sabato 28 dicembre 2013

Giosue Carducci, dalle Odi barbare.






FUORI ALLA CERTOSA DI BOLOGNA

Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case
de i morti il sole! Giunge come il bacio d'un dio:

bacio di luce che inonda la terra, mentre alto ed immenso
cantano le cicale l'inno di messidoro.

Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d'onde:
ville, città, castelli emergono com'isole.

Slanciansi lunghe tra 'l verde polveroso e i pioppi le strade:
varcano i ponti snelli con fughe d'archi il fiume.

E tutto è fiamma ed azzurro. Da l'alpe là giú di Verona
guardano solitarie due nuvolette bianche.

Delia, a voi zefiro spira da 'l colle pio de la Guardia
che incoronato scende da l'Apennino al piano,

v'agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti
giú con le nere anella per la superba fronte.

Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando
gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore,

udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella),
udite giú sotterra ciò che dicono i morti.

dormono a piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi
a suon di scuri i sacri tuoi silenzi, Apennino:

dormon gli etruschi discesi co 'l liuto con l'asta con fermi
gli occhi ne l'alto a' verdi misterïosi clivi,

e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage
ne le fredde acque alpestri ch'ei salutavan Reno,

e l'alta stirpe di Roma, e il lungo-chiomato lombardo
ch'ultimo accampò sovra le rimboschite cime.

Dormon con gli ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su 'l colle:
udite, o Delia, udite ciò che dicono i morti.

Dicono i morti - Beati, o voi passeggeri del colle
circonfusi da' caldi raggi de l'aureo sole.

Fresche a voi mormoran l'acque pe 'l florido clivo scendenti,
cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento.

A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra:
a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. -

Dicono i morti - Cogliete i fiori che passano anch'essi,
adorate le stelle che non passano mai.

Putridi squagliansi i serti d'intorno i nostri umidi teschi:
ponete rose a torno le chiome bionde e nere.

Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
su la vita che passa l'eternità d'amore. -

venerdì 27 dicembre 2013

Stendhal, Le rouge et le noir.






Stendhal Le rouge et le noir Paris, Larousse, s. d.
( 1831 )


