sabato 29 settembre 2012

Voltaire, Dizionario filosofico






Voltaire1694 - 1778
D i c t i o n n a i r e   p h i l o s o p h i q u e , p o r t a t i f
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A M O U R .
Amor omnibus idem. Il faut ici recourir au physique; c'est l'étoffe de la nature que l'imagination a brodée. Veux-tu avoir une idée de l'amour, vois les moineaux de ton jardin; vois tes pigeons; contemple le taureau qu'on amène à ta génisse; regarde ce fier cheval que deux de ses valets conduisent à la cavale paisible qui l'attend, et qui détourne sa queue pour le recevoir; vois comme ses yeux étincellent; entends ses hennissements; contemple ces sauts, ces courbettes, ces oreilles dressées, cette bouche qui s'ouvre avec de petites convulsions, ces narines qui s'enflent, ce souffle enflammé qui en sort, ces crins qui se relèvent et qui flottent, ce mouvement impérieux dont il s'élance sur l'objet que la nature lui a destiné; mais ne sois point jaloux, et songe aux avantages de l'espèce humaine: ils compensent en amour tous ceux que la nature a donnés aux animaux, force, beauté, légèreté, rapidité. Il y a même des animaux qui ne connaissent point la jouissance. Les poissons écaillés sont privés de cette douceur: la femelle jette sur la vase des millions d'oeufs; le mâle qui les rencontre passe sur eux, et les féconde par sa semence, sans se mettre en peine à quelle femelle ils appartiennent. La plupart des animaux qui s'accouplent ne goûtent de plaisir que par un seul sens; et, dès que cet appétit est satisfait, tout est éteint. Aucun animal, hors toi, ne connaît les embrassements; tout ton corps est sensible; tes lèvres surtout jouissent d'une volupté que rien ne lasse, et ce plaisir n'appartient qu'à ton espèce; enfin tu peux dans tous les temps te livrer à l'amour, et les animaux n'ont qu'un temps marqué. Si tu réfléchis sur ces prééminences, tu diras avec le comte de Rochester: «L'amour, dans un pays d'athées, ferait adorer la Divinité.» Comme les hommes ont reçu le don de perfectionner tout ce que la nature leur accorde, ils ont perfectionné l'amour. La propreté, le soin de soi-même, en rendant la peau plus délicate, augmente le plaisir du tact, et l'attention sur sa santé rend les organes de la volupté plus sensibles. Tous les autres sentiments entrent ensuite dans celui de l'amour, comme des métaux qui s'amalgament avec l'or: l'amitié, l'estime, viennent au secours; les talents du corps et de l'esprit sont encore de nouvelles chaînes.
Nam facit ipsa suis interdum foemina factis Morigerisque modis, et mundo corpore cultu, Ut facile insuescat secum vir degere vitam. (Lucrèce, liv. IV, 1280-83)
L'amour-propre surtout resserre tous ces liens. On s'applaudit de son choix, et les illusions en foule sont les ornements de cet ouvrage dont la nature a posé les fondements. Voilà ce que tu as au-dessus des animaux; mais, si tu goûtes tant de plaisirs qu'ils ignorent, que de chagrins aussi dont les bêtes n'ont point d'idée! Ce qu'il y a d'affreux pour toi, c'est que la nature a empoisonné dans les trois quarts de la terre les plaisirs de l'amour et les sources de la vie par une maladie épouvantable à laquelle l'homme seul est sujet, et qui n'infecte que chez lui les organes de la génération. Il n'en est point de cette peste comme de tant d'autres maladies qui sont la suite de nos excès. Ce n'est point la débauche qui l'a introduite dans le monde. Les Phryné, les Laïs, les Flora, les Messaline, n'en furent point attaquées; elle est née dans des îles où les hommes vivaient dans l'innocence, et de là elle s'est répandue dans l'ancien monde. Si jamais on a pu accuser la nature de mépriser son ouvrage, de contredire son plan, d'agir contre ses vues, c'est dans cette occasion. Est-ce là le meilleur des mondes possibles? Eh quoi! si César, Antoine, Octave, n'ont point eu cette maladie, n'était-il pas possible qu'elle ne fît point mourir François Ier? Non, dit-on, les choses étaient ainsi ordonnées pour le mieux: je le veux croire, mais cela dur.


Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, IV, 1025-1287

Spesso persone pudiche, se avvinte dal sonno credono
di sollevare la veste davanti a una latrina o a un vaso da notte,
spandono il liquido filtrato attraverso tutto il corpo, e le coperte
babilonesi, dal magnifico splendore, ne sono bagnate.
E a quelli cui pei canali adolescenti la prima volta s'insinua
il seme, quel giorno stesso della maturazione che l'ha prodotto
nelle membra, arrivano di fuori simulacri emessi da vari corpi,
nunzi di uno splendido volto e di un bel colorito,
che stimola ed eccita le parti turgide di molto seme,
sì che spesso, come se tutto avessero compiuto, spandono
larghi fiotti di liquido e imbrattano la veste.
Si agita ‹in› noi questo seme, di cui ho parlato prima,
appena l'adolescenza rafforza le membra.
Giacché diverse cause eccitano e provocano diversi oggetti:
dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme umano.
E appena questo, emesso dalle sue sedi, esce,
attraverso le membra e le giunture si ritira da tutto il corpo,
raccogliendosi in determinate regioni nervose,
e immediatamente eccita proprio gli organi genitali.
Le parti stimolate inturgidiscono di seme e nasce la voglia
di emetterlo là verso dove è protesa la furente brama,
e il corpo cerca quello da cui la mente è ferita d'amore.
Giacché tutti solitamente cadono sulla ferita, e il sangue
spiccia in quella direzione da cui è giunto il colpo
e, se il nemico è vicino, il rosso liquido lo copre.
Così, dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere,
lo trafigga un fanciullo di membra femminee
o una donna che da tutto il corpo irraggi amore,
tende verso là donde è ferito, e anela a congiungersi,
e in quel corpo spandere l'umore tratto dal corpo.
Ché il muto desiderio presagisce il piacere.
Questa è Venere per noi; e di qui viene il nome di amore,
di qui quella goccia della dolcezza di Venere stillò
prima nel cuore, e le susseguì il gelido affanno.
Infatti, se è assente l'oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti
le sue immagini, e il dolce nome non abbandona le tue orecchie.
Ma conviene fuggire quelle immagini e respingere via da sé
ciò che alimenta l'amore e volgere la mente ad altro oggetto
e spandere in altri corpi, quali che siano, l'umore raccolto,
e non trattenerlo essendo rivolto una volta per sempre all'amore
d'una persona sola, e così riservare a sé stesso affanno e sicuro dolore.
Giacché la piaga s'inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla,
e di giorno in giorno la follia aumenta e la sofferenza s'aggrava,
se non scacci con nuove piaghe le prime ferite, e non le curi
vagando con Venere vagabonda mentre sono ancora fresche,
o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell'animo.
Né dei frutti di Venere è privo colui che evita l'amore,
ma piuttosto coglie le gioie che sono senza pena.
Giacché certo agli assennati ne viene un piacere più puro
che ai malati d'amore. Infatti nel momento stesso del possedere
fluttua ed erra incerto l'ardore degli amanti, né sanno
che cosa debbano prima godere con gli occhi e le mani.
Quel che hanno desiderato, lo premono strettamente, e fanno
male al corpo, e spesso infiggono i denti nelle labbra,
e urtano bocca con bocca nei baci, perché non è puro il piacere
e assilli occulti li stimolano a ferire l'oggetto stesso,
quale che sia, da cui sorgono quei germi di furore.
Ma lievemente attenua le pene Venere nell'atto di amore
e il carezzevole piacere, commisto, raffrena i morsi.
Giacché in ciò è la speranza: che dallo stesso corpo
da cui è nato l'ardore, possa anche essere estinta la fiamma.
Ma la natura oppone che ciò avviene tutto al contrario;
e questa è l'unica cosa per cui, quanto più ne possediamo,
tanto più il petto riarde d'una crudele brama.
Difatti cibo e bevanda sono assorbiti dentro le membra;
e poiché possono occupare determinate parti,
perciò la sete e la fame si saziano facilmente.
Ma di una faccia umana e di un bel colorito nulla, di cui
si possa godere, penetra nel corpo, tranne tenui simulacri,
che spesso trascinano la mente con una misera speranza.
Come quando in sogno un assetato cerca di bere e non gli è data
bevanda che nelle membra possa estinguere l'arsura,
ma a simulacri di acque aspira e invano si travaglia
e in mezzo a un fiume impetuoso bevendo patisce la sete,
così in amore Venere con simulacri illude gli amanti,
né possono saziare i propri corpi contemplando corpi pur vicini,
né sono in grado di strappar via qualcosa dalle tenere membra
con le mani errando incerti su per tutto il corpo.
E quando, alfine, congiunte le membra, si godono il fiore
di giovinezza, quando il corpo già presagisce il piacere,
e Venere è sul punto di effondere il seme nel femmineo campo,
s'avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell'altro corpo con tutto il corpo;
infatti sembra talora che vogliano farlo e che per questo lottino:
tanto ardentemente si tengono avvinti nelle strette di Venere,
finché le membra si sciolgono, sfinite dalla forza del piacere.
Infine, quando il desiderio costretto nei nervi ha trovato sfogo,
segue una piccola pausa dell'ardore violento, per poco.
Quindi torna la stessa rabbia, e di nuovo li invade quel furore,
quando essi stessi non sanno ciò che bramano ottenere,
né sono in grado di trovare che mezzo possa vincere quel male:
in tanta incertezza si consumano per una piaga nascosta.
Aggiungi che sciupano le forze e si struggono nel travaglio;
aggiungi che si trascorre la vita al cenno di un'altra persona.
Son trascurati i doveri, e ne soffre il buon nome e vacilla.
Frattanto il patrimonio si dilegua, e si converte in profumi
babilonesi, e bei sandali di Sicione ai piedi ridono,
s'intende, e grandi smeraldi con la verde luce
sono incastonati nell'oro, e la veste color di mare è consunta
assiduamente, e maltrattata beve il sudore di Venere;
e i beni ben guadagnati dai padri diventano bende, diademi,
talora si cangiano in un mantello femminile e in tessuti di Alinda e di Ceo.
S'apparecchiano conviti con splendide tovaglie e vivande,
giochi, coppe senza risparmio, unguenti, corone, serti,
ma invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie
sorge qualcosa di amaro che pur tra i fiori angoscia,
o quando per caso l'animo conscio s'angustia per il rimorso
d'una vita trascorsa nell'inerzia e perduta nelle orge,
o perché lei ha lanciato, lasciandone in dubbio il senso, una parola,
che confitta nel cuore appassionato divampa come fuoco,
o perché gli sembra che troppo lei occhieggi o che il suo sguardo
sia attratto da un altro, e nel suo volto vede le tracce d'un sorriso.
E questi mali si trovano in un amore che dura ed è felice
al più alto grado; ma, se è infelice e senza speranza, ci sono
mali che puoi cogliere anche ad occhi chiusi,
innumerevoli; sì che è meglio stare prima all'erta,
come ho insegnato, e guardarsi dall'essere adescati.
Difatti evitare di cadere nei lacci d'amore
non è così difficile come districarsi, una volta presi
in mezzo alle reti, e forzare i possenti nodi di Venere.
E tuttavia, anche avviluppato e inceppato, potresti sfuggire
all'insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso,
e non ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell'animo
o quelli del corpo di colei che prediligi e desideri.
Questo infatti fanno per lo più gli uomini ciechi di passione,
e attribuiscono alle amate pregi ch'esse non posseggono davvero.
Così vediamo che donne in molti modi deformi e laide
sono adorate e godono del più alto onore.
E poi s'irridono a vicenda, e l'uno invita l'altro a placare
Venere, perché lo affligge un brutto amore, e spesso
