sabato 21 marzo 2015

Arturo Graf, Demonologia di Dante

VII

I diavoli che Dante trova nella quinta bolgia del cerchio ottavo, se hanno del terribile, hanno anche del comico. Essi stringono la lingua coi denti per far cenno al loro duce, come è usanza dei monelli, e il lor duce fa trombetta di ciò che non occorre rammentare. Si lasciano ingannare da Ciampolo, o chi altri si sia il famiglio del buon re Tebaldo, e due di loro, Alichino e Calcabrina, si azzuffano per ciò, e cadono nel bel mezzo del bollente stagno.
Diavoli così fatti, se possono incutere terrore (e molto ne incutono a Dante), possono anche muovere a riso, ed hanno grande somiglianza con quelli che si vedono trescare per entro ai Misteri e alle Moralità del medio evo. Io non ho a ricercare qui come la fantasia popolare, e anche la non popolare, pure ingombre come erano dei terrori dell’Inferno, giungessero a ideare il demonio burlesco, sciocco, ridicolo. Molti elementi concorrono in sì fatto concetto, a sceverare i quali sarebbe necessaria un’accurata analisi. Ricorderò solo che il diavolo appar ridicolo in numerose leggende, e che viene un tempo in cui l’officio principale suo sulla scena è quello di far ridere gli spettatori.
Se fu in Francia, il che è assai dubbio, Dante può avervi veduto, in certe rappresentazioni di sacro argomento, diavoli molto simili a quelli ch’ei pone nella bolgia dei barattieri, poiché, già nel XII secolo, alla rappresentazione di Mistère d’Adam, si vedevano demonii correre per la piazza, tra il popolo, ma è da credere che anche in Italia Dante potesse vedere così fatti demonii, sebbene sia vero ciò che nota il D’Ancona, non avere, cioè, più tardi, nelle Sacre Rappresentazioni nostre, il diavolo raggiunto mai quel grado di ridicolo che raggiunse in Francia. La rappresentazione dell’Inferno, fattasi in Firenze nel 1304, e nella quale erano, secondo narra Giovanni Villani, diavoli orribili a vedere, è possibile non si facesse in quell’anno la prima volta. In una sua costituzione, del 1210, Innocenzo III parla di monstra larvarum, che s’introducevano nelle chiese, ed è assai probabile che tra esse ce ne fossero di diaboliche.
Anche i nomi che Dante dà a que’ suoi demonii rimandano a Misteri e a Sacre Rappresentazioni, dove nomi consimili occorrono frequenti. Tali Misteri e tali Sacre Rappresentazioni sono, gli è vero, posteriori alla Divina Commedia; ma nulla vieta di credere che essi occorressero già in drammi più antichi, non pervenuti sino a noi.

Dante, Inferno, XXII

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;


corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia 'ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch'entro v'era incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno
a' marinar con l'arco de la schiena
che s'argomentin di campar lor legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso
e nascondea in men che non balena.
E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l'altro grosso,
sì stavan d'ogne parte i peccatori;
ma come s'appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.
I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,
uno aspettar così, com' elli 'ncontra
ch'una rana rimane e l'altra spiccia;
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le 'mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.
I' sapea già di tutti quanti 'l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.
«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».
Lo duca mio li s'accostò allato;
domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose:
«I' fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo d'un segnor mi puose,
che m'avea generato d'un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch'io rendo ragione in questo caldo».
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d'ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l'una sdruscia.
Tra male gatte era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco».
E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia».
Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss' io ancor con lui coperto,
ch'i' non temerei unghia né uncino!».
E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli 'l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde 'l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand' elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch'ancor mirava sua ferita,
domandò 'l duca mio sanza dimoro:
«Chi fu colui da cui mala partita
di' che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel d'ogne froda,
ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com' e' dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
Omè, vedete l'altro che digrigna;
i' direi anche, ma i' temo ch'ello
non s'apparecchi a grattarmi la tigna».
E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!».
«Se voi volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch'ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,
per un ch'io son, ne farò venir sette
quand' io suffolerò, com' è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».
Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso,
crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia
ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!».
Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand' io procuro a' mia maggior trestizia».
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,
ma batterò sovra la pece l'ali.
Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l'altra costa li occhi volse,
quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!».
Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l'anitra di botto,
quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come 'l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.
Ma l'altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l'ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l'altra costa
con tutt' i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li 'mpaniati,
ch'eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così 'mpacciati.

