sabato 30 marzo 2013

Nemrod






Ricordava come Achille n’era inebriato, quando, offeso nell’orgoglio, aveva trafitto con la daga la restia e fredda Pentesilea. Quella era una vergine ostile, dal corpo di giovinetto, dallo sguardo invido di mala femmina, che lo aveva sfidato e n’era morta, sopraffatta, e vittima di colui che aveva stoltamente tenuto per preda. Immaginò che l’eroe l’avesse appesa per i piedi a un albero alto e le avesse reciso l’unico seno e avesse lasciato che il sangue colasse sul terreno fino a formare la melma. Quindi, liberata una muta di veltri famelici, avesse assistito al progressivo laceramento delle membra di lei, strappate dai morsi dei cani, e avesse osservato compiaciuto che da un vicino nido un nugolo di ronzanti vespe le s’appostava sul viso, ed entrava nelle nari e nella bocca e nelle orecchie e le divorava gli occhi.
E gli veniva anche alla mente, tratta dalla memoria di antiche letture, la perfidia dell’inumana Atalia, la figlia della malvagia Iezabel. Ella, in quanto figlia di Acab, re di Israele, era andata sposa a Ioram, figlio del re di Gerusalemme. E quando Ioram salì sul trono, ella divenne regina. E una superbia terribile s’impadronì di lei e divenne così gelosa del trono che non deponeva mai le insegne regali e s’intrometteva in ogni disegno della corte e in ogni piano di battaglia, e controllava i contabili della reggia e oziava nella sala del tesoro facendo scorrere tra le dita le gemme preziose e meticolosamente disponendo piramidi di monete d’oro.
E come la forza misteriosa, oscura del destino, fosse in qualche modo influenzata dalla sua ambizione, ella non condivise più ben presto l’autorità regale col marito, poi che il re venne a morte e a lei toccò la reggenza in nome del figlio.
E le intime cupidigie, quelle che non sogliono manifestarsi ma che si nutrono dei veleni nefasti che albergano nell’animo umano, aprirono agli eventi una via inaspettata e dolorosa all’apparenza, eppure tanto maggiormente ricca di soddisfazioni e di speranze raggiunte. Infatti morì anche Ocozia, il figlio regio.
Veramente il giovane Nemrod poteva meditare sulla insaziabile malizia della femmina, la cagna ignobile che guaisce e lambisce umile i piedi del padrone e latra ai deboli e morde spietata i reietti.
Quale incerta muove i passi invasati quando, già accolto il dio, la menade impazzisce, tale correva per la reggia agitata, forsennata, rosa dal dèmone dell’avarizia, la regina, con i segni della cupa follia in volto.
Indossando le vesti regali, ella si copriva di gioielli e di collane e di corone forgiate dalle mani dei più valenti artefici. Il volto le s’infiammava, le si mozzava il respiro. La prendeva una febbre che consumava a poco a poco le membra e bruciava il sangue nelle vene.
Ora alzava la voce inaspettatamente, gridava, ora lacrime improvvise rigavano le sue gote, ora sogghignava, ora assumeva figura d’ogni sentimento opposto. Un’ira, un desiderio feroce di liberarsi dalle angosce la invase in un’ondata di furore. Non pretese d’essere soddisfatta nei diritti principeschi e non meditò un piccolo o mediocre crimine, ma si gettò a capofitto nella strage immane.
E ordinò l’uccisione di tutti i maschi della stirpe di Davide, che potessero essere stimati legittimi successori ed eredi del defunto re.
Nei sotterranei del palazzo fece raccogliere i bambini e i giovinetti dannati e ad uno ad uno, nelle camere segrete, li eliminò, escogitando ogni forma di tormento, esaltandosi in macabri riti, ormai votata alle potenze infernali.
Né si limitava a torturare il corpo della vittima, ma per l’ebbrezza satanica volle far soffrire anche l’anima.