Cap. I e inizio del II, descrizione del paese di Verrières improntata al realismo, non mancano sfumature di tono romantico : la scena naturalistica delle montagne e della passeggiata costeggiata dai platani.
Cap. V : Julien è un cultore del mito di Napoleone. Legge Rousseau ( Les confessions ) e il Mémorial de Sainte Hélène. E' un romantico dall'immaginazione fervida ed esaltata, soprattutto è un ambizioso che si propone, come Bonaparte, di ascendere da una condizione oscura alla celebrità grazie al proprio ingegno. Ricorda il personaggio di Raskòlnikov del Delitto e castigo ( 1866 ) di Dostoevskij, a cui somiglia anche nell'aspetto, anche se più piccolo di statura, è infatti pallido, dagli occhi febbricitanti, ha i capelli castano scuro, il suo sguardo talvolta esprime ferocia. Inoltre anche Raskòlnikov è infatuato di Napoleone, tanto che concepisce tutto il suo piano delittuoso sulla base di una sua teoria del superuomo, di cui appunto il Bonaparte costituisce un modello. A tal proposito vedi Leopardi, Pensieri, LXXIV : “ Spesso, come nelle donne, l'amore verso questi tali è maggiore per conto ed in proporzione del disprezzo che essi mostrano, dei mali trattamenti che fanno, e dello stesso timore che ispirano agli uomini. Così Napoleone fu amatissimo dalla Francia, ed oggetto, per dir così, di culto ai soldati, che egli chiamò carne da cannone, e trattò come tali. … Anche una sorta di brutalità e di stravaganza piace non poco in questi tali, come alle donne negli amanti. … “ pag. 325 ( ed. Meridiani, Mondadori ).
Pag. 33, segni premonitori della fine cruenta di Julien : le finestre della chiesa coperte di drappi color crèmisi, l'annuncio della morte di un certo Louis Jeurel ( anagramma del suo ) e l'acqua sparsa sul pavimento dall'acquasantiera, che appare color del sangue per il riflesso provocato dalle tende rosse alle finestre. Così viene di fatto annunciata la tragedia.
Pag. 47, sadismo di Julien ( atteggiamento mentale simile in Flaubert ) : conversa con madame de Renal per la prima volta liberamente e parla “ d'opérations chirurgicales; elle palit et le pria de cesser “.
Pag. 48, condanna dell'ipocrisia clericale e della società postnapoleonica ( su Napoleone vedi Nietzsche, Genealogia della morale, pag. 602, vol II, Newton ).
Il Pensiero n. LXXV ( pag. 325 ) di Leopardi a proposito delle donne e del mondo ( “ E il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta. “ ) rivela una misoginia assai simile a quella di Nietzsche ( Così parlò Zarathustra, “ Di donnicciuole vecchie e giovani “ : Vai dalle donne ? Non dimenticare la frusta ! “ ).
Pag. 54 : sensazione di piena libertà di Julien a contatto della natura. Ingenuità d'animo. Sentimento del sublime : grandi precipizi, rocce tagliate a picco sovrastanti il fiume. In fondo alla pagina : “ Certaines choses que Napoléon dit des femmes … “ vedi i Pensieri di Leopardi citati in precedenza. E' costante l'ossessione per l'eroe Napoleone.
Vedi nel frontespizio del capitolo VIII la citazione ( queste citazioni ricorrono in più capitoli ) dal Don Juan di Byron.
Leopardi, Pensiero LXXXII : superiorità dell'uomo d'azione e quindi esperto del mondo sugli altri che bambineggiano. L'uomo d'azione è “ … forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè più atto a far uso di sé e degli altri. “ Richiama alla mente la concezione nietzscheana della volontà di potenza. Ma chi è il modello di riferimento ? Non potrebbe essere l'uomo d'azione per eccellenza, cioè Napoleone ?
Pag. 64 : iconografia dell'eroe romantico : Julien in alto sulla rupe osserva i boschi sotto di lui e il volo dello sparviero nel cielo limpido, naturalmente pensa a Napoleone, di cui l'uccello, come l'aquila, è un simbolo. Tutta la scena richiama l'idea della Volontà di potenza nietzscheana ( si pensi anche al celebre quadro “ Viandante sul mare di nebbia “ di Friedrich ).
Per quanto possa apparire anacronistico o fuori luogo, il disprezzo per la ricchezza e la borghesia è manifesto nel pensiero aristocratico degli storici antichi, vedi Tito Livio, Ab urbe condita, III, 26, che riferendo il celeberrimo episodio di Cincinnato, afferma : “ Operae pretium est audire qui omnia prae divitiis humana spernunt neque honori magno locum neque virtuti putant esse, nisi ubi effuse affluant opes. “ E' incredibile come tutto il meccanismo delle lotte sociali si rispecchi in Tito Livio.