sabato 14 marzo 2015

Sergio Corazzini ( 1886 – 1907 )





Rime del cuore morto

O piccolo cuor mio, tu fosti immenso
come il cuore di Cristo, ora sei morto;
t'accoglie non so più qual triste orto
odorato di mammole e d'incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare
e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l'amor onde il cuor morto si gela,
fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano!
Come un'antenna fu il mio cuore umano,
antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo
e senza terra e senza mare, acceso
solo per sé, solo per sé sospeso
nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure
velata da una palpebra latente;
fu come un'ostia enorme, incandescente,
alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d'avere
tocche le labbra del sacrificante,
ostia le cui piccole parti infrante
non trovarono un cuore ove giacere.

domenica 8 marzo 2015

Francesco Petrarca, Rime, LXXIV






 
Io son già stanco di pensar sí come
i miei pensier' in voi stanchi non sono,
e come vita ancor non abbandono
per fuggir de' sospir' sí gravi some;

e come a dir del viso e de le chiome
e de' begli occhi ond' io sempre ragiono
non è mancata omai la lingua e 'l suono,
dí e notte chiamando il vostro nome;

e che' pie' non son fiaccati e lassi
a seguir l'orme vostre in ogni parte
perdendo inutilmente tanti passi;

ed onde vien l'enchiostro, onde le carte
ch'i' vo empiendo di voi; se 'n ciò fallassi,
colpa d' Amor, non già defetto d' arte.

