola lucente, immersa in un fiume di luce, era al centro e, intorno, antichi e pesanti mobili pareva racchiudessero porcellane e cristalli, certo ormai da molto tempo non più riesumati.
Il conte lo invitò a sedersi e cominciò a parlare del più e del meno, mentre Misandra sorseggiava del vino colore del fuoco e i suoi occhi rilucevano dei bagliori del tramonto.
Come il giorno precedente Mauro rimase colpito dal suo sguardo, dalla sfumatura d’ironia crudele agli angoli degli occhi e della bocca. Attirava ciononostante e prometteva voluttà misteriose e inenarrabili, e il cuore umano certo si sarebbe totalmente perduto se avesse soltanto osato abbandonarsi all’incanto di quel viso straordinario.
Così restava innanzi a lei stupito e muto, quale fanciullo cui per la prima volta si sveli ai raggi del giorno l’inattesa forma d’una giovane donna, ed egli sta silente ed estatico, similmente la guardava Mauro e non riusciva a emanciparsi da quel volto.
Improvvisamente entrò nella stanza una figura leggera, avvicinandosi sveltamente a Misandra, mentre nel giardino adiacente si udivano voci rincorrersi tra le ombre.
Vide una fanciulla di circa quindici anni, la più graziosa e delicata che mai fosse possibile incontrare; i suoi occhi appena inumiditi dalla malinconia gli parvero d’un languore estremo; lunghi capelli biondi fluttuavano sulle spalle; la bocca era fresca e vermiglia; ella era così seducente che non si poteva resistere alla sua presenza senza ammirarla silenti.
Misandra le fece mille complimenti, accarezzandola ripetutamente, fino a che abbandonò il marito e Mauro, salutandoli soavemente, e presa per mano la bambina, quasi aleggiando sovra i gradini dello scalone, scomparve alla vista chiudendosi nel buio delle stanze superiori.
Ma il giardino era in preda a volteggianti echi di fanciulle. Si inseguivano, giocando, fra le aiuole, per i viali alberati, ed era come una seduzione di sirene il vociare argentino che brillava insieme agli ultimi raggi nell’aria.
Misandra, quale misteriosa Circe, s’era dileguata ai loro sguardi, ma la sua presenza comunque aleggiava tra l’abbondanza dei fiori, degli odori e dei frutti ormai esausta.
Uno sgomento aveva sorpreso Mauro alla festa, la volubilità, i moti fuggenti degli occhi di Misandra lo avevano colmato d’incertezza. Ella mentiva. E il suo passo nelle stanze della casa era l’ombra della sera che avvolge lentamente e nasconde ogni parvenza e copre ogni rivelazione.
Ma era l’ombra della sera oppur l’ombra della tempesta ? Il fruscìo della sua veste era ora il roco fremere del vento, e il manto della sua figura annunciava il corteo di nubi minacciose.
Così era entrata, come nebbia tra forre d’alte e cupe montagne ove crescono abeti sull’orlo dei precipizi.















lunedì 13 ottobre 2014

Misandra, cap. 6

Il conte aveva deciso di festeggiare il compleanno di Misandra. Aveva così organizzato un grande ricevimento e dato ordine di non badare a spese e di allestire in tutto l’edificio un apparato magnifico e sontuoso.
Pareva che una strana frenesìa lo possedesse di scialacquare le sue ultime sostanze. In effetti la villa sembrava invasa dal corteo di Bacco e la musica delle danze risuonava entro le mura e fuori del giardino si effondeva sul mare e sovra la selva addormentata.
Le luci delle finestre e dei lampioni erano i fuochi notturni di misteriosi riti e solo l’alta luna assisteva conscia e indifferente, pallida del suo statuario pallore.
Mauro s’aggirava sbigottito tra la folla che aveva invaso il palazzo solitario e che rumoreggiava fastidiosamente tra le volte agili del salone e correva dietro chimere amorose nei viali del parco.
La musica di Strauss, banalissima, accompagnava quella frenesìa di godimento, che s’inebetiva di champagne e di pasticcini.
Mauro trascorreva nel fiume ignoto delle chiacchiere, delle occhiate, delle risa convulse, delle barzellette, delle maldicenze, tra quella moltitudine congestionata, dallo sguardo scintillante e dalle pupille spalancate.
Passava come una foglia secca sull’acqua torbida d’un torrente, ignaro e ignorato, anonimo. Gli altri non lo notavano infatti, lo sfioravano, gli ostacolavano la via, gliela tagliavano e per poco non lo urtavano, quasi che egli non esistesse neppure.
Egli allora s’affacciò alla finestra e guardò nel giardino.
Al centro di esso un’antica fontana di marmo, segnata dal tempo, lasciava scaturire il suo mormorìo diffuso all’intorno quasi una melodia misteriosa e leggiadra, come la veste fluttuante d’una ninfa che corresse a celarsi nei boschi profondi. Attorno al bacino marmoreo crescevano piante diverse, dalle foglie gigantesche e dai fiori magnifici e sontuosi. C’era un arbusto, in un vaso d’alabastro, che offriva alla vista una profusione di fiori purpurei e pareva scintillare d’un alone di magici raggi. Tutto il suolo era coverto di rami e di foglie, di erbe sconosciute e floride e ridenti in un intrico di fogliame lussureggiante.
E allora scorse Misandra. Camminava lentamente nel giardino, accarezzando con la veste sollevata dal venticello le piante e i fiori. Tra i rami degli alberi la sua capigliatura era una fronda copiosa e scintillante che ondeggiava al respiro della primavera. La sua gonna scarlatta si confondeva coi cespugli delle rose rampicanti e poi ella appariva a mezzo busto fra l’orgoglio delle ortensie, come ninfa in una visione di poeta.
Allora veramente pensò d’essere giunto in un mondo meraviglioso e incantato, che la sua fantasia aveva sempre evocato nei lunghi momenti d’ozio degli inverni trascorsi. Fioriva la primavera e rinasceva quel mondo.

