Arturo
Graf Poesie Torino, Giovanni Chiantore,
1922
(
L'autore nacque ad Atene nel 1848 e morì a Torino nel 1913 ).
“
L'ultimo viaggio di Ulisse “ si accompagna all'omonimo
poemetto del Pascoli ( “ L'ultimo viaggio “ ) dei Poemi
conviviali. Lo stile però è più tradizionale, il linguaggio
meno innovativo, anche se ha una sua originalità ( vedi ad es. “ E
focoso tranghiotte orbe del sole “ dove il vocabolo “tranghiotte”
viene da “inghiottire” e “trangugiare”, cfr. pag. 418 ).
Qui
viene trattato il tema del “folle volo” dantesco, mentre il
Pascoli aveva fatto ripercorrere le tappe dell'Odissea a un
Ulisse ormai vecchio e stanco, il quale scopriva con amarezza che la
sua avventura era stata solo un sogno.
La
narrazione di Graf risulta nel complesso più avvincente, ricorda per
certi aspetti un'avventura alla Conrad, e non è una mera allegoria
della vita umana.
L'autore
nell'introduzione al poemetto ci rammenta le fonti della sua opera :
“ Di
un viaggio oceanico di Ulisse fanno variamente ricordo Plinio,
Solino,
Claudiano. E' a tutti noto il meraviglioso racconto di Dante,
Inf.
XXVI, intorno al quale v. Scueck, Dante’s classische
Studien,
nei
Neue Jahrbucher fur Philologie, vol. XCII, e Moore, Studies
in
Dante, serie 3a, Oxford, 1903, pp. 118-9. Si discusse circa
il
sentimento di Dante in narrare il folle volo e farne giudizio.
V.
Finali,
Cristoforo Colombo e il viaggio di Ulisse nel poema di
Dante,
Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari, N. 23, Città
di
Castello, 1895. In un breve componimento intitolato Ulysses,
il
Tennison fa che l’eroe si lagni della inerte sua vita ed esprima
il
proposito d’imprendere nuovo viaggio, avventurandosi nell’estremo
occidente.
Un Ultimo Viaggio di Ulisse inserì il Pascoli
nei
Poemi conviviali, Bologna, 1904. “
Ed
ecco un estratto del poemetto :
I.
Già
quattr’anni passar dappoi che Ulisse
In
Itaca tornò. Quattr’anni ei visse
In
compagnia della fedel consorte
E
del caro figliuol: grato alla sorte
Che
dall’ira de’ venti e del vorace
Mar
scampato l’avea; godendo in pace
De’
sudati riposi e del sonoro
Applauso
della Fama, e in coppe d’oro
Bevendo
il vin de’ floridi vigneti
Che
dal padre eredò. Spesso co’ lieti
Compagni
antichi delle sue fortune,
Sedendo
a mensa, o al foco, ei la comune
Vita
di riandar si dilettava
Col
pensier vigilante: e memorava
D’Ilio
le pugne, e dell’invitto Achille
Il
magnanimo sdegno, e di ben mille
Eroi
le gesta invidiate e chiare;
E
memorava dell’incerto mare
I
portenti e i perigli, e il covo atroce
Di
Polifemo, e la bugiarda voce
Delle
vaghe sirene, e a parte a parte,
Di
Calipso e di Circe i vezzi e l’arte.
Note
cose ei narrava, e già da molti
E
molt’anni trascorse; eppur con volti
Pallidi
d’ansia, e con immote ciglia,
Come
fanciulli a cui di meraviglia
Nova
sieno cagion le antiche fole,
Bevevan
l’onda delle sue parole
Quei
prodi: e in cotal guisa a lui d’intorno
Spesso
li colse, rinascendo, il giorno.
Ma
tranquilli, uniformi, in pace e in gioco
Passar
altri quattr’anni: e a poco a poco
D’Ulisse
il labbro ammutolì, l’arguto
Riso,
onde gli atrii già sonar, fu muto,
E
una torbida nube il guardo acceso,
L’ampia
fronte oscurò. Non già che il peso
Ei
dell’età sentisse, o di celato
Morbo
l’insidia, o di nemico fato
L’ira
funesta paventasse e i danni.