non scorge, l'infelice, i propri mali, che sono i più grandi.
La nera "ha il colore del miele", la sudicia e fetida è "disadorna",
se ha occhi verdastri è "l'immagine di Pallade", se è nervosa e secca è "una gazzella",
la piccoletta, la nanerottola, è "una delle Grazie", è "tutta puro sale",
la corpulenta e smisurata è "un prodigio" ed è "piena di maestà".
La balbuziente, che non può parlare, "cinguetta", la muta è "pudica";
e l'irruente, odiosa, linguacciuta è "tutta fuoco".
Diventa "un sottile amorino", quando non può vivere
per la consunzione; se poi è già morta di tosse, è "delicata".
E la turgida e popputa è "Cerere stessa dopo aver partorito Bacco",
la camusa è "una Silena" e "una Satira", la labbrona è "un bacio".
Troppo mi dilungherei, se tentassi di dire tutte le altre cose
di questa specie. Ma tuttavia sia pure bella in volto quanto vuoi,
sia tale che da tutte le sue membra promani il potere di Venere:
certo ce ne sono anche altre; certo senza di lei siamo vissuti per l'addietro,
certo ella fa in tutto, e noi sappiamo che le fa, le stesse cose
che fa la brutta, e da sé stessa, misera, s'appesta di odori nauseanti:
fuggono allora le ancelle lontano da lei e furtivamente sghignazzano.
Ma l'amante escluso, piangendo, spesso copre di fiori
e ghirlande la soglia, e profuma di maggiorana
la porta superba, e addolorato imprime baci sui battenti;
ma se, alfine ricevuto, lo investisse nell'entrare una sola
di quelle esalazioni, cercherebbe speciosi pretesti per andar via,
e cadrebbe il lamento, a lungo meditato, ripreso da lontano,
e in quel punto egli si taccerebbe di stoltezza, perché vedrebbe
d'avere attribuito a lei più di quanto conviene concedere a una mortale.
Né questo sfugge alle nostre Veneri; perciò tanto più esse celano
con la massima cura tutti i retroscena della vita a costoro
che vogliono tenere saldamente avvinti nei vincoli d'amore,
ma invano, perché tu con la mente hai pur sempre il potere di trarli
tutti alla luce e di scrutare tutto ciò che può essere oggetto di riso,
e, se lei è di animo amabile e non è odiosa, a tua volta
puoi lasciar correre ‹e› perdonare all'umana limitatezza.
Né sempre di finto amore sospira la donna, quando,
abbracciando il corpo dell'amante, col proprio corpo lo congiunge,
e lo tiene avvinto, dando umidi baci sulle labbra che sugge.
Difatti spesso lo fa di cuore e, cercando condivisi
piaceri, lo stimola a raggiungere la meta dell'amore.
Non potrebbero altrimenti gli uccelli, gli armenti
e le fiere e le greggi e le cavalle sottomettersi ai maschi,
se la stessa natura loro non entrasse in calore, non ardesse traboccando
e non rispondesse con gioia alla Venere di quelli che dan loro l'assalto.
Non vedi anche come quelli che vicendevole piacere
ha avvinti, spesso nei legami comuni si travagliano?
Quanto spesso nei trivi i cani, anelando a distaccarsi,
bramosamente tirano con tutte le forze in direzioni opposte,
mentre restano tuttavia stretti nei possenti lacci di Venere!
Questo non lo farebbero mai, se non conoscessero mutui piaceri,
capaci di farli cadere nella rete e tenerli avvinti.
Dunque, ancora e ancora, come dico, il piacere è condiviso.
E quando, nel frammischiarsi dei semi, per avventura
la femmina con sùbita forza ha vinto e travolto la forza del maschio,
allora i figli nascono simili alle madri per effetto del seme materno,
come ai padri per il seme paterno. Ma quelli che vedi
partecipi d'ambedue gli aspetti, mescolare, l'uno accosto all'altro,
i volti dei genitori, crescono dal corpo paterno e dal sangue materno,
quando il concorde, mutuo ardore ha spinto a incontrarsi
i semi eccitati per le membra dagli stimoli di Venere,
e nessuno dei due ha vinto, né è stato vinto.
Avviene anche talora che possano nascere figli simili agli avi,
e spesso riproducano gli aspetti dei bisavoli,
perché spesso i genitori celano nel proprio corpo
molti principi mescolati in molti modi, che, provenienti
dal ceppo originario, son trasmessi da padri ad altri padri:
così Venere con varia sorte forma gli aspetti
e riproduce i volti e le voci e i capelli degli antenati;
giacché questi sono creati in noi ‹da› semi determinati,
non meno che le facce e i corpi e le membra.
E figlie femmine sorgono dal seme paterno
e maschi nascono plasmati dal corpo materno.
Sempre infatti il parto è prodotto da duplice seme,
e quello dei due cui più rassomiglia chi vien procreato,
è lui che ha dato la parte più grande; come puoi scorgere,
si tratti di maschio rampollo o di prole femminile.
Né divine potenze rifiutano ad alcuno il seme generativo,
perché non venga mai chiamato padre dai dolci nati
e in sterili amori trascorra l'esistenza;
come credono sovente gli uomini, e mesti cospargono
di molto sangue le are e bruciano offerte sugli altari,
perché possano far gravide le mogli con seme abbondante.
Invano affaticano la potenza degli dèi e gli oracoli.
Giacché sterili sono, parte a causa di seme troppo denso,
altri, per contro, perché il seme è liquido e sottile più del giusto.
Il sottile, poiché non può fissare la sua aderenza alle parti,
sùbito scorre via e torna indietro senza fecondare.
Il seme troppo denso, inoltre, poiché per quegli altri nell'emissione
è più tenace del giusto, o non vola via con lancio abbastanza lungo,
o non può penetrare egualmente nelle parti, o, sebbene sia
penetrato, si mescola a stento col seme femminile.
Si vede infatti che molto differiscono le armonie di Venere.
E alcuni più fan pregne alcune donne, e da altri
meglio altre accolgono il peso e diventano gravide.
E molte furono per l'addietro sterili in più matrimoni
e tuttavia alfine trovarono l'uomo dal quale poterono
generare fanciullini e arricchirsi di dolce parto.
E spesso anche per uomini, cui prima nella casa le mogli,
benché feconde, non avevano potuto partorire, fu trovata
la natura confacente, sì che poterono munire di figli la vecchiaia.
A tal punto importa che i semi possano
mischiarsi coi semi in un modo atto alla generazione,
e che i densi s'uniscano coi liquidi e i liquidi coi densi.
E in ciò ha importanza con quale vitto la vita si sostenti;
e infatti per alcuni cibi s'ingrossano i semi nelle membra
e per altri, al contrario, si assottigliano e si struggono.
E in quali modi si goda lo stesso carezzevole piacere,
è anche cosa di grande importanza; difatti si crede per lo più
che nella positura delle fiere e alla maniera dei quadrupedi le mogli
concepiscano meglio, perché così i semi possono raggiungere
le proprie sedi, quando il petto è chinato e son sollevati i fianchi.
Né le mogli han punto bisogno di movimenti voluttuosi.
Giacché la donna s'impedisce di concepire e contrasta,
se godendo risponde essa stessa con le anche alla Venere dell'uomo
e con tutto il petto che s'agita flessuoso provoca il fiotto:
infatti scosta il solco dal retto percorso del vomere
e svia dalle sue sedi il getto del seme.
E così son solite agitarsi le meretrici per propria utilità,
per non essere fatte pregne sovente e giacer gravide,
e insieme perché l'atto stesso di Venere sia agli uomini più grato;
ma di ciò è evidente che le nostre spose non hanno bisogno.
E non avviene per volere divino talora o per le saette di Venere
che una donnetta di aspetto meno leggiadro sia amata.
Giacché la donna stessa talvolta, col suo fare
e coi modi compiacenti e col corpo finemente curato,
riesce ad avvezzar‹ti› facilmente a trascorrere la vita con lei.
Del resto, la consuetudine fa nascere l'amore;
giacché ciò che è percosso da colpi continui, benché lievi,
tuttavia in lungo tratto di tempo è vinto e cede.
Non vedi come anche le gocce d'acqua che cadono sopra
le rocce, in lungo tratto di tempo bucano le rocce?



