venerdì 28 dicembre 2012

Scheda J. J. Bachofen






Johann Jacob Bachofen   La dottrina dell’immortalità della teologia orfica   Milano, BUR, 2003



P. 62 : gli elementi dell’interpretazione dell’immagine sono tratti dai neoplatonici, qui in particolare Proclo ( commento al Timeo ).
P. 63 NB : “ la santità del numero quattro, questa fonte dell’eterno fluire della creazione, secondo la dottrina pitagorica. “ Vedi anche Fabre d’Olivet.
P. 64 : fonti citate Plutarco, Eraclito, i pitagorici, i misteri orfici. In seguito notare la tripartizione di Psiche ( sole, luna, oceano ) secondo un’impostazione platonica che però richiama nel lettore moderno quella di Freud : super io, io ed es.
P. 69. Per l’interpretazione del vaso una fonte spesso citata è Proclo.
P. 70. Citata la concezione pitagorica del cosmo riposante in seno all’infinito. Le idee di seguito sono di origine chiaramente platonica, ma anche per Platone il punto di partenza è l’antica visione del mondo orfico-pitagorica.
P. 72-73. Sileno ( cfr. Rohde pag.428 ), custode della sapienza originaria. Vedi per questo Nietzsche, La nascita della tragedia, dove riprende questo significato della figura di Sileno.
P. 74. L’interpretazione del simbolo di Mercurio ( il fiore ) può essere applicata al Tetrabiblos di Tolomeo. E infatti  ( pag. 75 ) : “ L’origine del simbolo canosino sta quindi in quella speculazione egizia colma di dottrina astronomica segreta che da un lato venera in Ermete la fonte di ogni superiore sapienza misterica, dall’altro venera nel fiore del loto, corrispondentemente ai sistemi asiatici, la quintessenza di ogni speranza di vita e salvezza dopo la morte, e la cui affinità all’orfismo è infine testimoniata anche da Erodoto.”
P. 79 : per l’interpretazione del culto orfico derivato da quello dionisiaco, ma ad esso superiore in quanto misura e freno dell’irrazionalità selvaggia del culto tracio di Bacco, vedi Rohde, Psiche, pag. 303. Il Rohde risente dell’influsso del Bachofen come di quello di Nietzsche.
P. 81 : notisi l’importanza data alla rivelazione divina dei misteri pitagorici.
P. 82 : “ … a Dioniso, al nuovo Zeus, secondo la dottrina orfica l’ultimo reggitore del mondo.“ Anche questa affermazione è importante per il Nietzsche.
P. 84 : per la tripartizione dell’essere umano vedi anche Fabre d’Olivet e Schuré ( I grandi iniziati ).
P. 84 : “ Luna e Psiche … entrambe nature mediane tra le cose più elevate e le più basse, mescolanze delle sfere superiori e inferiori … “ cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, pag. 596 circa. La Luna è la sede della Fortuna ( Tuch ), vedi cap. 9 di Sugli dei e il mondo di Salustio ( IV sec. d. C. ), maestro di teologia pagana di Giuliano l’Apostata.
P. 90 : “ le isole dei beati nella luna e nel sole “ affermazione pitagorica in seguito alla riforma orfica della religione, vedi Rohde, Psiche, pag. 65.
P. 90 : “ misticismo pitagorico … respinge la teologia ellenica … come falsificazione della religione antica.”
P. 91 : affermazioni importantissime che collegano le tesi di Bachofen con quelle di Schuré e di d’Olivet. Tra esse appare fondamentale quella che fa di Pitagora il mediatore fra Occidente e Oriente e del pitagorismo la dottrina greca più intessuta di elementi asiatico-caldei ed egiziani.
P. 93-94 a proposito del Somnium Scipionis cfr. la Divina Commedia e l’interpretazione che ne dà René Guénon in L’esoterismo di Dante.
Per quello che Bachofen scrive a pag. 95-96-97 vedi Teeteto, 153 d, laddove è citato Omero, in trad. : “ … finché esiste l’orbita dell’universo che si muove e anche il sole, tutte le cose esistono e si mantengono tra gli dei e per gli uomini, ma se tutto questo si arresta, come avvinto nei ceppi, ogni cosa andrebbe in rovina e tutto … finirebbe sottosopra ? “ cfr. Omero, Iliade, XIV, 201. Omero sembra consapevole della verità di ciò che è la cosiddetta tradizione orfica.
P. 99. A proposito delle porte del sole cfr. Parmenide, Sulla natura, v. 11, e la diversa prospettiva in cui sono colte le religioni “ di fondamento astrale “ rispetto alle considerazioni che ne fa il Frazer.
P. 100. Citazione dai Versi d’oro di Pitagora ( vedi anche Fabre d’Olivet ).
P. 104. Interessante l’affermazione della continuità del pensiero orfico-pitagorico in Platone, nei medio-platonici ( Plutarco ) e nei neo-platonici ( Macrobio ) : la continuità di una tradizione = la philosophia perennis.
P. 104. Ribadisce la continuità della tradizione orfica da Pitagora, rinnovatore di essa, sino a Macrobio, autore della tarda antichità. Per l’esistenza di una tradizione di pensiero orale ( tradizione indiretta ) vedi Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, dove si sostiene per l’appunto la presenza nella scuola platonica di questo insegnamento esoterico continuato nella scuola di Aristotele e oltre.