Quando l’innocente veniva appeso per essere impiccato e stava per esalare l’ultimo respiro, la regina ordinava di trarlo giù, all’improvviso accorrendo a lui da una stanza vicina, mentre aveva prima assistito da un pertugio alla scena, e così appariva quale ancora di salvezza e nobile dispensatrice di giustizia. Quindi prendeva il fanciullo sulle ginocchia e lo rianimava, lo consolava e lo compativa accorata e premurosa, mostrava con disprezzo i carnefici e diceva che presto lo avrebbe consegnato ai poveri genitori, e lo abbracciava e baciava lacrimando. E poi, quando il giovincello, riavutosi, smarrito per la gioia, le ricambiava l’affetto e le poneva, vinto dall’amore, la testa leggiadra sul seno, ella gli immergeva rapidamente un pugnale nella nuca e beveva il sangue che spicciava dalla vena.
Così ricordava il giovane principe e paragonava il proprio odio alla misoginia di Goya, e pensava all’uomo incatenato dai fantasmi dell’orrore, al pittore d’incubi nella Casa del Sordo, al corteo di donne ghignanti.
E in disparte, come già allo spagnolo, si mostrava la donna misteriosa sulla roccia, grave e meditabonda, distaccata, lontana, un enigma.
Il coro delle Parche nerovestite assillava la sua fantasia come quella dell’artista oppresso dall’angoscia della morte, le cui rimembranze, rivolgendosi agli anni felici, trasformavano i sorrisi e le bellezze delle giovani donne amate in ghigni e in orribili smorfie di vecchie vizze.
E ricordava la gentildonna in nero, dal gran nastro roseo sui crini ispidi, il cui viso guardava siccome immota e ambigua statua di cera.
E pensava a Fuseli tratto per mano da Lady Macbeth nell’inferno della fantasia, tra donne soffocate nel sonno o fra assassini inseguiti dalle Furie.
E la memoria lo attrasse nella corrente sinfonica del musico Bruckner, che lo incantava talora più di altri maggiori. In un viaggio senza meta si sentiva trasportare, in una dolce ondata di malinconia. E alternandosi i momenti di abbandono sentimentale al vigore, alla forza maestosa che interpretava la lotta incessante, universale, egli si smarriva in un labirinto, in un mondo irreale, ma assai più autentico di quello in cui vivono le ombre sicure degli uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni sublimi, di vera vita.
Nel nostro cuore è il paradiso e l’inferno, nella nostra fantasia i mondi perduti tra le stelle, e i sonni ci fanno vivere migliaia di esistenze. Che cos’è la realtà se non un attimo che si dissolve nella coscienza ?
E scorse verso l’orizzonte le tenebre farsi prossime, e udì un rombo sordo, lontano.
Chi sei tu che porti il giorno, chi sei tu che rechi la notte, che sollevi i venti, che disperdi le nubi, che incessantemente ti muovi, Dio ?
Lo riprese l’ossessione di Lady Macbeth e delle streghe della landa, e presentì che con le prossime tenebre si dovevano rinnovare i riti oscuri, cari ad Ade. Come nel quadro di Fussli sarebbe ancora apparso l’inviato d’oltre mare, l’inviato dell’Occidente, a condurre via nell’impeto del galoppo l’anima sacrificata.
Una fiamma bianca subito varcò l’estremo limite occiduo. Udì un nitrito al pari d’un tuono empire lo spazio e quasi schiantare le ombrose nebule della notte. Un cavallo candido correva sopra le acque prodigiosamente con l’empito degli otto zoccoli, levando nugoli di spuma. Sleipnir correva a lui sopra le acque, e la terra sembrava ritrarsi, impaurita. Doveva venire il grande Odin.
Doveva rivelarsi, prima o poi, il dio. Doveva rivelarsi al suo spirito il dio terribile, il dio dominatore, che percorre i campi di battaglia, Ares insaziabile, che favorisce la lotta, Dioniso, creatore e distruttore, cui è debitore il cosmo dell’incessante divenire, Colui Che crea senza fine, il Supremo Artefice, proteso nella corsa infinita.
Il grande cavallo bianco arcava il dorso e irrigidiva e scuoteva furente il forte collo e i crini della giuba erano bagliori di luce astrale e gli occhi due neri soli in cui si perdeva l’infinito.
E al principe venne alla mente il gran carro del sole, sul quale Apollo, guidando i cavalli infuocati, vinse il mostro degli abissi, il serpente Pitone. Apollo afferrò l’arco e diresse l’infallibile freccia nella gola di Pitone, e vinse, il lungisaettante. E intorno precipitavano dal cielo i demoni malvagi e si nascondevano negli elementi inferiori, e fuggivano atterriti il lume accecante.