Quanto ha ragione il buon Lucrezio ! Nell’amore non ricerchiamo che la nostra parte femminile, o un alter ego frutto della nostra immaginazione, l’amore non è che l’impulso verso il piacere o per gli spiriti elevati l’aspirazione all’impossibile. L’amore è sicuramente l’unica malattia da cui nessuno vorrebbe essere guarito.

sabato 22 settembre 2012

Donatien Alphonse François de Sade, La Philosophie dans le boudoir






La Philosophie dans le boudoir,
ou
Les Instituteurs immoraux
Dialogues destinés à l’éducation des jeunes Demoiselles

Première édition  : 1795


Voilà, ma chère Eugénie, comme raisonnent ces gens-là, et moi j’y ajoute, d’après mon expérience et mes études, que la cruauté, bien loin d’être un vice, est le premier sentiment qu’imprime en nous la nature. L’enfant brise son hochet, mord le téton de sa nourrice, étrangle son oiseau, bien avant que d’avoir l’âge de raison. La cruauté est empreinte dans les animaux, chez lesquels, ainsi que je crois vous l’avoir dit, les lois de la nature se lisent bien plus énergiquement que chez nous ; elle est chez les sauvages bien plus rapprochée de la nature que chez l’homme civilisé : il serait donc absurde d’établir qu’elle est une suite de la dépravation. Ce système est faux, je le répète. La cruauté est dans la nature ; nous naissons tous avec une dose de cruauté que la seule éducation modifie ; mais l’éducation n’est pas dans la nature, elle nuit autant aux effets sacrés de la nature que la culture nuit aux arbres. Comparez dans vos vergers l’arbre abandonné aux soins de la nature, avec celui que votre art soigne en le contraignant, et vous verrez lequel est le plus beau, vous éprouverez lequel vous donnera de meilleurs fruits. La cruauté n’est autre chose que l’énergie de l’homme que la civilisation n’a point encore corrompue : elle est donc une vertu et non pas un vice. Retranchez vos lois, vos punitions, vos usages, et la cruauté n’aura plus d’effets dangereux, puisqu’elle n’agira jamais sans pouvoir être aussitôt repoussée par les mêmes voies ; c’est dans l’état de civilisation qu’elle est dangereuse, parce que l’être lésé manque presque toujours, ou de la force, ou des moyens de repousser l’injure ; mais dans l’état d’incivilisation, si elle agit sur le fort, elle sera repoussée par lui, et si elle agit sur le faible, ne lésant qu’un être qui cède au fort par les lois de la nature, elle n’a pas le moindre inconvénient.
Nous n’analyserons point la cruauté dans les plaisirs lubriques chez les hommes ; vous voyez à peu près, Eugénie, les différents excès où ils doivent porter, et votre ardente imagination doit vous faire aisément comprendre que, dans une âme ferme et stoïque, ils ne doivent point avoir de bornes. Néron, Tibère, Héliogabale immolaient des enfants pour se faire bander ; le maréchal de Retz, Charolais, l’oncle de Condé, commirent aussi des meurtres de débauche : le premier avoua dans son interrogatoire qu’il ne connaissait pas de volupté plus puissante que celle qu’il retirait du supplice infligé par son aumônier et lui sur de jeunes enfants des deux sexes. On en trouva sept ou huit cents d’immolés dans un de ses châteaux de Bretagne. Tout cela se conçoit, je viens de vous le prouver. Notre constitution, nos organes, le cours des liqueurs, l’énergie des esprits animaux, voilà les causes physiques qui font, dans la même heure, ou des Titus ou des Néron, des Messaline ou des Chantal ; il ne faut pas plus s’enorgueillir de la vertu que se repentir du vice, pas plus accuser la nature de nous avoir fait naître bon que de nous avoir créé scélérat ; elle a agi d’après ses vues, ses plans et ses besoins : soumettons-nous.