Cap. XI, pag. 67 : dopo la conquista di madame de Renal, Julien pensa alle vittorie di Napoleone e alla propria , sino quasi a identificarsi col Buonaparte. Questa megalomania è tipicamente romantica e avvicina curiosamente il tipo romantico a Nietzsche che, come dimostra Verrecchia, era megalomane in modo patologico.
Cap. XII ( “ Un voyage “ ) pag. 71 : l'attraversamento del bosco sino alla grande montagna sopra Vergy, il rifugio nella grotta, l'esaltazione di Julien innanzi al sentimento della libertà, tutto questo prelude all'esaltazione romantica di Nietzsche quale si ritrova nel suo Così parlò Zarathustra. Questo spiega perché i lettori del “ filosofo “ tedesco siano stati così ammaliati. Nietzsche, infatti, è decisamente un puro romantico ( genio e follia ) che ha sintetizzato nella propria vita la forza passionale, irrazionale e superomistica propria della tradizione letteraria precedente oltre alla morbosità contemporanea ( Baudelaire, Flaubert ). Non dimentichiamo Swinburne, e la Tentation de Saint Antoine di Flaubert.
Pag. 72, notare due parole : “ folie “ e “ Bonaparte “, si pone sempre in evidenza la megalomania o il culto dell'eroe vittorioso tipico del protagonista. Anche Raskòlnikov ha le stesse idee, vuol farsi una fortuna col denaro della vecchia usuraia per aver successo nella società o mostrare le sue eccezionali facoltà.
Julien è un ribelle in un'epoca di reazionari bigotti e di “ filistei “, si veda il pensiero CIV di Leopardi a proposito dell'educazione al suo tempo impartita ai giovani, essa è definita : “ … un formale tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza contro la gioventù. “ La cultura del tempo è “ malefica “ e “ intende al profitto del cultore con rovina della pianta “. In questi intellettuali si agita un moto di ribellione, più che giustificata, ora contro l'età opprimente della Restaurazione, ora ( Nietzsche ) contro lo scientismo accademico e la sicumera positivistica che riduce lo studioso ad una macchina da studio. Il Nietzsche, per quanto lo si dica pazzo, ha se non altro avuto il merito di introdurre la passione ( anche morbosa ! ) nei suoi studi ( La nascita della tragedia ) che attirano il lettore ancora oggi, altrimenti sarebbe stato un arido espositore di dati o di illazioni e di lui oggi non parlerebbe più nessuno.
Cap. XVII, pag. 87 : di nuovo il mito di Napoleone, ritenuto “ l'homme envoyé de Dieu pour les jeunes Français ! “ Le considerazioni di Julien sono quelle di un piccolo borghese ambizioso.
Cap. XVIII, pag. 93. Julien a cavallo, vestito da guardia d'onore per il passaggio d'un re straniero, si comporta come un giovane eroe ( naturalmente pensa a Napoleone ) e un dandy ( “ Il voyait dans les yeux des femmes qu'il était question de lui. “ ) L'incontro con il giovane vescovo d'Agde sottolinea la morale del dandy, il vescovo prova e riprova ogni mossa davanti allo specchio e si preoccupa della sua mitra ammaccata come un indossatore prima della sfilata di moda. E' questo culto delle nuances che abbaglia Julien.
Cap. XXII, pag. 124-125. Invitato a un pranzo da Valenod, Julien dietro la maschera dell'ipocrisia nasconde i propri sentimenti di disprezzo nei confronti della viltà borghese, avida di denaro e volta allo sfruttamento del prossimo, Napoleone fece fortuna grazie al valore militare, non strozzando i poveri.
Cap. XXII ( pag. 131 ) allusioni all'avidità del clero. In questo Stendhal appare un degno seguace di Voltaire ( vedi Dizionario filosofico ).
Cap. XXV : tutto l'episodio dell'entrata a Besançon è di un realismo straordinario. L'ingresso in seminario è accompagnato da un sentore di cimitero e di avversione alla vita che caratterizza l'ambiente e i suoi abitanti, i due preti che quivi incontra hanno in effetti un aspetto odioso.
Cap. XXVI, pag. 155-157. Giudizio fortemente negativo dell'autore nei riguardi del clero e della religione. Dei preti sottolinea l'ipocrisia, l'ignoranza e l'avidità.
Vol. II, “ Les plaisirs de la campagne “ ( pag. 10 ) : solito rimpianto per Napoleone : “ … jamais la France n'a été si haut dans l'estime des peuples que pendant les treize ans qu'il a régné. Alors il y avait de la grandeur dans tout ce qu'on faisait. “ Chi parla è un compagno di viaggio di Julien verso Parigi, un certo Falcoz che conversa con l'amico Saint-Giraud.
Pag. 11, Julien è dotato d'un animo sentimentale ( un'anima come quella di J. è seguita da tali ricordi per tutta una vita ).