Ma come volse la vista all’ombra del promontorio, ecco un altro cavallo, nero, nitrire disperatamente, e sulla groppa un uomo nudo legato da corde, sanguinante, il volto lacerato dai giorni, la bocca arsa dalla sete. E galoppava a rotta di collo giù dal promontorio tra i pini e i cespi di ginestra, e smuoveva i sassi sotto gli zoccoli, sollevando la polvere.
Il corsiero nutrito d’erbe marine si precipitava nello spazio immenso, verso l’interminabile orizzonte.
Ed ecco su fumanti destrieri seguire l’esercito dei giovani eroi, impetuosi nella corsa funesta tra le onde sterili e il vasto manto arido delle sabbie, quale muta ansimante di veltri dietro una preda che trascina nell’insidia.
E il prigioniero della bestia gigantesca si torceva nei morsi delle corde insanguinate e alzava le pupille nere velate di rosso pianto al cielo violaceo venato di effusioni d’oro e di vaste frange scarlatte.
E seguitavano i giovani guerrieri, pronti a procombere sotto i dardi dell’infallibile arciere, del fato ineluttabile.
Le sabbie svanirono, all’improvviso, in una voragine, nascosta dalle ombre della notte imminente, una larga fenditura nella roccia, spalancata quasi una bocca. La quale tutti accolse in un tumulto inaudito, e lo scalpito continuò ad echeggiare nel grembo della terra, come un tuono nel cielo.
Le onde riversarono i cadaveri sul litorale. Grossi stormi di gabbiani voraci immersero il becco nelle orbite, nel costato, nel molle ventre. Il fetore ammorbava l’aria, e i topi s’incoraggiarono e s’avvicinavano alla riva.
E, sullo spettacolo di quella miseria, ascendeva la luna, calma, radiosa, impassibile. E la luce sua avvolgeva candidamente i corpi smembrati e i divoratori intenti a strappare e a rodere le carni, i grigi topi crudeli e gli avidi gabbiani nutriti dei rifiuti del mare.
E oltre l’orizzonte il sole scompariva definitivamente. E andava a illuminare un altro mondo, correndo nella corsa infinita, e andava a illuminare nascite e morti e volti addolorati e volti pieni di speranze. E roteava nello spazio senza confini, l’immane globo di fuoco, e intorno ad esso i globi ignei degli astri precipitavano, precipitavano nella notte senza fine.
E la luna calma, radiosa, impassibile illustrava l’incedere maestoso d’una donna mitrata che nella destra reggeva il loto, nella sinistra lo scettro, ed era ignuda, fuor che le spalle coronate da un manto ceruleo segnato di rabeschi d’argento. Due negre pantere erano ai lati, mostranti le candide zanne nelle fauci ignite.
E di nuovo, sul lido, correva il grande cavallo bianco, divino. I suoi occhi lucevano nella notte stellata come nere gemme.
E le pantere si lanciarono a inseguirlo. Ombre rapide e furtive di sicarii, esse balzavano nella notte senza rumore, ma s’intravedeva il digrignare d’avorio e gli occhi parevano guizzanti fiammelle. Con un ruggito si gettarono sulla preda raggiunta, ed iniziarono l’aspra contesa.
Il corsiero s’inarcò sopra le zampe possenti, menando con gli zoccoli anteriori colpi mortali che fendevano l’aria quali cozzi di maglio.
Ansimando per le froge umide mordeva lo spiro marino, che scoteva i crini e la coda fluente. Le pantere saltando sul dorso gli laceravano con gli artigli l’ampia schiena muscolosa, e rivoli di sangue escivano, ed erano assorbiti dalla sabbia come un caldo ruscello. Ma il cavallo gigantesco ergendosi nella sua forza le ributtava, scaraventandole con furia nella polvere. Esse tornavano ad attaccare più maligne e crudeli, ruggendo d’ira e di scorno.
Oppresso dai ripetuti assalti il destriero fu travolto e cadde in una nube di sabbia. Le pantere si slanciarono per sgozzarlo, ma esso le involse nel turbine sollevato dal vasto corpo.
Confusi nella mischia i tre animali sembravano un unico organismo che ruotasse su se stesso, spargendo un polverio fitto, come una cortina di nebbie.