sabato 15 settembre 2012

Erwin Rohde, Psiche


                                



Erwin Rohde             Psiche           Bari, Laterza, 2006
                                 ( 1897 )


Pag. 89 : Esiodo testimone di una credenza nell’immortalità delle anime anteriore ad Omero, che fondamentalmente la condivide solo in parte, e che coincide con quanto afferma anche Frazer sull’originaria fede nel ritorno dei non morti, che bisogna stornare con adeguati riti. Vedi Frazer, cap. XVIII “ I pericoli dell’anima “, pag. 216 e seg.
Pag. 111 : dalla divinità locale alla divinità universale. Tendenza alla idealizzazione, propria dello spirito greco ( Platone ), ma, pare, anche dell’ebraismo ( vedi S. Reinach, Orpheus ).
Pag. 115 : Frazer, la cui opera è quasi contemporanea, interpreta la morte del dio come simbolo della morte della natura in inverno, ma Rohde non è d’accordo. L’opinione del Frazer era già stata manifestata precedentemente da altri studiosi.
Pag. 177 : ipotesi sull’origine del culto di Demetra e di Persefone assai più complessa di quella di Frazer legata semplicemente all’attività agricola. Le due dee in origine non avrebbero avuto un necessario legame, sarebbero state divinità ctonie.
Pag. 241 : “ I misteri di Eleusi “. Vedi nota, cit. Plutarco, De Iside et Osiride, Cicerone, De natura deorum, Varrone e Porfirio.
Pag. 242 : cit. Sallustio, Sugli dei e il mondo. L’argomento è la promessa della felicità ultraterrena data agli iniziati ai misteri eleusini.
Pag. 263 : “ Idee intorno alla vita nell’al di là “. Espone la concezione che i Greci avevano dell’oltretomba, per nulla paurosa, ma piuttosto caratterizzata dall’oblìo. La “ malattia infettiva della coscienza del peccato “ non esisteva. In tutto il brano si nota l’influsso del positivismo e di Nietzsche.
Pag. 293 : NB a proposito dell’eccitazione entusiastica dei devoti di Dioniso le parole “ forza più che umana “ e, pag. seguente, l’importanza data alla danza e alla musica per l’efficacia dei riti. Viene veramente da chiedersi se la “ folllia “ di Nietzsche non fosse quella di un invasato da Dioniso. Vedi Verrecchia a proposito delle strane danze di Nietzsche nudo nella camera presa in affitto a Torino.
Pag. 303 : origine tracia e orientale del culto di Dioniso. In epoca moderna cita il misticismo islamico dei Sufi ( di origine indiana ).
Pag. 315 - 316 : Rohde recepisce la concezione dell’elemento apollineo e dionisiaco ( vedi pag. 316 in alto ) ma non contrappone le due divinità come invece fa Nietzsche. NB : importante il motivo della “ pazzia sacra “ e dell’influsso della musica sull’estasi dei devoti.
Pag. 320 – 21 : contrariamente a quanto asserito dal Nietzsche, Rohde dimostra che l’elemento apollineo e il dionisiaco, un tempo forse antitetici, nell’epoca classica, e quindi della tragedia, erano complementari.
Pag. 321 : infatti cita Eschilo, fr. 341, il quale ci rivela come non vi fosse ormai quasi più differenza tra Apollo e Dioniso : “ Apollo ornato d’edera, eccitato d’eccitazione bacchica, profeta “.
Pag. 322 : importante per l’origine greca del cristianesimo. A proposito dell’estasi profetica secondo la concezione delfica viene citato in nota anche Filone di Alessandria, che non la pensava diversamente. Vedi pag. 182 de L’erede delle cose divine, laddove dice : ( traduzione ) “ cade su di noi l’estasi, l’ispirazione di Dio, la divina mania. Tutte le volte che risplende la luce di Dio, tramonta quella dell’uomo … “ I termini usati da Filone l’ebreo sono gli stessi della religione apollinea di Delfi : ekstasis, enqeos, mania.
Pag. 335 : parla dei capri espiatorii nella festa delle Targelie. Vedi sullo stesso argomento Frazer, pag. 642. Il punto di vista è sostanzialmente analogo.
Pag. 349 : l’immagine di sapienti iniziati alla profezia in caverne misteriose suggerisce il collegamento con la caverna ove per dieci anni si rintana Zarathustra nell’opera di Nietzsche. Effettivamente sembrerebbe che il messaggio nicciano vada inteso in questa direzione cioè nell’ambito di un misticismo pre-cristiano ed ellenico.
Pag. 368 – 370 e seg. : importantissimo passaggio sulla religione orfica. Si può notare come questa sia confluita massicciamente in Platone e, cosa interessante, anche in Nietzsche dal momento che ( pag. 370 ) la dottrina orfica affermava l’eterno ritorno di tutte le cose, cioè l’eterno ripetersi di tutti gli stadi della vita già vissuti se non si fosse raggiunta la liberazione, mediante l’ascetismo.
Pag. 374 – 375 : dottrina orfica dell’al di là; sorprendenti analogie con l’induismo. Anche la dottrina di Plotino sembra impregnata di orfismo. Il concetto di purgatorio cristiano sembrerebbe derivare dall’orfismo, così come quello di anima immortale, che non è un concetto ebraico ( gli Ebrei credono solo nell’eternità di Dio e nella futura rinascita degli Eletti ).
Pag. 397 e seg. : Pitagora e la dottrina delle anime. Direi che Pitagora viene presentato come il precursore di Platone e un discepolo degli Orfici. Del resto la dottrina di Platone è una mescolanza di filosofia parmenidea, eraclitea e pitagorica, oltre naturalmente l’insegnamento morale di Socrate.
Pag. 405 : parti dell’anima, dottrina attribuita a Pitagora e recepita da Platone. Interessante la subordinazione al nous delle parti inferiori della psiche legate agli organi inferiori del corpo ( quindi influsso del corpo sulle parti inferiori dell’anima ).
Pag. 428 : citazione di Nietzsche in nota a proposito della famosa sentenza di Sileno al re Mida ( “ Meglio è per l’uomo non essere mai nato “ ), oggetto di studio del Nietzsche nella rivista renana e poi argomento in La nascita della tragedia.
A proposito dell’al di là cfr. Cicerone, Oratio in Catilinam quarta, 4, 8 : “ apud inferos eius modi quaedam illi antiqui supplicia impiis costituta esse voluerunt, quod videlicet intellegebant, his remotis, non esse mortem ipsam pertimescendam. “
Pag. 490 : concezione della determinatezza dell’anima in Platone, derivata dalla concezione orfica e collegata con la sua teoria delle idee. Dualismo radicale tra corpo e spirito, tra vera realtà ( le Idee ) e mondo apparente del divenire.
Pag. 515 : interessante il panteismo stoico, in cui vedo qualcosa dell’ebraismo ( un dio che è anche materia, la vita solo nel corpo, la rinascita dopo la fine del mondo solo dei giusti ecc. ).
Pag. 532 : la concezione del piacere e del dolore in Lucrezio ( e in Epicuro ) è ripresa da Leopardi ( “ piacer figlio d’affanno “ corrisponde a “ il piacere non è che cessazione del dolore “ ).
Pag. 555 : “ … nel tramonto dell’antichità, il concetto della potenza e dignità delle anime dei defunti non era caduto, anzi s’era fatto più saldo .” Vedi nota 179 : “ molto più tardi, in tempi cristiani, si chiamava senz’altro o hrws chi era morto da poco “. Evidentemente il culto delle anime cristiano è eredità del culto pagano, e proprio della mentalità e cultura greca.
Pag. 558 : libri magici greco – egiziani, esorcismo. La degenerazione dell’antica religione greca favorì il progresso del cristianesimo. Quest’ultimo, peraltro, non fu immune da elementi propri del paganesimo degenerato, quali ad es. le pratiche esorcistiche, evocatrici di spiriti.
Pag. 560 : nota 193 su Celso ( Contro i cristiani ).
Pag. 566 : rapimento nell’isola dei Beati. NB : “ nell’Oriente semitico, … anche nell’Egitto, la concezione del rapimento a vita eterna d’uomini cari agli dei e vicini alla natura divina, non era estranea alle leggende indigene … “
Pag. 567, nota 210 : i cristiani aspettavano il riapparire ( come Anticristo ) di Nerone che secondo loro non era morto, ma sparito dalla vista degli uomini.
Pag. 568 : vedi considerazioni su Apollonio di Tiana. L’opera di Celso è spesso citata dal Rohde.
Pag. 569 : l’idea dell’esistenza e immortalità dell’anima per influenza della filosofia greca pose radici profonde tra il popolo ebraico. Nota 214 : è tutta greca e platonica la dottrina degli Esseni sulle anime descritta da Flavio Giuseppe nel Bellum Iudaicum, 2, 8, 11 e così è di origine greca la teoria di Filone di Alessandria intorno alle anime.
Pag. 583 : nell’importanza che Rohde attribuisce alla forza vitale per quello che riguarda l’esistenza umana e la civiltà sembra rivelarsi un discepolo di Nietzsche.
Pag. 586, nota 271 : la credenza nella resurrezione dei morti è un’antica credenza dei Persiani, dai quali probabilmente l’ereditarono gli Ebrei.    

