lunedì 1 aprile 2024

G. de Santillana, Hertha von Dechend, Sirio

 


G. de Santillana, Hertha von Dechend, Sirio, Milano, Adelphi, 2020



P. 25, il significato astronomico del mito (e dei geroglifici egizi), la fonte citata è Macrobio (Commentarium in Somnium Scipionis).

P. 29, l’errore di Descartes, vedi anche Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi.

P. 32, i vari livelli della realtà, vedi Guénon, op. cit. Il concetto di cosmo come gerarchia di mondi.

P. 43, validità della tradizione ermetica, vedi Giordano Bruno. I Decani, le potenze che governano i pianeti testimoniate sia dai libri ermetici che dalla tradizione araba (al-Qazwini). L’universo appare pervaso da forze divine.

P. 48, miti sulla Precessione degli equinozi e su Sirio.

P. 60, il significato astronomico del remo di Odisseo. Probabilmente si tratta di un’allusione all’asse terrestre.

P. 64, riferimento all’Apocalisse (Cristo che tiene le sette stelle nella mano destra). Si tratta di un’immagine del cosmo divino ?

P. 91, 92. La materia preesistente all’operato del Demiurgo. Il Demiurgo ha agito su di essa ponendo ordine (κόσμος) e introducendo il tempo (Χρόνος). Importanza del Timeo di Platone, il Demiurgo è definito “il vero e proprio nucleo dell’antica cosmologia”.

P. 95, su Δίκη e Tao. Δίκη è il cammino della vita di ciascun essere naturale e il corso regolare dell’universo.

P. 97, 98, gli dei erano numeri. La Metafisica di Aristotele e altri testi “confermano a chiare lettere che gli dei sono pianeti, costellazioni, Decani, elementi e figure geometriche”.

P. 103, l’Eclittica, il Diverso ossia la diagonale cioè il male (vedasi il Timeo, 36 c, di Platone).

P. 114, sulla Precessione. Il moto antiorario è attribuito al malvagio Seth-Tifone.






venerdì 29 marzo 2024

Venus aenigmatica

 

Fu come un giglio sul tenero prato

solo in disparte, rivolto al suo fato,

a luce diurna, a notte silente

tutto rivolto al suo tempo fuggente.


Fu come un sogno di monti lontani,

d’albe e tramonti, d’alberi strani

in violacei bargigli morenti,

come forche di cadaveri ai venti.


Alle insidie dei venti rivolte,

quasi brame d’un cieco dissolte

nel profumo dell’aria canora,

quando al lume la luna s’indora.


Ed il chiurlo invoca il suo lutto

e la branca nasconde il suo frutto,

perché al seno virgineo inviolato

della terra ritorni e al passato.


Ma in un letto di verdi trifogli

fusti sorgono di piante novelle,

tra quei rami i verdi germogli

brillano quali in cielo le stelle.


Nel giardino ogni stelo si muove,

ogni insetto accorre alle nuove

dei compagni, formiche od onischi,

pronti all’arme e ad orridi rischi.


Per le aiuole intanto s’aggira

il fantasma di vane illusioni,

com’è dolce il suo viso a chi ammira,

come inebriano alate visioni !


Quale raggio accompagna di sole

il risveglio degli occhi lucenti,

che si schiudono di rose e di viole,

mentre arridono ai baci dei venti.


La fanciulla percorre i viali

quasi angelo che muove le ali,

quale dea fu dei tempi passati

o una ninfa leggiadra sui prati.


Ella avanza e leggera carezza

la fiorente dovizia del parco,

una guancia le sfiora la brezza

ed Amore le tende il suo arco.


Un alone di fascino arcano

la circonda di fasto persiano,

ella incede fra voci armoniose

tra il profumo di siepi di rose.


Ella ammalia col riso sonoro

ed incanta lo sguardo lucente

e seduce l’acuta sua mente

dei suoi amanti il fervido coro.


I suoi occhi sono come la notte

quando al mare si placa furioso,

chi li scorge rinuncia alle lotte

e si affida a un dominio geloso.