P. 115. Fa derivare la descrizione dell’antro delle ninfe nell’Odissea e il simbolismo quivi nascosto dalla “ cultura preellenica che ebbe il proprio centro religioso e perciò spirituale nel più antico orfismo e nelle sue scuole sacerdotali di canto. “ Poco prima parla dell’influsso della rivelazione saturnia ( vedi Plutarco, De facie in orbe Lunae ) e quindi dell’influsso della religione cartaginese, o fenicia o “pelasgica” per dirla con Michelet ( Storia di Roma, primi capitoli, origine di Roma e influsso etrusco ). Rohde non giunge a tanto, però anch’egli sottolinea l’origine dell’orfismo da una sorta di riforma del dionisismo e l’importanza determinante della scuola di Pitagora, che era in Italia, terra, si noti, come afferma Michelet, dove si praticava il culto pelasgico e “saturnia” per eccellenza. Vedi J. Michelet pag. 37 “ I Pelasgi “ (anche circa la storia di Troia e l’influsso dei Pelasgi in Italia ).
P. 115 : contrariamente al positivista Rohde, Bachofen ritiene il neoplatonismo e neopitagorismo come una manifestazione del più antico spirito religioso ellenico e non affatto il marchio della degenerazione di un’epoca tarda e decaduta.
P. 117. Pitagora riformatore ispirato ai culti orientali, rigenerò la vita religiosa e spirituale dell’Occidente. Importanza dell’astronomia ( astrologia ) antica per lo sviluppo dello spirito religioso.
P. 118 : “ Nello spirito … possediamo la potenza dell’autodeterminazione “, vedi Fabre d’Olivet, Histoire philosophique du genre humain, pag. 17-18, considerazioni sulla sfera volitiva o quarta sfera della costituzione metafisica umana. La volontà, il libero arbitrio sono concepiti come la manifestazione più alta della origine divina dell’uomo in ambedue gli autori.
P.122. Contrariamente al Rohde, Bachofen sembra credere che il dionisismo tragga origine dall’orfismo e non viceversa.
P. 129 : definisce Proclo “orfico”.
P.130. Motivo orfico della palla o sfera. Il simbolo dell’uovo mistico si riferisce all’esistenza ultraterrena. Suo influsso sul Cristianesimo e quindi ovviamente permanenza nel tradizionale uovo pasquale ( gioco della palla nel coro della cattedrale di Auxerre, nel XV sec. ).
P. 134. Per l’immagine dello specchio è citato il III e il IV libro di Plotino.
P. 138. Platone : “ il canto dei mondi è per lui canto delle Sirene “. Vedi significato del simbolo delle sirene per Omero ( Odissea, XII ).
P. 140. La scala : “ tradizione ebraica della scala celeste “ qui il simbolo riceve il suo vero significato.
P. 146, NB : “ la frequente comparsa di figure etiopiche nel mondo sepolcrale ha un legame con l’intero sistema di fede nel senso del romanzo religioso di Eliodoro. “
P. 147, NB : la Vergine ( Maria ) è equiparata alla luna.
P. 148. Significato del simbolo della sfinge. Tutte le divinità femminili greche ( Artemide, Demetra, Persefone, Afrodite ecc. ) sono figure lunari, simboli antropomorfici della luna.
P. 150 “ … i numeri, che secondo la dottrina orfica sono più antichi e originari dell’anima del mondo … “ cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, pag. 588 ( la posizione intermedia dell’anima ).
P. 167 “ Il maestro del mondo occidentale ( Orfeo ) non è che l’eco di precedenti sistemi orientali, dai quali è nato lo stesso simbolismo. “ Vedi anche le successive considerazioni.
P. 173. Si comprende da queste pagine come il Dioniso di Nietzsche non sia altro che il dio del sesso che dà la morte e la vita, e quindi non capisco perché negare la sifilide del filosofo, pienamente coerente e, credo, causa stessa della sua visione del mondo.
P. 174. Dioniso, dio del movimento, cioè della vita ( cfr. Platone, Teeteto, 153 a ) ma anche dell’inganno dei sensi, nella furia del godimento sensuale sembra abbassarsi in epoca moderna al mito di Don Giovanni, che è in fondo un Bacco in abiti civili.
P. 180 “ Così, la divinizzazione della vita sensuale termina nell’apoteosi della follia “ : queste considerazioni si addicono perfettamente al comportamento di Nietzsche a Torino ( cfr. Verrecchia ), il quale appunto mise in caricatura se stesso come dio.
P. 181. Dioniso è il sole materiale, che illumina la terra, sole dell’emisfero inferiore, Apollo è il sole divino del cosmo uranico, sole dell’emisfero superiore. Considerazioni molto interessanti. Vedi Macrobio, Saturnali, 1, 18, 8 : “ … sol, cum in supero id est in diurno hemisphaerio est, Apollo vocitetur, cum in infero id est nocturno, Dionysus qui est Liber pater habeatur. “ cfr. Plutarco, De E apud Delphos, 388f-389b.