Prima di concedersi ai molti, Misandra aveva intrattenuto i più intimi. Ella, seduta innanzi al caminetto, aveva letto il racconto di Eichendorff, e aveva così creato un’atmosfera di malìa indicibile. Un brivido, in verità, aveva attraversato Mauro. Egli aveva riconosciuto la singolare somiglianza del suo destino con il personaggio di Raimondo.
Perduto, tutto è perduto ! “ Ripeteva anch’egli a se stesso. In effetti anche per lui gli anni della giovinezza erano trascorsi velocemente come in un oscuro sogno.
E allora lo invase un senso di infelicità profonda, irrevocabile, senza appello, la sensazione che la vita fosse per lui un buio carcere, ove dovesse trascorrere un’esistenza priva di luce, priva di gioia. Lo catturò un sentimento di solitudine senza conforto, di abbandono. E come Misandra l’aveva respinto a suo tempo, così lo respingeva per sempre la vita.
Ma egli comprendeva anche che il volto impassibile di Misandra, i suoi celesti occhi quali gelide acque d’oceano, fissandolo mentre ella raccontava, simboleggiavano per lui la vita stessa. Parevano dirgli : “ Non sai che l’esistenza stessa è abbandono, desolazione e rovina ? Non sai che Amore si compiace del tormento e che il desiderio è una tabe infame ? Ma che speri, che hai sperato ? Illuso ! La felicità non esiste e l’uomo che la cerca piangerà le lacrime amare della disperazione. “
La vita fuggiva. Dalla finestra egli scorgeva i raggi che attraversavano i rami degli alberi, nel giardino pervaso dalla luce stanca del crepuscolo. E un lembo di piana marina, calmo e desolato, taceva presso gli scogli dell’alto dorso del promontorio oscuro.
La vita fuggiva. Insieme al mormorìo delle piante vetuste nella brezza leggera che di quando in quando faceva tremolare le foglie, anche nel suo cuore sentiva risonare un murmure roco, quasi un’eco del sordo flusso del sangue. Correvano gli attimi via assieme alla luce sempre più fievole e si sperdevano le foglie trascinate dal respiro notturno, via.
Eppure egli provava inesplicabilmente, proprio nell’attimo stesso in cui coglieva la vanità delle vanità, provava un senso di pace, un invito certo alla quiete notturna, eppure non al semplice sonno. Era un conforto, quasi, quel pensiero vago che gli si formava nella mente; proprio all’annuncio della morte del giorno nella corsa del tempo che non ha requie, avvertiva la presenza dell’eterno.
E udì una musica fluire tenue nella stanza ed empirla con la sua malìa. Misandra suonava al pianoforte alcuni brani dal concerto n. 21 di Mozart.
E lo prese una dolce sensazione d’abbandono. Gli pareva che la sua intima essenza unendosi a quelle note incantate si dissolvesse in onde trasparenti e fugaci fantasmi, o nei vortici di fumo dei sigari, accesi dal conte e da qualche ospite. Gli pareva di fuggire e di perdersi nei meandri della memoria o nei labirinti del desiderio d’un tempo. E come scorse la luna nella vasta notte, sola nel mare delle tenebre, lo morse la consapevolezza amara della propria solitudine senza rimedio, della disperazione del suo amore proibito e negato sin dalla nascita.
Il suo volto s’irrigidì, non volle esprimere più alcun sentimento.
E, come un tempo, amare lacrime salirono dal profondo del cuore. Amare lacrime come un tempo, quando, nell’estate dopo l’ultimo anno di liceo, sgomento innanzi al vuoto del futuro e al deserto del passato, mentre se ne stava, momentaneamente ospite, nella villa di Misandra, seduto sopra un divano a baldacchino posto nel mezzo del giardino rigoglioso, amare lacrime aveva trattenuto a stento, colpito da un senso d’abbandono senza pari, di desolazione senza rimedio, reggendo tra le mani il volume dell’oscuro irlandese, che aveva voluto rinnovare le peripezie d’Ulisse. E, come allora, la memoria tenera e lenta lo pervase del suo languore, lo adagiò nel vago sognare un sogno lontano.
E la melodìa interiore, figlia della rimembranza di molte musiche più volte ascoltate con rapimento ed estasi, lo condusse verso gli anni della sua prima giovinezza, quando, nell’atmosfera di una biblioteca, leggeva libri di poesie, avvolto dalla luce violacea e sensuale della sera che si faceva innanzi, speranza tentatrice, quasi un miraggio di donna, sorridente nell’ombra.

Il convito notturno iniziò tra lo scintillìo dei vassoi e le portate rigogliose e variegate come fioriture.
Mentre i commensali bevevano e mangiavano con ostentazione di gaudio, meccanicamente, Mauro osservava Misandra, la quale sorseggiava a tratti, pigramente, il vino rosso nel calice. Oh, ella beveva il sangue della vita ! Così gli pareva, che quella bevanda fosse sangue, scaturito con forza dalle vene aperte, caldo sangue. E le sue labbra violacee lo bevevano con lentezza, lo assaporavano con una voluttà amara, crudele. Gli angoli delle labbra erano appena convessi, gli angoli esterni delle palpebre, ma solo per un istante, aggrinzivano appena. Gli occhi grandi irradiavano una luce febbrile, le pupille erano un cielo accecante. Ella arcuava un poco la nuca, sì che i capelli cadevano sulle spalle, risaltanti dalla scollatura dell’abito, con un’onda di color cupo, scintillante alla luce dei candelabri in fili d’oro, quali sul mare crespo i raggi già declinanti dell’astro fuggente.
I suoi occhi, le sue labbra, i suoi capelli fluttuanti risaltavano inebriando sulla veste rossa, dall’ampia scollatura, una veste come una fiamma che l’avvolgesse, ne annunziava i lineamenti e il disegno mirabile della figura elegante, nobile, maestosa.

