lunedì 7 dicembre 2020

Eric R. Dodds, I Greci e l'irrazionale



Eric R. Dodds, I Greci e l'irrazionale (1950), Milano, BUR, 2017



P. 58, l'affermazione secondo la quale gli eroi omerici hanno coscienza del proprio sentimento in termini intellettuali, cioè “conoscono” i propri sentimenti e la propria virtù fa di Socrate un naturale figlio di Omero, in quanto secondo Socrate la virtù è conoscenza.

P. 85, origine superstiziosa del demone personale, poi nobilitato da Platone (il demone di Socrate, che ne fece la parte razionale dell'uomo).

P. 236-237. Euripide secondo Dodds è un irrazionalista. E' stato senza dubbio un seguace di Socrate, all'inizio ne ha accettato l'insegnamento, ma poi lo ha ripudiato per una visione sostanzialmente irrazionalistica del mondo, come trapela dalle Baccanti. Queste affermazioni contrastano radicalmente con quelle del Nietzsche che ha fatto di Euripide un discepolo dei sofisti e di Socrate, un vero e proprio “illuminista”.

Tuttavia, anche se Dodds non concorda con la tesi di Nietzsche circa la decadenza della tragedia o la sua origine, la sua posizione è chiaramente quella di un ammiratore della psicologia, anzi della psicanalisi di Freud. E in ciò egli si avvicina a Nietzsche, perché il filologo-filosofo tedesco è stato un vero e proprio precursore del verbo di Freud e il suo punto di vista è stato prevalentemente quello di un osservatore psicologo. Così si potrebbe fare una proporzione e dire che Dodds sta a Freud come Freud sta a Nietzsche, e stabilire anche un legame o un parallelismo tra Dodds e Nietzsche.


Direi che l'interpretazione di Nietzsche riguardo alla figura di Dioniso sia giusta, alla luce di quanto afferma Dodds, Dioniso è un liberatore, un dio che libera dal proprio io personale, secondo l'aspirazione di Schopenhauer, vero ispiratore del Nietzsche.

Anche riguardo a Rohde Dodds prende posizione, però contestando l'interpretazione del filologo tedesco. Non sarebbero stati i vapori velenosi, scaturiti dal terreno, che avrebbero inebriato e resa folle la Pizia, ma il fondamento dell'oracolo sarebbe stata una pratica di autosuggestione.


P. 188, la civiltà sciamanistica. La nuova credenza di un'anima indipendente dal corpo. Pitagora erede di questa concezione l'avrebbe trasmessa ai suoi discepoli e quindi loro tramite a Platone. Questa dell'io dello sciamano che può migrare di corpo in corpo è una concezione che sottolinea l'importanza della visione mistica nel culto delfico e in genere della illuminazione interiore e si collega con la concezione del Colli in Filosofi sovrumani circa l'importanza dell'intuizione o rivelazione mistica alla base della filosofia di Eraclito e Parmenide.


P. 333 e sg. l'isteria del menadismo. Un aspetto che avvicina Dodds al Nietzsche è il suo interesse per l'antropologia (vedi Il servizio divino dei Greci di Nietzsche).








 

venerdì 6 novembre 2020

Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

 




Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1950), Torino, Einaudi, 2020




Puro simbolismo sia nel linguaggio figurato che nel verso estremamente musicale e libero nel senso proprio, ossia ritmico secondo l'insegnamento della metrica “barbara” inglese, su una cadenza giambica o anapestica.

Poesia di un'intensità straordinaria, che ricorda Rilke, anche se il modello è chiaramente inglese-americano.

Vi è una consapevolezza raggiunta dell'essenza della vita che è solitudine di fronte alla morte, mentre la vita quotidiana è viltà, è nascondersi :


E allora noi vili

che amavamo la sera

bisbigliante, le case,

i sentieri sul fiume,

non fu più abbandonarsi

al sentiero sul fiume -

non più servi, sapemmo

di essere soli e vivi.

(p. 21)


Ma la vita è appunto ostinata inconsapevolezza, non voler vedere :


ma tu non senti. Vivi

come vive una pietra,

come la terra dura.

E ti vestono sogni

movimenti singulti

che tu ignori. …

(p. 22)


Splendida e pura nelle sue linee è la lirica che dà il titolo alla raccolta, cioè Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Il poeta condivide con la donna amata la consapevolezza del proprio umano destino, ma senza speranza in una vita immortale dell'anima. All'antica speranza si sostituisce la certezza del nulla, la disperata fede nel nulla :


Scenderemo nel gorgo muti.

(p. 29)


E' questa fede nel nulla che trasfigura l'amore e l'amata in puro ricordo, in immagine, nell'evocazione di un sogno ormai lontano. Ma questo sogno, che sta nel cuore assopito e che si è chiuso alla speranza, si fa visione prepotente di vita nella lirica seguente dal titolo inglese, You, wind of March. Il sangue e la luce irrorano nuovamente il corpo e la terra, che si ridesta all'aurora in un brivido di desiderio. Ma la vita non distrae più il poeta dalla sua disperata consapevolezza, e si presenta inevitabilmente bifronte, dal lato della morte :


La speranza si torce,

e ti attende ti chiama.