Non
così salde mai come in quegli anni
Le
membra egli ebbe, né sì pronto e forte
Mai
l’intelletto, né fu mai la sorte
Alle
sue case più benigna e al regno;
Ma
sottil come tossico un disdegno
Di
se stesse e d’altrui lento serpeva
Nelle
vene d’Ulisse; e qual si leva
Da
ree paludi accidiosa e tetra
Nebbia
che infosca il sole, occupa l’etra,
Tale
in Ulisse si levava il tedio
E
al cor poneagli ed alla mente assedio.
Spesso,
quando stridea più crudo il verno,
E
i dì volgean più torbi, egli al paterno
Pio
focolare, ove di quercia o d’olmo
Annoso
tronco inceneria, nel colmo
Della
notte, sedea tacito e solo,
Guatando
come trasognato il volo
Delle
fulve scintille in fosca avvolte
E
densa onda di fumo. Oh, quante volte,
Fuggendo
ogni uom, veduto fu, nell’ora
Che
il giorno manca, e il ciel si trascolora,
Mirar
dal ciglio di scoscesa rupe
L’arroventato
sol che nelle cupe
Voragini
del mar lento scendea!
O
fantasma d’incognita galea
Fremebondo
spiar, là, dell’acceso
Orizzonte
sul curvo orlo sospeso!
Ovver
d’uccelli peregrini un denso
Stuolo,
di là dal mar, per l’etra immenso,
A
recondite plaghe alto volanti!
E
il cor nel petto gli bolliva! Oh quanti
Vide
egli pur de’ suoi compagni, in quello
Stesso
modo, inquieti, e di rovello
Tacito
pieni, errar lungo le sponde
Cui
sempre sferza il vento e batton l’onde!
E
l’un l’altro squadrava e negli strutti
Volti
un solo pensier leggeasi a tutti.
Volse
così lunga stagion, per sino
A
un di che l’immutabile destino
A
novi casi, a novo error non vile
Prefisso
avea. Già l’amoroso aprile
Discingeva
alle rose il sen vermiglio,
Quando
un mattino di Laerte il figlio,
Levato
innanzi al sol, fece da un messo
I
soci suoi richiedere a consesso
In
cima a un colle che l’aperto grembo
Scopre
del mar, sino all’estremo lembo
Dell’oriente.
Ivi di lucid’oro
Cinta
la fronte augusta, in mezzo a loro
Egli
apparì, tale nel maschio volto,
Tal
nel nobile incesso, e nel raccolto
Vigor
marmoreo delle membra, quale
Apparir
già solea nel marziale
Cimento,
là sui verdi campi dove
Fu
Troja un dì. Ivi, com’uom di nuove
Speranze
lieto e di giocondi auspici,
Ridente
apparve e salutò gli amici:
Fatto
poi dispensar nelle forbite
Patere
il sangue dell’ambrosia vite,
A
ber seco invitolli, ed egli primo
Bevve,
adorando il sol, che fuor dell’imo
Gorgo
spuntava a sfolgorare il mondo.
Alfin,
simile a un nume, e tra profondo
Silenzio,
a favellar prese in tal forma.
≪Compagni,
amici! o voi cui sola norma
Fu
sempre e fu solo desio la gloria;
Avventurosi
eroi, la cui memoria
Non
perirà, se fra l’umana gente
Ogni
nobile orgoglio, ogni fervente
Spirto,
ogni pregio di valor non pera;
Le
mie parole udite. Ad uom di vera
Virtù
precinto e per gran fatti egregio
E'
pena l’ozio, onta la pace, sfregio
La
securtà. Qual è di voi che questa
Vita
all’antica, e le passate gesta
Col
presente torpor paragonando,
Dite,
qual è di voi si miserando,
Che
da vergogna e da rimorso il core
Addentar
non si senta? Oh, tristo errore!