I suoi occhi sono un enigma,

come all’iride preme lo stigma

d’ignoto folgorando il caldo amante

che perduto a sé trae e delirante.


Ne sorride allora maliziosa

e lo stringe nel laccio senza posa,

inebriandosi di gioia sfrenata

come in selva baccante dissennata.


Come in selva baccante che cavalca,

di vendette rabbiose nella calca,

un iroso corsiero fiamme e fuoco

che scatena il sabba al corno roco.


E con occhi di serpe velenoso

lo incatena all’abbraccio furioso

e lo cinge nelle spire tenaci,

lo divora con i baci voraci.


Una volta perpetrato lo scempio,

con orrore lo respinge qual empio,

né mirare lo degna più in viso,

discacciato, vilipeso e deriso.


Ella avanza, la bella altezzosa,

nello sguardo feroce e sdegnosa,

tutta colma di un’ira diffusa,

come il capo ha di serpi Medusa.


Come fonte in cui il raggio si perde,

quando al vento le nubi disperde,

un chiarore il suo viso promana

che si volge alla tenebra arcana.


E nel buio il suo occhio profonda,

pari al gemito che il cuore asseconda,

e muggisce per la cupida brama,

qual Pasife è al toro che ama.


Ama i ganzi gagliardi e robusti,

impazzisce per i magri pelosi,

estasiata mira i bei tenebrosi,

s’accalora per i giovani fusti.


Come lupa consuma sue notti

divorando con gli occhi l’amante

sudaticcio, biondiccio e ruspante,

che di nozze ha ormai i vincoli rotti.


Trascinato da cupa passione,

rosso in volto dal sangue alla testa,

con la fregola in corpo ridesta

sembra abbia inghiottito un bastone.


Ella pure è tutta gagliarda,

sussiegosa, zuccherosa maliarda,

con le sue pupille incrociate

d’ogni lato fa piovere occhiate.


Con due dita s’arriccia i capelli

di Gorgòne roteando lo sguardo

che rimbrotta l’amante in ritardo

e lo affida ai tristi cancelli.


Sempre invasa da moto febbrile

vaga ovunque con sguardo ammattito,

pungolata da voglia virile

come al ballo nel dì di San Vito.


E allo specchio s’affida tranquilla

quando a notte il cielo scintilla,

e già pensa ai cuori domati,

dai venerei suoi occhi deviati.


Il suo sguardo ha questo che assilla :

quale elegge sua negra pupilla

sempre ignora il trepido amante,

mai sicuro d’un occhio vagante.


Ma ella sceglie mai nessuno od almeno

solo affidasi vogliosa a Sileno,

coi satiretti intreccia i suoi cori

e per gli altri le rose ed i fiori.


domenica 28 gennaio 2024

Sul Liside di Platone

 

Walter Pater scrive a proposito di Platone :


ma l'elemento di affinità ch'egli presenta con Winckelmann è quello completamente greco, alieno dal mondo cristiano, rappresentato da quel gruppo di brillanti giovani nel Lysis, non anche tocco da alcuna malattia spirituale, ma che trova il fine d'ogni ricerca nello apparire della forma umana e nel moto continuo di una vita bella 1.


E Platone infatti : «… degno non solo della sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente 2.»

Viene qui sottolineata la concezione greca della bellezza, che non è semplicemente simmetria di forme, ma bellezza interiore, valore, virtù. Ciò è detto nei riguardi di Liside, il bel giovinetto di cui è innamorato Ippotale. Il dialogo sfrutta le risorse dialettiche dei sofisti e abbonda di giochi di parole girando intorno alla definizione dell'amicizia. Ma pur partendo da una situazione iniziale improntata a una vaga sensualità e a un tono apparentemente superficiale, via via si svela l'indagine e la malia dell'indagatore. L'opera brilla per la fresca naturalezza delle risposte e l'ironico e inelusibile assedio delle domande. Pertanto si giunge all'inevitabile definizione del filosofo : colui che sa di non sapere e che non essendo né assolutamente buono né assolutamente cattivo è il naturale amante del bene, perché appunto è alla sua ricerca e ne sente la mancanza.