Il silenzio, fuori, si stendeva sconfinato sulle colline selvose, mescendosi agli impenetrabili brani di tenebra nel folto delle valli, nell’insondabile buio del mare. Era un’orda brulicante di lupi famelici, un’onda baluginante d’occhi crudeli.
Avesse potuto cogliere in quel momento il mistero profondo della luna pallida e lucente sul mare come una regina sovra il suo magico trono, cosciente di tutti gli incanti ch’effonde sopra le onde nere, e rappresentarne la malìa da pittore scaltrito ad ogni sfumatura. Avesse potuto cogliere il bagliore dei suoi occhi e chiuderlo come una gemma in un castone prezioso e sentire fra le dita la fragranza dei capelli e avere le tempie ebbre del loro profumo !
Mentre il convito si quietava e s’allontanavano i commensali in un’altra stanza e la penombra si stendeva sovra il mobilio non più lucente, egli si dileguava, percorreva il lungo corridoio, fuggiva nell’ombra e intorno a lui turbinavano i lumi dei candelabri, egli s’immergeva nella notte oscura.
Richiamato da un canto lontano, dal canto malinconico della luna alta nel cielo, si precipitava nei viali del giardino invaso dalla brezza, respirava profondamente, ansimava, guardava le stelle, estatico e atterrito.
E il canto lunare era sempre più forte, stringeva il suo cuore, lo avvolgeva nella spirale. Ah, non finiva, non finiva mai !
Come il fluido sonoro delle danze, percepito in lontananza, lo attrasse, egli inviò se stesso colà, ove meno avrebbe voluto, e s’immise nella luce dolciastra.

Mauro le si avvicinò lentamente, mentre la musica da ballo si diffondeva sempre più imperiosa, e, senza quasi ch’ella se ne accorgesse, le prese la mano e la strinse nella sua con forza. Ella non si mosse, stupita, e pervasa dal fluido invisibile del desiderio, ma poi, vinta dal dolore della stretta che si faceva a poco a poco più intensa, ritrasse il braccio con lievissimo disappunto, che soltanto si percepiva dallo sguardo smarrito, e volse a Mauro un’occhiata interrogativa, colma di dubbi e di domande senza risposta.
E mentre la musica intorno vibrava, volteggiava nell’aria calda della festa, il pendolo ondeggiava scandendo il ritmo del tempo e le ore procedevano senza indugio verso la fine. Come un esercito inesorabile le ore avanzavano, parevano circondare gli ospiti, ormai impauriti, li assalivano, li coglievano alla gola col cappio invisibile. Momentaneamente ammutolì l’orchestrina e la musica vanì vaporosamente nel fumo delle candele. Le gambe divennero di pietra e il tempo parve fermarsi.
Oltre l’ampia vetrata, lievemente socchiusa, la grande sagoma nera del mare rumoreggiava contro la scogliera. S’avviluppavano le onde e a tratti scorgevasi la cresta spumosa al bagliore della luce lunare come di prodigiosi cavalli neri dalla bianca criniera. Rollava, rombava, rampava e si tendeva sul lido con le sue spire, friggeva la spuma sulla sabbia e succhiata svaniva, smuovendo crepitanti i granelli quasi scintille.
Sulla collina, a destra del lido, cerea al lucore notturno, come una statua di nudo marmo, posava l’antica abbazia cinta da resti di un borgo, come spezzate vertebre accanto a lunghe ossa eburnee. Sagome oscillanti di fusti nati sulle rovine si stagliavano sulle mura quasi un teatro d’ombre. Ma sulla sommità d’un torrione una cupola ingannava a quella luce e sembrava un gigantesco teschio che volgesse il suo ghigno ai vivi, ancora immersi nell’illusione.
E fu allora che il cumulo delle ansie nell’animo suo precipitò entro di lui come un masso improvvisamente staccatosi dalla rupe, il male nero lo soffocò e i suoi occhi si gonfiarono quasi offesi da un fumo denso e maligno. Voleva liberarsene e non poteva. La maledizione del suo essere lo schiacciava, lo distruggeva. Il male innato pareva invincibile.
Si volse e pose attenzione alla ripresa della danza. La sala era tutta un seguito di vortici. Dame e cavalieri, cavalieri e dame; ma non erano dame, erano idoli dorati, scintillanti di gemme e di seta e pure innalzate sull’altare, anzi sul trono. Dominavano la scena e gli altri erano dominati. Sul loro viso non si scorgeva che un solo pensiero, desiderio e sentimento : dominare e stringere nelle spire del possesso. Erano dame ? Non erano neppure donne, in verità. Il volto era duro, tirato, segnato da rughe premature, legnoso. Il profilo marcato, gli occhi scintillanti e maligni, la bocca amara. Pareva che al lembo della loro veste fluttuante nel movimento fossero aggrappate, anzi agganciate le male grazie in uno strascico di pervertita bramosìa e di livore, frutto dell’invidia. Il loro anelito, nel sollevarsi dei petti, emanava un efflusso malsano, che stordiva. I cavalieri, allucinati, parevano girare su se stessi come trottole.
Ed egli guardò di nuovo verso la finestra.
Fuori non s’udiva più il minimo rumore. Non era altro che buio. Niente altro. Il nulla.