sabato 7 marzo 2015

Arturo Graf ( 1848 -1913 ), “ Venere demonio “






 
Venere demonio “

Di che sparso fragor, come d’un fosco
Turbine che le salse onde sovverta,
Sotto il limpido cielo e la deserta
Luna, d’intorno si riempie il bosco?
Le antichissime querce e gli aspri e folti
Abeti e i faggi ond’è la valle ingombra,
S’ergono muti e immobili nell’ombra,
E tutta par che la gran selva ascolti.
Ed ecco di lontan, sereno e blando
Come rosata aurora in oriente,
Fra tronco e tronco appar subitamente
Un lume che si viene approssimando.
Ed ecco, da quel lume accompagnata,
Vien oltre di lontan, per la radura,
Con lunghe volte e placida andatura
Un’infinita e nobil cavalcata.
Vien da prima, con bell’ordinamento,
Un bianco stuol di giovinetti araldi,
Che una dolce armonia, festosi e baldi,
Spiran da trombe di forbito argento.
Simile a rosa poi che intatto schiuda
Al sol di maggio l’incarnato seno,
Seduta appar su bujo palafreno
Una donna, anzi dea, tenera e nuda.
Sola precede alla maggior caterva,
Su tenebroso palafren seduta,
E guarda innanzi a sé ridendo muta,
Soavemente candida e proterva.
Sembrano gli occhi suoi due vive faci
Alle fiammanti accese are di Gnido;
Sembra la bocca piccioletta un nido,
Un caro nido d’amorosi baci.
Spiove ondeggiando, luminosa, opima,
Giù per le spalle la sfrenata chioma;
Treman sul petto le ingigliate poma
che due bocciuoli hanno di rosa in cima.
Arde sul fronte grazioso e bianco
Di sfavillanti gemme una corona;
Di sfavillanti gemme arde una zona
Intorno al colmo e delicato fianco.
Nuda e ridente le superbe terga
Preme la bella donna al palafreno:
Con l’una man regge il dorato freno;
Stringe con l’altra una dorata verga.
Pien di fervida ebbrezza e di languore
Per l’aria al suo passar vola uno spiro;
Fremono le vetuste arbori in giro,
Scuote la terra un tremito d’amore.
Dietro a colei che a guisa di regina
Movendo, l’ombre di suo spirto avviva,
La sterminata e nobil comitiva
Con lunga pompa trionfal cammina.
Coppie e brigate di gentili amanti
Su baliosi corridor montati;
Gale di vesti e crini inghirlandati,
Labbra ridenti, pupille raggianti.
Lustrano nel diffuso, arcano lume,
Varii di fogge, d’usi e di colori,
Gli ondanti veli, i grevi drappi, gli ori,
Le gemme accese, le dipinte piume.
Dove più densa, avviluppata e nera
La selva esclude dal suo grembo il giorno,
E' un picciol prato senza fior, che intorno
Ha di molti sentieri una raggiera.
Quivi, tra pruni, nella terra infisso,
Cinto dall’ombra taciturna e tetra,
Sorge di fosca e logorata pietra,
Di funerea vista, un crocefisso.
Quivi la bella donna il caval gira,
Quivi la bella donna il caval ferma,
E quel dolente simulacro e l’erma
Selvaggia sede baldanzosa mira.
Poi con florido riso e amabil voce
Parla: O dio della croce e del vangelo,
O Cristo, io son colei che tu dal cielo
Col tuo vangel cacciasti e la tua croce.
Io son colei cui generar nel cronio
Mare in antico le vitali spume;
Quella Venere io son che tu di nume
Presumesti cangiar, Cristo, in demonio.
E dea rimasi, e della mia rovina
Né duol mi vinse, né mi vinse tema;
E quel che in me scagliasti aspro anatema
Non iscemò la mia beltà divina.
Dea rimasi, dea sono, e con giocondo
Culto l’uom, che tu strazii, ancor m’adora;
E del mio nume invulnerato ancora
Vive, s’impregna, si rinnova il mondo.
Me le belve, e le piante, e la nutrice
Terra, e l’Oceano d’infinita prole
Fecondo, e l’etra, e il radiante sole
Chiaman propizia dea, dea genitrice.
Vedi qual io mi son, qual tu ti sei:
Tu di gelide angosce e di terrori
Sazii i tuoi servi; io di beati ardori
Colmo e di grazie invidiate i miei.
Tu, dalla croce sanguinosa, austero,
Sulle pavide regni alme dolenti:
Vedi il popolo mio, vedi le genti
A me devote ed al mio santo impero.
Tace, e scherzosa, con leggiadro piglio
Alza la verga d’oro e il caval tocca,
Che dalle nari sbuffa e dalla bocca
Globi di foco e di vapor vermiglio.
Davanti al crocifisso ella cavalca
Nuda e proterva, e, sì come a lei piace,
Tutto l’immenso popolo seguace
Con lunga pompa trionfal travalca.
Cosi sen vanno giubilando a gloria
Per l’alta notte, per la gran foresta;
Suonan gli araldi, camminando in testa,
Un inno di letizia e di vittoria.
E come avvien che il primo albor si scerna
Nunzio del novo giorno all’orizzonte,
Giungono appiè d’un rovinoso monte,
Cui squarcia il fianco un’orrida caverna.
Fra sghembe rupi, accatervate e rotte
La tenebrosa grotta si spalanca,
E quivi, mentre il ciel lento s’imbianca,
Entran sotterra, nella densa notte.
Scendon nel cupo, ove di luce pregno,
E di soavi fior sempre beato,
Cui de’ zeffiri educa il vivo fiato,
E della dea d’amore il dolce regno.


Si sente l'influsso del Tannhäuser di Richard Wagner e de “ La belle dame sans merci “ di John Keats.


La belle dame sans merci


Che cosa ti tormenta, armato cavaliere
che indugi solo e pallido?
Di già appassite son le cipree del lago
e non cantan gli uccelli.


Che cosa ti tormenta, armato cavaliere,
cotanto affranto e così desolato,
riempito è già il granaio dello scoiattolo,
pronto è il raccolto.


Vedo sul tuo cimiero un bianco giglio,
umida angoscia, e del pianto la febbre
sulle tue gote, ove il color di rosa è scolorito
troppo rapidamente.