Caratteristica del dialogo è di non arrivare a nessuna conclusione. E infatti, dopo un gran discorrere su cosa è l'amicizia e vari tentativi di definire l'amico partendo dal verso di Omero « il dio conduce sempre il simile verso il simile 3» e ribaltando la sentenza di questo verso per poi ritornare a confermarla, come un serpente che si morde la coda, si giunge di nuovo al punto di partenza e non si capisce più nulla. Ma il messaggio si coglie : non è il raggiungimento della meta che conta, è la ricerca di essa che conta, perché il filosofo è colui che cerca la verità, non è il saggio che la possiede. Infatti chi è già sapiente non è più filosofo perché ha la sapienza e chi è malvagio non può amarla, solo chi non possiede la sapienza, ma ne sente la mancanza perché non è malvagio, la cerca ed è filosofo. La filosofia dunque è questo amore per la sapienza e non deve dare necessariamente delle risposte, infatti essa esaurisce il suo compito essenziale nelle domande.

E nella descrizione dell'atteggiamento di Menesseno e Liside, del pudore da innamorato di Ippotale e nelle scene di vita quotidiana (i pedagoghi che sul far della sera vengono a prendere i loro pupilli per portarli a casa) traspare la profonda umanità di Platone, la sua “simpatia” ossia la consapevolezza della comune natura umana e la condivisione dei sentimenti e delle emozioni. Platone sa di essere un uomo che cerca la verità, ma non l'ha ancora raggiunta, tant'è vero che il protagonista del dialogo è Socrate, colui che sa di non sapere. Forse nel Timeo potrà apparire come chi ha colto ormai la verità e conosce, ma io non credo a un Platone dogmatico, perché nel Timeo dopo tutto espone più che altro le tesi pitagoriche che in qualche modo gli danno ragione dei fenomeni del mondo. E se oggi proviamo interesse per gli scritti di Platone non è certo per la scienza del Timeo.




1 Walter Pater, Il Rinascimento, Napoli, Ricciardi, 1925, p. 166

2οὐ τὸ καλὸς εἶναι μόνον ἄξιος ἀκοῦσαι, ἀλλ᾽ ὅτι καλός τε κἀγαθός. Platone, Liside, 207a, Tutte le opere, Roma, Newton, 1997, vol. III, p. 155.

3 Odissea, XVII, 218

domenica 14 gennaio 2024

Il Dioniso di Walter Pater

 

La concezione che Pater ha di Diòniso 1 è diversa da quella di Nietzsche. Il filosofo tedesco sulla scia della Poetica di Aristotele collega il culto dionisiaco a sacrifici cruenti (soprattutto del “capro”), mentre Pater ne fa una sorta di divinità della vite, derivata dall'originario culto degli alberi, e in seguito in un simbolo della vita di tutte le cose che fluiscono, come la linfa, come il vino, come la stessa transitoria vita umana. Il suo simbolo, la vite e la coppa, saranno poi con il Cristianesimo il vino-sangue e il sacro calice.

C'è tra la concezione di Nietzsche e quella di Pater un vero abisso. Il tedesco pone a fondamento del culto di Diòniso il suo sacrificio cruento e la sua rinascita o resurrezione, mentre per Pater Diòniso è la vita della pianta di vite, il simbolo più elevato di una concezione naturalistica dell'esistenza, che si circonda di simboli animali e vegetali, satiri e ninfe. Indubbiamente l'idea che noi oggi abbiamo del dionisismo è dovuta all'influsso di Nietzsche che ne ha fatto un culto cruento, sanguinoso, appunto tragico, mentre se avesse prevalso la visione di Pater forse Diòniso oggi sarebbe il dio degli ambientalisti.