P. 203. Il corpo di pesce attribuito a figure mitologiche sulle lucerne o sui sarcofagi è un simbolo della vita divina ultraterrena. Cfr. la divinità sumerica-babilonese di Oannes ( in Berosso ), e vedi G. Pettinato, I Sumeri, Milano, Rusconi, 1994, pag. 78 ( traduce da Berosso, libro II di Babiloniakà ). Oannes è un essere divino e saggio dalla testa umana ma dal corpo di pesce che insegna agli uomini e trasmette loro i primi elementi della civiltà. G. Hancock trasforma questa figura in un presunto esponente della mitica città di Atlantide, non accorgendosi che si tratta di un simbolo. E’ la divinità che ha reso civili gli uomini. Ma questo significa anche che i simboli dei quali si serve l’orfismo sono più antichi dell’orfismo stesso e fanno parte della comune cultura delle civiltà mediterranee e del Vicino Oriente ( Fenicia e Caldea ).
P. 205 : l’idea oceanica ( isola del Beati, mondo ultraterreno ) in Omero, Esiodo, Pindaro ( Odissea, 4, 561, Opera et dies, 170 segg., II Olimpica, 71 segg. ). NB : l’isola dei Feaci rappresenta l’isola dei morti, le fanciulle e Nausicaa giocano a palla ( simbolismo della sfera : significato uranico, vedi pag. 130 uovo pasquale ). Le navi dei Feaci conoscono la patria di ogni mortale e riconduce una di esse Odisseo ad Itaca nel porto di Forco dove è l’antro delle Ninfe ( vedi Porfirio, L’antro delle Ninfe ).
P. 213. Simbolo uranico della barca ( cfr. religione egizia ) : Caronte.
P. 214. Dottrina dell’origine dell’anima dall’acqua : cfr. I Presocratici, vol. I, Laterza.
Mia considerazione : i miti sono come geroglifici con i quali gli antichi hanno voluto comunicare le loro conoscenze, bisogna saperli decifrare. Per questa considerazione tieni presente il Vico, Scienza nuova, vedi “ Idea dell’opera “ e pag. 269, Utet ( linguaggio dell’antica teologia ).
P. 218 : NB simbolismo del pesce : “ l’anima stessa appare in forma di pesce “. Ricordare il pesce come simbolo cristiano.
P. 220 : Bacco simboleggiato dal toro o rappresentato sopra il toro, generalmente animale associato a Poseidone. Ricordare il toro adorato dai Liguri sul monte Bego ( Bekkos, forse Bacco ? ).
P. 221. NB : carattere preellenico della fede mistica orfica. Cfr. Platone, Timeo : il sale. Importanza dell’età di Crono ( pag. 222 ).
P. 224 : quadri dell’esistenza ultraterrena in Omero, IV Odissea; Pindaro, II Olimpica; Virgilio, VI Eneide; Tibullo, III elegia, I libro; Claudiano, II del Ratto di Proserpina.
P. 242. Lo sviluppo dell’idea orfica viene considerato in una direzione esattamente contraria a quella che traccerà Rohde. Qui si parte dalla pura concezione uranico-orfica per arrivare alle isole dei beati o al paradiso terrestre, in Rohde invece si parte dalle isole dei beati per arrivare agli orfici e ai platonici.
P. 246 : idea della “metra” o matrice o madre universale, rappresentata con un infante ( umano o animale ) cfr. Mater matuta. NB la lupa che allatta i gemelli : simbolo funerario = idea della rinascita dopo la morte.
P. 249 : la posizione fetale degli scheletri nelle tombe dei Celti confermerebbe l’idea in una rinascita alla vita dopo la morte. Stessa concezione pare avessero anche gli Etruschi : tombe di Marzabotto dalla forma di “uterus plenus”.
P. 269. Le considerazioni di Bachofen sul mito di Demetra e Core sono rivolte al lato spirituale del culto e non a quello semplicemente materiale come mostra di fare il Frazer. In questo senso la religione degli antichi assume un ben diverso rilievo e ai nostri occhi un’importanza crescente.
P. 277. NB : “ Il fanciullo Iacco viene rappresentato come Zagreo risorto … l’idea mistica della resurrezione delle anime. “
P. 281 : “ … mela, il frutto dell’albero della vita nell’Elisio. “
P. 288. Tendenza fondamentale dell’orfismo all’unione onnicomprensiva di tutti gli dei. “ La legge suprema del cosmo, la cooperazione armonica dei corpi celesti, è anche la legge degli dei orfici. “
Questa concezione si concilia pienamente con quella di Platone e dei suoi discepoli.
P. 301-02 e seg. : espone con grande acume le posizioni dell’accademismo scolastico, di cui più tardi anche il Rohde mostra di condividere l’opinione di fondo. Il misticismo sarebbe il frutto del tardo ellenismo, contrapposto alla sana e materiale epoca omerica e classica, tutta forza e corpo, in quanto consapevolezza del proprio indebolimento e incapacità di affrontare la vita senza timore e così la morte. Ma Bachofen, a mio parere giustamente, contesta questo punto di vista che, sottolineando troppo la prepotenza della fisicità e dell’umano, si rivela in fondo profondamente irreale e disumano.
P. 313. Molto interessante l’affermazione secondo la quale il misticismo orfico trae origine da culti del mediterraneo antico orientale, precisamente da culti cretesi e asiatici ma anche egizi, es. Zagreo ( Adone-Attis-Osiride ). E’ molto importante ( pag. 311 ) l’espressione “eroi della luce” che richiama alla mente un’analoga definizione degli Esseni. Il più antico cristianesimo sembra avere dei punti di contatto con questo orfismo originario.
P. 312. Il bios orfikos come vita eroica. L’iniziato ha una vocazione eroica. “ La perfezione del corpo è immagine della bellezza spirituale alla quale l’iniziazione solleva. ”    