Si rizzò infine il corsiero spaventosamente grande e luminoso, un nume uscito dalla terra, le orbite erano globi di fuoco e dalla bocca scaturiva il vapore intriso di minutissime gocce di sangue pompato da un cuore impazzito.
Liberatosi, in una corsa cieca e disfrenata maciullò con gli zoccoli le sabbie del lido e, allontanandosi, sparve nella notte come un fantasma o una forma vaga e fluorescente.     

      


sabato 9 marzo 2013

La passeggiata






La passeggiata era in effetti gradevole e il sole del pomeriggio inondando la vegetazione ne schiudeva il sentore acre e possente di resine e liberava il profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo anfratto da cui la vista si perdeva sul golfo splendente, si sedette sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore del tabacco si fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini che sorgevano in lui disordinatamente.
Una distesa verde d’alberi, di cespugli e di macchia mediterranea si prolungava sino al mare, distinta dal flutto cilestre da un breve serpeggiare di sabbia.
Il fumo s’alzava nell’aria, si smarriva come i suoi sogni, svaniva nel puro cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di fanciulle. Il sito era silente e colmo d’un torpore lussureggiante. Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco confondere negli esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili che cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli lenti.
E ricordava quella bellissima immagine che Foscolo ricreò nelle Grazie, traendola da Omero, e gli parve che un infinito sciame d’api divine e luminose s’estendesse sul mare azzurro e calmo come gli occhi d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche che a lui apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde, spumeggianti sulla battigia, e udiva il murmure delle acque ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel sonoro fluttuare, ripetuto innumerevoli volte, quasi una musica d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni come le voci vaghe di interminabili cori di anime un tempo viventi, che celebravano e rimpiangevano la breve esistenza ?
E pensava alla propria esistenza, agli anni irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava solo un incerto ricordo, ai volti incontrati di gente fuggevole e a qualche gentile volto di fanciulla, che aveva amato segretamente in brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria meravigliosa vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle fanciulle non avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli invece aveva assaporato con lentezza la beltà senza paragone dei corpi e delle anime inconsapevoli. E così, innanzi agli stupendi paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e davanti alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi dello spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri dell’amore in quei limiti stessi che lo facevano desiderare. Infatti egli non poteva amare se non quello di cui sentiva profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio, avido di bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi volti di donne brutte che parevano essere più dei due terzi della popolazione femminile. E veramente la bruttezza, la volgarità, la scipitezza appaiono nella donna con fortissima evidenza, ma la bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre rapito, quando appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura. Allora i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio come si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile prospettiva su monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente l’antipatica realtà, fredda e vuota, e si consolava e sognava i mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava illusioni oltre le illusioni, in una infinita distesa di forme e di colori, un oceano sconfinato di fronte al quale il suo occhio interiore restava fisso in preda allo stupore e allo sgomento, poi che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere nella sua anima.
Se chiudeva gli occhi spesso si trovava nel buio dello spazio fra gli astri ed innumerevoli nubi di luminoso pulviscolo stellare, e con incredibile velocità trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella sospensione del tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i secoli, e le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza, misteriosa e irriconoscibile, quasi un flutto inarcantesi in un attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e invisibile prima del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo, nel vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla propria vita trascorsa e ormai dissolta, presente di quando in quando nel ricordo, ma raramente come nitida immagine anzi più spesso vaga e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la gioia di attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una freschezza, di una dolcezza e di un senso di vastità così forte e di magnanimità, che il suo spirito si sentiva sollevato all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei mondi che appaiono sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella solitudine.
E quegli istanti di felice rimembranza gli consegnavano, pur nella loro brevità, la giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume torbido della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà quale mano, e che talvolta torni in superficie nelle soste della corsa impetuosa, e improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi senza seguito erano sorti in lui dalla fuggevole rimembranza, dalla rimembranza fuggevole d’immagini deliziose quali quelle scaturite dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e Isminia, così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché, nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono flebile che si smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco nascosto. Laggiù si celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e selvaggio. Le tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava il suo occhio, luminoso come un faro.


E avanzava sul sentiero sassoso, in mezzo ai pini fruscianti.