sabato 1 settembre 2012

Euripide, Elena





Tragedia rappresentata nel 412 a. C.

Argomento : Erodoto racconta che Elena andò in Egitto e che questo è testimoniato anche da Omero, il quale dice che Elena diede a Telemaco un farmaco che faceva dimenticare gli affanni, farmaco datole da Polydamna, moglie di Taone; in questo però non è d’accordo Euripide. Infatti Erodoto e Omero raccontano che Elena, assieme a Menelao, dopo la presa di Troia andò in Egitto e qui ebbe i farmaci; Euripide invece dice che Elena non andò affatto a Troia, ma vi andò una sua immagine. Ermes per ordine di Era la rapì a Paride e la affidò in custodia a Proteo, re dell’Egitto. Dopo la morte di Proteo, il figlio di lui Teoclimeno voleva sposarla, ma ella si rifugiò come supplice presso la tomba di Proteo. Qui le appare Menelao, che aveva perduto in mare le sue navi e conservato solo pochi compagni, lasciati in un antro. Venuti a parlare, tramano un inganno contro Teoclimeno : imbarcatisi con il pretesto di rendere onore a Menelao, simulando la sua morte in mare, ritornano in patria.
Stesicoro nelle Palinodie ( al fr. 193 ) : secondo il commentario papiraceo, cui appartiene il frammento contenente la notizia riportata dal peripatetico Cameleonte, Stesicoro compose due Palinodie : nella I avrebbe criticato la versione omerica della storia ( Elena andò a Troia con Paride ), nella seconda avrebbe polemizzato con Esiodo.
Possiamo ipotizzare che a Esiodo fosse fatta risalire la versione secondo la quale Elena, giunta in Egitto con Paride, fu sottratta al Troiano da Proteo e al posto suo andò a Troia un simulacro.
Se così fosse, Stesicoro potrebbe avere composto una prima palinodia di tipo esiodeo, e poi un’altra ancora, più radicale, nella quale Elena non sarebbe salita neppure sulla nave di Paride, ma sarebbe stata subito sostituita dal simulacro, così da escludere qualsiasi possibilità di adulterio.
La versione attribuita a Esiodo viene comunque smentita sia nel Catalogo delle donne che nelle Opere e giorni, dove Elena compare sempre come la responsabile del conflitto tra Achei e Troiani :
“ dopo che ( la guerra ) li aveva portati a Troia, a causa di Elena dalla bella chioma “
v. 165 delle Opere e giorni.
La tradizione era dunque in genere ostile ad Elena.
Eschilo aveva scritto nell’Agamennone :
“ Ahimé, ahimé, Elena pazza !
Tu sola molte innumerevoli vite sotto le mura di Troia
facesti perire; …”  ( vv. 1455 e seg. )