Una signora in quei prati incontrai,
lei, tutta la bellezza di figlia delle fate aveva,
chiome assai lunghe, e leggeri i suoi piedi,
ma selvaggi i suoi occhi.


Io feci una ghirlanda pel suo capo,
e pur bracciali, e odorosa cintura;
lei mi guardò com' avria fatto amore,
dolcemente gemette.


Io mi stetti con lei, sul mio cavallo
al passo, e nessun altro vidi in tutto il giorno;
seduta di traverso modulava
un canto delle fate.


Lei procurò per me grate radici,
vergine miele e rugiadosa manna,
e in linguaggio straniero poi mi disse:
- Io t'amo veramente.


Nella grotta degli elfi mi condusse,
e lì lei pianse, e sospirò in tristezza,
ma i suoi barbari occhi io tenni chiusi,
con quattro baci.


Ivi lei mi cullò, sino a dormire,
e lì sognai: sia maledetto l'ultimo sogno
fantasticato lì sul declivio
del freddo colle.


Vidi principi e re, pallidamente,
scialbi guerrieri smunti, color morte erano tutti
e gridavano a me: - La bella dama che non ha
compassione, t'ha reso schiavo!


Le lor livide labbra scorsi nella penombra,
che m'avvertivano: - L'ampia voragine orrendamente
s'apre! - Allora mi svegliai, e mi scopersi qui,
sopra il declivio del freddo colle.


Questo è accaduto perché qui rimasi
solo, senza uno scopo ad attardarmi,
pur se appassite fosser le cipree
e gli uccelli del lago non cantassero.


(John Keats)


Testo originale


Oh what can ail thee, knight-at-arms,
Alone and palely loitering?
The sedge has withered from the lake,
And no birds sing.


Oh what can ail thee, knight-at-arms,
So haggard and so woe-begone?
The squirrel's granary is full,
And the harvest's done.
I see a lily on thy brow,
With anguish moist and fever-dew,
And on thy cheeks a fading rose
Fast withereth too.
I met a lady in the meads,
Full beautiful - a faery's child,
Her hair was long, her foot was light,
And her eyes were wild.
I made a garland for her head,
And bracelets too, and fragrant zone;
She looked at me as she did love,
And made sweet moan.
I set her on my pacing steed,
And nothing else saw all day long,
For sidelong would she bend, and sing
A faery's song.
She found me roots of relish sweet,
And honey wild, and manna-dew,
And sure in language strange she said -
'I love thee true'.
She took me to her elfin grot,
And there she wept and sighed full sore,
And there I shut her wild wild eyes
With kisses four.
And there she lulled me asleep
And there I dreamed - Ah! woe betide! -
The latest dream I ever dreamt
On the cold hill side.
I saw pale kings and princes too,
Pale warriors, death-pale were they all;
They cried - 'La Belle Dame sans Merci
Hath thee in thrall!'
I saw their starved lips in the gloam,
With horrid warning gaped wide,
And I awoke and found me here,
On the cold hill's side.
And this is why I sojourn here
Alone and palely loitering,
Though the sedge is withered from the lake,
And no birds sing.


dal “ Tannhäuser “ di Richard Wagner :