Vol. II, pag. 30, cap. IV, “ L'hotel de La Mole “. Al ricevimento nel palazzo del marchese de La Mole è invitato un personaggio, il conte Chalvet, citato nel Mémorial de Sainte Hélène, opera prediletta da tutti gli ammiratori di Napoleone ( anche D'Annunzio ). L'espressione seguente del conte Chalvet : “ En ce cas mon opinion serait mon tyran “, e il suo atteggiamento cinico fanno pensare a certe affermazioni di Nietzsche in Umano, troppo umano, pag. 676, aforisma 483 della “ Parte nona. L'uomo solo con se stesso “ : “ Le convinzioni sono nemiche della verità più pericolose delle menzogne “.
L'autore mostra di stimare i giansenisti, pag. 35, vol. II, cap. V. Vedi in particolare la considerazione da parte di Julien di un certo conte Altamira, liberale esule condannato a morte nel suo paese e cattolico giansenista. Pagg. 41-42, cap. VI : episodio del duello col futuro amico, il cavaliere de Beauvoisis. In seguito a questo episodio si divulga la falsa notizia che Julien sia il figlio naturale di un nobile della Franca Contea, amico di M. de La Mole. Notare che Stendhal sembra avere una “ predilezione “ per i figli naturali, perché anche riguardo a Fabrizio del Dongo sorge sin dall'inizio del romanzo il sospetto ch'egli sia figlio naturale di un generale francese ( v. La certosa di Parma ).
Pag. 46 ( cap. VII ). Julien è stato inviato per affari a Londra dal marchese de La Mole, di cui è segretario. Qui incontra dei nobili russi che lo ammirano molto per il suo atteggiamento da vero dandy : “ faites toujours le contraire de ce qu'on attend de vous. Voilà, d'honneur, la seule religion de l'époque … “
Cap. VIII ( “ Quelle est la décoration qui distingue ? ). La descrizione del ballo pone in primo piano Mathilde de La Mole. La fanciulla è attratta dall'unica cosa che non si può comprare : la condanna a morte. Profondamente annoiata dalla società dell'epoca, ella scorge nello scandalo e nella violazione delle regole l'unica via di fuga dall'ennui. In questo senso Julien le appare come un anticonformista e rimane ammirata e sedotta.
Cap. IX ( “ Le bal “ ), Mathilde cerca di riconoscere in Julien i tratti che esprimono quelle alte qualità che possono valere la condanna a morte. Inconsapevolmente ella indovina il destino di Julien, come una Cassandra.
Pag. 66 “ La reine Marguerite “. NB si narra la storia di Boniface de La Mole che ebbe la testa troncata dal boia segretamente destinata alla cura funebre della sua amante la regina Margherita di Navarra ( a tal proposito leggere di A. Dumas, La regina Margot ).
Pag. 68 : “ L'histoire de leurs aieux les élève au-dessus des sentiments vulgaires, … “ etc. Considerazioni molto appropriate sulla condizione psicologica dei meno abbienti, che giocoforza è meschina.
Pag. 72 ( “ L'empire d'une jeune fille “ ). Letture di Mathilde : Manon Lescaut, la Nouvelle Héloise, le Lettres d'une Religieuse portugaise.
Pag. 83, “ Un complot “. La frase “... chacun pour soi, dans ce désert d'égoisme qu'on appelle la vie. “ denota una concezione dell'esistenza profondamente pessimistica, nonché il motivo della solitudine dell'individuo e della incomunicabilità umana presente in tante opere di scrittori successivi.
Pag. 85. Frase che delinea la fisionomia del ribelle : “ C'était l'homme malheureux en guerre avec toute la societé. “
Cap. XVI, pag. 99. Dopo l'incontro segreto nella camera di Mathilde, Julien si reca a cavallo nelle foreste solitarie intorno a Parigi. Quivi medita sulla sua recente impresa amorosa. La meditazione solitaria alla ricerca dei propri veri sentimenti oltre che del proprio sé ricorda Rousseau.
Pag. 100, cap. XVII ( “ Une vieille épée “ ). Anche mademoiselle de La Mole ha un carattere eroico : “ Le courage était la première qualité de son caractère. Dieu ne pouvait lui donner quelque agitation et la guérir d'un fonds d'ennui sans cesse renaissant, que l'idée qu'elle jouait à croix ou pile son existence entière. “
Pag. 107, cap. XVIII, da sottolineare la frase : “ … mais un des caractères du génie est de ne pas trainer sa pensée dans l'ornière tracée par le vulgaire. “
I cap. XXII e XXIII mostrano chiaramente l'anticlericalismo dell'autore, d'altronde, penso, pienamente giustificato. La controrivoluzione in Vandea sarebbe stata dovuta all'oro di S. Pietro.
Pag. 147 ( cap. XXVI “ L'Amour moral “ ) citazione dal Don Juan di Byron.
