Fu
come un giglio sul tenero prato
solo
in disparte, rivolto al suo fato,
a
luce diurna, a notte silente
tutto
rivolto al suo tempo fuggente.
Fu
come un sogno di monti lontani,
d’albe
e tramonti, d’alberi strani
in
violacei bargigli morenti,
come
forche di cadaveri ai venti.
Alle
insidie dei venti rivolte,
quasi
brame d’un cieco dissolte
nel
profumo dell’aria canora,
quando
al lume la luna s’indora.
Ed
il chiurlo invoca il suo lutto
e
la branca nasconde il suo frutto,
perché
al seno virgineo inviolato
della
terra ritorni e al passato.
Ma
in un letto di verdi trifogli
fusti
sorgono di piante novelle,
tra
quei rami i verdi germogli
brillano
quali in cielo le stelle.
Nel
giardino ogni stelo si muove,
ogni
insetto accorre alle nuove
dei
compagni, formiche od onischi,
pronti
all’arme e ad orridi rischi.
Per
le aiuole intanto s’aggira
il
fantasma di vane illusioni,
com’è
dolce il suo viso a chi ammira,
come
inebriano alate visioni !
Quale
raggio accompagna di sole
il
risveglio degli occhi lucenti,
che
si schiudono di rose e di viole,
mentre
arridono ai baci dei venti.
La
fanciulla percorre i viali
quasi
angelo che muove le ali,
quale
dea fu dei tempi passati
o
una ninfa leggiadra sui prati.
Ella
avanza e leggera carezza
la
fiorente dovizia del parco,
una
guancia le sfiora la brezza
ed
Amore le tende il suo arco.
Un
alone di fascino arcano
la
circonda di fasto persiano,
ella
incede fra voci armoniose
tra
il profumo di siepi di rose.
Ella
ammalia col riso sonoro
ed
incanta lo sguardo lucente
e
seduce l’acuta sua mente
dei
suoi amanti il fervido coro.
I
suoi occhi sono come la notte
quando
al mare si placa furioso,
chi
li scorge rinuncia alle lotte
e
si affida a un dominio geloso.
I
suoi occhi sono un enigma,
come
all’iride preme lo stigma
d’ignoto
folgorando il caldo amante
che
perduto a sé trae e delirante.
Ne
sorride allora maliziosa
e
lo stringe nel laccio senza posa,
inebriandosi
di gioia sfrenata
come
in selva baccante dissennata.
Come
in selva baccante che cavalca,
di
vendette rabbiose nella calca,
un
iroso corsiero fiamme e fuoco
che
scatena il sabba al corno roco.
E
con occhi di serpe velenoso
lo
incatena all’abbraccio furioso
e
lo cinge nelle spire tenaci,
lo
divora con i baci voraci.
Una
volta perpetrato lo scempio,
con
orrore lo respinge qual empio,
né
mirare lo degna più in viso,
discacciato,
vilipeso e deriso.
Ella
avanza, la bella altezzosa,
nello
sguardo feroce e sdegnosa,
tutta
colma di un’ira diffusa,
come
il capo ha di serpi Medusa.
Come
fonte in cui il raggio si perde,
quando
al vento le nubi disperde,
un
chiarore il suo viso promana
che
si volge alla tenebra arcana.
E
nel buio il suo occhio profonda,
pari
al gemito che il cuore asseconda,
e
muggisce per la cupida brama,
qual
Pasife è al toro che ama.
Ama
i ganzi gagliardi e robusti,
impazzisce
per i magri pelosi,
estasiata
mira i bei tenebrosi,
s’accalora
per i giovani fusti.
Come
lupa consuma sue notti
divorando
con gli occhi l’amante
sudaticcio,
biondiccio e ruspante,
che
di nozze ha ormai i vincoli rotti.
Trascinato
da cupa passione,
rosso
in volto dal sangue alla testa,
con
la fregola in corpo ridesta
sembra
abbia inghiottito un bastone.
Ella
pure è tutta gagliarda,
sussiegosa,
zuccherosa maliarda,
con
le sue pupille incrociate
d’ogni
lato fa piovere occhiate.
Con
due dita s’arriccia i capelli
di
Gorgòne roteando lo sguardo
che
rimbrotta l’amante in ritardo
e
lo affida ai tristi cancelli.
Sempre
invasa da moto febbrile
vaga
ovunque con sguardo ammattito,
pungolata
da voglia virile
come
al ballo nel dì di San Vito.
E
allo specchio s’affida tranquilla
quando
a notte il cielo scintilla,
e
già pensa ai cuori domati,
dai
venerei suoi occhi deviati.
Il
suo sguardo ha questo che assilla :
quale
elegge sua negra pupilla
sempre
ignora il trepido amante,
mai
sicuro d’un occhio vagante.
Ma
ella sceglie mai nessuno od almeno
solo
affidasi vogliosa a Sileno,
coi
satiretti intreccia i suoi cori
e
per gli altri le rose ed i fiori.