Il culto di Diòniso era più antico di quello di Apollo ? Almeno a Delfi parrebbe di sì, perché il suo culto precedette quello per Apollo. A tal proposito concorda Nietzsche in una sua opera poco nota, Il servizio divino dei Greci (lezioni sul culto greco tenute a Basilea tra il 1875 e il 1878). L'affermazione più interessante è che l'oracolo di Delfi divenne apollineo soltanto tardi. Il filosofo tedesco afferma che sul Parnaso il culto di Diòniso era più antico del culto di Apollo 2. Colpisce l'attenzione l'impostazione positivistica di queste lezioni, che sembrano voler far dimenticare la “deviazione” della Nascita della tragedia 3.

Sacrificio della capra in onore di Diòniso, dapprima per propiziarsi il vino buono, dato che la cerimonia avveniva in dicembre, quando si riponeva nelle anfore il vino nuovo, poi veniva effettuato anche per i morti, spiriti affamati e assetati.

Un'altra differenza rispetto al Nietzsche. Pater ritiene Euripide « preminente come poeta del pathos » 4 mostrando di apprezzare proprio l'aspetto passionale, sentimentale del dramma. In un certo senso sotto questo aspetto si può accostare Euripide a Shakespeare.

Il canto corale in onore di Diòniso, il Ditirambo, è caratterizzato dalla musica selvaggia, questo è un aspetto in comune con le considerazioni che fa Nietzsche ne La nascita della tragedia.

Nel conferire un senso razionale al mito della folgorazione di Semele e della nascita di Diòniso 5, la vite che nasce dal terreno vulcanico arso dal sole, Pater non può fare a meno di rivolgersi nella serie delle similitudini seguenti ad accennare a Tannhäuser, e in ciò mostra la sua sensibilità estetico-musicale, e il culto per Wagner, tipico dei simbolisti.

La religione di Diòniso, in quanto culto della vite, si collega anche all'antico culto dell'acqua, grazie alle Iadi, ninfe delle sorgenti, seguaci di Bacco.

La visione di Pater è decisamente diversa da quella di Nietzsche, perché mentre in Nietzsche l'arte, soprattutto quella musicale e tragica, si risolve nella liberazione, nella catarsi o catastrofe dionisiaca, in Pater quell'elemento dionisiaco, naturale, presente nella sensibilità ellenica, si risolve, si ferma nell'idea estetica, nella statuaria, nel bello ideale e nello stesso tempo fedele alle forme terrene ed umane, nella Baccante, nel Centauro, nell'Amazzone, nel divino Apollo. Mentre per Nietzsche l'istinto artistico dei Greci trova la sua massima espressione nella tragedia e nella musica dei cori, per Pater esso culmina nell'arte plastica, nel culto “apollineo” per la bellezza.

Diòniso è incarnazione (o nome evocatore) dell'anima della vite, avente tutte le qualità proprie della pianta, la sua fragranza, il colore, i ricciuti pampini nelle abbondanti chiome floride come le foglie. E' evidente la concezione estetica di Pater aliena da qualsiasi implicazione di ordine metafisico o esistenziale o, tantomeno, tragico.

Pater concorda col Nietzsche riguardo all'origine della tragedia :


E' dai dolori di Diòniso, dunque – di Diòniso in inverno – che nasce e si sviluppa la tragedia greca; dal canto dei dolori di Diòniso, intonato durante la festa invernale dal coro dei satiri, cantori vestiti di pelle di capra, in memoria della sua vita rustica, ora l'uno ora l'altro dei quali, di tanto in tanto, esce dalla fila per sottolineare e sviluppare questa o quella circostanza della storia; e così il canto si fa drammatico 6.


Diòniso nasce dall'unione di Zeus con una mortale, Semele. Viene accostato a Persefone negli attributi di divinità invernale, che scende appunto all'Ade in inverno, le sue feste coincidono con quelle eleusine. E' portato in processione ad Eleusi col nome di Iacco, insieme alle altre due dee cioè Demetra e Core (Persefone).