Pag. 149. L'eroismo romantico ha un fondamento sostanzialmente ascetico : “ Si, coprire di ridicolo questo essere così odioso, che si chiama Io, mi divertirà. Se me ne credessi capace, commetterei qualche crimine per distrarmi. “
Cap. XXXV, “ Un orage “. Julien si convince di essere in realtà figlio di un nobile rifugiatosi sulle montagne di Verrières e non figlio del carpentiere Sorel. Soltanto questo potrebbe giustificare il profondo odio verso suo padre ( vedi anche cap. VI, vol. II, pagg. 41-42, dove si anticipa questa credenza che Julien sia un figlio naturale ).
Pag. 184. Prima di sparare a madame de Renal, nella chiesa nuova del villaggio appaiono nuovamente i drappi rossi ( crèmisi ), simbolo di sangue e di morte già incontrato all'inizio del romanzo ( vol. I, pag. 33 ).
Pag. 188. Pensieri di Julien in carcere. Alla notizia che madame de Renal è sopravvissuta all'attentato, Julien ritrova la fede. “ In quel momento supremo era credente. Che importa delle ipocrisie dei preti ? Possono sottrarre qualcosa alla verità e alla sublimità dell'idea di Dio ? “ Qui si nota l'influsso del deismo sull'autore ( basta pensare a Voltaire ). I pensieri di Julien in carcere sono veramente la sintesi della vita umana e dei rimpianti o rimorsi degli uomini nella solitudine.
Pag. 193. In prigione, dopo la visita dell'abate Chélan e dell'amico Fouqué, Julien prova orrore al pensiero d'una possibile visita di suo padre. Julien lo odia profondamente, ed è questo un sentimento proprio dell'autore che in Julien trasfonde un po' di se stesso.
Pag. 194, cap. 38. Mathilde in visita a Julien nel carcere vede in lui un eroe : “ Boniface de La Mole lui semblait ressuscité, mais plus héroique “, ella vive sempre nel suo sogno d'amore romantico.
Cap. XL, pag. 202: misoginia dell'eroe romantico. Quando è solo nel carcere Julien pensa : “ Dans le fait, je suis plus heureux seul que quand cette fille si belle ( Mathilde ) partage ma solitude … “
Cap. XL, pag. 203. Egotismo dell'eroe romantico ( e del superuomo ) : “ Lasciatemi la mia vita ideale. I vostri piccoli fastidi, i vostri dettagli della vita reale, più o meno urtanti per me, mi trascinerebbero giù dal cielo. Si muore come si può; quanto a me non voglio pensare alla morte che a mio modo. Che m'importa degli altri ! Le mie relazioni con gli altri saranno troncate bruscamente. Di grazia, non mi parlate più di quelle persone … “
Cap. XLII ( pag. 211 ). Considerazioni di Julien sulla religione. Tutto sommato appare un romantico, crede in un Dio del sentimento e dell'amore, il Dio di Fénelon. A proposito del Dio della Bibbia dice : “ Non l'ho mai amato non ho mai neppure voluto credere che lo si amasse sinceramente. E' senza pietà ( E si ricordò numerosi passaggi della Bibbia ). “ Più avanti la sua affermazione rammenta Dostoevskij. Il personaggio di Raskòlnikov sembra in gran parte modellato su questo Julien. Julien infatti dice a se stesso : “ Veramente l'uomo ha due esseri dentro di sé. “ Il protagonista di Delitto e castigo è assillato dalla volontà d'espiare il proprio crimine esattamente come Julien e come per Julien la motivazione del proprio delitto è l'ambizione.
Cap. XLIII ( pag. 215 ). Reminiscenza del “ Belfagor “ di Machiavelli ? O forse di un autore medievale ?
Pag. 222, cap. XLIV. Socialismo giacobino di Julien : gli uomini dei salotti non si alzano mai al mattino col pensiero fisso di come riuscire a sopravvivere senza morire di fame.
Pag. 223 ( XLIV ). Se Julien ritrovasse la fede potrebbe credere soltanto nel Dio di Voltaire ( vedi Dizionario filosofico del Voltaire, sue aspre critiche alla Bibbia ).
Pag. 229. Ultimo cap. (XLV ). Mathilde bacia sulla fronte la testa di Julien decapitato. Sua somiglianza con l'atteggiamento di Salomé nella Salomé di O. Wilde ( o nell'Erodiade del Flaubert ). Siamo in presenza della donna fatale del Romanticismo.
N. 72 dello Zibaldone di G. Leopardi : “ Anche il delitto bene spesso è un eroismo “, queste considerazioni si addicono proprio al delitto di J. Sorel nei confronti di madame de Renal. N. 262 : la teoria del superuomo è solo in apparenza di Nietzsche, qui Leopardi mostra un atteggiamento di assoluta predilezione nei confronti delle società formate da individui forti sia nel carattere che nel corpo . NB “ uomini vigorosi e atti alla guerra “ : dunque la guerra assume un valore positivo.