domenica 12 ottobre 2014

Misandra, cap. 5

Il conte Oberto lo introdusse nella biblioteca. Era una stanza vasta, di forma rettangolare, altissima, tanto che nella penombra non si discerneva il soffitto. I lati erano ingombri di pesanti armadii, in legno nero, colmi di antichi volumi. Tra un armadio e l’altro c’erano grandi cornici dalla doratura brunita dagli anni, contenenti le immagini degli avi. I ritratti erano incupiti dalle muffe e si distinguevano appena i volti, ma in tutti erano visibili gli occhi penetranti, le cui pupille nere risaltavano nel biancore stranamente conservatosi fra le palpebre grigiastre. Dei candelabri, imponenti, di ferro lavorato, s’ergevano intorno a un tavolo massiccio, posto al centro del vano, sul quale stavano accatastati libri di diverso formato, rilegati in cuoio e in pergamena, alcuni di essi aperti e collocati su forti leggii. I ceri diffondevano una luce appena sufficiente a illuminare quegli scartafacci polverosi e ammucchiati disordinatamente. Un senso d’oblìo ispirava l’immobilità della fiammella, quasi si fosse in una chiesa silenziosa o in un santuario immoto, senza fedeli.
Il conte lo guardava con un sorriso enigmatico. Pareva quasi l’atteggiamento d’uno studioso dinanzi ad un interessante fenomeno o ad un oggetto di particolare valore. E tuttavia lo sguardo era distaccato, privo di emozione, decisamente freddo.
Un libro era aperto sul leggìo. Erano le “ Opere e giorni “ di Esiodo. Nella pagina a fronte del testo greco erano sottolineati i versi seguenti :
“… quindi la voce
le dette il nunzio divino, nominò la donna
Pandora, ché tutti gli aventi dimora in Olimpo
le donarono dono, pena agli uomini affaticati. “
E mentre il conte parlava, il suo occhio incuriosito veniva raggiunto dai raggi della luna sorgente, nella notte della stanza. L’ampia vetrata azzurra era simile ad un circoscritto specchio d’acqua, entro il quale, per puro caso, si contemplasse il volto stupito del satellite deserto, o, più poeticamente, il pallido viso di Diana sognante. E quel lucore turchino s’adagiava mollemente sui volumi, inargentandone la doratura del dorso, o illustrando le pagine aperte d’indecifrabili ombreggiature. Pareva che tra una lettera e l’altra s’aggirassero arcani inconoscibili siccome fughe d’ignoti sicarii per le vie oscure delle città deserte, che, per certo, illuminava vagamente quella medesima lampada tenue e reticente testimone. Cupi lati ed angoli di case lanciavano le ombre segrete a perdersi nella notte, lontano, nella città, i cui fuochi pari a punti ardenti pullulavano lungo il golfo.
E come laggiù sembrava che anche qui echeggiasse, sebbene attutito dalla distanza e dalle mura, il rantolo marino, che forse ora si fondeva in tutt’uno col respirare degli uomini, più stanco nella fine del giorno.
Il conte pose termine al suo discorso. Mauro non aveva inteso una parola, poi che la sua mente aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma questa volta dovette per forza prestare attenzione perché il suo ospite lo prese sottobraccio con una discreta energia e, aperta una porta, che prima non aveva notato, lo introdusse in un vano buio donde una scala a chiocciola scendeva nella più completa oscurità.
Il conte accese una torcia e fece da guida.
E così dalla torre ove era possibile spingere lo sguardo sulla vasta campagna in cui le sagome degli alberi fremevano alla gelida brezza, e il cielo bluastro svelava la luna e le stelle e un senso di potenza arcana s’impadroniva del cuore degli uomini, degli uomini che s’affrettavano verso casa quasi timorosi dell’oscurità, mentre le stanze s’illuminavano e s’udiva un canto lontano, e solo un lembo estremo di sole ancora appariva quale favilla crepitante nella cenere che lentamente s’estingue, così dalla torre scendevano lentamente entro le ombre della terra.
Dopo molti gradini giunsero davanti ad una porta. Il conte l’aperse ed entrarono in una camera bassa, senza mobilia.
La luce della torcia pose in risalto immediatamente di fronte a loro sulla parete una lunga crisalide colore del sangue, dal volto di donna, circondata da un’aureola di raggi rossi. Sulle altre pareti dei medaglioni in bronzo rappresentavano teste di animali fantastici, il cui nome era a Mauro ignoto.
L’alto sarcofago era di legno smaltato del tutto simile ai sarcofagi egizii e la testa di donna splendeva nel luccichìo dell’ebano e dell’oro. I grandi occhi oblunghi e bianchi fissavano Mauro con le immote pupille nere come la notte. Egli sorpreso si volse istintivamente altrove, ma lo sguardo si rifletté improvviso in uno specchio ovale che giungeva dal pavimento sino al soffitto, entro una cornice dorata.
La sua stessa figura lo intimorì, poi che gli parve minacciosa e cupa quale quella d’un démone.
Stornò subito la vista e andò verso l’ingresso dove ancora sostava la sua guida. Essa abbozzò un sorriso, e però s’irrigidì quasi immediatamente. Nella penombra, illuminato direttamente dalla torcia, il profilo del conte dava l’impressione del volto d’un idolo di pietra. I tratti, scarni e marcati, parevano scolpiti nel marmo, e la luce li investiva esaltandone il pallore.
Si allontanarono percorrendo un lungo corridoio scarsamente illuminato. Le loro ombre s’allungavano sulle pareti, le sagome delle teste si fondevano nell’oscurità. Mauro seguiva il conte Oberto ed inspiegabilmente percepiva ed assorbiva una vaga sensazione di freddo che propagandosi nelle membra gli faceva crescere dentro un sentimento di collera.
Uscirono infine su una vasta terrazza dove era disposto un telescopio per osservare le stelle, ed altri oggetti d’uso sconosciuto.
Lontano le onde argentine si riversavano monotone sul lido, mormorando.
Nel buio ebbe la percezione vaga, insondabile, della propria esistenza. Con terrore ne accoglieva l’idea. Esisteva. Era un privilegio o una condanna ? Il tempo scorreva, era trascorso, e già non si sentiva più, egli era vissuto. Ah, era veramente come quel buio anche lui ? Sarebbe stato forse un giorno una notte fredda, senza stelle ?
Ma, appena presa quella boccata d’aria, gli parve che il conte lo conducesse ancora per altri lunghi corridoi entro una vasta cavità della terra. Gli mostrò in ampie sale innumerevoli scaffali, colmi d’antichi libri, i cui titoli arcani lo lasciarono confuso, stupefatto e smarrito in una crescente vertigine. L’uomo parlava, sibilava, tuonava, il suo eloquio sembrava un fiume vorticoso e che rombasse intorno a lui assordandolo, nelle stanze immense.