Scena prima

La scena rappresenta l'interno della montagna di Venere (Hörselberge presso Eisenach). Grotta spaziosa, che in fondo, volgendosi a destra, dà l'idea di un prolungamento a perdita d'occhio. Da un'apertura a crepaccio, attraverso la quale penetra debolmente la luce del giorno, percepita per tutta l'altezza della grotta una cascata verdastra, spumeggiando selvaggiamente tra le rocce. Dal bacino che accoglie la cascata, il ruscello corre verso lo sfondo più lontano, ampliandosi in lago. Si vedono figure di Naiadi bagnanti e Sirene distese sulle rive. Da ambedue i lati della grotta, sporgenze rocciose di forma irregolare, cresciute di vegetazione tropicale meravigliosa, sul tipo dei coralli. Davanti a una delle aperture della grotta, che si stende in salita verso sinistra, e dalla quale traspare una rosea luce crepuscolare, giace sul proscenio Venere distesa su un ricco talamo. Innanzi a lei, il capo sul grembo e l'arpa al fianco, sta Tannhäuser mezzo inginocchiato. Le tre Grazie, stese in delizioso intreccio, circondano il talamo. Dietro e ai lati di esso, molti Amorini dormienti, coricati in confusione selvaggia, l'uno accanto e sopra l'altro, formando un aggrovigliato gomitolo; come bambini che spossati da una qualche baruffa si siano addormentati. L'intero proscenio è illuminato da una luce rossigna, che sa d'incantesimo, e che trapela dal di sotto: attraverso essa rompe con violenza il verde smeraldo della cascata e il bianco delle sue onde spumeggianti. Lo sfondo lontano con le rive del lago è illuminato da un vapore azzurro luminoso di una luce lunare. - All'alzarsi della tela, i Giovani si trovano ancora distesi sulle più elevate sporgenze di roccia presso i loro calici; ma ecco subito seguire i cenni invitanti delle Ninfe, onde si affrettano giù verso di esse. Le Ninfe hanno cominciato, intorno allo schiumeggiante bacino della cascata, la loro danza allettatrice, che è destinata a trascinare i Giovani presso di loro. Le coppie si ritrovano e si mescolano: caccie, fughe e scherzi provocanti animano la danza. Dallo sfondo lontano si avvicina un corteo di Baccanti, che passa con furia attraverso le file delle coppie d'amanti, invitando a sfrenata lussuria. Con gesti di ebrezza esaltata, le Baccanti invitano gli amanti a crescente licenza. Gli inebriati si precipitano in ardenti amplessi. Satiri e Fauni, apparsi fuori dalle caverne, si introducono ora con la loro danza tra le Baccanti e le coppie degli amanti. Essi crescono la confusione con la loro caccia alle Ninfe: il tumulto generale sale al più alto parossismo. Nel punto in cui erompe la furia più selvaggia, le Grazie si alzano inorridite. Esse cercano di frenare i furiosi e di allontanarli; ma temono, impotenti, di venire esse medesime trascinate. Si volgono allora agli Amorini dormienti, li scuotono e li cacciano verso l'alto. Districatisi dal groviglio, essi svolazzano, come uno stormo d'uccelli, su per il pendìo. Giunti sull'altura, occupano l'intero spazio della grotta, come in ordine di battaglia; e di là scagliano giù una incessante gragnola di frecce sulla folla tumultuante nel piano.I feriti, colti da potente spasimo d'amore, abbandonano la danza selvaggia, e cadono spossati. Le Grazie si impadroniscono dei feriti e cercano, disponendo gli ebri a coppie, di disperderli, con dolce violenza, verso il fondo. Dove pure, in tutte le possibili direzioni, si allontanano le Baccanti, i Fauni, i Satiri, le Ninfe e i Giovani, in parte inseguiti dagli Amorini giù per il pendìo. Scende un roseo vapore sempre più denso: in esso scompaiono dapprima gli Amorini. Poi, esso copre tutto lo sfondo, così che, da ultimo, oltre Venere e Tannhäuser, restano ancora visibili soltanto le tre Grazie. Ora esse retrocedono verso il proscenio; in grazioso intreccio si avvicinano a Venere, come per riferirle della vittoria, che hanno riportato sulle passioni selvagge dei sudditi del suo regno. Venere le guarda ringraziando. (Il denso vapore nel fondo si divide: una immagine vaporosa rappresenta il ratto di Europa, che passa attraverso il mare azzurro sulla groppa del toro bianco ornato di fiori, accompagnata da Tritoni e Nereidi)

CHOR DER SIRENEN
(unsichtbar)

Naht euch dem Strande!
Naht euch dem Lande,
wo in den Armen
glühender Liebe
selig Erbarmen
still' eure Triebe!

CORO DELLE SIRENE
(invisibile)

Accostatevi a spiaggia!
Accostatevi a terra,
dove, tra le braccia
d'ardente amore,
un beato tepore
calmi le vostre brame!