mercoledì 25 dicembre 2013

Leopardi, Zibaldone, 660

L’invenzione e l’uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell’arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto. Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l’esercitato all’inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un’uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura. E l’artifizio, sottentrando alla virtù, [660] ed agguagliandola, e anche superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato gl’individui, tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra, l’entusiasmo quasi del tutto, spenta l’emulazione, e toltale la materia, spento l’eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano, o se anche non l’ha spento, l’ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita. Tanto è vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l’arte e la ragione, in qualunque cosa.
(14 Feb. 1821.)


sabato 14 dicembre 2013

Thomas Hobbes, Leviathan, II, 21.





L’obbligazione dei sudditi verso il sovrano è intesa durare fintantoché - e non più di quanto – dura il potere con cui quegli è in grado di proteggerli.


domenica 1 dicembre 2013

Autunno






Autunno planava, stanco gabbiano,
sull’ultime onde della bionda estate,
le ore passate,
uguali, si confondevano in un ricordo vano.
Piano, piano
un quadro di colori e di suoni una eco
si stemperava sulla luce querula
dell’acqua,
uno sciacquìo e una fuga d’ombre,
e tutto se ne andava.

domenica 24 novembre 2013

Leopardi, Zibaldone, 647 – 650.

La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell’animo nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla [647]misura dell’amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell’atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell’animale all’indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l’animale fosse pago, cioè felice, cioè l’amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell’ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente. Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue. Le [649]présent n’est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal. Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l’uomo in natura. Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall’azione continua, da’ presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice. Quindi l’attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile. Oltre l’attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p.e. (ed è uno de’ principali) lo stupore 1. di carattere e d’indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di D’Alembert, Éloges de l’Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio[650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente. 2. derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via dell’oppio, o proveniente da lassezza ec. ec. 3. derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4. dalla immaginazione, dall’estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec. e v. la teoria del piacere. Notate che l’immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell’attività. E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l’attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1828.).

sabato 16 novembre 2013

Leopardi, Zibaldone, 645 – 646.







Non c’è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d’anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista. L’orrore e il timore che l’uomo ha, per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso. Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l’unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile ch’io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell’animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l’ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch’io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch’egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch’io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a riandare, s’io poteva, l’ultima volta ch’io l’aveva o veduto, o ascoltato ec. e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l’ultima volta, e di non [646]essermi regolato secondo questo pensiero.

(11. Feb. 1821.)

sabato 9 novembre 2013

Leopardi, Zibaldone, 630 – 633, sull’immortalità della materia.






Alla p.605. fine. Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch’egli non possa perire. Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s’egli è immortale o mortale? Non c’è che una maniera di perire, cioè il disciogliersi? Nella materia non ce n’è altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d’essere che quella della materia. Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all’uomo. Dico può perire, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo, ed ella non può perire come la materia. Dico può perire, perchè non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all’uomo) una tal morte, che una tale esistenza. Tutte due sono ugualmente fuori della nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio necessario d’immortalità, neanche la materia può perire. Se la materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti. Non cerco ora se questi elementi sieno quelli de’ chimici, o altri più remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admistum dispar [631]sui, atque dissimile. Queste sostanze dunque, se non c’è altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno perire. Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte le parti sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza. Bene; ma queste parti come possono perire? - Anch’esse avranno parti, finattanto che sono materia - Or via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a fare ch’elle non abbiano altre parti, e non sieno materia (come certo non si arriverà); neanche si arriverà a fare che la materia perisca. Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito: chè dall’esistenza nel nulla, come dal nulla nell’esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c’è maggior principio nè ragione d’immortalità, di quello che sia nella materia, e nell’essere il più composto possibile.
Ma se per principio d’immortalità in un ente semplice e senza parti, intendono l’impossibilità di cangiar natura, e per perire non intendono l’annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente annullare, e tanta materia esiste oggi nè più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle quali la materia e qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non possono neppur esse risolversi, nè cangiar natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome si voglia. E la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia, esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella sostanza sarà sempre della stessissima natura. In maniera che anche per questa parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può contenere [633]maggiore immortalità, cioè immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.