E quel fiume si perse nella notte, confluì nel silente mare stellato, ondeggiando nelle tenebre misteriose.
E si perse sovra il fiume scintillante il suo pensiero, si smarriva nei meandri vorticosi, si librava sopra i flutti, alato e candido uccello marino. Verso altri lidi, verso altre terre lontane, anelava all’al di là, laggiù ove l’oscuro orizzonte procombeva nelle infinite solitudini.
Domani, un altro giorno, un altro giorno ancora. Fino a quando ?

Fino a quando il sole non si leverà alto nel cielo e l’uomo sulla cima della montagna aspetterà d’essere inondato dalla sua luce. Allora, volto lo sguardo diritto verso di esso, sentirà l’anima irraggiare dalle membra e fondersi in Lui in un abbraccio perenne.
Sentirà i Suoi raggi attraverso il suo corpo e il suo corpo diventare i Suoi raggi e lo sguardo levato al cielo librarsi nell’alto, libero e senza limiti planare nell’azzurro, calmo e veloce come un grande alato bianco che s’innalza nei vortici radiosi.






sabato 11 ottobre 2014

Misandra, cap. 4

Misandra se ne stava sotto un vasto pino. Il venticello proveniente dal mare ne faceva stormire le fronde. I raggi trapelavano fra i rami, che rilucevano nel mezzogiorno.
Come già in un tempo lontano ella lo aveva atteso sotto quelle foglie tremule in autunno, così ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a lei potesse meglio ricordare. Ricordare quegli anni trascorsi quasi in un eterno oblio. Rammentava il canto dolce, ora fievole ora intenso, librarsi in invisibili volute dalla sua pura bocca. E al suono d’una chitarra si disperdevano le note e la voce nella campagna, alla sera, quando soltanto un lembo di luce purpurea aleggiava stanco sopra l’orizzonte del mare. “ O dove sei, incanto di gioventù, sorriso perduto per sempre ? “ diceva egli a se stesso.
E ora a lui si volgeva, benevola, e lo guardava sorridendo : “ Sono contenta. Finalmente sei venuto, dopo tanto tempo. Io ti ho sempre atteso, con ansia in certi momenti, ma in fondo al mio cuore non dubitavo di te, non potevo dubitare. “ Così diceva, e lo fissava nel volto, intensamente. Era pallida, ed avvolta nella luminosità del meriggio pareva emanare una luce propria. I lunghi capelli le discendevano sulle spalle, fulvi come i raggi dei tramonti, e gli occhi le splendevano, vivi e strani, indefinibili, poi che ne variava il colore a seconda dell’ombra o del chiarore, sì che andavano, dalla pupilla all’estremo arco dell’iride, dal giallo oro al verde luminoso, al grigio azzurro proprio dell’onde del mare.
Egli alzò allora lo sguardo verso di lei. Ed ella, silenziosa, intensamente fissò i suoi occhi. Ed egli scorse gli occhi di lei, brillanti e invasi di dolce indulgenza.
E subito abbassò il volto, preso da vergogna. In verità non riusciva a sostenere la vista di lei. Un fiotto veemente di passione gli aveva rivelato in un brivido che ella era della sua medesima natura, della sua medesima sostanza, e ch’essi respiravano nel desiderio l’aura della medesima armonia.
Ma erano fuggiti gli anni lontani, erano per sempre fuggiti. Ed egli ricordava le speranze della sua giovinezza, quando inerpicandosi per le pendici delle montagne saliva sino alla vetta di roccia in roccia e sognava una vita splendida e possente. Ma la vita si rivelava troppo breve e troppo vana.
E così, dopo ch’egli se n’era andato dal suo paese per tentare la fortuna nell’esercito, ella s’era unita in matrimonio con il conte Oberto.
Il conte era peraltro un buon amico di Mauro. Avevano trascorso gran parte della giovinezza insieme e avevano insieme corteggiato le ragazze negli anni dell’esuberante libertinaggio.
E in quegli stessi anni, ahimé, egli era innamorato di Misandra. Ma la povertà non gli aveva permesso di chiedere la sua mano. Così era partito, in cerca di avventure, e per dimenticare.
Ma non aveva dimenticato. Ed ora era dinanzi alla donna che aveva amato, che amava. Quale altro sacrificio doveva chiedere al suo cuore ?
Ella si allontanò, chiamata da un servitore per alcune faccende alla villa. Cortesemente si congedò dicendogli che presto si sarebbero rivisti e che nel frattempo egli poteva approfittare della bella giornata di sole per camminare ancora nel bosco o lungo la spiaggia dove la pineta estendeva i suoi rami ondosi.
Obbedì.
La passeggiata era in effetti gradevole e il sole del pomeriggio inondando la vegetazione ne schiudeva il sentore acre e possente di resine e liberava il profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo anfratto da cui la vista si perdeva sul golfo splendente, si sedette sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore del tabacco si fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini che sorgevano in lui disordinatamente.
Una distesa verde d’alberi, di cespugli e di macchia mediterranea si prolungava sino al mare, distinta dal flutto cilestre da un breve serpeggiare di sabbia.
Il fumo s’alzava nell’aria, si smarriva come i suoi sogni, svaniva nel puro cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di fanciulle. Il sito era silente e colmo d’un torpore lussureggiante. Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco confondere negli esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili che cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli lenti.
E ricordava quella bellissima immagine che Foscolo ricreò nelle Grazie, traendola da Omero, e gli parve che un infinito sciame d’api divine e luminose s’estendesse sul mare azzurro e calmo come gli occhi d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche che a lui apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde, spumeggianti sulla battigia, e udiva il murmure delle acque ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel sonoro fluttuare, ripetuto innumerevoli volte, quasi una musica d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni come le voci vaghe di interminabili cori di anime un tempo viventi, che celebravano e rimpiangevano la breve esistenza ?
E pensava alla propria esistenza, agli anni irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava solo un incerto ricordo, ai volti incontrati di gente fuggevole e a qualche gentile volto di fanciulla, che aveva amato segretamente in brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria meravigliosa vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle fanciulle non avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli invece aveva assaporato con lentezza la beltà senza paragone dei corpi e delle anime inconsapevoli. E così, innanzi agli stupendi paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e davanti alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi dello spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri dell’amore in quei limiti stessi che lo facevano desiderare. Infatti egli non poteva amare se non quello di cui sentiva profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio, avido di bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi volti di donne brutte che parevano essere più dei due terzi della popolazione femminile. E veramente la bruttezza, la volgarità, la scipitezza appaiono nella donna con fortissima evidenza, ma la bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre rapito, quando appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura. Allora i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio come si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile prospettiva su monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente l’antipatica realtà, fredda e vuota, e si consolava e sognava i mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava illusioni oltre le illusioni, in una infinita distesa di forme e di colori, un oceano sconfinato di fronte al quale il suo occhio interiore restava fisso in preda allo stupore e allo sgomento, poi che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere nella sua anima.
Se chiudeva gli occhi spesso si trovava nel buio dello spazio fra gli astri ed innumerevoli nubi di luminoso pulviscolo stellare, e con incredibile velocità trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella sospensione del tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i secoli, e le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza, misteriosa e irriconoscibile, quasi un flutto inarcantesi in un attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e invisibile prima del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo, nel vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla propria vita trascorsa e ormai dissolta, presente di quando in quando nel ricordo, ma raramente come nitida immagine anzi più spesso vaga e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la gioia di attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una freschezza, di una dolcezza e di un senso di vastità così forte e di magnanimità, che il suo spirito si sentiva sollevato all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei mondi che appaiono sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella solitudine.
E quegli istanti di felice rimembranza gli consegnavano, pur nella loro brevità, la giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume torbido della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà quale mano, e che talvolta torni in superficie nelle soste della corsa impetuosa, e improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi senza seguito erano sorti in lui dalla fuggevole rimembranza, dalla rimembranza fuggevole d’immagini deliziose quali quelle scaturite dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e Isminia, così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché, nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono flebile che si smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco nascosto. Laggiù si celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e selvaggio. Le tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava il suo occhio, luminoso come un faro.