Il tramonto arrossava i loro tronchi, che avevano l’aspetto di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare immenso, il cielo era invaso da strisce di nuvole fosche che navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare dell’onde e gli parve che i monti intorno echeggiassero a quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al mare murmureo, udì un improvviso fruscìo fra i pini e i ciuffi di ginestra selvatica. Si volse incuriosito e intravide fra i rami e le foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo e della luna nascente furono incantati e carpiti da occhi che nell’ombra lo guardarono quasi gemme, rilucendo d’una luce indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi marini e il fulgore degli astri.
E si allontanò nel silenzio.

domenica 3 marzo 2013

Inno alla Madre degli dei





Fervida mente del violaceo mare,
inno di forti ali,
o signore dell’ignoto labirinto
ove pallidi pullulano i germi di vite d’oro;
gli esseri da Oriente sorgono e inondano in Occidente
la terra ebbra.
Il tuo seme la Madre accoglie sulle alte montagne,
onde la vita sgorga dei vasti fiumi,
padri delle foreste mormoranti, gioia
di canti e vero luminoso tempio degli dei.
Di lodi perenni
esultano i monti inaccessibili e le querce,
maestose madri, alitano virtù.
Da esse delle stirpi superbe nelle contrade la forza spira,
cui il destino diede l’impero del mondo.
Nelle selve virenti
d’oro cantano i raggi
ai figli degli dei,
e il vento melodie
suona tra i rami
e dalle scabre rocce
sorge lo stambecco,
erto nelle pietraie.
E te invoca
tutta la montagna nera,
o mare,
quando all’alba
schiudi la voragine
donde trionfa
agl’inni celesti
il sole.
E tu, o sole, che illumini oscuro ai mortali,
chi sa il tuo nome ?
Dove danzeranno ancora avvoltoi
intorno alle colonne,
dove splende il fuoco ?
Sopra le onde ti libri e mormora il vento aligeno;
alato, tu solo voli.
Nel profondo senno della Madre
non è ignoto alcun mistero,
né al nobile fiume dal cupo gorgo,
e tu li conosci e, nell’antico inno
dei giganti occulti,
esalti l’intimo amplesso dell’aureo gioco,
tu che navighi
sul flutto d’oro.
O silvano incantesimo,
dolci musiche rapisci
al furtivo fruscio del fauno !
E ancora scorreranno i miei tenui sussurri nell’ombra
d’un quieto sguardo ?
Ora potessi svanire
nel verde specchio
e morire quando danza la luce.
Vorrei dormire nell’erba,
e quando il vento vellica
il serico vello maculato del mio cucciolo vivace,
allora destarmi
e al tuo seno anelare,
o Flora,
e al suono delle messi canore.
E voi acque scroscianti e fresche,
inebrianti liquori
della terra !
O rive felici,
qui sempre liete di sfrenate gare di fauni,
ridete
nella rosea primavera.
Tu sorridi tra la radiosa danza delle fanciulle
e il mormorio delle correnti,
o fauno,
sorridi fra gli odorosi rami,
mentre gioca tra le sacre fronde lo spiro all’inno degli alati,
e un’aura sfiora le membra.
Oh, soltanto lontano,
via dal volgo blasfemo,
via,
io posso vivere.
Scimmie
cadute dalla vulva materna
sghignazzano nei covi avari degli uomini,
le loro strida dominano un mondo attonito.
Dov’è l’Uomo ?
Dov’è l’Uomo maestoso nella sua bellezza, nel suo fiero
Corpo di dio,
degno della terra e del mare
e del silenzio delle foreste ?
Esulta gioiosa nel canto d’oro la stirpe degli dei,
cui della terra è il regno,
cui tu sei guida,
o centauro.
Poi che infinita
è la progenie degli uomini,
quali le foglie brune delle selve,
oscura trascorre,
alito di vento
sulle biade.
Ma tu, o dio ignaro di pace,
che non soffermi l’occhio sulla vita prono,
meditabondo,
che dissolvi l’iniquo grido degl’infimi,
ora trasvola come fiamma balzando
dal seno della terra e scuoti
la volta del cielo,
che trema innanzi all’eco nero
della tua rabbia divina !
Vieni con me.
Qui
non c’è ombra di mortali.
Io sono
nel ventre del drago.
Io sono
dove splendono onde del grande lago,
ove dardeggia acqua verde di muschio.