(9. Feb. 1821.)

venerdì 1 novembre 2013

G. Leopardi, Alla sua donna.






Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai
Nulla speme m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi. 

sabato 26 ottobre 2013

Hymn to Intellectual Beauty By Percy Bysshe Shelley (1792–1822)






I

T
HE AWFUL shadow of some unseen Power

  Floats though unseen among us,—visiting

  This various world with as inconstant wing

As summer winds that creep from flower to flower,—

Like moonbeams that behind some piny mountain shower,
    It visits with inconstant glance

    Each human heart and countenance;

Like hues and harmonies of evening,—

    Like clouds in starlight widely spread,—

    Like memory of music fled,—
    Like aught that for its grace may be

Dear, and yet dearer for its mystery.



II

Spirit of B
EAUTY, that dost consecrate

  With thine own hues all thou dost shine upon

  Of human thought or form,—where art thou gone?
Why dost thou pass away and leave our state,

This dim vast vale of tears, vacant and desolate?

    Ask why the sunlight not for ever

    Weaves rainbows o’er yon mountain-river,

Why aught should fail and fade that once is shown,
    Why fear and dream and death and birth

    Cast on the daylight of this earth

    Such gloom,—why man has such a scope

For love and hate, despondency and hope?



III

No voice from some sublimer world hath ever
  To sage or poet these responses given—

  Therefore the names of Demon, Ghost, and Heaven,

Remain the records of their vain endeavour,

Frail spells—whose uttered charm might not avail to sever,

    From all we hear and all we see,
    Doubt, chance, and mutability.

Thy light alone—like mist o’er mountains driven,

    Or music by the night-wind sent

    Through strings of some still instrument,

    Or moonlight on a midnight stream,
Gives grace and truth to life’s unquiet dream.



IV

Love, Hope, and Self-esteem, like clouds depart

  And come, for some uncertain moments lent.

  Man were immortal, and omnipotent,

Didst thou, unknown and awful as thou art,
Keep with thy glorious train firm state within his heart.

    Thou messenger of sympathies,

    That wax and wane in lovers’ eyes—

Thou—that to human thought art nourishment,

    Like darkness to a dying flame!
    Depart not as thy shadow came,

    Depart not—lest the grave should be,

Like life and fear, a dark reality.



V

While yet a boy I sought for ghosts, and sped

  Through many a listening chamber, cave and ruin,
  And starlight wood, with fearful steps pursuing

Hopes of high talk with the departed dead.

I called on poisonous names with which our youth is fed;

    I was not heard—I saw them not—

    When musing deeply on the lot
Of life, at that sweet time when winds are wooing

    All vital things that wake to bring

    News of birds and blossoming,—

    Sudden, thy shadow fell on me;

I shrieked, and clasped my hands in ecstasy!


VI

I vowed that I would dedicate my powers

  To thee and thine—have I not kept the vow?

  With beating heart and streaming eyes, even now

I call the phantoms of a thousand hours

Each from his voiceless grave: they have in visioned bowers
    Of studious zeal or love’s delight

    Outwatched with me the envious night—

They know that never joy illumed my brow

    Unlinked with hope that thou wouldst free

    This world from its dark slavery,
    That thou—O awful LOVELINESS,

Wouldst give whate’er these words cannot express.



VII

The day becomes more solemn and serene

  When noon is past—there is a harmony

  In autumn, and a lustre in its sky,
Which through the summer is not heard or seen,

As if it could not be, as if it had not been!

    Thus let thy power, which like the truth

    Of nature on my passive youth

Descended, to my onward life supply
    Its calm—to one who worships thee,

    And every form containing thee,

    Whom, SPIRIT fair, thy spells did bind

To fear himself, and love all human kind.