Sei la vita e la morte.

Il tuo passo è leggero.


L'illusione ritorna in Passerò per Piazza di Spagna col suo corteo di colori, di profumi, di suoni, nella luce di un cielo chiaro. Apparirà la donna stagliata nettamente nello splendore del mattino, sarà ancora una certezza.

Come la luce di lontane albe, ella è ricordata nell'ansia di un cuore che la cerca, nell'attimo perduto per sempre, offerto dal destino. La vita continuerà il suo corso, segnato da una volontà ignota, la natura vivrà nei suoi cicli, il tempo scorrerà nelle stagioni :


I gatti lo sapranno,

viso di primavera;

e la pioggia leggera,

l'alba color giacinto,

che dilaniano il cuore

di chi più non ti spera,

sono il triste sorriso

che sorridi da sola.

(p. 35)


L'ultima poesia in lingua inglese confessa la propria disperazione, il non essere stato conosciuto, aver creduto di amare.

venerdì 11 settembre 2020

Dino Campana, Carducci e Tintoretto

 


Dino Campana, Carducci e Tintoretto (Appunti carducciani dal “Taccuino Matacotta”), Sanremo, Lo Studiolo Edizioni, 2020



Il minutissimo e prezioso volumetto è a cura di Fabio Barricalla, che mostra la solita accuratezza nella rassegna bibliografica della “Nota ai testi” a p. 11-12.

Quanto al contenuto del brevissimo inedito di Dino Campana, devo dire che non ho capito neanche una riga. A ciò è sicuramente intonata la cartolina, opera di Marco Innocenti, dove compare un ritaglio di giornale d'epoca dal titolo “Campana il poeta pazzo”.

Nel testo compare la misteriosa Madonna Laldomine, che è personaggio delle Cene di Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca. Una novella del Lasca (cena II, novella terza) ha per argomento il matrimonio osteggiato dalla madre di Lisabetta, appunto Monna Laldomine. In seguito, grazie all'astuzia di Lisabetta, il matrimonio con Alessandro va in porto. Ma perché Campana scrive : “Madonna Laldomine che si fa alla finestra tutta vestita d'argento” ? Allude forse alla ricchezza della donna secondo la novella di Grazzini ? E che c'entra Tintoretto ?

Ma ha senso porsi domande ? Siamo di fronte a un puro testo simbolista intessuto di allusioni e di associazioni d'immagini e d'idee, in una prosa musicale e magica come una poesia di Rimbaud. Inoltre, perché cercare ragioni o una qualche logica ? Ciò che si riscontra nel pensiero di un savio non si incontra nel pensiero di un folle, ciononostante sono entrambi pensieri. E la poesia non è fatta di logica e non cerca la verità. La poesia è fatta di cose, di immagini delle cose reali o fantastiche, e allora torniamo alla domanda, donde viene Madonna Laldomine vestita d'argento ? Si tratta di una reminiscenza da Carducci (Confessioni e battaglie ?), ma al lettore comune, quale sono io, essa sfugge. Quanto a Tintoretto, non riesco a capire.

La citazione da Carducci denota sicuramente l'ammirazione del poeta orfico, ma è naturale che Campana abbia subito l'influsso della poesia carducciana, tutti i contemporanei l'avevano subita, come ad esempio D'Annunzio. E secondo Maura Del Serra è proprio quest'ultimo a esercitare un influsso diretto sul poeta di Marradi, soprattutto con il Forse che sì forse che no ed anche Marco Testi afferma che la figura di Isabella Inghirami avrebbe ispirato Campana per la fanciulla della “Sera dei fuochi” (La notte, 12) (1). Inoltre la figura femminile nell'interpretazione iniziatica deriva dalla lettura di Schuré, Mereskowski e Nerval (Le figlie del fuoco). E tramite D'Annunzio (ma la vera fonte è Flaubert) Campana elabora una sua immagine della donna come matrona-sacerdotessa dei “piaceri sterili”, immersa in un vago ambiente mediterraneo ed esotico che ricorda Salammbô. In particolare (2) :


Anche in Forse che sì forse che no il mito del passato si incrocia con quello della bellezza infeconda; già l'amante di Paolo Tarsis, arrivata tardi per la visita alla “reggia d'Isabella”, fissa “l'inchinato sole per fermarlo col suo voto”; inizia qui il leitmotiv del più lungo giorno, ripetuto più volte nella prima parte del romanzo che, come è stato notato, ritorna come titolo nel manoscritto originario degli Orfici smarrito da Soffici durante un trasloco e che segna uno dei non rari calchi dannunziani in questa sezione dei Canti orfici.


Come si vede, non basta una citazione per fare di Campana un carducciano.