martedì 25 dicembre 2012

Lucano, Bellum civile, I, 640 ( fine del mondo )

 at Figulus, cui cura deos secretaque caeli
nosse fuit, quem non stellarum Aegyptia Memphis                  640
aequaret uisu numerisque <seque>ntibus astra,
'aut hic errat' ait 'nulla cum lege per aeuum
mundus et incerto discurrunt sidera motu,
aut, si fata mouent, urbi generique paratur
humano matura lues. terraene dehiscent                  645
subsidentque urbes, an tollet feruidus aer
temperiem? segetes tellus infida negabit,
omnis an infusis miscebitur unda uenenis?
quod cladis genus, o superi, qua peste paratis
saeuitiam? extremi multorum tempus in unum                  650
conuenere dies. summo si frigida caelo
stella nocens nigros Saturni accenderet ignis,
Deucalioneos fudisset Aquarius imbres
totaque diffuso latuisset in aequore tellus.
si saeuum radiis Nemeaeum, Phoebe, Leonem                  655
nunc premeres, toto fluerent incendia mundo
succensusque tuis flagrasset curribus aether.

domenica 23 dicembre 2012

Polvere






Una druidessa celtica sorreggeva un antico libro e leggeva in piedi presso un’alta quercia attraversata dall’austro. Vestita d’una tunica aderente al corpo, fermata in vita da un’ampia cintura cinerea, ella rivolgeva, ripetendo le parole lette, lo sguardo a un vegliardo morente cui ogni sillaba pareva infliggere una ferita. Egli la guardava con la rassegnazione propria di chi ha molto vissuto e molto meditato, la cui saggezza ha reso ormai insensibile sia alla vita che alla morte. Egli era posto in un sepolcro circondato da fiori funerei, da quei fiori che i mortali dedicano per la bellezza pura e pudica alle salme e alle tombe.
E gli occhi piano piano si chiudevano ad ogni parola pronunciata, e il respiro lentamente s’attenuava, quasi un’onda marina che si plachi dopo il vigore delle correnti e si dissolva sulla riva nell’estremo moto.
I suoi capelli candidi procombevano sulle spalle ammantate e sul petto una barba bianca e fluente copriva per lungo tratto un logoro saio, gli occhi erano azzurri come il cielo cristallino.
E sullo sfondo, in una palude recinta da alberi nodosi e deformi, emergevano i ruderi d’un antico tempio cristiano, le cui nere mura erano pervase da una vegetazione di rampicanti e di erbe parassite e di muschio. Gracili sculture seguivano le arcate gotiche e lunghi draghi sporgevano agli angoli le teste di pietra.
Pareva il duomo rispecchiarsi nell’acqua nera e putrescente. Rospi limacciosi si rintanavano nelle nicchie, custodi d’una memoria perduta.
E le fronde delle piante centenarie s’accendevano come brace innanzi alla fiamma morente del sole. E le tenebre alitavano sopra il tramonto quasi minacce di nubi tempestose, mentre una linea canuta testimoniava il giorno trascorso, quale lembo strappato d’un lungo manto fuggente che s’allungasse sopra la terra.
Mentre l’astro declinava oltre le montagne bluastre, il bianco disco lunare ascendeva per il vasto spazio silenzioso, e sembrava accompagnarsi a una vasta e sommessa melodia di lire e di flauti che pari a una fonte pura si smarrisse in una limpida e ferma conca di acque.
E la dea della notte si specchiava ai margini d’un rivo nero e lucente, e vi scorgeva il pallore luminoso del volto. E sul volto scorrevano scintillanti le lacrime e i rimpianti dei giorni perduti e i sogni sognati e le passioni dissolte e le gioie rattristate e le illusioni senza più speranza.
E una musica dolce e triste ondeggiava sulle onde argentee e palpitava e cessava sulle sponde e proseguiva allontanandosi verso altri lidi e contrade, per chi sa quale foce.
E come un rapace, disturbato nel nido da voci di cacciatori, via dalla rupe s’allontana con forte plauso d’ali e poi plana nell’aria quieta e la fende veloce con immoto volo, così nell’ombra della notte solcava un mare nero e greve una barca snella e leggera. Fluiva in una durevole scia il vascello rapido, ma senza rumore alcuno, in un torpido silenzio, scivolando immobile.
Un mendicante remava, e non s’udiva remeggio, quasi che i remi sfiorassero l’acqua.
Don Giovanni si specchiava nell’onde tranquille, al lume della luna. E avvertiva il pallore del volto, mentre meste e tenui note vagolavano sulla superficie tremante.
Intorno roteavano, nel ricordo, i visi molteplici delle amanti, maschere velate o imbellettate di cipria e di fuco, dai ricci attorti da forcine, dai nevi ridicoli artificiali, dalle occhiaie scurite, dalle guance nutrite di fardo. Alcune ridevano d’un riso vacuo, altre lo fissavano con guardo assente, alcune lascivamente, alcune con falso trasporto, altre ancora si sottomettevano con odio, vinte tuttavia.
Che restava di tante avventure gioconde e di tanti arrischiati amplessi ?
Solo il disgusto nella delusione. L’amore s’era rivelato nulla se non un anelito inappagato e senza pace, e il desiderio non s’era mai placato se non nelle sue fantasie, non mai fuori di se stesso.    
Cosa avevano veduto in lui quelle ardenti innamorate se non appunto il desiderio ch’esse in sé medesime non potevano sopprimere ? Si erano specchiate nella sua faccia e come su una lastra di vetro avevano sognato l’amante ideale, e si erano date, fidenti, abbandonandosi ciecamente.
Ingenuità dell’amore ! Lui, sì, l’aveva conosciuto.
Aveva compreso quanto egoismo racchiude la dolce parola. Nessuno ama fuor che l’immagine che ha di se stesso nell’amore.
Ed egli s’era compiaciuto d’amare e d’essere amato, e per lui ogni giornata era stata illuminata dal pieno sole della gioia. Ma ogni istante era trascorso, e gli amori quali granelli di sabbia erano sfuggiti tra le dita.
Rammentava l’ebbrezza delle corse in carrozza, quando l’aria fredda della notte attraverso i finestrini aperti lo colpiva in pieno volto, e la sua vista si perdeva nell’oscurità, alla ricerca di luci lontane ed ignote, mentre tra le braccia sue l’amante inseguiva le chimere dell’amore.
Com’era bello e misterioso, allora, quando congedata con l’ultimo bacio della sera la dama, dileguata sulla carrozza nera tra le nebbie dei sogni, entrava finalmente in casa e s’adagiava sul canapé e si metteva a cianciare col pappagallo, ripetendo i discorsi e le confidenze delle sensibili innamorate, passate in rassegna come le damine d’un museo delle cere o bambole pregiate di porcellana, agghindate di bei fronzoli.
Allora all’udire un canto notturno o lo stormire degli alberi del giardino o il vento che giocava sibilando tra le persiane, pensava alle impressioni indefinite che lo avevano distratto dalla fugacità dell’esistenza, pensava a un colore particolare ma senza nome che aveva indugiato ai raggi del pomeriggio sulla veste d’una fanciulla, sotto un pergolato, al ricevimento del barone locale, o meditava su una piuma che, distaccandosi dall’oca sacrificata, aveva navigato sulla corrente del pulviscolo d’oro.
E poi riviveva l’ardimento dei duelli e rivedeva le lame che incrociandosi stridevano e balenavano quali folgori, o ascoltava di nuovo nella memoria il latrato dei cani eccitati nella caccia e percepiva nel folto dei cespugli l’ombra fuggitiva del cinghiale che muoveva le fronde, o scorgeva tramontare il sole dietro i faggi in un’effusa vena di liquido fuoco.