E avanzava sul sentiero sassoso, in mezzo ai pini fruscianti.
Il tramonto arrossava i loro tronchi, che avevano l’aspetto di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare immenso, il cielo era invaso da strisce di nuvole fosche che navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare dell’onde e gli parve che i monti intorno echeggiassero a quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al mare murmureo, udì un improvviso fruscìo fra i pini e i ciuffi di ginestra selvatica. Si volse incuriosito e intravide fra i rami e le foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo e della luna nascente furono incantati e carpiti da occhi che nell’ombra lo guardarono quasi gemme, rilucendo d’una luce indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi marini e il fulgore degli astri.
E si allontanò nel silenzio.

Ma allora le tenebre estendendosi sul mare iniziarono a costituirsi in una coltre fitta e impenetrabile, mentre il sole soltanto emergendo dalla linea dell’orizzonte occidentale apparve fissarlo quasi un occhio sbarrato, immenso.
Era ella quel biancore, quella luce che svaniva a poco a poco su per il promontorio, nel folto del bosco ?
Anche un tempo s’era abbandonata a una fuga, leggera, sulla spiaggia, in un tramonto ormai vago nella memoria. E poi s’era rifugiata fra alte piante, nella pineta e nella macchia, e poi ancora sotto gli eucalipti fino alla foce d’un piccolo fiume.
Forse fra piante fantastiche ella s’era celata, né apparve dapprima. E poi, in una fragranza di fiori sconosciuti e di ghirlande intrecciatesi nel canneto e sui tronchi dei lauri, si svelava, lievemente avvolta nei suoi lunghi capelli ambrati.
Così ora ella scompariva fra gli alberi oscuri e certo il suo candido corpo era illustrato dai raggi discreti della luna che s’insinuavano tra il fogliame. Ella si schermiva forse dietro larghe foglie d’edera, umide di rugiada notturna. Forse s’era volta verso di lui e lo guardava un poco stupita. Gli occhi brillavano della luce stellare e la chioma castanea le cadeva sofficemente sul dorso e le fronde le nascondevano il pube e la sua pelle eburnea s’illuminava, sì ch’ella appariva veramente una dea.
Ah, dunque ricominciava la sua angoscia, ed ella gli sfuggiva ancora nella notte, mentre il turbamento della sua apparizione non si placava. Ancora, non aveva forse desiderato ucciderla ? Sì, avrebbe dovuto offrirla in sacrificio per espiare la colpa degli avi, per giustificare le sofferenze della sua stirpe. Ma ne era ancora innamorato, e pure, in lui sorgeva veemente la brama di averla tra le braccia e di stringerla, di soffocarla. Quanta inutile sofferenza ! Quanti anni votati al dolore, per quell’illusione, per quell’attrazione funesta verso il miraggio della felicità ! Un delirio soltanto, uno spossante e insensato delirio carnale, un’aspirazione al soddisfacimento dei sensi privo di vero appagamento. Ma perché l’aveva conquiso così, dietro la malìa del suo fascino, oscuro, pieno d’insidie e di tormento ?
Ricordava, ancora una volta. Una bambina di circa dieci anni, ma già sviluppata e aggraziata, gli si era posta innanzi, a una svolta della strada, sul far del pomeriggio, quando egli era solito fare la passeggiata, e gli aveva chiesto, con un imbarazzo pieno di una vaga sensualità, che ora fosse. Egli aveva risposto, e in quell’istante aveva sentito un tremito invaderlo da capo a piedi, e un folle desiderio gli aveva fatto stringere i pugni in una morsa d’odio. E forse ella trascorreva ancora oltre l’orizzonte oscuro, in lande non rischiarate dalla luna, o si stendeva mollemente su un prato d’asfodeli e osservava le stelle sorgere ed estinguersi più in fretta del suo respiro.
Misandra certo non era tanto giovane. Ma certo possedeva appieno quel fascino che inconsapevolmente attrae magicamente e, pure, nulla concede. Ed era nella sua ingenuità tanto maliziosa da apparire un’acqua di montagna che sgorga brillante dalle rocce e si aduna limpida nelle gore, ma è così gelida da ferirvi la bocca.
Ed egli era stato ferito ed era fuggito per l’impossibilità di sostenere ulteriormente il suo sguardo. Si era ritirato in se stesso ed era andato lontano, in lontani paesi. Ma laggiù il suo cuore si era infranto. Quando passava per i lunghi viali, alla vista degli innamorati il suo cuore si spezzava e il suo essere lacerato volendo obliare se stesso desiderava seguire gli altrui destini. Così i suoi occhi seguitavano con infinita malinconia il cammino di una coppia felice che procedeva ignara d’ogni altro essere nella piena luce del giorno.