C'è poi un altro elemento da considerare nel frammento in prosa di Carducci e Tintoretto : l'iconografia. “Madonna Laldomine tutta vestita d'argento regina di carte da gioco” corrisponde nella sezione La notte dei Canti orfici a “Una antica e opulenta matrona … barbaramente decorata … sedeva, agitata da grazie infantili … traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri.” (par. 6)

Questa donna spesso appare sulla porta o tra i portici come nel frammento sui “balconi gonfii” o alla finestra, sulla soglia sempre di un mondo misterioso, “quella loggia colà volta agli estremi” nel vago ricordo leopardiano. Si tratta quindi di un'idea fissa, una vera e propria ossessione, che collega l'immaginazione di Campana alla donna fatale dannunziana, simbolo di lussuria e di perfidia o irraggiungibile mostro di trascendente purezza, icona femminile propria del Decadentismo da Flaubert a Fogazzaro.




  1. Marco Testi, Dal “Forse che sì forse che no” alla “Notte” orfica. Suggestioni e calchi dannunziani del Campana notturno, Otto/Novecento, anno XVI, n. 1, Gennaio-Febbraio, 1992, p. 165-176.

  2. Op. cit. p. 169.


sabato 29 agosto 2020

Seneca, Naturalium quaestionum libri

 


II, 59, 4-6


Numquid facere amplius possunt quam ut corpus ab animo resolvant ? Hoc nulla diligentia evitat, nulla felicitas donat, nulla potentia evincit. Alia varie fortuna disponit, mors omnes aeque vocat; iratis dis propitiisque moriendum est. Animus ex ipsa desperatione sumatur. Ignavissima animalia quae natura ad fugam genuit, ubi exitus non patet, temptant pugnam corpore imbelli. Nullus perniciosior hostis est quam quem audacem angustiae faciunt, longeque violentius semper ex necessitate quam ex virtute confligitur, aut certe paria conantur animus magnus ac perditus. Cogitemus nos, quantum ad mortem, perditos esse. Et sumus. Ita est, Lucili : omnes reservamur ad mortem. Totum hunc quem vides populum, totum quem usquam cogitas esse, cito natura revocabit et condet nec de re sed de die quaeritur : eodem citius tardiusve veniendum est.





mercoledì 26 agosto 2020

La gatta

 

Ho per amante una gatta nera

dagli occhi di smeraldo,

agile baiadera

nel suo corpo flessuoso,

lieve e rapida nel suo balzo

e furtiva come un'ombra,

appare e scompare nel folto mormorio

dei cespugli ai venti e fra le erbe,

sotto gli ulivi scuri, nella campagna

abbandonata.

Un'aria sottile naviga intorno al suo corpo

lucido nelle sue movenze brune,

quale l'aria vesperale

è nunzia della notte di giaietto.

In un salto perfetto, e caldo,

quasi un'onda d'agosto

crinita dall'austro,

essa scompare e appare

misteriosamente,

ora con occhi supplici, mendicando

un boccone di grana,

ora voluttuosamente feroce

nella brama di preda.

Che vita selvaggia, aspra e pugnace,

per le notti trascorse all'ultimo sangue

contro i maschi rapaci,

cupidi e grossi,

lei così fine, così leggera,

ma tenace, severa, fino alla morte dura !

Essa per giorni dispare

nel folto nereggiare della macchia,

lei più rapida d'un battito di ciglia

e fra il canneto e tra i fichi d'India

e sotto gli albicocchi essa s'aggira

cauta e silenziosa

come spirito notturno

e veloce segue la traccia,

e nella caccia ardisce più d'un'amazzone,

fosse Pentesilea.

E quando la luna sorge nella notte bruna,

le luci sue dardeggiano

d'una febbre guerriera

e miagolando ruggisce quale una pantera.

Oh fosse umana, dal brunito corpo

ella sarebbe la mia gatta negra,

bella ed ardente com'è terra a Flegra !

Come sale sui muri e vi cammina

elegante quasi una regina,

nobile certo e noncurante

dei rami interposti e delle piante.

Io esco finalmente la sera,

ho per amante una gatta nera.


sabato 15 agosto 2020

Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue

 



Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983



P. 4, poetica del primitivo, il villaggio sembra vivere nell'atmosfera del mito. Si sente l'influsso di Grazia Deledda, e naturalmente di Pavese, Fenoglio, Calvino (soprattutto di quest'ultimo è bene tener presente Il sentiero dei nidi di ragno).

P. 7, la descrizione dell'ambiente naturale ricorda Canne al vento (1).

P. 9. Come anche le donne nei romanzi di Cesare Pavese sono proiezioni della mente dell'autore, così Ester potrebbe essere paragonata all'Elena del Carcere. Si tratta di donne sempre disponibili, sempre compiacenti e che appaiono e scompaiono ad ogni schiocco di dita. Questo vaneggiamento estetico è tipico di chi non conosce le donne.