Ora la visione mutava, ora Don Giovanni non era più.
Come sulla scena d’un teatro mutavano gli attori e gli atti, e così la visione nel sogno riproduceva la scena del mondo.
Amleto saliva lentamente la scala che portava alla torre nel palazzo di Elsinore.
Lentamente ascendeva. Intorno era la tenebra umida e fredda, interrotta regolarmente da pertugi aperti sulla campagna rischiarata dalla luna.
E Amleto saliva, saliva. E la scala rotava in una vertigine. E la pietra grezza della torre colpita dai raggi lunari assumeva strani contorni, ora aprendosi in una bocca, ora evidenziando le cavità del’orbita, ora arrotondando la lucida forma del cranio.
E Amleto meditava sul destino di morte. E considerava la sua triste esistenza, di uomo votato alla sconfitta e all’inganno, quando la forza e l’audacia avrebbero potuto in lui rifulgere, come già nelle vite degli avi.
Il paesaggio lunare lo cingeva della tenebra, al pari del silenzio dell’esilio.
Lontano da ogni impresa, da ogni gloria languiva il suo spirito, moriva nella delusione e nel disprezzo.
Chi era ? Forse un sogno errante in un sonno profondo, o un’immagine oppressa e opprimente d’un incubo.
Ed ora ascendeva, nel ricordo accompagnato dalle contumelie dei mortali di magnifiche e trascendenti rivelazioni, come uno sciamano portatore di malaugurio.
Ma, quando fu in cima alla torre e poté respirare l’aria libera e pura e camminare sulla terrazza, allora dimenticò l’esistenza, obliò il destino e la sua nascita. E vide l’aurora precedere l’astro immortale in un’ondata rosea, e poi il sole scaturire dalla linea dell’orizzonte simile a un gigante di fuoco su dall’abisso, e nel cuore immaginò ardere di quella fiamma, consumarsi in un’estasi ultima che lo confondesse nell’universo, che lo spargesse polvere nel vento sul vasto mondo, che lo annientasse nel turbinare delle immagini future. 