A Diòniso sono attribuiti sacrifici cruenti. Oltre a essergli sacro il lupo, e da ciò la leggenda del licantropo, cioè della trasformazione in lupo, a Diòniso il mito attribuisce il sacrificio di un fanciullo, che lo simboleggia appunto come Diòniso-Zagreo. A Delfi era custodito un lupo in suo onore, a cui il sacerdote offriva in sacrificio un capretto, che rappresentava in verità la sostituzione a un fanciullo originariamente offerto. Pater riferisce l'episodio di Plutarco (nella vita di Temistocle) secondo il quale prima della battaglia di Salamina Temistocle avrebbe offerto in sacrificio tre giovani persiani prigionieri a Diòniso il divoratore (o “carnivoro”).

Dal culto di Diòniso-Zagreo, dio sacrificato e sofferente, gli Orfici derivarono l'idea di una vita consacrata all'ascetismo, alla purificazione, nella promessa di una vita ultraterrena e di una resurrezione. E' chiaro il collegamento con il Cristianesimo e questo spiega anche perché il Nietzsche, che pure non era a conoscenza del Pater, abbia firmato i cosiddetti biglietti della follia con la dicitura “ Diòniso il Crocifisso “.

Nello studio sulle Baccanti di Euripide è evidente un atteggiamento diverso rispetto al tragico greco dalla considerazione che ne aveva Nietzsche. Pater infatti considera questo tardo parto del poeta come una sorta di palinodia e quasi di ripudio della sua mentalità razionalistica e un ritorno alle origini eschilee, quando il mito si presentava nel suo alone di magica rivelazione.

L'opera fu rappresentata a Pella, alla corte del re macedone Archelao, in un paese lontano dalle raffinatezze intellettuali di Atene, ancora circondato dalla natura selvaggia. E pare proprio che nel dramma come nell'animo del poeta vi fosse un vero e proprio ritorno, in una dimensione vagheggiata con nostalgia, all'intesa tra uomo e natura.

Oltre alle interessanti riflessioni sugli effetti musicali del coro nelle Baccanti è importante l'affermazione secondo la quale il riso era l'elemento essenziale del più antico culto di Diòniso. Questa asserzione di Pater è abbastanza in contrasto (ma forse no) con la tragicità invece riscontrata da Nietzsche nel mito stesso di Diòniso. Penso però che Pater qui volesse sottolineare soprattutto l'elemento ferino, selvaggio e puramente istintuale rappresentato dal dio e ciò in effetti non è in contrasto con la visione di Nietzsche.

Ritorna in considerazione la figura e il mito di Diòniso, che Euripide ha sottoposto al suo sofisma, cioè ha trasformato l'invasamento delle Baccanti in pura e improvvisa follia. Ma Pater coglie ugualmente la presenza, sottesa al significato stesso di tragedia, del mito. Un mito davvero singolare, nel quale il dio omofago e meilichios, dolce come miele ma anche bevitore di sangue, si presenta come il cacciatore e nel contempo la preda. Un mito selvaggio, nato sugli aspri monti di Tracia e connesso a quel filone di leggende collegato alla vita agreste e ai rituali della fecondazione dei campi e della rinascita della vegetazione in primavera dopo la sterilità dell'inverno.

1W. Pater, Studi greci (1895), Milano, SE, 2007

2Erwin Rohde recepisce la concezione dell'apollineo e del dionisiaco, ma non contrappone le due divinità, come invece fa Nietzsche. Rohde dimostra che l'elemento apollineo e il dionisiaco, un tempo forse antitetici, nell'epoca classica, e quindi nella tragedia, erano complementari (E. Rohde, Psiche. Culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci, 1890-1894, Bari, Laterza, 2006, p. 315, 316 e p. 320, 321).

3F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, Milano, Adelphi, 2012, p. 177.

4Op. cit. p. 20.

5 Per la nascita di Diòniso vedi le Immagini di Filostrato, precisamente il cap. 14 “Semele”, p. 58 in Elder Philostratus, Imagines, Harvard, Loeb Classical Library, 2000.

6Op. cit. p. 29.