E sognava allora, sognava la sua Misandra, coricata sui fiori sotto le fronde dei pini, mentre dormiva e una brezza leggera le scostava appena i capelli sulle guance e la luce del sole le illuminava la fronte. O la pensava al lume della luna, pallida e giacente sul candido letto, mentre il disco di Diana argenteo appariva all’ampia vetrata della stanza. “ Oh, dormi Misandra, dormi “ allora pensava, “ e non svegliarti nel mio cuore se non per dirmi che non mi lascerai mai più.”
Così diceva chiuso in se stesso, ma non poteva, non riusciva a reprimere una brama turpe di vendetta.
Eppure nei rigidi pomeriggi d’inverno, durante le lunghe e solitarie passeggiate nella foresta, gli accadeva proprio di ricordarsi di lei, ma era una visione d’estate, un sogno dorato di rami carichi di fronda sotto un cielo risonante di gioiosi canti di cicale e di uccelli vivaci.
E l’immaginazione lo trascinava verso i piaceri proibiti e l’abbraccio di un corpo roseo e delicato, splendido nella luce del giorno, e lo seduceva l’eterno fascino della donna, della regina del mondo, cui s’immolano tutte le vite, tutti i palpiti dei cuori, per morire e rinascere sempre.
Ed egli la immaginava allora dove l’aveva vista una volta, ai margini del mare, sui limiti dell’infinito. E gli parve davvero ch’ella fosse una messaggera dell’al di là, un essere divino inviato sulla terra per abbracciare i mortali nel cerchio del suo fascino immortale.
Ed ella appariva cinta della veste di primavera anche nell’autunno delle cose e degli esseri circostanti, sempre giovane. E il vento giocava tra i suoi capelli e sommuoveva le vesti, e le onde del mare lambivano delicatamente le dita dei suoi piedi, ed ella appariva sul limite della riva, quasi attendesse la venuta d’una navicella che dovesse traghettarla per ignoti reami.
E quando il crepuscolo stendeva sul mare il suo manto purpureo e le onde violacee si riversavano sul lido e intorno agli scogli, stancamente, allora egli la vedeva rifulgere innanzi al disco solare morente, circondata dall’alone rossastro, mentre i suoi piedi poggiavano su una terra insanguinata dai raggi proni a estinguersi nelle ombre. Ed era davvero fulgente anche nella luce della sera, perché risaltava sullo sfondo immenso dell’orizzonte, del mare e del cielo, dove onde e nubi parevano fondersi in un abisso di vortici, di profondità, di precipizii insondabili e di spazi inconcepibili, ma ella sembrava appunto precederli sorridendo, quasi che non le fosse ignoto alcun mistero.
La malinconica rimembranza del passato lo allontanava dalla realtà, lo induceva a poco a poco in uno stato di torpore fisico, simile al sonno. Ed egli ricordava, e i ricordi si confondevano con i desideri inespressi, con le velleità immaginate, coi sogni dell’adolescente.
Quanto aveva bramato rivelarle il suo mondo interiore ! Con l’ardore tipico di chi s’illude e ingenuamente persegue le fantasie di cui si nutrono i sospiri dei ragazzi come una fonte d’acqua pura e di vita immortale, così il suo cuore avrebbe voluto affidare in grembo a lei i suoi segreti.
Ma ella non aveva saputo, ella ancora non sapeva.
E la malinconia possedeva il cuore di Mauro. La malinconia che non è grigia tristezza, sibbene rimpianto d’un mondo lontano, d’un sogno irraggiungibile. Egli aveva veduto con gli occhi dell’amante una figura d’indescrivibile bellezza, che solo un cuore d’amante o una mente d’artista può concepire. Egli aveva visto colei che non è di questa terra, il cui fascino è circonfuso d’un alone immortale, ed ella pure era ignara di tanto incantesimo, quasi un portento della natura, inconsapevole del semplice miracolo.
Una malinconia profonda, una incolmabile insoddisfazione lo tormentavano di fronte all’esistenza degli altri uomini. Egli aveva disgusto della loro vita, insulsa e ignobile, delle loro meschine aspirazioni, dei loro stolidi guadagni. Egli avvertiva talvolta se stesso quale un cigno tra frotte di rane gracidanti, sicché fuggiva dalla moltitudine saccente e chiacchierona e si rifugiava nel suo mondo interiore, alto come una montagna assolata sopra le valli brumose.