P. 12, il racconto si sviluppa in un “giallo” e questo è forse nell'intenzione dell'autore un modo per catturare maggiormente l'attenzione, ma in Canne al vento il servo Efix ha sulla coscienza un omicidio, quindi il fatto di sangue è un elemento comune.

In particolare colpisce lo stile con il brusco passaggio a volte dal passato remoto o dall'imperfetto al presente per designare una condizione di atemporalità o di gesti abituali (p. 11) :


Nel vano della finestra si vedeva già l'ulivo.

A fatica lo sguardo si distrae dal mare per posarsi sulla ragnatela degli alberi.


E la Deledda :


Adesso era lui che sognava per loro la buona fortuna … Ed ecco nella fantasia stanca del servo le cose a un tratto cambiano aspetto … (2)


P. 17-18, fusione tra realtà e sogno. Anche questo è presente in Canne al vento (il sogno finale di Efix).

P. 19, spesso espressioni poetiche o fortemente metaforiche come questa :


Il crinale vibrò nel sole, come un maroso artigliato dal vento.


P. 20. Altre espressioni poetiche nella descrizione della natura, così anche nel libro della Deledda. Le analogie stilistiche sono numerose :


Assediava le colline il bagliore turchese del mare. Sulle rocce, sopra gli ulivi, cantava un passero solitario.

Forse non era un passero solitario a melodiare, era un tordo, anzi erano due tordi : la voce soave sembrava ora scendere dalla rupe ora salire da un botro d'arastre sotto cammino. E ogni tanto quei ghirigori d'organo terminavano bruscamente in uno stridio da uccellaccio notturno.

Gli ultimi ulivi magri come farfalle cedevano ai cespugli, che per nutrirsi scolpivano il dirupo di radici.


E la Deledda :


E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d'acque, di macchie, di fiori, dava l'idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s'addormenta. (3)


Si procede col rendiconto dell'indagine personale di Gregorio e con sprazzi di esplorazioni psicologiche che sfociano spesso nell'onirico e che si alternano a descrizioni paesaggistiche rese con brevi frasi scabre ma sempre metaforiche (p. 28) :


il sole ebbe come un tremito, offuscato da vapori marini.


La misteriosa vicenda si dipana lentamente attraversata da illuminazioni rivelatrici, ricordi malinconici, sogni un po' ossessivi. E' uno stile quasi come quello degli impressionisti, fatto di pennellate rapide e incisive e di un disegno approssimativo e franto.

I personaggi, come quello di Maria Zelenski o quello di Ester, si rivelano a tratti nel corso della narrazione, non vengono presentati, e questo è ormai il risultato consolidato dell'insegnamento verista. Però gli ambienti e il paesaggio sono i veri protagonisti del romanzo, ad esempio la casa di Edoardo (p. 43-44) dove l'interno corrisponde all'esterno come l'aspetto fisico e l'animo dei personaggi e il loro rispecchiarsi nel cielo e nel mare, modellati quali aspre montagne.

P. 45, ecco un esempio di questa alternanza di paesaggio e di ritratto di personaggi, quasi in mutua rispondenza :


Il sole nel centro della valle, sopra la strettoia, illuminava uliveti e boschi di roveri. Anzi, di roverelle, che trattengono ai rami le foglie secche e da lontano sembrano grano maturato nel cielo.

In casa Maria si rannicchiò su una poltrona, alzò il bavero del giaccone di marinaio e si stese lo scialle sulle ginocchia. Era spettinata e aveva un volto severo.


P. 53, ricorso a espressioni dialettali secondo l'insegnamento verista o di termini molto precisi e di uso non comune come a p. 52 “garìga” per designare la vegetazione della macchia mediterranea.

P. 57, predilezione per la descrizione “metaforica” d'ambiente che romanticamente corrisponde allo stato d'animo dei personaggi. Direi anzi che il vero protagonista di questo romanzo è proprio il paesaggio al quale è rivolto l'interesse prevalente dell'autore. Ma questo è anche un limite, perché i personaggi vivono in funzione del paesaggio e la loro psicologia risulta per lo più sfuggente e quasi vaporata e fusa con esso.

Nella stessa pagina l'autore scrive :


Una macchina … saliva per la strada sterrata. I suoi fari balzavano da rocce a cespugli a pini bassi come pini mughi. Deviò verso i bungalow, dove si arrestò coi fari accesi, illuminando una mimosa in stato di avanzata fioritura, gialla e alonata di pulviscolo.


Ci si aspetterebbe che il seguito della scena giustifichi l'apparizione dell'automobile, invece l'autore tiene a specificare che la ginestra era “una Denis Boden o una Waldorf” e ci fornisce le caratteristiche della pianta, poi salta al ricordo del trionfo della coltivazione di questo arbusto, quando i rami recisi partivano per Vienna e per Praga. Insomma l'azione non esiste più, schiacciata da un enorme fardello di rimembranze, e quella macchina apparsa serviva solo per illuminare la ginestra. Così vi sono periodi poco comprensibili, spesso per l'uso ambiguo e gergale dei termini, seguiti talvolta da illuminazioni improvvise che lasciano perplessi. Si tratta infatti di uno scrittore naïf, anche se non privo di una certa esperienza di lettura.