Vieni,
pazzo corsiero ebbro,
ostinato;
corri all’estremo abbraccio della luce,
corri tra alti abeti, corri,
non riposare a rivi calmi d’ozio,
non riposare.
Poderoso sogno,
disdegno soave,
sù guidami
per i campi sereni, lontano,
via dal borghese bolso !
Irrefrenabile sabba, irridente innito,
sù vorticheggia intorno all’igneo iddio, sù salta
fra gli artigli di risate ferine !
O Cibele !
Io ammiro l’occhio tuo,
riflesso di bronzei oceani, manto
d’autunno, bella fiera
della terra.
Antro muscoso,
stilla d’ombre vellute,
chioma di corimbi;
silente
annunci all’occidua attesa
dei coribanti il prossimo trionfo,
te onora
il coro dei misti.
Nel cielo ti ergi sul trono, o dea,
e poni il piede sacro
sovra il mare purpureo,
il tuo occhio onniveggente,
quale raggio di luna,
si profonda
nelle tetre lande
percorse dai venti freddi delle montagne.
Colà
si celebrano i sacrifici,
nelle profondità delle foreste, nelle caverne inviolate,
sulle rupi che sfidano la folgore,
tra gli scrosci della pioggia torrenziale che travolge
le balze buie e impetuosa
sgorga nei fiumi e fragorosa
si riversa in cascate di scoglio
in scoglio,
vorticosamente schiumante
sino al mare gelido e grigio !
O antico
che ti unisci alla Madre
con l’impeto della tua maestà selvaggia,
col coro tortuoso delle tue creste ardue e terribili,
o anguicrinito,
che serbi per te
tesori spaventosi,
colà,
con le tue acque date alle nubi,
ti dirigi e dilavi il suolo,
avido
di possederne nel tuo letto inviolabile.
Laggiù
s’accendono le torce che celebrano i Misteri,
tra i canti dei fedeli
e le coppe che di mano in mano danzano
spumeggianti del bruciante sangue di Bromio.
Evocano
dalle latebre dell’essere
la favilla di Prometeo,
l’ardore
del Titano indomito,
il fuoco
divoratore,
che schianta le tenebre
e scalda i bracieri e le speranze degli uomini.
Tu
sai che
terra ed acqua, aria e fuoco
è l’Uomo,
o Dioniso,
che canti alla danza delle Menadi;
soave
canti
quando dolcemente in ombra riposano
e quando Febo onnipotente folgora.
Tu
non hai
tempio,
o Divinità presente in ogni essere,
o tu che vivifichi i corpi ormai privi di luce,
tu che trascorri quale infuocata meteora
in tutto lo spazio infinito e nei sempre nuovi mondi,
o possente
fiaccola della vita eterna
su cui è velo lieve,
una parvenza,
la morte,
che è dolce risveglio in un mondo nuovo;
vieni a me
nella tua spaventosa bellezza,
o Dioniso
terribile,
onnisciente, onnipresente, onnipotente,
che io possa come una fiamma
correre sui fianchi dei monti sino alle vette,
ove sibilano i tuoi fulmini, dove infuriano i venti,
tuoi messi.
Sulle montagne
si respira l’alito degli dei,
sulle montagne
ho visto ascendere nel sole
il perfetto,
Zarathustra,
un mistero per gli uomini,
uno scandalo per gli abietti,
un senza dio per i ragni insidiosi;
ed egli si è volto
a me
e il suo occhio era un abisso,
e il suo urlo
l’urlo delle tempeste.
Ah, certo
come te ho dovuto
anch’io
affrontare l’acido ceffo degli ultimi uomini
e prendere la via difficile e penosa dell’esilio.
O Zarathustra,
o amico della mia giovinezza,
perché,
dimmi,
perché
m’hai abbandonato ?
Possente fiato del mare !
Sfrenata corsa dei flutti liberi !
O selve
sui fianchi neri delle montagne
inebriate dal sole !
Così
trascorse
la mia giovinezza nell’incanto
della vostra malia invincibile,
sulle colline fra gli uliveti,
sovra i muri dei campi,
tra pinete selvagge,
inebriate dal sole,
lo sguardo in alto al lento ruotare del falco
o all’erta invano
dietro la volpe furtiva.
Fra i canneti delle mie valli
ho talvolta sorpreso il fagiano,
elegante e ignobile quale un satrapo d’Oriente,
e ho scorto la fuga dei pesci d’oro
a fior dell’acqua verdastra delle cisterne.