Alto come una montagna assolata sopra le valli brumose, il suo cuore s’empiva della luce d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della giovinezza.
Ricordava vagamente le parole di un canto appreso nell’adolescenza : “ Tu sei la mia terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.” Ah, sì, non era mai mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri solitari d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia sopra la valle, cingere i fianchi del monte, carezzare le cime dei pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi agli sbuffi del vento o frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il suo cuore cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva intorno a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era al mondo, doveva essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il sibilo del vento contro le fronde degli alberi, era il lento ascendere della nebbia, era il silenzio della montagna. Non altro era il mondo.

E pensava all’amore di Petrarca per Laura e a quella meravigliosa solitudine di Valchiusa, così immaginava, immersa nel verde degli ulivi, dei castagni e dei pini, una passione incurabile e nello stesso tempo pura come la segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava le meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte Ventoso, e si riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto essere le sue.
Così guardava dall’alto del colle la campagna d’intorno e le altre colline digradanti verso il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di fronde. E il sole faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre il suo manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli uccelli cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di sé l’eco d’una musica insistente, suasiva, impetuosa, e che il rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di trombe ad annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli apparve allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re dell’universo forse lo esortava a non temere, a non fuggire più la vita, ad abbracciarla, a viverla in tutta la pienezza, a colmare le vene del suo stesso fuoco ? Gli occhi gli si riempirono di quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione strana di scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma di sé, correre nel buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi occhi splendevano nell’oscurità come smeraldi irradiati.
E quella musica, insistente, invincibile attraversava la foresta nell’impeto del vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume risuonante.
Ebbe allora la chiara visione dell’Occhio universale. Si librava sopra il vasto lago dell’Essere e lo guardava, con la sua iride trasparente. Brillava della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso occhio, i suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno a lui l’apparizione della volontà senza limiti, della vita rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà rinascente in nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come affermazione, come “sì” al richiamo della vita, e nella sua giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli uomini, di tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno di gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci, quali ondate del vasto mare risonante, un fragore di flutti iridescenti, un canto sublime e possente fluire quale un fiume impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.

Vagò a lungo per la foresta, in un labirinto di tronchi neri, appena lambiti da qualche raggio di sole, che il fitto intreccio dei rami impediva quando non erano mossi dal vento.
Intravedeva non distante una radura, perché la luce colà si faceva più intensa e il colore era un verde brillante.
Pareva davvero che un qualche essere silvano lo invitasse alla sosta. Affrettò quindi il passo e giunse nello spazio aperto agli influssi del cielo.

Adagiato sull’erba, preda d’un torpore ebbro di sogni, egli guardava fisso davanti a sé, immerso nella visione.
Ella gli appariva, luminosa, leggera sui fiori, avvolta in una veste fragile e fluttuante come un alone d’oro, i capelli erano lunghissimi e riverberanti bagliori di fiamma e le toccavano morbidamente i contorni del corpo sino al tallone, poi parevano fondersi col suolo. I suoi occhi erano tinti del colore del sottobosco d’autunno, belli e variegati, bronzei e vibranti di lingue di fuoco.
Tutto intorno era luce, e gli alberi erano accarezzati da un vento luminoso, una corrente di pulviscolo aureo irradiantesi nella foresta come una linfa vivificante, come un’anima infusa per prodigio in un organo per lungo tempo muto. Il suo viso si fermò su di lui. Ella fissò i suoi occhi morbidamente, maliosamente e a lui parve abbandonarsi a un’onda di luce più forte del turbine tempestoso e più dolce della brezza dell’alba. Ora sembrava che da uno scrigno d’oro gli si offrisse l’essenza della vita, il tesoro che non ha pari. Doveva dunque abbandonarsi.
Ma, quando sollevò il capo dagli steli abbattuti, non più era luce, se non lo stanco raggio del crepuscolo. E già alitava la fresca sera.

Egli era cosciente del proprio transito, della propria debolezza, del proprio passaggio permeato di sogni, di visioni estatiche. Insufficiente piccola parte di un tutto incomprensibile, coglieva in un istante la propria essenza in una mano, una goccia d’acqua dispersa nell’oceano infinito.
Come quando sulle montagne la luce splende sopra le nevi, così il suo sguardo posava estatico sulla vastità circostante. Il silenzio degli spazi sconfinati gli cantava intorno il suo inno di gloria. In quell’attimo coglieva anche la propria eternità.
L’eternità del rito, sempre nascente infante.
L’immagine di sé fra il padre e la madre, un tempo, in un luogo lontano nella valle, su un prato innanzi al sole del mattino. Nel respiro intorno degli alberi, nell’alito del vento luminoso, il suo sé scorgeva estatico e ignaro il mistero dei giorni, ancora nel nido fra i sorrisi dei genitori pieni di speranze. Ah, anime amate!
La luce attorniava il bimbo, i sorrisi brillavano come aurore, del sole che sempre sorge.

Ah, immergersi nell’alito del mattino, come in una corrente d’acqua gelida, sentirne il brivido e l’impeto !
Come la dea Aurora intesse nel suo velo i canti che sgorgano dalla luce presso i lavacri del mare, così dentro di sé era invaso dal fremito dolce del risveglio delle creature.
E la luce si dilatava in un’onda iridata sopra le giogaie dei monti e sulle rocce e sulle selve brune.
Il mare dell’essere si rivelava nell’immensa distesa.