domenica 16 dicembre 2012

Talete







Talete diceva che la morte non differisce in niente dal vivere, e aveva ragione. Infatti se non ci fosse la vita non ci sarebbe la morte e se c’è la morte è perché prima c’era la vita. Lo stesso sviluppo degli organismi è collegato alla morte di altri organismi, il nutrimento dei corpi è il risultato della morte di altri corpi, l’accrescimento di un corpo è dovuto alla morte delle cellule preesistenti, il mutamento e il divenire dei fenomeni sono una morte continua. Dunque la vita e la morte sono gli elementi costitutivi del mutamento, del divenire, che è la caratteristica fondamentale di tutti i fenomeni della realtà, cioè della materia. E se la materia è un continuo mutamento, che cosa siamo noi, poveri corpi umani ? Prima un bimbo, poi un giovane, poi un uomo maturo, poi un vecchio, infine un cadavere. Che cosa c’è di stabile in noi, di durevole, di immutabile ? Proprio nulla. Siamo forse quelli di prima ? E’ difficile dirlo, certo non saremo più dopo. Verrebbe quasi da dire che non siamo affatto, dal momento che mutiamo di continuo senza, talvolta, neppure aver coscienza di noi stessi. I nostri pensieri fluiscono dentro di noi come un torrente in piena dal quale siamo travolti senza scampo. Non sappiamo neppure perché pensiamo a certe cose ora e non ad altre, non sappiamo perché abbiamo certi impulsi, certi sogni tortutatori.
L’unica cosa che sappiamo è di essere presenti e di subire tutto quello che accade dentro e fuori di noi, null’altro. Saremo presenti anche alla nostra morte, e dopo ? Non saremo più presenti ? Chi può dirlo ? Non abbiamo certo voluto noi venire al mondo e la nostra presenza qui è sempre stata espressa nella nostra domanda : “ Perché ? “
Schopenhauer ( Il mondo come volontà e rappresentazione, IV, ed. Laterza ) aveva cercato di rispondere e, secondo me, in modo persuasivo e suggestivo : “ Non abbiamo dunque da indagar né il passato innanzi la vita, né il futuro dopo la morte : invece come unica forma in cui la volontà si svela dobbiamo conoscere il presente. “ Ed io penso che noi siamo presenti adesso in quanto apparteniamo all’eterno presente. Che cosa saremo in fin dei conti ha poca importanza. 

sabato 8 dicembre 2012

Fratelli d’Italia







Il morbo infuria
il pan ci manca,
o Monti sventola
bandiera bianca !
Dei tuoi successi
ce ne freghiamo,
non siamo fessi,
non lavoriamo !
Dovunque piombano
tagli e tributi,
l’anziano mendica
sogni perduti.
Dal cielo piove
maledizione,
ora ci smuove
un’alluvione.
A chi sorridi ?
Dove ti volti ?
Non senti grida
di mille volti ?
Certo tu mieti
lodi ed allori,
sono ben lieti
d’oltralpe i cori.
Oh quanto ride
la dea tedesca
cui non par vero
che il colpo riesca !
L’Italia ammazza
solo col Patto,
viva, è una bazza,
ha colmo il piatto !
Soltanto il popolo
miete dolori,
ah quanto costano
i nuovi amori !
Europa e Italia
vanno a braccetto,
chi l’altra strozzi
è presto detto.
Povera patria
mezzo annacquata,
c’è pur chi spera
nella frittata !
O volto italico
come ti muti,
un po’ caucasico
e di Gibuti.
Che lingua parli ?
Questo è il problema,
“ esser non essere “,
sei quasi scema.
Non è dei posteri
l’ardua sentenza ?
Di tante scimmie
meglio far senza.
Questi al Liceo
fan marameo,
“ viva lo sballo
dell’intervallo ! “
Prole beata
e coccolata,
colma ha la tazza
di cioccolata.
Dov’è papino ?
Forse al confino.
La mamma ch’era ?
Donna in carriera.
Solo un fardello
è il bimbo bello,
vien su un vitello
senza cervello.
Prole di Roma
cura la chioma,
l’Italia è desta
dal colpo in testa.