                  
                      Persistenza del mito di Elena nella letteratura moderna


  Giovanni Pascoli
  Poemi conviviali

                                                    ANTÌCLO

I
E con un urlo rispondeva Antìclo,
dentro il cavallo, a quell'aerea voce;
se a lui la bocca non empìa col pugno
Odisseo, pronto, gli altri eroi salvando;
e ognun chiamando tuttavia per nome
la voce alata dileguò lontano;
fin ch'all'orecchio degli eroi non giunse
che il loro corto anelito nel buio;
come già prima, quando già lì fuori
impallidiva il vasto urlìo del giorno,
l'urlìo venato da virginei cori,
che udian dietro una nera ombra di sonno;
nel lungo giorno; e poi languì, ché forse
era già sera, e forse già sul mare
tremolava la stella Espero, e forse
la luna piena già sorgea dai monti;
ed allora una voce ecco al cavallo
girare attorno, che sonava al cuore
come la voce dolce più che niuna,
come ad ognuno suona al cuor sol una

II
Era la donna amata, era la donna
lontana, accorsa, in quella ora di morte,
da molta ombra di monti, onda di mari:
sbalzò ciascuno quasi a porre il piede
su l'inverdita soglia della casa.
Ma tutti un cenno di Odisseo contenne:
Antìclo, no. Poi ch'era forte Antìclo,
sì, ma per forza; e non avea la gloria
loquace a cuore, ma la casa e l'orto
d'alberi lunghi e il solatìo vigneto
e la sua donna. E come udì la voce
della sua donna, egli sbalzò d'un tratto
su molta onda di mari, ombra di monti;
udì lei nelle stanze alte il telaio
spinger da sé, scendere l'ardue scale;
e schiuso il luminoso uscio chiamare
lui che la bocca aprì, tutta, e vi strinse
il grave pugno di Odisseo Cent'arte;
e sentì nella conca dell'orecchio
sibilar come raffica marina:
Helena! Helena! è la Morte, infante!

III
Ma quella voce gli restò nel cuore:;
e quando uscì con gli altri eroi - la luna
piena pendeva in mezzo della notte -
gli nereggiava di grande ira il cuore;
e per tutto egli uccise, arse, distrusse.
Gittò nel fuoco i tripodi di bronzo,
spinse nel seno alle fanciulle il ferro;
ché non prede voleva; egli voleva
udir, tra grida e gemiti e singulti,
la voce della sua donna lontana.
Ma era nella sacra Ilio il nemico
di gloria Antìclo, non in Arne ancora,
fertile d'uva, o in Aliarto erboso:
e in un vortice rosso Ilio vaniva
a' piè del plenilunïo sereno.
Morti i guerrieri, giù nelle macerie
fumide i Danai ne battean gl'infanti,
alle lor navi ne rapian le donne:
e d'Ilio in fiamme al cilestrino mare,
dalle Porte al Sigeo bianco di luna,
passavano con lunghi ululi i carri.

IV
Ma non ancora alle Sinistre Porte
Antìclo eroe dalla città giungeva.
Lì l'auriga attendeva il suo guerriero
insanguinato; e oro e bronzo, il carro,
e la giovane schiava alto gemente.
Voto era il carro, solo era l'auriga:
legati con le briglie abili al tronco
del caprifico, in cui fischiava il vento,
i due cavalli battean l'ugne a terra,
fiutando il sangue, sbalzando alle vampe.
Ma non giungeva Antìclo: egli giaceva
sul nero sangue, presso l'alta casa
di Deifobo. E dentro eravi ancora
fremere d'ira, strepere di ferro:
poi che, intorno all'amante ultimo, ancora
gli eroi venuti con le mille navi,
Locri, Etoli, Focei, Dolopi, Abanti,
contendean ai Troiani Helena Argiva;
tutti per lei si percotean con l'aste
i vestiti di bronzo e i domatori
di cavalli; e le loro aste, stridendo,
rigavano di lunghe ombre le fiamme.

V
Ma pensava alla sua donna morendo
Antìclo, presso l'atrïo sonoro
dell'alta casa. E divampò la casa
come un gran pino; ed al bagliore Antìclo
vide Lèito eroe sul limitare.
Rapido a nome lo chiamò: gli disse:
Lèito figlio d'Alectryone, trova
nell'alta casa il vincitore Atride,
di cui s'ode il feroce urlo di guerra.
Digli che fugge alle mie vene il sangue
sì come il vino ad un cratere infranto.
E digli che per lui muoio e che muoio
per la sua donna, ed ho la mia nel cuore.
Che venga la divina Helena, e parli
a me la voce della mia lontana:
parli la voce dolce più che niuna,
come ad ognuno suona al cuor sol una.

VI
Disse, e la casa entrò Lèito, e seguiva
tra le fiamme il feroce urlo di guerra,
che come tacque, egli trovò l'Atride
poggiato all'asta dalla rossa punta,
dritto, col piede sopra il suo nemico.
E contro gli sedeva Helena Argiva,
tacita, sopra l'alto trono d'oro;
e lo sgabello aveva sotto i piedi.
E Lèito disse al vincitore Atride:
Uno mi manda, da cui fugge il sangue
sì come il vino da cratere infranto:
Antìclo, che muore per te, che muore
per la tua donna, ed ha la sua nel cuore.
Oh! vada la divina Helena, e parli
a lui la voce della sua lontana,
la voce dolce forse più che niuna,
e come suona forse al cuor sol una.