P. 72-73, quando Edoardo in compagnia di Gregorio va a fare erba per le capre, si è introdotti in pieno in un'atmosfera georgica primitiva, come nell'Itaca omerica, nel podere di Odisseo.

P. 75, notare l'espressione ardita e metaforica, quasi barocca :


lichenoso meriggio in cammino verso la sera.


P. 88, bella la scena della madre che aspetta nell'ora vesperale il fantasma del figlio e che pensa di averlo intravisto nella sua stessa immagine allo specchio qualche ora prima, immagine che le richiama la passata giovinezza nella somiglianza di lei col figlio.

P. 88-89, Martine e Laurence dormono insieme (o almeno vivono insieme, a quanto pare). Si allude forse a un rapporto omosessuale ?

P. 96, si chiarisce l'omosessualità di Laurence.

P. 102-106, Laurence è un'avventuriera alla quale non manca nessun vizio. A Nizza, dopo il gioco al casinò di Montecarlo, Gregorio e Laurence passano la notte insieme in un motel. Evidentemente ella è bisessuale. Si chiarisce anche il mistero della morte di Jean-Pierre, suicida per un male incurabile.

P. 109. Come di consueto si aprono spiragli sul mondo contadino, con l'uso dei termini dialettali propri della campagna e con suggestive e rapide immagini, che rispecchiano sempre lo stato d'animo del protagonista.

Cap. 16. L'episodio del giovane soldato francese ucciso durante la seconda guerra mondiale da un tenente italiano, mentre cercava di arrendersi, è davvero intenso e commovente e si collega naturalmente alla morte dell'altro giovane francese, Jean-Pierre.

NB : le descrizioni di natura, rese in uno stile metaforico molto particolare, dove abbonda l'uso del dialetto o anche del francese (oltre al ricorso ai nomi latini della botanica per designare le piante), i brevi dialoghi dove talvolta bisogna indovinare chi parla, tutto insomma questo modus scribendi può dare inizio a una vera e propria “maniera”. Così mi spiego la ragione per cui Sandro Soleri in Corpi estranei fra le altre sue creazioni umoristiche ha inserito una divertente parodia dello stile di Biamonti.




1) Grazia Deledda, Canne al vento, Milano, Garzanti, 1994, da p. 6 a p. 9

2) Op. cit. p. 17

3) Op. cit. p. 4








sabato 1 agosto 2020

Notte


Solo come un gatto randagio

vago per i vicoli della vita,

e l'angoscia mi prende

dell'abbandono e un senso inesprimibile

di solitudine. E un lamento lontano

nella notte

mi stringe il cuore,

e un timore opprimente del buio.


Ma ardente e forte il sole

esce da nere montagne.


lunedì 20 luglio 2020

Fabio Barricalla, I zin (ricci di mare)




Fabio Barricalla, I zin (ricci di mare), Sanremo, Lo Studiolo, 2019



Terra incognita (prime note)


Preludi” I, p. 13. Nota metrica : il primo verso quinario unito al secondo senario risulta ovviamente un endecasillabo, il terzo è un endecasillabo e il quarto un quinario. Vediamo la lirica :


C'è poco tempo

Non ci basterà mai -

Il mare ci trascinerà con sé

Ci porterà via


Manca la punteggiatura, sostituita da un trattino al secondo verso, secondo un uso già dei Futuristi (cari all'autore).

II, p. 14, si riferisce alla crocifissione di Cristo nel Venerdi santo e al fatto che nel 2019 il poeta aveva la stessa età di Cristo, come a dire che hanno crocifisso un povero Cristo che poteva anche per puro caso essere l'autore stesso.

III, p. 15, fa riferimento alla ottusità morale introdotta dalla società dei consumi, non avere “il cesso in casa” non significa soltanto condurre una vita più spartana, ma anche lontano da quella crassa fisicità che ci assale ora anche durante il desinare, quando si ammira inebetiti alla televisione la pubblicità della carta igienica.

P. 16 :


Comunque vada

In paradiso c'è Campana


Viene da chiedersi : se l'autore si compiace che in paradiso ci sia Campana (Dino Campana, cui ha dedicato buona parte dei suoi studi filologici) è perché è certo di trovarlo in paradiso ? E se per caso andasse all'inferno, che gli importerebbe di Campana in paradiso ?

P. 19 :


Sono un poeta

Non ho emozioni da sprecare


Un vero ligure ! Ma a parte gli scherzi, l'epigramma (usiamo questo termine autorizzati dal poeta) vuole alludere al difficile lavoro dello scrittore che deve cogliere nel fondo del suo animo e del subconscio le perle rare del verbo evocatore, che non possono certo essere dilapidate. Inoltre è un chiaro ripudio dell'effusione lirica e sentimentale.