domenica 18 novembre 2012

Il lago





















Il lago era esteso come un mare.
Egli si fermò nel recinto petroso. E tra le colonne dei tronchi osservava la distesa delle onde placide, che appena mormoravano.
Ed ecco che, inaspettatamente, scorse proprio la sua stessa immagine, davanti ai suoi occhi, convolta di pallore d’alba, che procedeva sovra i ciottoli della riva, priva di vestimento, quale antico fauno.
Ma, all’improvviso, apparve approssimarsi al galoppo un imponente corsiero negro, pungolato dagli aculei della Rabbia, con le orbite ignite siccome sfere di fuoco.
Esso pareva il Destino cui gli uomini bruciano le vite sugli altari dell’immolazione. Esso pareva la Vendetta che arde e consuma il cuore di coloro che inclinano il capo innanzi all’esistenza.
Percuoteva con gli zoccoli il suolo e ne levava frammenti di pietre e nugoli di sabbia, che vaporavano dinnanzi alla sua testa quali fumi di sacrifici. Un’ostinazione incrollabile, un’energia inesauribile esprimeva la sagoma furiosa. Irrompeva con l’impeto d’un torrente in piena, che sormonta e scardina ogni barriera. L’assalto che non si può respingere era in lui, la brama della vita universa, l’orgoglio insanabile, la sete perpetua della conoscenza, la superbia di Lucifero.
E il lago ora s’agitava per subitanea tempesta, tumultuando con l’urlo di mille titani liberati, frangendosi con ira prodiga contro le ripe rocciose, con l’ostinazione d’un rancore sempre nuovo.
Le nubi erano trascinate nel cielo dai vortici ventosi e si scontravano nella foga delle correnti. Sembravano ardentemente slanciarsi verso le albescenti contrade dell’alto azzurro.
Il cavallo continuava a correre, mentre nuvole nerastre macchiavano le regioni luminose e profonde. Si dilatavano tra il biancore, così che il cielo ospitava insieme la notte ed il giorno.
Un corteo di fiaccole defluì verso il lago, un torrente di turbinosa fiamma. Genti sconosciute seguivano una vestale dalle chiome rosse, ch’erano accese del lucore delle lampade crepitanti.
La donna li dispose, a un cenno, in circolo, intorno a un tumulo di tronchi, ma quando depose la fiamma sulla pira, una vampa sulfurea in un istante consunse tutto il legno e la terra scoperta rivelò un’ampia fenditura.
Il giovane aderì al gruppo dei fedeli, e come il suolo divaricò le pareti di roccia, s’immisero dentro alla cavità segreta.
La luce di un sole occiduo colorava il sotterraneo, d’un astro morente o intorpidito nella sua forza, illanguidito in un mondo di stanco oblio e di fievoli larve.
Un interminabile Alhambra li ospitava sotto le volte e le arcate incise di linee enigmatiche e di sigilli zoomorfi. Le colonne terminavano in capitelli fioriti in grandi fiori tropicali, misteriosi arabeschi s’arrampicavano sovra le pareti. La luce, quasi un’acqua torbida, assorbiva ogni sostanza più appariscente nella tonalità bronzina e cuprea come un chiaroscuro di tinta verdastra e cupa e di chiazzature rossicce.
Sagome d’animali in legno d’ebano o in metallo sbalzato erano poste ai lati di lunghi corridoi, imponenti elefanti di cedro fissavano con gli occhi di topazio gli intrusi, minacciandoli con le zanne dorate.
E mentre s’addentravano, alcuni, tra i quali anche il giovane curioso, incespicarono in inattesi rialzi del pavimento, che dapprima furono percepiti e ritenuti come suppellettili, ma subito dopo si rivelarono cadaveri, abbandonati ancora caldi sulle lastre marmoree che erano in parte divenute scivolose per la copia del sangue.
Erano corpi di gioventù guerriera, depredata dell’armatura, e taluni seminudi offrivano al lume delle torce il fianco dilaniato o l’eburneo tronco e i muscoli e le linee del costato, che apparivano in rilievo sotto la pelle.
Sparsi giacevano, isolati o ammucchiati, ai piedi di simulacri marmorei, le cui effigi, adorne di doni votivi e di ghirlande, sembravano aver rappresentato per essi, in vita, un oggetto di desiderio e di speranze, un punto di riferimento più che materiale, un’aspirazione custodita gelosamente nel cuore, un ideale che anima l’esistenza di fantasmi abbaglianti e persuasivi, più evidenti della realtà stessa.
Sparsi giacevano, bianchi e puri della loro bellezza, divelti nel fiore degli anni dall’antica branca diramata delle generazioni, come germogli arsi dal gelo in una primavera immatura.
E nel sotterraneo s’apriva una cavità senza confini. E in essa altri giovani, a migliaia, correvano, ebbri, cosparse le membra nudate di sudore, dietro un possente corsiero candido che galoppava imbizzarrito sopra le sabbie. E in alto sovra l’abisso una fanciulla danzava nei raggi rossi del tramonto e il vento giocava coi suoi capelli.
E quei giovani, come a festa, si cingevano l’armi che posavano sulle sabbie, e agitavano le lance e brandivano le spade e cantavano canti di guerra e marciavano ritmicamente, sì come una danza.
Il cavallo bianco percuoteva la spuma delle onde e il sudore del suo corpo era raggelato dai venti impetuosi e la criniera e la coda erano agitate nell’impeto degli spiri e nella furia del moto.
E come quella sagoma nuda e bianca, così parevano attratti dal ritmo d’una musica primitiva e dalle movenze d’un’arcaica danza i giovani guerrieri che si destreggiavano in una corsa cadenzata e minacciosa dietro una guida ignota, contro un nemico invisibile.
Ma innanzi a loro gli araldi e i vessilliferi sorreggevano sulle spalle robuste, vestite dell’armatura, un pesante sarcofago nero, e il loro piede sprofondava nella sabbia ed avanzavano a fatica.
Un canto di vittoria s’udì provenire dal promontorio che s’innalzava sopra le onde, arduo e scosceso, quale erta montagna. Inerpicandosi con le armi lucenti indosso, incedevano inarrestabili di rupe in rupe alcuni guerrieri dardeggiando raggi nel cielo violaceo.
E ogni loro passo era un inno vittorioso e il piede colpiva la terra e sollevava polvere e imprimeva l’orma nella terra.
Ed egli vide l’esercito trascorrere innumerabile siccome il manto delle foglie mutevoli nella stagione autunnale. Quale la stirpe delle foglie, tale la progenie umana passava dopo un breve rigoglio, dalla vita al colore cupo della morte. Trascinate dal vento impetuoso dell’Ovest esse si disperdono, così le vite degli orgogliosi mortali sparge sulla terra e nei recessi del mare il soffio del definitivo tramonto. Oh, vento dell’Ovest !