O,
gran viltà! Noi che di Troja l’are
Vertemmo
al suol; noi che per tanto mare
Gimmo
raminghi, d’inauditi mali,
D’intentate
fatiche e di mortali
Perigli
esperti, ora noi gli anni in pigra
Quiete
logoriam, che ne denigra
Agli
stessi occhi nostri e ne fa vili.
Che
più? se in tutto non si fer servili
Gli
animi vostri; se obliato in tutto
Il
nome vostro non avete, e il frutto
Di
vostr’opere antiche, or m’ascoltate.
Già
stringe il tempo, già ne son contate
L’ore.
Deh, non lasciam che in tanto oblio
Pur
di noi stessi, in così basso e rio
Stato
ne colga l’aborrita morte.
Anzi
l’ultimo sol, di noi, del forte
Nostro
lignaggio rifacciamci degni.
Rompiam
gl’indugi; i frivoli ritegni
Rimoviamo
oramai. Tentar ne giovi
Anche
una volta il dubbio caso, e novi
Mari
solcar, premere ignote arene,
Cercar
genti remote; al male e al bene
Parati
a un modo; alla comun salute
Devoti
sempre; e di non più vedute
Meraviglie
i beati occhi pascendo.
Non
io per vano imaginar m’accendo.
Di
là dai segni ond’ha il confin prescritto
Agli
umani ardimenti Ercole invitto,
Di
là da Calpe si distende un mare
Ignoto,
il quale altro confin non pare
Aver
che il cielo; il cupo mar di Crono,
Che
ribollendo e sibilando il prono
E
focoso tranghiotte orbe del sole.
Chi
potria rinarrar con le parole
Tutti
i prodigi onde quel mare è pieno?
Molte
quivi sbocciar dal vitreo seno,
Il
qual fondo non ha, si veggon, pari
A
canestre di fior nitidi e rari,
O
a lucenti smeraldi, isole ascose
Dove
sedi beate, e avventurose
Genti;
incognito il mal, dell’aspro inverno
Sconosciuti
i rigori, e sempiterno
Della
feconda primavera il riso.
Potrieno
queste al decantato Eliso
Togliere
il vanto. Altre ne son cui d’ombra
Un
perpetuo vel fascia ed ingombra;
Né
mai potria le favolose rive
Prora
alcuna toccar; né se di vive
Genti
o di larve sieno stanza è dato
Sapere
ad uom che di mortal sia nato;
Salvo
che spesso su per l’onde i venti
Ne
portan grida e lugubri lamenti.
Altre
di saldo e cristallino gelo
Irte
e rigide sempre; altre che al cielo
Da’
cavernosi baratri muggendo
Sbuffano
acherontee vampe d’orrendo
Foco
e procelle di nigrante fumo.
Soci,
non io tutto ridir presumo
Ciò
che in Egitto da vetusti savi
Narrare
un tempo udii, cui son degli avi
Note
le storie tenebrose, e noti
Quali
più strani lidi e più remoti
L’orbe
in grembo raccoglie, e di natura
Ogni
occulta possanza, ogni fattura.
Ma
questo ancor vo’ che sappiate, e sia
Pegno
del ver l’asseveranza mia.
Nave
che, posto ogni timore in bando,
Per
quel mar lunghi dì gisse volando
Dietro
al corso del sol, vedria dal fondo
Sorger
dell’acque alfine un altro mondo,
Assai
maggior di questo nostro, e dove
Sono
incogniti regni e genti nuove,
E
d’inaudite cose e peregrine
Indicibil
dovizia. Or ecco al fine
Giunto
son io di mie parole. Amici;
Per
quell’ignoto mare alle felici
Plaghe
io voglio migrar. Se alcun di voi,
Che
del nome superbi ite d’eroi,
Voglia
meco tentar l’impresa audace,
Caro
l’avrò; ma se desio di pace
Abbarbicati
come piante al suolo
Vi
tenga, sia col vostro danno: io solo
Novo
cammino tenterò di gloria:
Mia
l’audacia sarà, mia la vittoria≫.