A p. 20 ecco una istantanea che cattura l'attimo in tutte le sfaccettature del suo mistero. Chi è il vecchio Poldo ? Saperlo non ha nessuna importanza.

P. 21, ecco l'ambiguità dell'epigramma :


La parola amore

Non si usura mai


Qui può significare che l'amore è eterno, ma anche che si abusa della parola, contando sul fatto che se pure inflazionata il suo potere d'acquisto non cessa mai.

P. 22, l'epigramma allude alla vita umana e alla vanità di essa, o almeno credo, perché la caratteristica dell'epigramma dell'autore è di essere come un Giano bifronte o una testa di Medusa, non se ne coglie mai un solo significato e spesso si rimane impietriti o meglio impietrati.

P. 23, “Cartiglia – Per mio nonno Renzo”, prosa poetica molto intensa, sul cui contenuto non mi soffermo, perché il lettore vedrà da sé. C'è però un elemento da considerare cioè il sogno. L'autore sogna suo nonno che si scarnifica una mano con un coltello ed è la dimensione onirica insieme alla memoria a costituire il grande contenitore cui la poesia attinge.

P. 29, il piccolo gabbiano schiacciato da un'automobile dà luogo a una riflessione sadiana sulla Natura indifferente, “mors tua, vita mea”.

P. 30, è ripreso il tema della brutalità della morte con la climax “Cadaveri carcasse – Fiori recisi”.

Ma a p. 31 debbo ricorrere all'esclamazione del Bruno ne La cena de le ceneri :


In questo bivio, in questo dubbio passo,

che debbo far, che debbo dir, ahi, lasso ?


E l'enigma è il seguente :


Il filmato del ponte

Che brilla all'orizzonte

Non lo si può guardare


L'immaginazione è corsa subito al ponte ed ecco che magicamente trovo in Rimbaud (Illuminations) :


Les ponts


Des ciels gris de cristal. Un bizarre dessin de ponts, ceux-ci droits, ceux-là bombés, d'autres descendant ou obliquant en angles sur les premiers, et ces figures se renouvelant dans les autres circuits éclairés du canal, mais tous tellement longs et légers que les rives, chargées de dômes, s'abaissent et s'amoindrissent. Quelques-uns de ces ponts sont encore chargés de masures. D'autres soutiennent des mâts, des signaux, de frêles parapets. Des accords mineurs se croisent et filent, des cordes montent des berges. On distingue une veste rouge, peut-être d'autres costumes et des instruments de musique. Sont-ce des airs populaires, des bouts de concerts seigneuriaux, des restants d'hymnes publics ? L'eau est grise et bleue, large comme un bras de mer. - Un rayon blanc, tombant du haut du ciel, anéantit cette comédie.


Soffermiamoci sulla parola “ponte”. Probabilmente (ma in Rimbaud si parla di ogni genere di ponti) si tratta del ponte di una nave, perché altrimenti non brillerebbe all'orizzonte (del mare). E perché “filmato” ? Perché, credo, l'apparizione di una nave all'orizzonte viene metaforicamente intesa come la visione d'una pellicola cinematografica. Sembra poi che l'autore rammenti il finale della poesia di Rimbaud, poiché la nave scompare in una sorta di accecamento.

P. 32, l'espressione “C'era nero di gente” rivela il rifiuto di un linguaggio meramente letterario e l'uso invece di un linguaggio colloquiale, a volte gergale e dialettale. Si tratta di una scelta perfettamente coerente con il rifiuto del lirismo della tradizione, ma non si tratta di una novità, perché è frutto dell'insegnamento di quasi tutti i poeti del Novecento dopo D'Annunzio.

P. 33, il tema della solitudine è presente in questo epigramma come negli altri a p. 48 e p. 60, ma direi un po' in tutte le poesie seguenti. La solitudine, l'angoscia, l'ansia sono stati d'animo ampiamente sperimentati e condivisi nella nostra epoca di individui


Che agiscono che sbagliano automatica -

mente -


di automi in carne e ossa, ma privi di interiorità autentica. Soltanto la poesia e l'arte in genere possono aiutarci a recuperare, a ritrovare il nostro vero io.

P. 36, ecco un componimento un po' più corposo, in quattro quartine e due versi finali, tutti “liberi”, come si dice. In particolare trovo veramente stupendi questi :


Scherzo divino pare

La finitezza

La fine delle cose e le persone -

E l'infinito amore -


L'ultimo verso mi fa pensare a Saba, ma, a parte questa impressione da dilettante, direi che la quartina è di una profondità filosofica e degna del frammento eracliteo (1):


Il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera : di un bimbo è il regno.


I tre “epigrammi” da p. 37 a p. 39 sono variazioni sul tema crepuscolare della “Desolazione del povero poeta sentimentale” di Corazzini :


Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.


Intendo dire che il poeta guarda alla propria piccola esistenza di uomo comune senza sorpresa, senza infingimenti, senza travestimenti, con modestia :


C'è barricalla

Gridano in spiaggia

Gli ex allievi – è la fama


A p. 40 l'epigramma, a detta dell'autore, dovrebbe dare luogo a un'interpretazione complessa, ma apparentemente si risolve in un attacco di dipsomania estiva.