VII
E così, mentre già moriva Antìclo,
veniva a lui con mute orme di sogno
Helena. Ardeva intorno a lei l'incendio,
su l'incendio brillava il plenilunio.
Ella passava tacita e serena,
come la luna, sopra il fuoco e il sangue.
Le fiamme, un guizzo, al suo passar, più alto;
spremeano un rivo più sottil le vene.
E scrosciavano l'ultime muraglie,
e sonavano gli ultimi singulti.
Stette sul capo al moribondo Antìclo
pensoso della sua donna lontana.
Tacquero allora intorno a lei gli eroi
rauchi di strage, e le discinte schiave.
E già la bocca apriva ella a chiamarlo
con la voce lontana, con la voce
della sua donna, che per sempre seco
egli nell'infinito Hade portasse;
la rosea bocca apriva già; quand'egli
- No - disse: - voglio ricordar te sola. –











Gabriele D’Annunzio, Maia

V

La vecchiezza di Elena


Al breve bagliore
scorsero i nostri occhi mortali
l’eterna tartarea faccia
d’Atropo che taglia lo stame,
dell’inevitabile Mira?
Sparvero l’inganno dell’ora
presente, l’angustia del luogo,
il turpe clamore degli ebri;
e tutti i secoli muti
che avean travagliato quel vólto,
incanutito quel crine,
sfatto quella bocca vorace,
smunto quel seno infecondo,
curvato quel dorso di belva,
scarnito quell’avida branca,
sepolto nell’orbita cava
quell’occhio ancor semivivo
senza cigli ingombro di sanie
e lacrimoso di sangue,
i millennii d’onta e di lutto
oppressero il cuor mio vivente.

E l’anima mia nel mio cuore
tremò d’infinita tristezza,
come innanzi all’aspetto senile
d’una già cognita gente,
di sùbito apparsomi in fondo
al funebre specchio dei tempi.
Ma risero i cari compagni.
E nell’artiglio proteso
dalla famelica lèna
io posi ridendo una dramma.
Mormorò ella parole
buie tra le vacue gengive
con la sua voce di tomba.
La grande sua bianca criniera
si dileguò nella notte.
E noi scendemmo la scala
di putrido legno. Cedette
un de’ gradi all’urto del piede,
s’infranse con gemito. Oh dolce,
dalla soglia del lupanare,
mirar le vergini stelle!

E disse un de’ cari compagni
tornando alla nave ancorata:
"Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno,
che fatta è serva millenne
d’una meretrice di Pirgo".
Vidi il pastor frigio su l’Ida
pascere col flauto l’armento
all’ombra dei pini chiomosi,
innanzi che in talamo eburno
ei s’avesse Elena di Sparta.
E disse il compagno: "L’estremo
Eroe cui ella soggiacque
nomavasi, come l’idèo
rapitor suo primo, Alessandro.
Su quella zona terrestre
che si protende arenosa
tra il Mediterraneo Mare
e il Mareotide Lago,
il giovine Eroe la premette;
e fu la lor prole Alessandria".

Alessandria! Alessandria!
La forza la gioia la gloria
del trionfatore d’imperi
e il van balbettìo faticoso
del calvo grammatico! Io dissi
meco: "Se ancóra l’impronta
dei lombi divini rimane
laggiù nella sabbia palustre,
io andrò andrò adorante".
Parlava la voce del sogno.
"Votò l’Eroe la sua vasta
coppa. Meditò taciturno.
Votare la coppa ei soleva
dopo sovrumane fatiche.
Da lui stanco il vino traeva
una onniveggente potenza.
Ei vide le Forze immortali
salir dalla terra e dal ponto.
Tra il Mediterraneo e il Lago
segnò taciturno le sorti
della Città nascitura.

I Continenti oscurati
eran sotto l’ombra degli alti
pensieri. Ei vedea la ricchezza
dei regni versarsi infinita
su l’Arcipelago azzurro,
dalla Città nascitura
come da corno inesausto.
E vennegli Elena per l’acque
dai lidi argivi incurvati
secondo la forma del labbro
ledèo; sorridendo gli venne
Elena di Sparta che Achille
bramò; venne a lui col nepente
la bianca Tindaride; venne
recando nel cinto il profumo
dell’Ellade caro al signore
dell’Asia. E il Macedone scosse
la figlia di Zeus nudata
su le fondamenta fatali.
E fu quegli l’estremo
Eroe cui ella soggiacque.

Poi fu polluta per notti
e notti, tra il sangue e l’incendio,
dai centurioni di Roma,
premuta fu sotto le squamme
delle loriche pesanti.
Punsero l’ispide barbe
la sua mammella rotonda
che dava la forma alle coppe
d’avorio pei conviti
dei re. Nel suo ventre convulso
ruggire s’udì la lussuria
come rombo in conca marina.
Da sola ella fu la suburra
aperta all’esercito in foia.
Fu manomessa dai servi,
dai ladroni, dagli omicidi,
dai profanatori di tombe,
dai mercenarii fuggiaschi.
Calpesta in polvere e in fango,
lambì con la lingua lasciva
le calcagna dei violenti.

Soffiò dovunque il suo fiato
come insanabile peste.
Accrebbe i nomi del vizio.
Fece innumerevoli i nomi
e i modi, maestra di spintrie
pei Cesari enfii di murene
e roscidi di purulenza.
Vecchia d’indicibil vecchiezza,
tentò se le mille sue rughe
servir potessero a qualche
più mostruosa lascivia;
ma, come in solchi di sabbia
sol cresce la crambe marina,
crebbevi sol la vergogna.
E fu di postriboli cencio,
nettò dai vòmiti i letti,
gittò nel rigagno del vico
le rosse urine e lo sterco,
spezzò il suo ultimo dente
per rodere gli ossi ed i tozzi
contesi alla cagna scabbiosa.

Or tu la vedesti alla porta
di quella femmina elèa,
crinita di grande canizie.
Fu sua sapienza la frode,
sudore di opere infami
ne’ secoli fu suo lavacro;
e tuttavia biancheggiare
or noi la vedemmo nell’ombra!
Come neve su volutabro
sta su lei la grande canizie:
attonito l’occhio la mira.
Ahi fior di bianchezza sublime
che alle Scee mirarono i Vegli!
Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno."
Così, questo sogno sognando
nell’amarissimo cuore,
tornammo alla nave ancorata.
E poi ci colcammo sul ponte,
il sonno invocammo dall’Orse.
Tal fu la notte di Patre.