Il loro sangue era assorbito dalle aride arene. Le armi lucenti si maculavano affondando nelle corazze, le urla di dolore si fondevano coi canti di guerra.
Come foglie morenti i loro morenti spiriti esalavano nell’ultimo anelito l’ardore e la speranza, quale sacrificio estremo e sangue e seme versato a riscatto della progenie, per una nascita nuova.
Sentì nel cuore l’impeto della lotta. In lui agivano forze opposte, l’una matrice di debolezza e tormento, l’altra lo esortava alla conoscenza e al superamento d’ogni contrasto. Aveva assistito a quella danza con lo stato d’animo di chi può finalmente dire d’essere libero. Non era libertà forse quell’assalto delle onde contro gli scogli, o la correntìa dei venti sulle vie delle montagne, o la tempesta che rimbomba sulle pianure ? Era dunque lotta, era guerra inesorabile e senza fine la libertà. Era lotta e guerra inesorabile contro tutti i limiti della carne e dell’anima, per l’affermazione dell’io, del sé che mai potrà né distruggere né intaccare la natura e il tempo con le vicende della corruzione e della malattia. Dioniso avrebbe sempre vinto e sempre avrebbe sottomesso e domato l’eterna sposa.
Le tempie gli dolevano. Egli percepiva in sé medesimo il contrasto della debolezza e della forza, riassumeva in sé medesimo il dolore universale. Ma doveva per sopravvivere appigliarsi a qualunque spuntone di roccia si fosse offerto per non precipitare nel baratro. Ed ecco che il corsiero furente in corsa sul litorale lo invitava a partecipare a quella vita fremida, possente, all’agone che chiama alla vittoria. Non importa che lungo il cammino soccombiate, non importa il morire, pareva annunciasse, ma affrontare il nemico a viso aperto, ma drizzare gli occhi al vessillo della libertà.
Ed egli ora era presso la donna, sul litorale. E si specchiò nell’oscurità dei suoi occhi, e la luce del crepuscolo e il tenue candore della luna sorgente attraversarono la notte entro la sua pupilla senza fine. Ed egli ammirò l’infinita distesa delle acque ove al brillìo argentino fluiva a connubio il rosso ondeggiare dei raggi oltremarini. E vide le onde fiammee estinguersi sul lido, e il cavallo disparire nella penombra del plenilunio prossimo, mentre la luce lunare a oriente lo implicava nel pallore  e il sole sprizzava tra i crini della coda e della giuba gli estremi ardori, avvolgendosi ad occidente nel purpureo languore.
Era l’ultimo giorno, l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute. Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La lunga fantasmagoria del passato era dunque una pietruzza nel mosaico del crepuscolo che nella solennità della fine consacrava la certa resurrezione, cui forse la sua debole fiammella non avrebbe preso parte, e si sarebbe spenta per non accendersi mai più.
La vita incessante, tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di speranze oltre la morte ?
Ascese sovra le rocce inondate dalla spuma algosa. E diresse il piede di rupe in rupe, sospinto dal vento impetuoso.
E gli sembrava d’ascendere in una danza insieme alla luce e al vento e all’effervescenza marina. Gli pareva che la natura palpitasse al palpito del suo cuore e respirasse nel suo respiro.
Era ora, era finalmente iniziato al Mistero.
Vide erigersi per il promontorio un grande centauro.
Un grande centauro bruno recava sopra le spalle il corpo inerte d’un giovane dalla lunga chioma castana, e bianco e grigio del colore che hanno le membra esangui.
Il volto era trasumanato nell’estasi estrema o estenuato nell’arduo sforzo di raggiungere i vertiginosi astri e le altezze abbaglianti del sentimento.
E in lui riconobbe l’ansia d’amore, uccisa ancor prima che, sbocciata, fiorisse e gli rivelasse l’essere suo. E allora si vide sul lido marino, accanto alla donna, e gli pareva che una dolcezza e una gioia indefinibili fluissero per l’animo e il corpo quale libera corsa per lo spazio senza confini, e credeva d’avere ormai raggiunto il sapere supremo e la rivelazione d’ogni Mistero. Avrebbe trovato la sospirata e tanto cercata redenzione dalle sofferenze del desiderio, e l’anima si sarebbe placata in un riposo soave come una nave che giunge nel porto dopo la burrasca, cui è sfuggita miracolosamente, e l’equipaggio sbarca e discende in una nuova terra. E innanzi alla donna stava adorante, rapito per l’apparizione d’una divinità costantemente pregata, e apriva a lei il cuore ingenuamente, e il volto era ebro e incantato.
Riviveva l’Ideale, il fiore dal talamo aureo che, irrorato dal giorno nascente, rispecchia nel suo incarnato la primavera, alla brezza odorosa dei morbidi vaneggiamenti. Non può essere sradicato senza arrecare un vivo dolore e così condurre allo smarrimento per la vista delle sofferenze e dell’oblio nella notte.
Allora esso estendeva le radici fino ai profondi recessi dell’anima. E si alimentava delle speranze e assorbiva il liquore infuocato dal calice delle passioni.
Ma s’oppose la donna, col rifiuto. La frigida femmina s’irrigidì, compresa di sé, avvolta nel bozzolo della propria desolazione, incapace d’amare.
Il disdegno e l’ira saturarono il petto di lui. La congedò con durezza, appena rivolgendole le parole necessarie. Ed ella fuggiva, la vestale dalle chiome rosse, la sterile messaggera della luna, e piangeva il destino e l’eterna condanna.
Così dunque svaniva ogni illusione. E il desiderio d’un’esistenza comune ai mortali ne veniva frustrato per sempre. Ma egli non ignorava che la piccola felicità degli uomini brilla d’attrattive esteriori e si nutre di squallide miserie, e chi la incontra o ben presto si allontana o s’accontenta e non cerca più felicità alcuna.
Eppure la Vita, imperiosa e implacabile, comandava d’inseguire le chimere del sogno e i fantasmi del desiderio, a costo della disillusione e del dolore che si presentavano sempre come la certa e inevitabile conseguenza.
Quale gioia in quale eternità era promessa ? A che il tormento e la sofferenza continuamente rinnovati ?
Un insopportabile manipolo d’affanni strinse il suo cuore in una morsa. Sentì chiaramente la pena infinita dello spirito che anela alla liberazione, e un senso irreprimibile di rivolta sorse entro il petto e gli chiuse la gola nell’angoscia.