La possibilità di molteplici interpretazioni, e quindi della polisemia è offerto dal “frammento” di p. 41. Talvolta il nostro autore ama nascondersi come un Eraclito.

Come un presocratico infatti a p. 42 egli si pone a guardare un gabbiano che tenta di catturare un pesce e medita sullo stesso atteggiamento di colui che vanamente cerca di “agguantare” la vita.

A p. 43 ritorna il misterioso Poldo colto


All'erta al pianoterra


con il solito flash.

Da p. 44 a p. 48 sembra svolgersi dinanzi alla nostra fantasia una breve storia d'amore, forse suggerita dalla ragazza triste che, tornando dalla spiaggia, si volge a contemplare l'orizzonte, ma, ripeto, questa è solo un'interpretazione.

Da p. 49 a p. 51 è ripreso il tema presente a p. 35, cioè quello di una vita non meditata e perciò non degna di essere vissuta :


Ai vermi resterà

Ben poco


A p. 52 una professione di fede da poeta maledetto, del resto ho già accennato alla sua predilezione per Dino Campana.

P. 53, l'epigramma ricorda Catullo (altro poeta prediletto).

P. 54-55, le due liriche sono accomunate dal motivo della sepoltura, da una parte il passato che desta malinconia, dall'altra i brutti ricordi che si vogliono dimenticare.

A p. 58 la breve lirica fa pensare a “Meriggiare pallido e assorto” di Montale.

Da p. 59 a p. 61 ritorna il tema della solitudine, della incomunicabilità, con la constatazione :


Riflettendoci su -

Se si muore una volta

Poi non si muore più


P. 62, l'epigramma si risolve in un'assonanza e un ossimoro. Si continua la meditazione sulla morte.

Segue a p. 68 il “poema fotografico” Mangiatori di zin, che denota la preferenza “futurista” per la comunicazione non verbale oltre che eccentrica.

Pone fine alla raccolta l'epigramma malinconico sull'estinzione del fischio della locomotiva.




(1) Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Milano, Mondadori, 1993, frammento n. 48, trad. di Carlo Diano (αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη).






lunedì 13 luglio 2020

Il cigno nero



Le ali si librano della notte

delle acque sullo specchio opaco,

e nere come braccia s'aprono

nel buco a tuffarsi dell'abisso,

ove di stelle un vagito vagola.

Si corica la bruma sulle colline

e plumbeo di cielo sul mare,

ma nel piccolo tuo stagno, scisso

dal mondo sinuoso, scivola

il cigno nero, macula di rimorso,

che tra rive divampa oscure

e ogni scintilla brucia.


Così moriva ogni speranza

di ritrovarti, e, alla lucida notte

di occhi spalancati, chiusi

la finestra estinta

della mia casa.


giovedì 2 luglio 2020

Heinrich von Kleist, Pentesilea



Heinrich von Kleist, Pentesilea (1808), Firenze, Felice Le Monnier, 1922

Traduzione di Vincenzo Errante



P. 8, ecco Pentesilea, regina delle Amazzoni, vero e proprio caso da clinica psichiatrica. Ella è attratta dalla bellezza di Achille e per questo lo odia :


la Centaura,

d'un ebro sguardo novamente avvolta

la smagliante persona del Pelide

non lo distolse più …

Il rossor che le sue guance copria

(forse per ira ? forse per vergogna ?)

si riflesse su tutta l'armatura

della Regina, giù fino alla cintola.

Rimase ella così, come sdegnata

e insiem confusa …


P. 11, come la belle dame sans merci di Keats anche Pentesilea conduce alla morte i bei guerrieri e altri tiene prigionieri. Il motivo dell'amore-odio, dell'attrazione-repulsione tra Pentesilea e Achille prelude alla contrapposizione tra i due principi maschile e femminile, esemplarmente presentata nella Salammbô di Flaubert, cioè la vicenda di Salammbô e di Mâtho. E Pentesilea, come Salammbô, come Salomé, come l'Erodiade di Mallarmé, è un'isterica che rifiuta con orrore il sesso. (Potremmo dire questo anche di alcune cosiddette femministe, le quali, al di là di legittime rivendicazioni, sono mosse da un impulso viscerale e del tutto irrazionale contro il maschio categoricamente detestato).

Ella nelle prime scene appare come un incubo che perseguita e insegue Achille, divorata com'è da una smania incessante di preda, il suo amore-odio è l'impulso maniacale che la muove e che costituisce ormai l'unica ragione della sua esistenza.

Nella III scena (p. 24) mentre insegue Achille ella è come un dèmone che copre della sua ombra il Pelide :


Il sole che si leva

proietta immensa l'ombra dell'Amazzone.

Tutta, in essa, si spegne la quadriga !