E al vento di Libeccio ho visto fluire
fra i rami degli ulivi tremanti
la sua luce
come la chioma del sole,
la sua corsa
come respiro nell’ampia navata selvosa,
una musica di aneliti e di palpiti profondi,
e allora ho detto a me stesso :
“ Ecco,
io sono un ruscello tra i massi delle montagne
e vorrei colmare le tue mani
e vorrei
lambire le tue labbra
e vorrei placare
la tua sete.
Oh, Zarathustra,
ferma il tuo piede,
almeno
sosta a sentire il mio lamento,
non lasciarmi
trascorrere
a dissolvermi nel mare ! “
Oh,
perché non mi sono perduto nei rubri tramonti,
nel sangue
sparso dell’Oceano,
nella fuga ebra
del corsiero fluttuante quale onda
negra sovra il lido
luttuoso
o prua ratta
come dardo d’ebano !
Ma sono qui
e resto su questa terra
in cui s’annida un’immonda progenie,
nascosta al sole.
E si nutre di rancore, avida e vile.
E gode
del male altrui,
e piange spesso
di rabbia.
Oh,
certo l’esilio è amara sorte,
ma peggio
è vivere entro la terra
quali arvicole,
e non respirare
l’aria viva e non scaldarsi ai raggi del giorno.
Ché l’occhio dell’uomo
non vede
se non l’accieca
l’occhio del cielo,
se non si leva alla soglia socchiusa delle nubi.
Un tempo
udii un saggio che diceva :
“ E tu,
cinto di verde,
o mare,
rivestito di sole e di pioggia,
tu dai baci dolci e terribili,
forti come il vino,
i tuoi larghi amplessi
m’accolgano,
inebrianti come aromi,
dolorosi come tormenti.
Salvami
e occultami con le tue onde,
cercami
una tomba tra le mille tue
tombe,
quelle inviolate tombe gelide,
ma levigate senza mano
in un mondo senza macchia. “
Che il mio spirito
riposi nascosto
come i tesori nel tuo grembo,
o grande padre,
possente nelle tempeste e delicato amante,
specchio del cielo,
quando sei sereno.
Che il mio spirito
al pari del sole possa sorgere
dal tuo corpo infinito,
nell’ora in cui Dioniso chiami,
e possa cantare
la gloria e la vittoria del sublime Maestro !
Che il mio spirito
incontri il sole sul suo carro fervente nella corsa incessante
dei feroci corsieri di fiamma,
il giovane
sempiterno
cui nulla sfugge,
che scivola sulle onde e giunge negli abissi grevi e viola
gli antri tenebrosi
della Gran Madre !
Egli scorre sovra i giganti arborei
che popolano
gl’inaccessi dorsi delle montagne,
sovra
le rupi ove nidificano le aquile, dove
limpido è il cielo, dove
regna la Solitudine e il Silenzio.
Oh,
possa il mio spirito essere colmo
di quella Libertà,
che è Solitudine
e Silenzio,
e libero volo
per baratri azzurri e abbaglianti di purezza !
Io camminerò
per le tue vie, o cielo,
o mare,
libero e felice, vestito di verde e coronato
di spuma,
una vena delle correnti del mare !
E tu,
o Madre,
o puro amore,
le tue labbra sono amare,
ma è dolce il tuo cuore.
Tu sei
più antica della terra,
tu
troneggi sopra i cadaveri degli uomini.
Mi hai rivelato i segreti
degli abissi,
mi hai mostrato i doni
delle maree.
Vieni qui,
tu che eri in principio
e sarai alla fine,
sempre
col tuo Sposo,
vieni, o meravigliosa e superba Donna del mondo,
che governi il moto degli astri e fai tremare
le viscere della terra
e fai nascere e morire le stelle innumerevoli, e susciti
con lo scettro gli uragani e innalzi, braccia tese al cielo,
i flutti distruttori,
che sibilano e urlano ebbri
della tua bellezza.
Oh,
vieni a me tra queste selve
ridenti
nel fulvo abbraccio del sole,
vieni con il tuo respiro sacro
che solleva le foglie cadute, che agita
le fronde irrorate di linfa,
che inspira in tutta la foresta
un tremore di gioia !