Achille dal canto suo (scena IV, p. 34) si è accorto che la sua persecutrice è in realtà invaghita di lui e da impenitente dongiovanni giura che non rivedrà le mura di Troia, finché non abbia domato al suo piacere la Centaura. Così, dopo l'inseguimento da parte di Pentesilea e il suo quasi miracoloso scampo, nonostante sia stato ferito nella caduta in un fossato, durante la folle corsa sul cocchio verso il campo greco, Achille si accinge ad affrontarla nuovamente.

Nella scena V Pentesilea manifesta tutto il suo amore-odio per Achille, bramosa di sottometterlo in duello, per mostrare la propria superiorità di guerriera in una vera e propria guerra tra i sessi.

P. 60, ancora più evidentemente si rivela qui il connubio tra amore e morte. Pentesilea, innamorata di Achille, può trovar pace soltanto con la distruzione dell'oggetto amato, cioè con la fine di Achille.

P. 62, il Pelide al contrario, durante un duello con Pentesilea, si innamora di lei perdutamente, tanto da offrirsi, disarmato, all'offesa mortale delle Amazzoni, che però lo risparmiano, avendo ricevuto tale ordine dalla regina.

P. 64, infatti Pentesilea è innamorata a sua volta del Pelide e lo confessa, ma il suo sentimento contravviene alla legge delle Amazzoni e perciò lo deve reprimere.

P. 90, nella scena decimaterza Pentesilea viene catturata in battaglia da Achille che si dichiara follemente preso da lei.

P. 94, l'avversione di Pentesilea però è indomabile. Ella odia radicalmente Achille nel momento in cui vede in lui il maschio vincitore, dal momento che deve essere lei a vincere e a dettare le condizioni per un'eventuale pace.

P. 100, l'odio che Pentesilea rivolge al sesso maschile è in realtà il risultato di un dissidio interiore, di un complesso psichico direbbe Freud, di un tentativo fallito di repressione della libido come del naturale desiderio di maternità :


Odiai le tracce della gioia impresse

sovra volti mortali. Insino il bimbo

festoso tra le braccia della madre

sembrò schernire la mia sorte. …


Nella scena XV Pentesilea, credendo di aver vinto Achille, gli si rivolge come suo prigioniero e rivela la tradizione delle Amazzoni di sposare quali sostituti del dio Marte i maschi sconfitti in battaglia, per garantire la continuità della stirpe. Ma alla fine si svela l'inganno e Achille appare quale il vero vincitore, con sommo sgomento della regina. Tuttavia il dramma è assai animato, e infatti la situazione si ribalta e nella scena XIX muta completamente a favore delle Amazzoni che, vittoriose sui Greci, liberano Pentesilea.

Nella scena XXIII si compie la tragedia. Achille folle d'amore sfida Pentesilea a duello per poi donarsi a lei e seguirla al tempio di Artemide, ma Pentesilea profondamente turbata nell'animo da quello che considera un tradimento, impazzisce e trascinata da un'ira furiosa, completamente fuori di senno esce in campo come una mènade selvaggia alla caccia della preda. La scena della morte straziante di Achille ricorda quella di Penteo nelle Baccanti di Euripide, in particolare il fatto che Achille, come Penteo, trovi momentaneo rifugio in un pino. Come Agave, madre di Penteo, ne spicca il capo dal busto, così Pentesilea simile a una vampira azzanna il petto di Achille e si lorda tutta del suo sangue.

Nella scena XXIV assistiamo alla catastrofe di Pentesilea. Ella piano piano rinsavisce ma solo per apprendere l'orrendo massacro, quindi, dopo avere indugiato alquanto, incredula di essere stata l'autrice di un simile mostruoso crimine, straziata dal rimorso, ripudiate le leggi dell'amazzone Tanaide, spira improvvisamente colpita dall'immenso dolore. Così termina la tragedia che ci presenta una protagonista che nel suo ruolo di donna fatale si affianca inevitabilmente alla Carmen del Mérimée, alla Salammbô di Flaubert, alla Salomé di Wilde e a tutta la schiera delle maliarde che popola la fantasia dell'età romantica.

Potremmo dire che non è il sonno della ragione a partorire mostri ma piuttosto il rifiuto della natura, e infatti l'isteria di Pentesilea, come nel caso di Salammbô, la conduce obbligatoriamente alla strage e alla morte. E' dunque il ripudio dell'istinto cioè dell'irrazionale a generare il trionfo della follia cioè dell'irrazionale stesso, contro cui non vale nessun discorso ragionevole per quanto persuasivo. In quest'ottica, che è poi anche quella di Rousseau (1), come molto più tardi quella di Jung, l'irrazionalità è più forte della razionalità e l'istinto ha la meglio sulla ragione.



(1) Per l'importanza nella vita dell'amore e del sesso basti citare le sue Confessioni con la rassegna delle sue amanti di ogni genere, dalla giovane signora Basile, a Madame de Warens, alla cortigiana Zulieta, a Madame d'Houdetot e altre.